Aprile 1st, 2015 Riccardo Fucile
ALTRO CHE QUESTIONE MORALE: DA NORD A SUD È RECORD DI INQUISITI… MAFIA CAPITALE, CORRUZIONE, DISASTRI AMBIENTALI E SPESE PAZZE
Il Partito democratico di epoca renziana è come non mai al centro di vicende giudiziarie da nord a
sud, isole minori comprese (dopo il caso Ischia).
Lo scandalo più grosso è sicuramente quello di Mafia Capitale, per cui in Campidoglio risultano indagati nell’inchiesta “Mondo di mezzo” Mirko Coratti e Daniele Ozzimo (il primo dimessosi da presidente dell’Assemblea capitolina a inizio dicembre, entrambi autosospesi dal partito).
Il vicesegretario nazionale, Lorenzo Guerini, pochi giorni prima della retata del 2 dicembre, cercò di convincere, senza riuscirci, Ignazio Marino a nominare proprio Coratti vicesindaco.
Si è autosospeso anche il consigliere regionale Eugenio Patanè. In Regione Maurizio Venafro, coinvolto nell’inchiesta, ha lasciato l’incarico di capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti.
Vicecapo di gabinetto della giunta Veltroni, in seguito capo della polizia provinciale, era Luca Odevaine, agli arresti, accusato di corruzione, sempre nell’inchiesta “Mondo di mezzo”.
Liguria. La centrale a carbone di Vado, Burlando e gli scontrini salati
Le spese pazze e il disastro ambientale della centrale a carbone di Vado. Sono le due prime preoccupazioni del Pd ligure, in una regione che ultimamente è stata flagellata dagli scandali. L’indagato più noto è senz’altro il governatore Claudio Burlando, finito nel registro della Procura di Savona con l’accusa di concorso in disastro ambientale doloso.
Sono indagati anche gli assessori alla Sanità Claudio Montaldo, alle Attività produttive Renzo Guccinelli e Renata Briano (ex assessore all’Ambiente, oggi eurodeputata).
Al centro dell’inchiesta l’inquinamento provocato dalla centrale Tirreno Power che secondo i periti dell’accusa con i suoi fumi avrebbe causato almeno 400 morti.
E sono indagati anche i sindaci di Vado, Attilio Caviglia e Monica Giuliano, e di Quiliano, Alberto Ferrando.
C’è poi l’inchiesta sulle spese pazze, che in Liguria ha toccato quasi metà del Consiglio regionale: in carcere due vicepresidenti della giunta di centrosinistra. Tra gli indagati del Pd risultano il capogruppo in Regione, Nino Miceli e il tesoriere del gruppo Mario Amelotti.
Ma la lista si allarga, se si considerano anche i partiti che fanno parte della coalizione trasversale che ha governato la Regione negli ultimi anni. Non fa “tecnicamente” parte del centrosinistra, ma Alessio Saso è un sostenitore dichiarato di Raffaella Paita (candidata Pd a governatore). Saso è indagato per voto di scambio in un’inchiesta sulla criminalità organizzata nel Ponente Ligure.
Campania. Il re di Salerno De Luca e il caso di Orta d’Atella
L’inchiesta che forse meglio di ogni altra in Campania avvolge gli interessi della politica e dell’imprenditoria “rossa” in un giro di (presunte) tangenti è la vicenda Sea Park: tra gli imputati per associazione a delinquere finalizzata a reati contro la Pubblica amministrazione c’è anche l’ex sindaco e candidato Pd a governatore della Campania, legge Severino permettendo, Vincenzo De Luca.
È la fallita riconversione dell’Ideal Standard in parco acquatico con l’apporto dei capitali di un consorzio di imprese emiliane, la Cecam.
All’indirizzo Cecam c’era solo una cassetta postale e il suo rappresentante si presentava alle riunioni con le scarpe risuolate. Eppure erano i tramiti di un giro di miliardi delle vecchie lire per far svendere i suoli dell’Ideal Standard agli emiliani e far realizzare il Sea Park in un terreno di proprietà dell’imprenditore Vincenzo Maria Greco.
C’erano le intercettazioni, furono distrutte perchè De Luca godeva delle guarentigie parlamentari. I reati ormai sono prescritti, ma De Luca ha rinunciato alla prescrizione e il 14 aprile farà dichiarazioni spontanee.
Fresca fresca invece è l’accusa di corruzione aggravata dal metodo camorristico con cui è finito in carcere il sindaco sospeso di Orta d’Atella (Caserta) ed ex consigliere regionale Ds Angelo Brancaccio.
La Dda di Napoli e la polizia hanno trovato le tracce di 330 mila euro versati su un conto svizzero di Brancaccio da Sergio Orsi, imprenditore dei rifiuti e riferimento del clan dei Casalesi (il fratello Michele fu ucciso nel 2006 su ordine di Giuseppe Setola).
