Aprile 17th, 2015 Riccardo Fucile
VOLEVANO RAPPRESENTARE LA DESTRA LEPENIANA IN ITALIA, NON RIESCONO A METTERSI D’ACCORDO NEANCHE PER LE REGIONALI: OGNUNO PENSA AI PROPRI INTERESSI DI BOTTEGA
Dovevano marciare uniti almeno al suono della Marsigliese, visto che Salvini conosce più le note dei “napoletani che puzzano come cani” che quelle dell’inno di Mameli che Giorgia ha cercato vanamente di fargli imparare.
Ma visto i pellegrinaggi di entrambi da Marine Le Pen e l’appiattimento delle tesi di Fdi su quelle leghiste, ci si aspettava che le elezioni regionali del 31 maggio avrebbero visto i due partiti coalizzati in nome del mito lepenista.
Invece alla prima prova di «convivenza» la coppia è scoppiata.
In vista delle Regionali l’asse FdI-Lega appare frantumato e i due sono felicemente insieme solo in Umbria e, dopo molte titubanze, in extremis anche in Liguria.
Discorso diverso in Veneto, dove il partito della Meloni ha scelto Zaia, ma sono in molti a preferire Tosi, ricordando anche la partecipazione di quest’ultimo a diverse edizioni di Atreju, la kermesse di FdI.
Nel resto d’Italia, la situazione è invece da «separati in casa».
In Puglia FdI appoggia Schittulli, apriti cielo, contro un membro del suo stesso partito (Adriana Poli Bortone», sostenuta da Lega e FI).
Fratelli d’Italia poi è pronta a correre da sola nelle Marche.
Situazione analoga in Toscana, dove FdI punta tutto sul suo Giovanni Donzelli. La Lega sostiene invece Claudio Borghi, lanciato da tempo.
E il saggio Carlo Fidanza di Fdi chiede provocamente a Salvini: “Se il problema (o il pretesto) è la presenza di esponenti di Ncd, allora perchè Maroni non li estromette dalla sua maggioranza in Regione Lombardia?”
Tempi duri per la famiglia Addams della pseudo-destra italiana.
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Aprile 17th, 2015 Riccardo Fucile
IL SOSPETTO DI SILVIO: VERDINI GIOCA A PERDERE… ZAIA PREOCCUPA LA LEGA: A DICEMBRE AVEVA 28 PUNTI DI VANTAGGIO, ORA LA MORETTI LO INCALZA
È anche lo spettro del “cappotto” alle regionali ad alimentare la tensione a palazzo Grazioli. Perchè Silvio Berlusconi è convinto che qualcuno si sia messo a giocare allo “sfascio” davvero. Una sensazione maturata quando Denis Verdini ha preso la parola nel corso della riunione coi coordinatori regionali bollando come folle la strategia sulle regionali.
Poco dopo è arrivato, a rincarare la dose, anche il capogruppo Paolo Romani, che con violenza ha criticato i metodi da “casting” nella sensazione della nuova classe dirigente riferendosi agli astri del momento mandati in tv, dalla Sardoni a Cattaneo.
Nell’inner circle dell’ex premier sussurrano: “Denis ha fermato le macchine ovunque, a partire dalla Campania. Già la situazione è difficile, se qualcuno gioca a perdere si rischia il disastro”. Un’analisi che fa il paio con l’ottimismo che si respira a palazzo Chigi. Dove Renzi al cappotto crede davvero.
E domenica sarà prima a Mestre, poi a Venezia al teatro Toniolo per lanciare la volata finale ad Alessandra Moretti.
L’impresa, in Veneto, pare possibile.
Antonio Noto, dell’Ipr Marketing dice all’HuffPost: “Al momento Zaia è attorno al 40 per cento e la Moretti solo tre punti sotto”. Il trend è di recupero.
E non solo per effetto della candidatura di Flavio Tosi, stimato attorno al dieci.
