Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
AL DI LA’ DELLE SCARAMUCCE, IL PATTO TIENE, MA LA VERIFICA CI SARA’ SUL PALLOTTOLIERE AL MOMENTO DECISIVO
Sarà stato il clima informale del brindisi, al termine della cerimonia ufficiale, ma al Quirinale in molti hanno colto la risata composta di alcuni ospiti, tra i quali spiccava il presidente dei Democratici, Orfini.
D’altronde, dopo aver sentito Napolitano blindare il governo, condannare le voci su un ritorno alle urne e sulla scissione del Pd, e persino bacchettare la minoranza dem per i voti in dissenso espressi alla Camera sulle riforme istituzionali, la battuta è salita spontanea, come il perlage dello spumante: «Vorrà dire che la prossima volta lo inviteremo in direzione…».
Forse quell’attimo di contenuta allegria era anche un modo per esorcizzare la vigilia della corsa al Colle, che rischia di trasformarsi in una battaglia senza regole e senza rete. Perchè il timore diffuso, avvertito ieri al Quirinale, è che la voce del capo dello Stato – visto l’approssimarsi del suo addio – non riesca a far più presa, che la sua moral suasion non incida sui processi politici, che i suoi suggerimenti non vengano seguiti dai protagonisti della sfida.
Toccherà a Renzi tracciare il percorso, e servirà del tempo per vedere la luce in fondo al tunnel.
La priorità per ora sta nei numeri, e il braccio destro del premier, Lotti, aggiorna quotidianamente il suo pallottoliere, dove tiene da conto le forze ostili prima ancora che quelle alleate.
Nelle stime del sottosegretario alla presidenza del Consiglio si oscilla al momento tra i quaranta e gli ottanta franchi tiratori nel Pd e una cinquantina tra le file di Forza Italia.
Già , perchè, al riparo delle scaramucce di frontiera tra Renzi e Berlusconi, «il patto del Nazareno – come spiega un ministro democrat – regge», benedetto anche da Napolitano, che ieri non a caso ha esortato al «senso di responsabilità nazionale» quelle forze di opposizione «già dimostratesi positivamente disponibili» al processo delle riforme. Il premier si mostra convinto che il Cavaliere non verrà meno all’impegno, «dirà sì anche alla legge elettorale per non restare fuori dai giochi».
Nei «giochi» ovviamente – come riconoscono nel Pd – è incluso l’accordo sul Quirinale, «è questione di buon senso».
Ed è soprattutto una questione strategica per Renzi, che non può nè vuole avviare altri giochi, nonostante faccia finta di minacciarli.
Come ha spiegato nelle riunioni riservate, il leader democrat non coltiva l’idea di aprire a Grillo o a Salvini, il primo «perchè ha interesse a vedere fallire il sistema politico», il secondo perchè «più che a un accordo pensa a come farci un trabocchetto».
La corsa al Quirinale del ’92 insegna: fu Bossi a far saltare il banco della prima Repubblica, allettando Andreotti e bloccando così l’elezione di Forlani.
Ce n’è traccia nelle memorie dell’ex presidente della Camera, Violante: «Ricordo che in quei giorni era in Italia una delegazione slovena, intenzionata a incontrare Andreotti. Lo chiamai, mi disse che stava andando alla riunione dei gruppi democristiani, dove all’unanimità si sarebbe decisa la candidatura di Forlani alla presidenza della Repubblica. Gli chiesi allora quando avrebbe potuto fissare l’appuntamento. Mi rispose: “Dopo la prima, o la seconda, o la terza votazione…”».
«Il sistema allora cadde sul Quirinale», commentava ieri Bossi in Transatlantico: «Stavolta però rischia di cadere per la crisi economica. Anche se io spero che cada solo Renzi».
Chiamato a difendersi nella doppia trincea, quella di Bruxelles e quella di Roma, il premier intanto prova a bonificare il sentiero della corsa al Colle: la prima mina, la più insidiosa, era Prodi.
Perciò ha giocato d’anticipo, per evitare che – in caso di stallo durante le votazioni – il nome del fondatore dell’Ulivo venga lanciato dai suoi avversari di partito, consapevole com’è che l’area dei fittiani sarebbe pronta a votare il Professore a scrutinio segreto per giocargli contro.
Non c’è sfida per il Quirinale senza insidie, solo che stavolta – secondo le confidenze fatte da Casini ad alcuni amici – sono «amplificate dalla scomposizione delle forze parlamentari».
E sarà pur vero ciò che sostiene il democrat Rosato, e cioè che «rispetto a un anno e mezzo fa il Pd ora ha una guida», che «i nostri gruppi, tranne una quarantina di pasdaran, sono compatti».