Secondo la Dda, quei soldi sono il corrispettivo dell’ingresso dell’azienda degli Orsi in un consorzio pubblico-privato coi Comuni di Orta d’Atella e Gricignano D’Aversa, col quale accaparrarsi una serie di appalti. I bonifici avvengono nel 2006: Brancaccio è consigliere regionale, sostiene Antonio Bassolino, incontra il politico dei Ds simbolo della lotta anticamorra Lorenzo Diana.
Anni in cui gli Orsi, ritenuti vicini a Forza Italia, si iscrivono alla Quercia. Non a Casal di Principe, dove abitano. Ma alla sezione di Orta d’Atella. La Dda ha inoltre aperto un fascicolo sulla metanizzazione dei Comuni dell’agro-aversano. È indagato per concorso esterno in associazione camorristica Roberto Casari, per quasi 40 anni presidente della Gpl-Concordia, colosso delle cooperative rosse di Modena.
Piemonte. Gettonopoli e le eterne firme false
Che coppia. Lui, ex consigliere regionale, a processo per peculato e finanziamento illecito ai partiti, lei indagata per concorso in truffa aggravata. Sono Andrea Stara del Pd, già eletto con la lista “Insieme per Bresso”, e la deputata Paola Bragantini, ex presidente della Circoscrizione 5 del Comune di Torino ed ex segretaria provinciale del partito.
Sono due dei democratici illustri del Piemonte incappati nelle maglie della giustizia. Lui avrebbe ottenuto rimborsi non dovuti, tra cui quello per un tosaerba. Non è tutto: venerdì scorso, durante il processo, la contabile del gruppo ha detto ai giudici che Stara ha chiesto anche di rimborsare una multa della sua compagna.
Lei, invece, è finita in mezzo a un altro scandalo di rimborsi, quello delle mini-giunte fantasma: riunioni fatte solo sulla carta per ottenere i gettoni di presenza. Insieme a lei ci sono altri nove indagati per truffa aggravata, tra cui l’attuale presidente della Circoscrizione Paolo Florio, il suo vice Giuseppe Agostino e altri tre componenti della mini-giunta. Florio e Agostino inoltre sono indagati per le firme false delle liste a sostegno di Sergio Chiamparino per le ultime Regionali: in questo caso che sta scuotendo il Pd torinese lui non è il solo indagato, ci sono il consigliere regionale Nadia Conticelli, tre ex consiglieri provinciali (Umberto Perna, Pasquale Valente e Davide Fazzone), più quattro componenti della segreteria provinciale (Gianni Ardissone, Carola Casagrande, Mara Milanesio e Cristina Rolando).
Le elezioni hanno provocato molti problemi pure a Vercelli: per le Provinciali del 2009 saranno processati molti politici locali accusati di falso ideologico in atto pubblico, tra cui i democratici Maura Forte, sindaco di Vercelli, e il consigliere regionale Giovanni Corganti.
Chi in questi mesi sta affrontando un processo, infine, è Alessandro Altamura, ex assessore al commercio ed ex segretario provinciale del Pd, accusato di abuso d’ufficio nello scandalo “Murazzi”.
Emilia Romagna. La monorotaia e i sex toys
A Bologna il 9 aprile si aprirà il dibattimento sull’appalto del People mover, la monorotaia che dovrebbe unire stazione e aeroporto. I lavori non sono ancora iniziati, ma fra poche settimane davanti al giudice andranno anche l’ex sindaco Pd Flavio Delbono e il suo assessore Villiam Rossi, accusati di abuso d’ufficio.
Poi ci sono le “spese pazze” dei consiglieri regionali . Diciotto sono del Pd. Per molti potrebbe arrivare presto la richiesta di rinvio a giudizio: oltre a cene da centinaia di euro, anche scontrini per wc pubblici e persino per un sex toy.
E intanto Carlo Lusenti, assessore regionale alla sanità con Vasco Errani, è imputato per falso in una vicenda legata ai fondi regionali destinati alle cliniche private.
E non c’è solo Bologna. A Ravenna incombe il processo per truffa per la senatrice Josefa Idem. La vicenda è quella dei contributi Inps pagati dal Comune, che due anni fa la portò alle dimissioni da ministro.
Sempre in Romagna, a Rimini, il sindaco Andrea Gnassi è indagato per il fallimento della società dell’aeroporto Fellini. Assieme a lui altri otto sono sotto inchiesta per il reato di associazione a delinquere. Infine l’inchiesta di Firenze che ha visto protagonista Ercole Incalza, vede tra gli indagati anche l’ex assessore regionale alle Infrastrutture Alfredo Peri e l’ex consigliere Miro Fiammenghi. L’accusa è tentata induzione a dare o a promettere indebitamente denaro o altra utilità nell’ambito della costruzione dell’Autostrada Cispadana.