“L’aria sta cambiando” ripetono al Nazareno. Il migliore indicatore è il nervosismo in casa leghista. Il governatore uscente, che a dicembre quando era 28 punti sopra, dichiarava che non avrebbe fatto un giorno di campagna elettorale perchè “impegnato a governare” ora ha invaso i talk show nazionali.
E soprattutto per la prima volta Salvini ha iniziato a nominare ed attaccare la Moretti, ignorata fino a pochi giorni fa.
Ecco perchè Renzi ha deciso di andare più volte in Veneto: la vittoria è possibile.
Più le regionali si politicizzano come test nazionale più è possibile il cappotto, che avrebbe l’effetto del 40 per cento alle europee dello scorso anno: “Il trend nazionale — spiega Noto — è a favore del centrosinistra. Nonostante il Pd dia segnali di crisi è al 37, 5 e soprattutto Renzi non ha avversari che rappresentano un’alternativa. La sua fiducia, anche se in calo è al 47, venti punti sopra il secondo visto che Salvini è 24”.
È il crollo, drastico, di Forza Italia a rendere aperta la partita anche nelle regioni in bilico. Compresa la Campania, zoccolo duro ai tempi d’oro del berlusconismo.
Ora Caldoro rischia. Prosegue Antonio Noto: “Se non ci fosse il candidato della sinistra-sinistra che al momento è attorno al tre, De Luca e Caldoro sarebbero alla pari. Rispetto alle regionali di cinque anni fa il centrodestra perde 15 punti. Insomma, la partita è aperta, anche perchè il 50 per cento dell’elettorato non ha ancora deciso se andare a votare e chi cosa votare”.
E Berlusconi non ha ancora deciso quanto impegnarsi nelle regioni in bilico.
Mentre Renzi le idee ce l’ha molto chiare. Al ritorno dalla visita alla Casa Bianca, andrà a Pompei.
Nel fine settimana invece, oltre alla kermesse veneta, andrà a Sanremo.
In Liguria poi è già fissata una seconda uscita, a Genova, tra un paio di settimane. Ed è legato anche alla Liguria lo spettro del cappotto.
Perchè è vero che l’ultimo sondaggio della Ghisleri dà il candidato Toti tre punti sotto, ma è solo un capitolo del sondaggio.
Gli altri due capitoli raccontano che la coalizione di centrodestra è dieci punti sotto e il consigliere politico di Berlusconi non è neanche forte sotto il profilo della “credibilità del candidato”.
Fin qui le regioni in bilico. Poi le altre, dove non c’è storia.
Anzi c’è la cronaca di una debacle annunciata: Puglia, Umbria, Toscana.
E le Marche, dove il governatore uscente del centrosinistra Spacca, che da quelle parti ha governato un ventennio, è il candidato del centrodestra.
Un’operazione che secondo i sondaggisti produce un effetto boomerang, perchè l’elettore medio di centrodestra non si mobilita per uno che non percepisce come uno dei suoi.
E la macchina di Forza Italia è ferma: “C’è chi gioca allo sfascio – ripetono a palazzo Grazioli — e sono quelli che di fatto sono già fuori da Forza Italia, come Fitto e Verdini”.
Per limitare i danni Berlusconi si sente costretto a scendere in campo. Ma non subito. L’idea è che concentrare i fuochi d’artificio negli ultimi venti giorni, con una campagna elettorale tutta all’attacco di Renzi.
(da “Huffingtonpost“)
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Aprile 17th, 2015 Riccardo Fucile
BASTERA’ L’EFFETTO INCHIESTE? REGIONALI DECISIVE, BLUFF O TENDENZA DI LUNGO PERIODO?
L’ultimo dei tanti sondaggi li dà per l’ennesima volta in risalita.
Il Movimento 5 stelle è ancora lontano dalle incredibili percentuali del febbraio 2013, ma dopo un periodo di vero e proprio crollo, è stabilmente in risalita nelle intenzioni di voto. Ixè, questa mattina, accredita le truppe di Beppe Grillo del 20%.
E il numero “due” è ormai da qualche settimana stabilmente il primo nella quota accreditata ai grillini, che nel recente passato sembravano destinati a stabilizzarsi verso cifre intorno al 15%.