Ma ci sarà un motivo se le analogie con il ’92 condiscono le discussioni dei dirigenti democrat.
L’antidoto sta nella tenuta del patto con Berlusconi e nella triangolazione dell’accordo con Alfano, con i suoi settanta e passa grandi elettori, da cui Lotti toglie sempre una decina di fedelissimi casiniani…
«Il patto regge», ripetono in modo quasi scaramantico da palazzo Chigi.
L’appuntamento sarà per la quinta votazione, dopo uno scrutinio di prova che servirà a verificare la tenuta dell’accordo nell’urna. Se così non fosse, per Renzi (ma non solo per lui) si spalancherebbero le porte dell’Ade, e su quella soglia – così lo romanza un autorevole ministro del Pd – il Parlamento si troverebbe costretto a scegliere «tra un artista di caratura internazionale o un commissario della finanza internazionale».
La percentuale di rischio non è bassa, dato che queste sono le stesse Camere che dovettero chiedere all’attuale presidente di restare al Quirinale.
E come rivela uno dei maggiorenti democrat, «se Napolitano si fosse rifiutato, avremmo dovuto cedere su Rodotà ».
Melli e Verderami
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
IL PREMIER SPERA DI AVERE IL VIA LIBERA ALL’ITALICUM PRIMA DEL VOTO PER IL QUIRINALE
Un discorso di grande respiro e livello”. Solo un anno fa Matteo Renzi al Quirinale per i saluti alle alte cariche dello Stato c’era andato defilato, con un abito grigio chiaro che era stato subito notato come fuori luogo.
Ieri, da premier, era al tavolo del Presidente. Impeccabile in blue. Espressione serissima. Concentrata.
Perchè per quanto i fedelissimi leggano nelle parole del Capo dello Stato un assist a tutto tondo nei confronti del premier, lui sa benissimo che l’addio prossimo venturo di Napolitano è la tempesta perfetta dalla quale è difficilissimo uscire indenne.
Le dimissioni arriveranno dopo il 13 gennaio, giorno della sessione finale del semestre italiano a Strasburgo.
Renzi spera, forzando tempi e resistenze, di ottenere il via libera del Senato all’Italicum prima dell’inizio del voto per il Quirinale.
Ieri, nelle conversazioni a Palazzo Madama con i senatori, la data che fissava era il 20 gennaio.
Non sarà facile, perchè l’obiettivo legge elettorale è legato agli accordi sul futuro Presidente della Repubblica.
Ognuno fa il suo gioco, e i giochi sono nemici tra loro.
La “minaccia” Prodi ha avuto il suo effetto: Forza Italia ha votato con il governo in Commissione Affari costituzionali del Senato, con la bocciatura degli ordini del giorno della Lega e di Sel.
Soprattutto quello Calderoli, che subordinava l’entrata in vigore dell’Italicum alle riforme costituzionali. Però, ci sono 17.800 emendamenti: e allora, l’idea del governo è quella di forzare e andare direttamente in Aula, senza votare.
E prendere tempo sulla norma transitoria, quella del sistema elettorale da scegliere in caso si andasse al voto prima della riforma del Senato.
Renzi non ha deciso ancora tra Mattarellum e Consultellum. In realtà , quello che vorrebbe fare, sarebbe fissare l’entrata in vigore del nuovo sistema nel 2016 o anche più in là .
Senza inserire però la norma nella legge: convinto che questo sarebbe un modo che gli consentirebbe, in caso di elezioni anticipate, con un decreto o una leggina di votare con l’Italicum a Montecitorio e al limite anche con il Consultellum a Palazzo Madama.
L’importante è che il sistema-pigliatutto sia in vigore, almeno in uno dei due rami del Parlamento
La partita delle partite, quella del Colle, è, nel frattempo, entrata nel vivo. Ieri, il nome che tornava insistente in ambienti democratici, era quello del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Che avrebbe dalla sua vari punti di forza: potrebbe andare bene a tutto il Pd, non dispiacere a Forza Italia e, in quanto tecnico, magari attrarre anche qualche grillino.
Padoan sarebbe una figura di garanzia verso l’esterno, ma anche uno che terrebbe la barra diritta sull’economia in Europa.
Con il premier la convivenza in questi mesi è andata abbastanza bene. E il titolare del Mef non è certo persona da mettere in ombra l’altro. Ancora, non sarebbe contrario in maniera pregiudiziale allo scioglimento della legislatura.