Bolzano. Il sindaco tira dritto L’abuso d’ufficio non basta
All’orizzonte il probabile rinvio a giudizio con l’accusa non da poco di abuso d’ufficio. E nonostante questo a Bolzano il sindaco Luigi Spagnolli tira dritto e punta alla ricandidatura.
Alle urne si va il 10 maggio. Mentre i suoi legali hanno chiesto al tribunale una proroga di due mesi e mezzo per leggere le carte dell’inchiesta. Il tempo, dunque, non manca anche per superare un eventuale ballottaggio. Spagnolli tira dritto con il via libera della segreteria regionale e di quella nazionale.
Sul tavolo della procura l’affare del raddoppio del centro commerciale Twenty. Sotto accusa, oltre a Spagnolli, anche un noto imprenditore trentino. Per lui il reato è quello di abuso edilizio.
Secondo quanto ricostruito dai pubblici ministeri il sindaco Spagnolli si è attivato per il via libera al raddoppio del centro commerciale dopo l’ok già dato dalla Provincia. Di più: il gruppo dell’imprenditore Giovanni Podini (indagato) s’interfaccia direttamente con il sindaco senza seguire l’iter tradizionale dell’ufficio tecnico.
Non solo. Secondo la ricostruzione dell’accusa, sottopone a Spagnolli il parere legale di un docente universitario. L’impresa, poi, inizierà i lavori ancora prima del via libera. E lo farà realizzando i piloni portanti del centro commerciale in maniera differente dalla concessione, poichè già rinforzati abusivamente per l’aumento di cubatura prima del rilascio della concessione inerente al raddoppio.
Fin dall’inizio dell’inchiesta Spagnolli si è sempre difeso. “Sono state dette una serie di cose non vere da parte di tante persone. Sono state fatte affermazioni pesanti. Non c’è alcun tipo di volontà di favorire chicchessia”. La procura ha chiesto il rinvio a giudizio.
Lombardia. Il “Sistema Sesto” non finisce mai
Giovanissimo vestì la casacca di assessore di Rozzano, hinterland a sud di Milano.
Da quel momento in poi la carriera politica di Massimo D’Avolio tracimò in successi continui.
Alle spalle la tutela potente di Filippo Penati che da lì a poco, è il 2004, incassa la poltrona di presidente della Provincia.
Nello stesso anno D’Avolio diventa sindaco di Rozzano, mandato rinnovato fino al 2013. Dai Ds al Pd. In quell’anno , D’Avolio, perso per strada il suo nume a causa di inchiesta giudiziaria (vedi il cosiddetto Sistema Sesto), fa il grande salto ed entra in Regione. Consigliere del Pd eletto con oltre 7 mila preferenze.
Poco meno di due anni con un incarico nella commissione regionale antimafia, e anche l’ex sindaco inciampa in qualche guaio.
Attualmente, infatti, risulta indagato dalla Procura di Milano per abuso d’ufficio. I fatti, contestati risalgono al periodo in cui D’Avolio era sindaco di Rozzano. Secondo l’accusa, coordinata dal dipartimento del procuratore aggiunto Alfredo Robledo, D’Avolio attraverso alcune delibere, avrebbe autorizzato il pagamento della partecipata Ama ad alcune società della moglie.
Con l’ex primo cittadino è indagato anche l’attuale capogruppo Pd nel Consiglio comunale di Segrate, l’ingegnere Vito Ancora.
Anche per lui l’accusa è abuso d’ufficio. Infine, risulta coinvolto un dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Rozzano per un presunto danno erariale legato alla compravendita di un’area industriale. L’inchiesta, ancora in fase embrionale, ha già gettato nel panico buona parte del Pd milanese che intravede il rischio di un nuovo sistema Sesto.
Sicilia. Il sottosegretario Faraone deve giustificare 3.300 euro
C’è il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone a guidare la pattuglia di deputati regionali in Sicilia indagati per le spese pazze dell’Assemblea regionale.
Gli viene contestata la cifra di 3300 euro e con lui hanno ricevuto un avviso di garanzia per peculato dalla Guardia di finanza altri 18 deputati regionali del Pd: Giovanni Barbagallo (11.569,44 euro), Mario Bonomo (4.918 euro), Roberto De Benedictis (per 4.653 euro), Giacomo Di Benedetto (per 27.425 euro), Giuseppe Digiacomo (per 6.727 euro), Michele Donato Donegani (10mila euro), Michele Galvagno (5.681 euro di cui 1.248), Baldassare Guacciardi (1.365 euro), Giuseppe Laccoto (3.492 euro), Giuseppe Lupo (39.337 euro), Vincenzo Marinello (3.900 euro), Bruno Marziano (12.813 euro), Bernardo Mattarella (6.224 euro), Camillo Oddo (2.500 euro), Filippo Panarello (16.026 euro), Giovanni Panepinto (2.600 euro), Antonello Cracolici e Francesco Rinaldi (45.300 euro).