Dati sorprendenti, soprattutto se paragonati alla potenza di fuoco comunicativa e all’attività politica sui grandi temi della pattuglia grillina.
Entrambe, negli ultimi mesi, vicine allo zero.
Il palcoscenico è tutto per l’attivismo di Matteo Renzi e le dinamiche interne del Partito democratico (come tra l’altro il M5s denuncia, dati dei tg alla mano, Roberto Fico in testa).
La parte residuale di taccuini e telecamere è puntata sulle convulsioni di una Forza Italia in preda ad una vera e propria guerra civile.
Sono lontanissimi i tempi in cui si attendeva con trepidazione l’arrivo di Beppe Grillo a Roma, in cui una battuta estemporanea del leader faceva titolo, in cui le pagine dei quotidiani erano piene di retroscena su quel che succedeva dietro il portone della Casaleggio Associati.
Gli ultimi sono stati tempi nei quali le truppe stellate hanno dovuto incassare l’incartamento sull’elezione del Capo dello Stato, la prima defezione organizzata di una pattuglia di parlamentari, e la sostanziale perdita di interesse da parte di Matteo Renzi nell’instaurare un dialogo con la principale forza di opposizione.
E nei quali hanno scontato la rotazione dei capigruppo, che, dopo un primo periodo che ha portato sugli scudi le personalità più forti del gruppo parlamentare, adesso vede avvicendarsi le seconde linee.
Oggi i post del blog finiscono, bene che vada, su un trafiletto nelle pagine interne, e c’è bisogno di un’azione tanto clamorosa quanto controversa come quella di Luigi Di Maio di andare a parlare con le procure che indagano sul rapporto tra cooperative e politica per risalire faticosamente nella foliazione dei giornali e nelle scalette dei tg.
“Non ci sono grandi cose in ballo – spiegano all’Huffpost i comunicatori M5s – forse fra un paio di settimane facciamo il punto sul referendum sull’euro, ma per il resto niente di che”.
Eppure la freccia verde verso l’alto accanto ai numeri nei sondaggi rimane fissa. Complice, probabilmente, il grande numero di inchieste che ha coinvolto amministratori locali e politici nazionali negli ultimi mesi.
Dal Mose all’Expo, passando per l’affaire Incalza e il recentissimo caso Ischia, passando per le iscrizioni sul registro degli indagati di numerosi candidati alla poltrona di governatore, in special modo nelle file del Pd.
Un tasto su cui stanno battendo molto i parlamentari a 5 stelle (vedasi la già citata visita di Di Maio alla procura di Napoli e a quella nazionale dell’Antimafia) e che, a partire dai territori per poi ripercuotersi a livello nazionale, sta alimentando il consenso verso il M5s.
È per questo che proprio le prossime elezioni regionali saranno un test cruciale per verificare la stabilità o, viceversa, l’estemporaneità di questa tendenza.
Numeri alla mano, non ci si aspetta la vittoria degli uomini di Grillo in nessuna delle sette regioni al voto.
Ma lo spartiacque tra percentuali al di sotto del 5%, come avvenuto per esempio in Calabria, e cifre che si avvicinano a quelle nazionali, potrebbe essere fondamentale per i prossimi mesi del Movimento.
Come al solito ci si affida ad attivisti votati sul web dai militanti locali.
Si va dalle 804 preferenze personali di Valeria Ciarambino, campana di Pomigliano D’Arco, concittadina di Di Maio e già candidata non eletta alle elezioni europee, alle 200 del marchigiano Giovanni Maggi, che nel Cv spiega di essersi occupato della comunicazione dei consiglieri comunali di Ancona.
La lista dei candidati trombati alle europee si allunga.
Vi troviamo Alice Salvatore, che proverà a strappare la Liguria alla renziana Paita e al forzista Toti, e Antonella Laricchia, pugliese, che scrive nelle propria presentazione che tra i 32 esami sostenuti (gliene mancano “uno e mezzo” alla laurea) figurano 9 “trenta e lode”.