E poi, metterlo al Colle, disinnescherebbe i piani di chi vorrebbe portarlo a Palazzo Chigi. Da notare che ieri Napolitano l’ha lodato nel suo discorso: Re Giorgio è sul punto di lasciare, ma la sua sul successore la vuole dire.
Infine, i Cinque Stelle: Renzi, ha dato il via, ad un’offensiva vera e propria.
Una studiata operazione con l’obiettivo di fare breccia dentro le divisioni M5S in vista dell’elezione del Presidente.
Una sorta di “divide et impera” che alterna attacchi a inviti alla collaborazione. La giornata di ieri è emblematica.
Comincia alla Camera: “Non vi hanno eletto per insultare o buttarla in caciara, recuperate la passione di chi vi ha eletto anche se capisco la frustrazione visto che perdete pezzi e voti”, è l’affondo in Aula che scatena le ire di M5S.
Ma determina anche la decisione, in realtà nell’aria da tempo, ma annunciata proprio davanti al presidente del consiglio a Montecitorio, di Tommaso Currò di lasciare il movimento e di approdare, attraverso il passaggio al gruppo misto, dentro il Pd. “Hanno capito la mia apertura”, si compiace Renzi.
In Senato attacca così i senatori pentastellati che lo accolgono con proteste e urla: “Il fatto che stiate perdendo pezzi non vi autorizza a interrompere le discussioni degli altri. Vogliamo continuare a lavorare, nonostante le vostre urla, che ai tempi del Manzoni erano una cosa seria, mentre nel vostro caso sono la manifestazione di una frustrazione. I vostri elettori non vi votano più”.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
L’AVVOCATO, SPONSORIZZATO DA CALTAGIRONE, GIà€ MINISTRO DI MONTI, METTE D’ACCORDO ANCHE UN PEZZO DI DEMOCRATICI
Il nome non ha bisogno di circolare, perchè viene sempre pronunciato, così nei salotti romani dove il potere è conviviale e relazionale, così nei circuiti politici più trasversali dove la paralisi istituzionale spaventa.
Così oltre le mura leonine, in Vaticano, dove accedono soltanto i più fedeli, e non in senso religioso.
Il nome di Paola Severino è concreto per il Quirinale, perchè nei palazzi, che tramano e incidono, non suscita perplessità , divisioni irreparabili.
Anche il pregiudicato e incandidabile Silvio Berlusconi, che patisce e patirà ancora gli effetti della Legge Severino, plasmata dai tecnici montiani proprio per debellare i politici condannati, in privato non nega l’intenzione di voler sostenere il notissimo avvocato penalista, persuaso dai suggerimenti di Gianni Letta, grande elettore di Severino seppur non votante.
Gianni e Silvio hanno già imbeccato i referenti in Vaticano, la Curia che fa politica.
Per l’amica che nel governo di Mario Monti era il Guardasigilli, che in carriera ha ottenuto consulenze da banche, società e associazioni e ha difeso Cesare Geronzi, Romano Prodi, Giovanni Acampora (Fininvest), Giuseppe Mussari (Mps), soltanto per citare un ristretto gruppo, il Letta anziano sarebbe persino disposto a rinunciare all’ultimo desiderio per decorare l’uniforme: ricoprire la carica di segretario generale al Quirinale.
L’ex Cavaliere ordina ai suoi parlamentari di imporre la revisione della legge Severino, questa è pura cronaca, ma già un anno e mezzo fa, mentre i partiti erano ancora più incartati di adesso, lasciava lievitare la candidatura del ministro uscente.
Qualche voto per Severino fu registrato agli atti della tornata quirinalesca che ha richiamato Giorgio Napolitano.
Berlusconi sapeva benissimo le conseguenze di quel testo Severino.
I sacerdoti dell’ortodossia berlusconiana, spesso, sono più rigidi del Capo, meno aggiornati sul patto perpetuo, che sia di crostate o al Nazareno.
In questi giorni di mediazioni sottotraccia, non conviene farsi notare troppo: defilati e attivi, questa è la tattica. Per riunire accanto a sè il generone romano, Severino può contare su di un imprenditore-costruttore-editore, il sindaco senza fascia tricolore della Capitale e senza limiti di mandato, Francesco Gaetano Caltagirone, un cliente di fiducia.
Tra gli ex colleghi di governo è incalzante la sensazione che Severino stia creando consenso intorno a sè, aiutata da Caltagirone, da Letta, da pezzi di Forza Italia, Scelta Civica con sponde nella truppa di Angelino Alfano: “Corre forte”, assicurano.
Come erede al trono è una figura che potrebbe piacere anche a Re Giorgio. Napolitano ha un rapporto di stima con Severino, e l’ha ricevuta al Colle, neanche un anno fa, quando l’ex ministro aveva ripreso la libera professione.