Quest’ultimo è stato rinviato a giudizio quattro mesi fa insieme al cognato Fracantonio Genovese (deputato Pd arrestato dopo l’autorizzazione della Camera) per lo scandalo messinese della formazione professionale ed entrambi devono rispondere di associazione per delinquere finalizzata al peculato: sono accusati di avere costituito una rete di gestione familiare della Formazione, trasformandola in un lucroso business.
Infine ad Alcamo il deputato nazionale Nino Papania è accusato di avere imposto assunzioni alla società di smaltimento rifiuti Aimeri procurandole “il benestare degli organi di governo ambientale sugli appalti e sull’irregolare svolgimento del servizio”. Contro Papania, accusato in un’altra inchiesta di voto di scambio, si sono costituiti parte civile un centinaio di cittadini di Alcamo.
Giampiero Calapà , Andrea Giambartolomei, Vincenzo Iurillo, Giuseppe Lo Bianco, Davide Milosa e Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 1st, 2015 Riccardo Fucile
DOPO LA CASA A SCROCCO, ANCHE LE TELEFONATE A CARICO DI CARRAI E DI UNA FONDAZIONE DI CUI NON SI CONOSCONO I FINANZIATORI: NEL 2013 BOLLETTE PER 78.000 EURO
Il telefono cellulare in uso a Matteo Renzi è intestato alla Fondazione Open. http://s28.postimg.org/cc2z11iy5/renzi.jpg
L’ente che ha finanziato la sua ascesa politica dal 2012 ed è oggi guidato dall’avvocato e consigliere di Enel Alberto Bianchi, assieme al fidato fundraiser Marco Carrai, al ministro Maria Elena Boschi e al sottosegretario Luca Lotti.
Renzi usa ancora oggi quel telefono, nonostante da più di un anno sia presidente del Consiglio e abbia a disposizione anche un altro cellulare fornitogli dall’Aisi (Agenzia per le informazioni e sicurezza interna, l’ex Sisde) e potrebbe utilizzare un telefonino di Palazzo Chigi.
Invece, come conferma lui stesso al Fatto Quotidiano, il suo principale numero è rimasto quello della Open.
Numero che è finito intercettato mentre il premier conversava con il generale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi.
I due si conoscono da tempo. Adinolfi ha guidato il comando interregionale del centro Italia con sede a Firenze fino al 18 marzo scorso, negli anni in cui Renzi era sindaco del capoluogo toscano.
Così, proprio mentre Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, invoca una legge che imponga la massima trasparenza alle fondazioni riconducibili a politici, emerge che il cellulare del premier è pagato da una fondazione della quale solo in parte si conoscono i finanziatori.
Dopo la casa fiorentina pagata per tre anni da Carrai all’allora sindaco, chi copre oggi le spese telefoniche di Renzi?
E soprattutto: è corretto che il presidente del Consiglio ricorra a un telefono che sfugge alla anche più minima trasparenza di Palazzo Chigi?
Uno dei temi più battuti durante le campagne elettorali negli ultimi anni da Renzi è proprio la necessità di rendere i costi dell’attività politica controllabile da parte dei cittadini.
E con estrema frequenza l’esempio portato dal premier è quello degli Stati Uniti.
Ma i fatti non aiutano Renzi. Nelle ultime settimane proprio oltreoceano è diventato un caso l’uso della posta elettronica privata da parte di Hillary Clinton quando era segretario di Stato.
Il New York Times l’ha battezzato “email-gate” e l’ex first lady è stata costretta a un pubblico mea culpa: “Avrei fatto meglio a non usare il mio account personale”, ha dichiarato.
Motivo di tanto scandalo? Per la legge statunitense i rappresentanti governativi non possono nascondere nulla al dipartimento di Stato.
Clinton ha consegnato 55 mila email che ora saranno selezionate e tutte quelle ritenute di interesse pubblico saranno pubblicate on line.
Leggibili a tutti. Di interesse pubblico: non serve un’indagine della magistratura.
Un altro mondo. L’abisso tra il sistema Renzi e il suo modello americano era già emerso quando pochi mesi fa si scoprì per puro caso che il premier era solito usare l’elicottero di Stato senza darne comunicazione.
Ebbene: nel sito della Casa Bianca l’agenda di Obama è pubblica e viene aggiornata in tempo reale sugli spostamenti, i mezzi usati e i costi sostenuti dall’amministrazione per Mr President.