In Umbria, dopo il ritiro di Laura Alunni, correrà Andrea Liberati, già collaboratore di consiglieri regionali, un’esperienza in America a sostegno della campagna elettorale di Barak Obama, da cui è nato un libro: “Licenziarsi e volare in America per Obama”.
In Toscana, infine, toccherà a Giacomo Giannarelli portare il vessillo, scienziato politico con alle spalle una tesi sulla decrescita felice.
Sei uomini sulle cui spalle grava la responsabilità di alzare l’asticella in una tipologia di elezioni storicamente non congeniale al M5s.
Una responsabilità tanto più pesante quanto più trovano conferme le notizie che vogliono un sostanziale disimpegno di Grillo, che non sembra voglia spendersi in uno di quei tour elettorali che tanto consenso hanno racimolato in vista delle urne.
Fino alla fine di maggio, dunque, lo strano limbo che mescola un sostanziale inattivismo a una crescita nei sondaggi sembra sia destinato a durare.
Una volta chiuse le urne, sarà tutta un’altra storia.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 17th, 2015 Riccardo Fucile
ERA GIA’ TUTTO PRONTO PER MANIPOLARE LE PRIMARIE TAROCCO
Le banconote di grosso taglio da cambiare in un mare «di spiccioli».
La moneta da 2 euro, o due monete da 1, da consegnare agli elettori delle primarie prima che raggiungessero il seggio.
E poi i documenti da segnare a ogni consegna: da un lato ti do i soldi, dall’altro registro le generalità .
Tutto doveva avvenire in un negozio, sembra una pescheria, che si trova proprio «sulla strada del seggio» nel giorno delle consultazioni per scegliere il candidato sindaco democrat ad Ercolano.
Sarebbe sembrata una domenica di “festa democratica”.
Tutto doveva consumarsi in occasione dei gazebo, fissati l’8 marzo, poi rinviati al 12 aprile: e infine saltati in extremis, una settimana fa, solo dopo la notizia dell’inchiesta della Procura di Napoli che travolge il sindaco Vincenzo Strazzullo e il suo vice Antonello Cozzolino, costretti a ritirarsi di fronte allo scenario presunto di favori, assunzioni clientelari e tangenti tra imprenditori di una coop e politica sporca.
Primarie “pre-pagate”, dunque.
Una strategia ricostruita da Repubblica e verificata con fonti qualificate.
Eppure, l’ultimo segreto dello scandalo Pd che investe Ercolano – città dove i democrat hanno anche scritto pagine importanti di impegno anticamorra e di coraggio antiracket – è destinato a fare esplodere ulteriori veleni.
Il dettaglio choc non ha rilievo penale, ma arroventa la vigilia delle amministrative.
E ad Ercolano, dopo una settimana di occupazione del circolo e difficile mediazione, ieri le segreterie provinciale e regionale decidono che le consultazioni rinviate torneranno.
Ovviamente tra protagonisti che non sono quelli dell’indagine: il renziano Ciro Buonajuto, il medico Gennaro Sulipano e il segretario cittadino Antonio Liberti che aveva svolto un’opera di “raccordo” e su cui si erano riversati Strazzullo e Cozzolino.
I gazebo si aprirano «tra il 19 e il 26 aprile», ovvero a cinque giorni dal termine per le liste
Intanto l’inchiesta dei pm Valter Brunetti e Celeste Carrano coordinati dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e nata da accertamenti vecchio stile della Guardia di Finanza, si allarga. Appalti per oltre 20 milioni nel mirino, chilometri di strade storiche da rifare e c’è persino il cantiere di una caserma dei carabinieri.
Lavori, ma anche rifiuti.
Nelle indagini, tracce di corruzione intorno alla Multi ecoplast, l’azienda che si occupa di smaltimento.
Sotto inchiesta anche l’assessore (poi dimissionario) Salvatore Solaro, il cui studio professionale pare che vincesse spesso le progettazioni per i lavori.
Gli investigatori guidati dal colonnello Cesare Forte hanno controllato gli stati di avanzamento dei lavori, colto per mesi dialoghi e racconto, acquisito atti in Comune.