E con il figlio, Giulio Napolitano, di frequente s’incontra a cena nei simposi romani.
La benedizione è silenziosa e unanime.
In Vaticano, l’avvocato da 7 milioni di euro di imponibile l’anno — dichiarazione di un paio di anni fa — è già introdotta.
In passato, lo studio Severino ha tutelato lo Ior. E per completare l’elenco con le più importanti prestazioni d’opera offerte, non vanno dimenticate Telecom, Enel, Eni e Rai o la cattedra all’università Luiss di Confindustria.
Per il partito democratico, versione renziana, Severino non sarebbe una soluzione ostativa, sarebbe la prima la donna al Colle, che fu prima donna al ministero di Via Arenula e al Consiglio superiore della magistratura militare e sarebbe un’attrazione per i centristi o gli ex berlusconiani dispersi che, nonostante le scissioni atomiche, rappresentano un bel gruzzolo di schede.
Quelle decisive al quarto scrutinio, quando è richiesta la maggioranza assoluta e non più qualificata con i due terzi degli aventi diritto.
Inconfutabili i buoni uffici con l’area prodiana.
Severino ha collaborato con Giovanni Maria Flick, già ministro nell’esecutivo del professore bolognese.
Non sembra possibile che la carovana ospiti il Movimento Cinque Stelle, e questa è l’altra aspirazione di Berlusconi.
Paola Severino non farebbe esordire la categoria degli avvocati penalisti al Quirinale — ci furono Enrico De Nicola e Giovanni Leone, che da tempo non esercitavano però — ma sarebbe in possente conflitto d’interessi.
L’inquilino del Quirinale presiede il Csm e ci sono numerose cause in corso seguite da Severino che attendono un processo o una sentenza.
Spigolature che i tifosi di Paola Severino nemmeno valutano. Anzi, pensano: per il Colle è meglio un avvocato che un magistrato.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
NEL SALUTO ALLE ALTE CARICHE NAPOLITANO DIFENDE LE RIFORME DEL GOVERNO, ATTACCA MINORANZA DEM E SINDACATI MA CHIARISCE CHE SULLE ELEZIONI ANTICIPATE IL PREMIER NON TROVERà€ SPONDE
Al Quirinale, l’attesa assomiglia a quella per il fatidico 21 dicembre del 2012.
Le dimissioni di Giorgio Napolitano, novella profezia dei Maya. Come però non accadde nulla due anni fa, così non è accaduto niente ieri pomeriggio.
Neanche una parola su quando se ne andrà .
Nonostante il clima solenne, la veglia dei presenti e un discorso di trenta minuti e tredici cartelle. La parata dei corazzieri è impressionante.
Per la prima volta sono schierati ogni due gradoni, nelle due rampe che si salgono. La cerimonia per lo scambio degli auguri di fine anno tra le “alte cariche” è pressochè una liturgia religiosa, non solo per il triregno (la tiara papale con le due chiavi incrociate) scolpito nel legno del soffitto.
Cellulari spenti, come in chiesa, e tutti in piedi quando entra il presidente-celebrante.
Il diacono che introduce è il supplente “senator dottor” Pietro Grasso, alla guida di Palazzo Madama.
Al posto del suo intervento, in cui di fatto si candida alla successione, il presidente del Senato avrebbe potuto proclamare e parafrasare il Vangelo della prima domenica di Avvento, a proposito del rebus delle dimissioni di Napolitano: “Vegliate dunque, perchè non sapete in quale giorno il Signore vostro si dimetterà ”.
L’economia arranca. Schiaffoni a Renzi
Ancora una volta, il capo dello Stato si dimostra preoccupato, se non pessimista, sul nostro Paese (“Il 2014 non si chiude bene”), e dispensa schiaffoni e imperativi a tutti gli “attori” politici e sociali.
Compreso Matteo Renzi. A caldo, invece, la falange dei renziani di ogni ordine e grado (dai fedelissimi in Parlamento ai giornalisti-tifosi) s’incarica di dare una versione superficiale del discorso, di sostegno tout court al premier.
Non è così e basta riascoltare con calma l’intervento del presidente della Repubblica. In pratica,Napolitano fa una difesa del sistema e s’intesta, in condominio con il defunto governo Letta (citato tre volte, una in più del “presidente del Consiglio”), il processo riformista su bicameralismo e Jobs act, invocando quindi continuità e stabilità .
Per questo malmena duramente le opposizioni: “Non si attenti in qualsiasi modo alla continuità di questo nuovo corso”.