In Italia è diverso.
Le uniche informazioni che si hanno sul telefonino che usa il premier si trovano nel bilancio della fondazione Open.
Solo un dato, in realtà , è rintracciabile: l’ammontare del costo sostenuto nel corso del 2013 per la telefonia, fissa e mobile.
Il totale è 78 mila euro, più che quadruplicato rispetto all’anno precedente quando si fermò a 19 mila euro.
Non è dato sapere altro. Solamente la magistratura potrebbe, nel caso di una indagine sulle fondazioni riconducibili all’ex rottamatore (che sono quattro, dal 2007: Link, Festina Lente, Big Bang e Open), acquisire informazioni sulla contabilità dettagliata della cassaforte renziana.
Dati a disposizione anche di Bianchi e Carrai, uomini di fiducia di Renzi, per carità , ma le informazioni che riguardano il presidente del Consiglio possono essere in mani esclusive di due uomini estranei allo Stato e non invece allo Stato stesso?
Davide Vecchi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 1st, 2015 Riccardo Fucile
IL CASO D’ALEMA, COSA ACCADE NEGLI USA E CHI URLA AL BAVAGLIO
Ci risiamo. Basta che il nome di qualche Vip non indagato venga citato in un provvedimento
giudiziario per scatenare la solita canea.
L’altro giorno è toccato a Lupi, ora tocca a D’Alema. E tutti, sempre, a strillare contro la barbarie della giustizia che disturba tanta brava gente.
E i giornali di sinistra che invocano una legge che proibisca loro di conoscere le intercettazioni penalmente irrilevanti, dopo aver gridato al bavaglio quando la stessa cosa la voleva Berlusconi.
E i giornali di destra che rinfacciano alla sinistra i suoi silenzi quando c’era di mezzo Berlusconi (peraltro quasi sempre indagato), ma contemporaneamente denunciano il culetto sporco dei “compagni” e delle coop rosse e le misteriose “manine” che passerebbero le intercettazioni ai giornali (se stessi compresi) secondo un fantomatico “metodo Woodcock” che non si sa bene che cosa sia.
WoodcockononWoodcock, è bene che si sappia che ciò che è accaduto a Lupi e poi a D’Alema è normale in tutto il mondo.
Nel 2008, un mese dopo l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca, fu arrestato il suo amico ex governatore dell’Illinois Rod Blagojevich, intercettato per giorni e giorni mentre metteva all’asta il seggio senatoriale liberato proprio dal nuovo presidente.
La stampa americana riportò regolarmente le intercettazioni in piena inchiesta, essendo contenute in un atto ufficiale della Procura inoltrato al Tribunale federale di Chicago e poi integrate con altro materiale depositato alla difesa, dunque pubbliche, quindi pubblicabili.
Comprese quelle in cui Blagojevich parlava con due big non indagati, Jesse Jackson jr. (figlio del noto reverendo) e Rahm Emanuel, braccio destro di Obama.
Nessuno, men che meno la Casa Bianca, polemizzò con i giudici, nè con i giornalisti. L’unico a finire nei guai fu Blagojevich, che chiese perdono ai cittadini elettori (“ho sbagliato, mi scuso”), mentre Obama prendeva le distanze da lui e gli altri personaggi casualmente coinvolti diedero le dovute spiegazioni all’opinione pubblica delle proprie telefonate.
L’ex governatore fu poi condannato a 14 anni per corruzione.
Sono pazzi questi americani: anzichè con le guardie e con la stampa, se la prendono con i ladri.
Sorge il dubbio che, quando disse “ho sbagliato”, Blagojevich intendesse: ho sbagliato paese.
In Italia, la notizia del suo arresto sarebbe stata oscurata dagli alti lai dei non indagati contro i pm. Tipo quelli di Lupi l’altroieri e di D’Alema oggi.
Secondo quest’ultimo, la vicenda dell’inchiesta sulle mazzette della coop al sindaco ex forzista e dunque pidino di Ischia è “scandalosa” non per quello che emerge dagli atti.
Ma perchè “è incredibile diffondere intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’indagine” per colpire “chi non è indiziato di reato e viene perseguitato al solo scopo di ferirne l’onorabilità ”.
Minaccia addirittura querele, poi fa una domanda interessante: “Di cosa devo rispondere? Della mia vita personale? Cosa c’entra chi conosco o non conosco?”.
Il Conte Max è troppo intelligente per pensare che qualcuno ci caschi davvero.
Si presenta come un “pensionato” e segnala giustamente la differenza fra sè — ex parlamentare — e un ministro che assegna appalti, ma tutti sanno che è uno degli esponenti più influenti della minoranza Pd.