Lo scandalo è appena cominciato.
Conchita Sannino
(da “La Repubblica”)
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Aprile 17th, 2015 Riccardo Fucile
PROROGA AUTOMATICA DELLE CONCESSIONI IN CASO DI ACCORPAMENTO DI TRATTE: UN FAVORE ALLE SOCIETA’ DI GESTIONE
È lì soltanto da pochi giorni e il nuovo ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio già deve affrontare un paio di faccende mica da ridere.
La più impellente è la sostituzione del presidente dell’Anas Pietro Ciucci. Ma quanto a difficoltà non è niente al confronto della battaglia sulle concessioni autostradali
Urge un riepilogo.
La scorsa estate la potente lobby dei gestori mette a segno un colpo da maestro.
Il governo Renzi fa passare nella cosiddetta legge Sblocca-Italia una norma che consente la proroga automatica delle concessioni in caso di accorpamenti delle tratte.
La motivazione è quella di favorire gli investimenti, ma questo non impedisce che scoppino furiose polemiche.
Anche perchè salta fuori che dal ’99 (anno della privatizzazione della società Autostrade) al 2013 le tariffe sono salite del 65,9% a fronte di un’inflazione del 37,4%.
E che nel 2014 c’è stato un altro aumento medio del 3,9 contro un rincaro del costo della vita dello 0,2.
Bilancio finale: in 15 anni i pedaggi sono lievitati quasi del 70%, praticamente il doppio dell’inflazione.
Le super proroghe delle concessioni
Ma il governo non si fa impietosire, e in Parlamento l’ammorbidimento della norma è pressochè impalpabile.
Per riaprire i giochi ci vuole il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, che bolla quel beneficio assegnato dalla legge ai concessionari come contrario alla concorrenza. Siamo all’inizio di febbraio scorso, e il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi fa elegantemente spallucce, ricordando come Bruxelles abbia appena approvato una proposta del governo francese del tutto simile a quella italiana.
La risposta di Lupi non dice però che le concessioni francesi sono state ottenute con una gara a monte, cosa che non vale per molte concessioni italiane, frutto invece di semplici acquisizioni. Nè dice che le proroghe delle concessioni francesi sarebbero mediamente di 2 anni e 11 mesi, mentre da noi si andrebbe ben oltre.
I gestori italiani hanno presentato tre domande, sottoposte al vaglio dell’Ue.
Mentre non è nota la proroga della concessione delle Autovie Venete, impegnate a un miliardo e mezzo di investimenti, per le sette concessioni del gruppo Gavio sarebbe in media di 16 anni a fronte di 5,2 miliardi di investimenti.
Per l’Autobrennero l’allungamento risulterebbe addirittura di 20 anni, con 3 miliardi di lavori.
Gli appalti esterni
Non bastasse la presa di posizione di Cantone, ecco l’uscita di scena dello stesso Lupi a rendere lo scenario ancora più fluido.
Al punto che ogni pronostico sulla sopravvivenza di quella proroga automatica è ora assai difficile.
Per non parlare della nuova offensiva dei costruttori contro i gestori. Ai parlamentari che lo convocano in audizione, il presidente dell’Ance Paolo Buzzetti porta un documento ustionante di 23 pagine.
Lì si ricorda che nel 2009, quando al governo c’era Silvio Berlusconi e alle Infrastrutture Altero Matteoli, passò la regola che consentiva ai concessionari di realizzare il 60% dei lavori «in house», cioè usando esclusivamente le proprie aziende.
La motivazione fu che era necessario garantire gli investimenti previsti dalle convenzioni. Peccato però, sostiene l’Ance, che da allora quegli investimenti sono stati realizzati solo per poco più di tre quarti: 78%.
La prova? I dati secondo cui gli appalti esterni dei concessionari autostradali sarebbero diminuiti da un miliardo 403,3 milioni del biennio 2007-2208 ad appena 119,8 milioni nel periodo 2013-2014.