E ancora: “Rispettare, pur nel dissenso, la coerenza delle riforme in gestazione è un dovere di onestà politica e di serietà istituzionale”.
Allo stesso tempo disarma Renzi sulla minaccia del voto anticipato: “Non possiamo essere ancora il Paese attraversato da discussioni che chiamerei ipotetiche: se, quando e come si possa o si voglia puntare su elezioni anticipate, da parte di chi e con quali intenti; o se soffino venti di scissione in questa o quella formazione politica, magari nello stesso partito di maggioranza relativa. È solo tempo, e inchiostro, che si sottrae all’esame dei problemi reali”.
Il bicameralismo, poi, non è “un tic da irrefrenabili rottamatori, ma un punto debole della Costituzione già discusso dai Padri costituenti.
Napolitano fa una sorta di testamento-vademecum politico costretto a prendere atto che uno degli esecutori di questo documento è l’attuale premier.
Tutti ai blocchi di partenza per la corsa più difficile
Renzi, dunque, non è l’unico esecutore. Napolitano vuole influenzare la sua successione quando sarà (dal 14 gennaio in poi, visto che il semestre europeo a guida italiana finirà il 13) e concede un’inaspettata passerella al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, uno dei nomi più freschi del toto-Quirinale: “Molto hanno contato (in Europa, ndr) il valore e l’affidabilità che si riconoscono al ministro Padoan”.
Lui, l’interessato, non si scompone. Nel salone ci sono anche altri papabili: Veltroni, Amato, Bersani, Gentiloni, finanche D’Alema seduto accanto a Fini, un’immagine d’altri tempi da figli di un Dio minore.
C’è pure l’eterno Gianni Letta (l’unico leader politico assente Berlusconi).
Stavolta, Napolitano, non si commuove mai, a differenza dei discorsi tenuti a Torino ai Lincei.
Le randellate non grondano lacrime. Ce ne sono altre sull’antipolitica, sulla decretazione d’urgenza e i voti di fiducia e su quella, infine, che definisce “l’ampia riforma del mercato del lavoro”.
Ai sindacati, sull’articolo 18, rinfaccia “l’interpretazione riduttiva, concentrata sul punto di massimo possibile dissenso”.
Al premier, invece, intima di darsi una calmata “nel rispetto del ruolo che è naturale dei sindacati, di rappresentanza e negoziale”.
La messa laica degli auguri finisce alle 18 e 15.
Il sindaco di Roma, Marino, saluta il procuratore capo Pignatone, mentre i primi a raggiungere il guardaroba, saltando il rinfresco, sono Amato e D’Alema.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
CONTINUA LA RICERCA DELL’ESPLOSIVO DA PARTE DEGLI INQUIRENTI
Per uccidere Nino Di Matteo i killer di Cosa Nostra erano pronti a colpire anche a Santa Flavia, la borgata marinara dove il pm di Palermo trascorre le ferie.
“Avevamo pensato di posizionare un furgone nei pressi del Palazzo di Giustizia, ma non ritenemmo di procedere perchè ci sarebbero state molte vittime. Pensammo quindi a Santa Flavia, dove spesso Di Matteo trascorre le vacanze estive”.
È questo il racconto inedito del neo-pentito Vito Galatolo, contenuto nel verbale stilato il 14 novembre scorso davanti ai pm palermitani e riversato con molti omissis nel provvedimento di fermo che stamane ha portato alla cattura del boss Vincenzo Graziano, considerato il nuovo reggente dell’Acquasanta.
Per Galatolo, è proprio Graziano il boss che nei primi mesi del 2013 acquista 200 chili di tritolo proveniente dalla Calabria per l’attentato a Di Matteo, nascondendoli in un posto sicuro: “L’esplosivo — dice il neo-pentito — è stato spostato da Graziano e penso che sia custodito in una sua abitazione a Monreale”.
La stessa zona dove si erano concentrate le prime ricerche degli investigatori nelle ore successive al pentimento del picciotto dell’Acquasanta.
Tornando ancora una volta a caccia del tritolo, invece, ieri mattina gli uomini della Finanza hanno perquisito decine di case, vicoli e covi nascosti nella borgata di Resuttana e contemporaneamente hanno fatto scattare un blitz all’Acquasanta dove hanno setacciato ogni centimetro del Fondo Pipitone, la storica roccaforte dei Galatolo dove, negli anni Ottanta e Novanta, partivano gli ordini di morte per i delitti eccellenti di Cosa Nostra.
“L’esplosivo non è stato trovato — ha ammesso il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, che ha coordinato l’intera operazione — continueremo a cercarlo senza sosta”.