Per questo la sua fondazione Italianieuropei viene finanziata direttamente o tramite pubblicità alla rivista da importanti imprese pubbliche e private.
Che mai butterebbero soldi per aiutare un pensionato a tirare avanti.
I magistrati ritengono che il potere della Cpl Concordia (quanti naufragi con quel nome maledetto!) presso le pubbliche amministrazioni derivasse anche dal rapporto privilegiato con lui.
Perciò hanno inserito quegli elementi negli atti dell’indagine.
Che non sono più segreti, dunque ormai noti agli avvocati e doverosamente riportati dai giornali, senza bisogno di “manine” tanto misteriose quanto inesistenti.
Essendo D’Alema un ex, i giudici non devono neppure chiedere il permesso alle Camere per utilizzare quei nastri (il che vale anche per l’intercettazioni sul cellulare di Renzi intestato alla fondazione Big Bang, visto che il premier non s’è mai fatto eleggere e dunque non gode di alcuna guarentigia).
Se poi la coop e/o la fondazione acquistavano centinaia di copie del suo libro e/o di migliaia di bottiglie del suo vino, questa non è vita privata: i suoi diritti d’autore di scrittore e i suoi introiti di viticoltore lievitavano artificialmente anche con quei sistemi.
È un reato? Forse no (infatti D’Alema non è indagato).
È un fatto molto discutibile che i cittadini hanno il diritto di conoscere e i giornali il dovere di raccontare? Certo che sì.
Soprattutto perchè la sua fondazione, come tutte quelle create dai politici, non dichiara i nomi e i contributi dei finanziatori trincerandosi dietro un’improbabile esigenza di privacy.
Ora naturalmente la Casta coglierà l’ennesimo pretesto per tentare una legge bavaglio che impedisca ai giudici di inserire negli atti intercettazioni su non indagati, in modo che nelle ordinanze i giornali non trovino più nulla.
Ma è fatica sprecata: se l’indagato telefona a un non indagato, che si fa?
Si cancella una frase sì e una no?
E se due non indagati parlano dei reati di un indagato che si fa, si finge di non sentirli? Fare politica non è una penitenza imposta dal confessore e nemmeno una prescrizione del medico curante: chi sceglie quella strada ha molti onori e privilegi, ma anche qualche onere: compreso quello di stare attento a ciò che fa e dice.
Se non vi è portato, cambi mestiere.
E soprattutto eviti di raccontare che una coop rossa gli compra 2 mila bottiglie perchè “è noto a tutti che la mia famiglia produce un ottimo vino”.
Se il vino di un politico è buono o cattivo, lo decidono i cittadini.
Non l’oste.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 1st, 2015 Riccardo Fucile
L’ISTAT GELA L’OTTIMISMO DEL GOVERNO: A GENNAIO -44 MILA OCCUPATI E +23 MILA LICENZIATI
È la nemesi dei numeri. Cavalcare dati singoli e incompleti sul lavoro si sta rivelando un gioco al massacro per il governo, costretto in poche ore a una pesante retromarcia, aggravata di nuovo dall’Istat
Andiamo con ordine. Ieri l’Istituto di statistica ha diffuso i dati mensili sull’occupazione: nel solo mese di febbraio si registrano 44 mila occupati in meno (quasi tutte donne) e 23 mila disoccupati in più (+0,7 per cento), con il tasso di disoccupazione che sale al 12,7 per cento, tornando ai liveli del dicembre scorso.
Rispetto a febbraio 2014 — primo mese dell’era di Matteo Renzi a Palazzo Chigi — l’occupazione è cresciuta dello 0,4 per cento (+93 mila), mentre la disoccupazione ha fatto un forte balzo in avanti del 2,1 per cento: significa 67 mila posti di lavoro persi.
Solo poche ore prima, il Sole 24 Ore riportava anche la retromarcia del ministro del Lavoro Giuliano Poletti: dopo aver sbandierato pochi giorni fa i “79 mila contratti stabili in più siglati tra gennaio e febbraio”, Poletti si è deciso a comunicare al quotidiano della Confindustria anche quelli “cessati”, ridimensionando così il loro numero a 45.703, buona parte dei quali, come si temeva, sono stabilizzazioni di contratti precari e non nuovi posti di lavoro.
È la certificazione di una corsa ad accaparrarsi l’incentivi stanziati dal governo con la legge di Stabilità : la decontribuzione fino a un massimo di 8.060 euro, che ha provocato una valanga di richieste all’Inps e potrebbe portare nel giro di pochi mesi a esaurire le risorse stanziate (1,9 miliardi di euro nel 2015).
Un doppio colpo pesante, che raffredda non poco gli entusiasmi del governo che nelle ultime settimane ha provato a magnificare gli effetti del jobs act limitandosi sempre al bicchiere mezzo pieno e diffondendo dati positivi per mascherare quelli negativi.