L’esposto dell’Ance
L’Ance cita il caso Pavimental, controllata del gruppo Atlantia-Autostrade, che grazie ai lavori in house ha avuto dalla casa madre commesse per 1 miliardo e 133 milioni in cinque anni, scalando la classifica delle maggiori imprese italiane fino al posto numero 12.
Spiegazione dell’amministratore delegato di Autostrade, Giovanni Castelucci: «Con Pavimental i tempi medi di esecuzione sono stati di tre anni, con soggetti terzi da cinque a nove anni. L’Ance ci chiede di rivolgerci a Pavimental perchè così i subappaltatori vengono pagati».
Ma se le imprese terze toccano poche palle, fa capire il documento dei costruttori, i concessionari autostradali guadagnano due volte.
La prima con le tariffe, la seconda con i lavori assegnati a se stessi.
Cosa che ha indotto l’Ance a presentare un esposto europeo nei confronti della Società autostrada tirrenica, concessionaria (grazie a ripetute proroghe) fino al 2046 della Civitavecchia-Livorno, che sta realizzando in house il tratto fra Civitavecchia e Tarquinia: fino a tre anni fa controllata da Autostrade, ora metà del capitale è controllato dal gruppo Caltagirone e dalle coop.
Da 13 anni è presieduta da Antonio Bargone, ex sottosegretario ai Lavori pubblici con Prodi, D’Alema e Amato.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Aprile 17th, 2015 Riccardo Fucile
A ISERNIA PIU’ JAGUAR CHE RICCHI… ROLLS ROYCE E MASERATI SMASCHERANO OLBIA, MENTRE SONDRIO E’ PIU’ SFARZOSA DELLA MILANO DELLA MODA
La crisi mi azzanna, le tasse mi strozzano, ma non toccate il mio Suv.
Nell’Italia dei redditi dichiarati, dove intere zone del Paese galleggiano appena al di sopra della sopravvivenza, ci sono contribuenti che non sembrano poter rinunciare ad avere un bel po’ di cavalli sotto il sedile.
Bolidi e berline di lusso sfrecciano anche in paesini depressi, dove le case cadono a pezzi e il tasso di disoccupazione è un’emergenza cronica.
Passione per i motori? Teste di legno? Qualcosa non quadra.
Guardiamo le denunce dei redditi del 2013.
Dal recente documento del Dipartimento delle Finanze emerge la solita Italia a due velocità : il Sud denuncia una media per contribuente che è la metà di quella del Nord. Nulla di nuovo.
Ora proviamo a disegnare un’altra Italia: quella delle auto di grossa cilindrata. Abbiamo preso la percentuale di quelle che superano i 2000 cc rispetto all’intero parco auto di quella provincia (dati Aci).
Ora proviamo un esperimento un po’ ardito.
Abbiamo messo a confronto la media dei redditi con la percentuale di auto di grossa cilindrata.
In teoria dovrebbero coincidere: a guadagni più alti dovrebbero corrispondere autovetture più lussuose. E invece: sorpresa. Non è così.
Torniamo a disegnare la nostra Italia prendendo questi nuovi dati.
Ci sono zone del Paese come il Nord Est (ma solo una parte), il nord della Puglia, la Basilicata, una bella fetta di Calabria, il sud della Sicilia e il nord della Sardegna dove, a fronte di redditi dichiarati (a volte infimi) il numero di belle auto è sproporzionato. Altre zone, normalmente considerate ricche, come il Nord Ovest, gran parte della Toscana e il Lazio, hanno un parco auto decisamente modesto per quel che dichiarano. Vediamo nel dettaglio alcune realtà .
CROTONE BATTE L’ASTIGIANO DEI VINI DOC
Nella provincia di Crotone la depressione è da sempre una piaga. Le amministrazioni fanno ponti d’oro anche al piccolo supermercato o al call center perchè anche il lavoro che in altre realtà viene considerato sottopagato, qui è una manna.
Un lavoratore della provincia di Crotone denuncia una media di poco più di 13.000 euro l’anno, il più basso d’Italia.
Eppure in questa zona la percentuale di auto di grossa cilindrata supera quella della ricca Asti: il 7% contro il 6,5%.