Cento chili di quel tritolo sarebbero ancora nascosti a Palermo.
E Galatolo avverte: “La presenza dell’esplosivo in città rende ancora attuale il pericolo dell’attentato a Di Matteo”.
Un attentato ordinato direttamente da Matteo Messina Denaro, che i picciotti chiamano “il fratellone” leggendo la sua lettera nel summit convocato il 9 dicembre 2012 per pianificare il ritorno dello stragismo a Palermo.
Ecco il racconto di Galatolo: “Andai a una riunione in corso Tukory: erano presenti Graziano, Antonino Lipari, Girolamo Biondino, Alessandro D’Ambrogio, Silvio Guerrera. Rimanemmo solo io, Graziano, D’Ambrogio e Biondino. Quest’ultimo, riprendendo la lettera di Messina Denaro, disse che bisognava fare un attentato a Di Matteo perchè stava andando oltre e ciò non era possibile”.
È in questa occasione che i picciotti decidono di fare una “colletta” per l’acquisto dell’esplosivo: “Vista l’impossibilità di Messina Denaro ad approntare il denaro necessario, decidemmo di esporci economicamente per la preparazione dell’attentato: io mi impegnai con 360.000 euro mentre le famiglie di Palermo-centro e San Lorenzo si impegnarono per 70.000 euro. L’esplosivo sarebbe stato acquistato in Calabria da uomini che avevano delle cave, e poi trasferito a Palermo. Seppi più tardi che Biondino definì personalmente l’acquisto e che, una volta arrivato a Palermo, circa due mesi dopo la riunione, l’esplosivo fu affidato a Graziano”.
Il neo-pentito rivela di aver visto con i suoi occhi i panetti di tritolo il 16 marzo 2013: “L’esplosivo era conservato all’Arenella in alcuni locali di Graziano ed era contenuto in un fusto di lamiera e in un grande contenitore di plastica dura. Sopra questi bidoni, vi era uno scatolo di cartone: all’interno era composto da tanti panetti di colore marrone avvolti da pezze di tessuto”.
Una parte di quell’esplosivo, però, risultava danneggiata.
“Ricordo — dice Galatolo — che la parte bassa del contenitore di plastica blu era umida e con tracce di salsedine. Per tale motivo, Graziano mi disse che questo contenitore doveva essere sostituito”.
Poi, a un certo punto, il progetto di strage si blocca.
“Il 6 maggio 2013 mi incontrai con Graziano — spiega il collaboratore — e fui io a chiedergli notizie: mi disse che la situazione era in stand by poichè Biondino era stato arrestato, e che l’esplosivo era al sicuro”.
Tra i progetti di morte ordinati da Messina Denaro, anche gli attentati ai pentiti Gaspare Spatuzza e Nino Giuffrè.
Che scatenano una sorta di furia omicida nei confronti di altri collaboratori, fino alla faida familiare.
Galatolo alla fine rivela: “Nacque da parte mia il proposito di eliminare mia sorella Giovanna (pentita un anno e mezzo fa, ndr), mentre Graziano propose di uccidere Francesco Onorato”.
Pipitone e Rizza
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
A FINE MARZO CIRCA IL 50% DEI LAVORATORI FIAT IN CASSA INTEGRAZIONE O SOLIDARIETA’… E LE AUTO LE FA COSTRUIRE NEI PAESI DELL’EST
Nel primo trimestre del 2014 la metà dei lavoratori impiegati in Italia da Fiat Chrysler Automobiles (Fca) e Cnh si trovava in cassa integrazione o in contratto di solidariet�
E’ quanto emerge da una indagine condotta da Fiom nel mese di aprile interpellando 65.000 dipendenti su un totale di 86.000.
“Alla fine del mese di marzo 2014, sulle 55 unità produttive, metà dei 65.000 dipendenti censiti (il 51%) “era interessato agli ammortizzatori sociali: il 33,3% dalla cassa integrazione straordinaria, il 7,5% dai contratti di solidarietà (Fca Pomigliano e Iveco Brescia) e il 10,2% dal ricorso strutturale alla cassa integrazione ordinaria con una esposizione maggiore per i dipendenti degli stabilimenti di assemblaggio auto/veicoli commerciali leggeri e Cnh (rispettivamente 60,6% e 59,6%) e leggermente inferiore per i dipendenti degli stabilimenti dei motori (54,9%) e di Magneti Marelli (51%)”, si legge nel rapporto.
A fare eccezione gli stabilimenti Ferrari e Maserati, alcuni siti della Magneti Marelli, Comau e gli stabilimenti Cnh legati alle produzioni militari e quello di Modena che produce componenti.