Venerdì scorso, per dire, Poletti aveva comunicato le anticipazioni sui contratti siglati (“nei primi due mesi del 2015 si registrano 155 mila contratti in più rispetto al 2014”) per coprire il tonfo del fatturato dell’industria registrato a gennaio (-1,6 per cento rispetto a dicembre).
Sarà un caso, ma da ieri l’Istat ha deciso di comunicare anche la media mensile rispetto ai tre mesi precedenti “per offrire ai lettori andamenti che risentono meno della variabilità che si osserva a breve termine”.
Tradotto: cerchiamo di fare un po’ di chiarezza vista la confusione regnante. Risultato? “Nel trimestre, l’occupazione è rimasta sostanzialmente stabile”, cioè non è cresciuta, a dispetto gli annunci.
Se non è una risposta al governo, poco ci manca. Tanto più che pochi minuti dopo, l’Istituto di statistica ha diramato alle agenzie una curiosa precisazione, quasi a compensare lo sgarbo: “A calare è solo l’occupazione femminile”. Che peraltro langue da oltre due anni.
Al di là dell’Istat, però, sono proprio i numeri resi noti ieri da Poletti a fare chiarezza.
Dai dati, infatti, emerge che l’aumento dei contratti a tempo indeterminato di gennaio e febbraio è dovuto essenzialmente alle stabilizzazioni di rapporti di lavoro già in essere, e a un “effetto rimbalzo”, visto che negli ultimi tre mesi del 2014 le attivazioni avevano subito un brusco calo (passando da circa 117 mila a poco più di 88 mila).
In pratica, le aziende hanno aspettato il nuovo anno per assumere, proprio per accaparrarsi i generosi incentivi previsti a partire da gennaio. Non solo.
Nei primi due mesi del 2015 insieme alle “attivazioni”, sono cresciute anche le “cessazioni” di contratti stabili: dai 243 mila licenziamenti del 2014, ai 257 mila di gennaio-febbraio di quest’anno.
Era già successo nel dicembre scorso, quando Poletti venne smentito a stretto giro dal suo dicastero: aveva anticipato i dati delle comunicazioni obbligatorie del terzo trimestre 2014, da cui si evinceva “un incremento di 400 mila unità ”, guardandosi bene dallo specificare che quelli “cancellati” erano però 483 mila. Ieri, seppure in misura minore, è avvenuta la stessa cosa.
Il ministero, poi, non ha voluto diffondere anche i dati di marzo 2014.
Non è un dettaglio da poco: stando ai numeri, in quel mese le attivazioni “stabili” dovrebbero essere state almeno 200 mila, e questo ridimensiona non poco le uscite di Poletti.
Se venisse considerato l’intero trimestre, infatti, probabilmente i “79 mila contratti a tempo indeterminato in più rispetto al 2014” rivendicati dal ministro del Lavoro sarebbero molti meno. Tanto più che l’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’aumento dei contratti precari (circa 54 mila unità ), dal calo di quelli di apprendistato (da 34 mila del 2014 ai 33 mila di gennaio-febbraio 2015, mentre quelli “cancellati” sono più di tremila), su cui il governo aveva puntato molto: dovevano essere il cuore della “Garanzia giovani” (il cui flop è ormai conclamato) e invece vengono divorati dalla corsa agli incentivi.
Ieri, Poletti ha spiegato che questi numeri “non smentiscono il consolidamento della ripresa”. Secondo la leader della Cgil Susanna Camusso invece, “in queste settimane abbiamo assistito a una nauseante propaganda su dati parziali e inconsistenti, ma il lavoro non c’è”.
Con fatturato e produzione industriale fermi, non potrebbe essere altrimenti.
Carlo Di Foggia
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 1st, 2015 Riccardo Fucile
AL POSTO DI DELRIO CORSA TRA LOTTI E RICHETTI
Sarà oggi o al massimo domani, ma il ministro delle Infrastrutture, quello che prenderà il posto di
Maurizio Lupi, c’è già : sarà Graziano Delrio, attuale sottosegretario a palazzo Chigi.
Matteo Renzi ha deciso di accelerare, di chiudere questa partita piazzando a Porta Pia un fedelissimo per rimettere ordine in una struttura che sembra andata fuori controllo. Ma qui finiscono le certezze
Nemmeno un vertice pomeridiano tra il premier e Angelino Alfano (presente anche Maurizio Lupi) è bastato per sciogliere il nodo politico della faccenda.
Ovvero, quale sarà la compensazione per i centristi?
Renzi e Alfano un’intesa non l’hanno ancora trovata. «Noi – ha detto il ministro dell’Interno al premier – ti proponiamo Quagliariello per un ministero del Sud. Un nuovo ministero che metta insieme gli Affari regionali e la delega sulla coesione territoriale ».