Per il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, questi dati mostrano che “senza cassa integrazione, i carichi di produzione in Italia darebbero da lavorare alla metà delle persone”.
Dal 2002 al 2013, ricorda la Fiom, la percentuale di auto prodotte in Italia dalla Fiat è scesa dal 62,3% al 23,9% rispetto alla produzione totale mondiale.
Tale calo non è dovuto a un aumento della produzione globale, passata da 1,7 a 1,6 milioni di auto, ma “alla sottrazione di modelli e volumi dagli stabilimenti italiani (in alcuni casi la chiusura come a Termini Imerese)”.
Fiat ha piuttosto privilegiato la Turchia e i paesi dell’est Europa – come Polonia, Ungheria, Serbia – dove nel primo trimestre del 2014 è stato prodotto il 46% delle auto vendute in Italia.
La quota di mercato nazionale di Fiat è del 28% a fronte del 55% dei produttori nazionali in Francia.
“In Italia Fiat resta sostanzialmente l’unico produttore a fronte di 4-5 operatori presenti negli altri Paesi europei. Al ministero dello Sviluppo non si discute di politica industriale ma di come gestire le dismissioni Fiat”, ha detto Landini.
Nel 2013 in Spagna sono state prodotte 1,7 milioni di auto, 1,5 milioni in Inghilterra a fronte delle circa 380.000 prodotte in Italia da Fiat.
Il livello, conclude il rapporto, si manterrà anche nel 2014 sotto le 400.000 vetture con dei “contraccolpi anche per la catena dei fornitori”.
(da “Agenzia Reuters“)
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Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
RAFFAELLA PAITA, ASSESSORE REGIONALE, APPOGGIATA DA BURLANDO ALLE PRIMARIE PD, IN DIFFICOLTA’ CAUSA UN’ASSUNZIONE POCO CHIARA
A quattro mesi da fine legislatura, Raffaella Paita fa assumere l’amica Federica Stellini alla segreteria politica regionale con un contratto di quattro mesi.
Con un compenso “mensile lordo onnicomprensivo di 1700 euro”, fa sapere lo stesso assessore.
La notizia diventa virale sui social. Paita replica con un comunicato in cui spiega che l’amica è subentrata a un componente del suo staff diventato nel frattempo assessore in Comune del Levante e “non c’è stato nessun aggravio di spesa”.
Laspeziaoggi.it alza il tiro con le anomalie nelle delibere di Comune e Regione.
A partire dall’inconsueta rapidità della procedura.
“A richiesta protocollata della Regione del 1-12-2014 risponde subito il Comune della Spezia che ‘svincola’ l’impiegata con delibera dirigenziale con effetto immediato dal giorno successivo (2-12-2014).
Infine il giorno dopo ancora (il 3-12-2014) la Regione stila e firma all’istante un contratto di co.co.co con l’interessata che entra in servizio immediatamente”.
Una celerità che raramente si riscontra tra le delibere della pubblica amministrazione e che “vorremmo fosse applicata più spesso anche per atti che non riguardano gli amici degli Assessori”.
Non si comprende il motivo di tanta segretezza negli atti.
Nonostante i proclami di Renzi (a cui si rifà Paita) sulla trasparenza nella pubblica amministrazione.
Nella delibera del Comune infatti non compare il nome di Federica Stellini, ma un semplice (quanto anonimo) numero di matricola.
“Tale procedura è in contrasto con la vigente normativa su Trasparenza e anticorruzione (D. Lgs. 14-3-2013 n 33 artt 13 e ad)”.
La sensazione è che, celare il nome della neo addetta alla segreteria politica regionale dell’assessore Paita dietro il numero di matricola 206814, servisse a far passare sottotraccia l’operazione.
La seconda anomalia riguarda le date, non tornano i conti.
Secondo il comunicato inviato dal suo portavoce, l’assessore regionale Paita non avrebbe fatto altro che sostituire uno dei membri della segreteria politica regionale che ha dato le dimissioni.
“Il 3 dicembre 2014 Federica Stellini è stata assunta con contratto di collaborazione coordinata e continuativa nel mio staff”, precisa la nota.
E qui bisogna fare chiarezza sulle date e sulle reali necessità .
Il precedente collaboratore ha dato le dimissioni per incompatibilità col ruolo di assessore al Comune di Vezzano con nomina ricevuta a maggio 2014: perchè Paita ha atteso oltre 6 mesi per colmare il vuoto?
Colpevole ritardo per poi cadere sulla scelta ‘ad amicam’ oppure inutile spreco di denaro pubblico?