La risposta è stata evasiva. «Preferirei una donna, anche per rispettare la parità di genere », ha replicato Renzi.
E la cosa è finita lì. In ambienti renziani circolano anche i nomi più graditi per quel ruolo. Graditi a palazzo Chigi, s’intende: da Erminia Mazzoni a Rosanna Scopelliti, figlia del magistrato Antonino assassinato dalla ‘Ndrangheta, dalla senatrice Federica Chiavaroli a Valentina Castaldini, portavoce Ncd.
Ma Alfano e Lupi insistono su Quagliariello. E soprattutto non accettano l’altra idea che Renzi sembra avere in mente.
Quella di dare ai centristi solo gli Affari regionali, nominando un renziano doc al posto che sarà lasciato libero dal sottosegretario Delrio (con il potere sui fondi Ue).
Anche per questa carica circolano un po’ di nomi, con un’alta dose di aleatorietà : si parla del vicesegretario Guerini (che smentisce), del vicecapogruppo Ettore Rosato, di Matteo Richetti. Se non lo stesso Luca Lotti, l’altro dioscuro di palazzo Chigi, che sommerebbe le deleghe di Delrio a quelle già nel suo mazzo.
Almeno su una nomina Alfano e Renzi si sono invece trovati d’accordo: il capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, in settimana diventerà il nuovo prefetto di Roma per gestire il Giubileo straordinario.
Tra le tante voci fatte circolare c’è anche quella di uno spostamento di Maria Elena Boschi dalle riforme agli Affari regionali, per un ritorno di Quagliariello sulla poltrona che occupava con Letta.
Il rebus sarà sciolto soltanto oggi, quando il premier salirà al Quirinale (gli uffici sono stati preallertati per un mini rimpasto «prima delle vacanze di Pasqua»).
La questione rimpasto, a caduta, ha comportato uno psicodramma dentro l’Ncd.
Nunzia De Girolamo, la pasionaria capogruppo antirenziana, non viene considerata più adatta per quel ruolo. Su questo concordano sia il premier che Alfano.
«Un capogruppo di maggioranza – è il ragionamento comune – non può comportarsi come se stesse all’opposizione».
Da qui l’idea di sostituirla con Lupi, ma l’interessata non ha alcuna intenzione di farsi da parte. Tanto che ieri i rumors raccontavano di una raccolta di firme tra i deputati, ispirata da Alfano, per convocare un’assemblea di gruppo per far fuori la ribelle. «Non posso credere – replica lei maliziosa – che il ministro degli Interni perda il suo tempo nell’organizzare trame di questo tipo».
Intanto Renzi, in preparazione della visita di Stato alla Casa Bianca di metà aprile, si apre la strada con un’intervista al New York Times. Molto assertiva.
«Sono il più giovane leader che l’Italia abbia mai avuto. Sto usando la mia energia e il mio dinamismo per cambiare il Paese. Penso che sia il tempo di scrivere una nuova pagina. Non posso aspettare a causa dei vecchi problemi del passato».
Il leader del Pd rivendica anche la «nuova direzione » presa da un’Unione europea che finalmente parla di crescita e non più «solo di bilanci e austerità ».
Il Jobs act è «la cosa più di sinistra che abbia mai fatto», quanto al Pd, Renzi racconta di ispirarsi «all’azzardo» di Blair: «Trasformare il Labour da un partito perdente a un partito vincente».
L’altra mossa di giornata, affidata a Yoram Gutgeld, l’uomo che ha in mano il dossier Spending review, è quella di rendere finalmente pubblico il famoso Piano Cottarelli di tagli alla spesa pubblica.
All’indirizzo «revisionedellaspesa. gov. it» si possono trovare tutte le schede prodotte da Mister Forbici nel periodo di lavoro da Letta a Renzi.
Suggerimenti dimenticati per mesi nei cassetti e ora tirati fuori, a un anno di distanza, in base al principio degli «open data».
E a proposito di Infrastrutture, Cottarelli suggeriva cose importanti che magari avrebbero aggredito il “Sistema” Incalza: «Per grandi opere la consultazione pre-progettuale per decidere se/come fare l’opera»; «messa in esercizio dell’opera entro i 90 giorni dal collaudo tecnico- amministrativo pena l’applicazione di sanzioni»; e soprattutto «forti azioni di sorveglianza nell’esecuzione delle opere programmate dal Cipe (350/600 ispezioni entro il 2015)» e «definanziamento automatico in caso di mancato avvio delle opere».
Un bel libro dei sogni, un manuale che il futuro ministro Delrio dovrà leggere con attenzione.
Francesco Bei
(da “La Repubblica”)
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