In tempo di spending review anche un contratto in più fa la differenza nei confronti di casse regionali in rosso e servizi tagliati.
La storia (sicuramente) continua…
Giuseppe Sciortino
(da “Primocanale”)
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Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
IL SUO FURGONE COMPARE PIU’ VOLTE NELLE TELECAMERE TRA LE 18 E LE 19, POI SPARISCE… L’ESPERTO DI IVECO DAILY: “E’ IL SUO”
La telecamera del distributore di fronte alla palestra di Brembate Sopra ha «catturato» un furgone compatibile a quello di Bossetti almeno una volta il 26 novembre 2010, alle 18.01.
Ora, dagli inquirenti trapela la notizia di nuovi fotogrammi sospetti.
Non è chiaro per il momento da quali obiettivi siano stati ripresi
Il furgone di Massimo Giuseppe Bossetti è stato ripreso più volte attorno alla palestra di Brembate Sopra nell’ora precedente la scomparsa di Yara Gambirasio, il 26 novembre 2010.
È l’ultimo, pesantissimo dettaglio che emerge dall’indagine che il 16 giugno scorso ha portato in carcere il carpentiere di Mapello, 44 anni, moglie e tre figli.
Gli inquirenti sono sicuri che si tratti del suo Iveco Daily, perchè i fotogrammi sono stati fatti analizzare a un esperto della casa automobilistica, che, in base alle caratteristiche del mezzo, ha confermato: «Quello è il furgone di Bossetti».
Per l’indagato è una tegola, anche perchè dopo le 19, cioè quando la tredicenne viene rapita nel tragitto tra la palestra e la casa, il furgone non compare più nelle inquadrature. Sparisce.
Fino a oggi si era parlato delle immagini catturate della telecamera del distributore Shell, che si trova di fronte al centro sportivo e che aveva registrato il giorno del delitto un furgone compatibile con quello di Bossetti alle 18.01.
«Passavo sempre di lì quando tornavo dal lavoro», si era difeso lui, anche se poi era emerso che quel pomeriggio non era stato in cantiere.
Fiorenza Sarzanini e Giuliana Ubbiali
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
PUJOL RISCHIA IL RINVIO A GIUDIZIO: UN ALTRO MITO SEPARATISTA SI FRANTUMA
Jordi Pujol i Soley, presidente della Catalogna dal 1980 al 2003, 83 anni, fondatore della conservatrice Convergència Democrà tica de Catalunya ( Cdc, l’80 % della federazione CiU che governa la regione) e leader storico del nazionalismo catalano, è imputato, insieme alla moglie Marta Ferrusola e 3 dei suoi 6 figli.
Il prossimo 27 gennaio dovrà comparire davanti a un giudice di Barcellona.
Il reato per cui è molto probabile che venga rinviato a giudizio, è frode fiscale.
Pujol, per anni soprannominato “Il Vicerè della Spagna” quando, dal ’93 al 2000, appoggiò dall’esterno sia il governo del premier socialista Felipe Gonzà¡lez che quello del popolare (centro-destra) Josè Maràa Aznar in cambio di continui trasferimenti di competenze alla sua regione, si è tirato la zappa nei piedi da solo.
Nel luglio scorso, lasciando di stucco tutta la Spagna, confessò, dopo uno scoop del madrileno e moderato El Mundo, di aver tenuto fondi per 30 anni fondi all’estero, mai dichiarati, provenienti “da una eredità paterna” mai quantificata.
Nel 2002 un polemico report della polizia fiscale assicurava che l’ex “Molt Honorable President” aveva una montagna di soldi all’estero frutto della “mordida” (“mazzetta” nello slang spagnolo) che esigeva quando governava la Catalogna.
Un impero finanziario che gestivano i suoi figli, 5 dei quali sono già indagati in altre istruttorie.
Pujol smentì seccamente e parlò di una “manovra di Madrid “ contro la sua regione. Poi, è diventato un acerrimo indipedentista come il suo delfino, l’attuale presidente regionale Artur Mas, il cui padre era un uomo di paglia di Pujol ed aveva pure lui soldi all’estero.
I reati di cui sarà , molto probabilmente, accusato il vegliardo politico sono però molto più pesanti del reato fiscale: riciclaggio, corruzione e abuso di potere.
Pujol, che venne accusato dall’ex leader socialista Maragall di prendere una tangente del 3% sugli appalti pubblici, si è allontanato dalla politica, dal suo partito.
Però la sua comparsa in tribunale nel prossimo gennaio costituisce una immensa bomba di profondità contro il nazionalismo catalano proprio quando la regione spinge per l’addio alla Spagna.
Gian Antonio Orighi
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