Solo 132 contribuenti denunciano di guadagnare oltre i 120.000 euro. Ma ci sono 357 autovetture che superano i 3000 cc.
Com’è possibile?
Ci sono altre realtà come Crotone. Se costruiamo un grafico che riporti da una parte il reddito medio dichiarato e dall’altra la percentuale di macchinoni sulle auto totali della provincia, scopriamo tutta una fascia di cittadine che rappresentano un’anomalia.
A ISERNIA PIU’ JAGUAR CHE RICCHI
A Isernia risultano immatricolate 60.463 auto.
Ma nonostante i 14mila euro di reddito medio, le utilitarie sono appena un quinto. Girano però 1506 auto sopra i 2500 cc. I contribuenti più ricchi (quelli che dichiarano oltre 120.000 euro l’anno) sono appena 125. Meno delle sole Jaguar immatricolate: 133.
LA ROLLS E GLI ARANCI
La Sardegna vive un conflitto curioso. Sono gli abitanti della provincia di Cagliari, nel Sud, i più ricchi.
Ma è nella provincia di Olbia Tempio che si vedono più auto lussuose. Dalle parti del Golfo degli Aranci è possibile imbattersi in una Rolls Royce, 137 Porsche, 22 Ferrari e 24 Maserati.
È SONDRIO LA CAPITALE DEI BAUSCIA
Milano è la più ricca provincia d’Italia. Il dato non stupisce: con i suoi 25.704 euro di media stacca di gran lunga tutte le altre province.
Nella vicina Sondrio guadagnano un terzo di meno. Eppure qui ci sono più auto che superano i 2000 di cilindrata (il 9,24% del parco auto) rispetto a Milano (8,72%).
ALTO ADIGE. FORSE TROPPO
La provincia di Bolzano è l’unica dove oltre un’auto su dieci ha una grossa cilindrata. Sono tante persino per una provincia ricca, dove i contribuenti dichiarano oltre 120.000 euro l’anno.
Sotto le Dolomiti sfrecciano quattro Corvette, 295 Jaguar, 6 Lamborghini, 20 Rolls Royce, 1153 Porsche, 114 Maserati, 126 Ferrari. Ci sono anche 9 Morgan.
E dire che solo l’1% dei contribuenti dichiara di guadagnare più di 10.000 euro al mese.
NELLA TERRA DI MONSU’ TRAVET
Ci sono anche degli italiani sobri. Torino è la capitale delle Ferrari. Ce ne sono 690 immatricolate in provincia, eppure è una delle zone più parche del Paese.
Un torinese denuncia in media poco più di 21.000 euro. Con quei soldi, guardando l’andamento delle altre province, dovrebbe vantare almeno il 9% delle auto di grossa cilindrata. Invece si ferma al 5,70.
Così succede ad altre province come Genova, Bologna, Roma, Monza e Brianza.
Un effetto probabilmente dovuto al fatto che nelle grandi città si trovano anche grandissimi contribuenti, che guadagnano cifre enormi e portano in alto la media dei redditi denunciati. La loro popolazione, però, non guadagna così, nella realtà .
NAPOLI LOW PROFILE
Curioso è il caso di Napoli. Con i suoi 16.793 euro di media non naviga in buone acque.
Ma nemmeno così disastrose da giustificare la sua posizione nella classifica delle province con le auto più lussuose: è ultima.
Con i redditi denunciati supera tranquillamente altre 24 province. Ma forse girare per le strade partenopee con una delle 14 Lamborghini o delle 650 Maserati immatricolate è un rischio troppo alto.
Meglio scegliere qualcosa più discreto: il 96% delle autovetture è sotto i 2000 cc.
Raphaà«l Zanotti
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 17th, 2015 Riccardo Fucile
ALL’AEROPORTO DI BRESSO VEIVOLI INCUSTODITI SULLA PISTA, FACILE COMPIERE UN’ATTENTATO…FALLE NELLA VIGILANZA, AFFIDATA A SOCIETA’ CHE NEI TEST HANNO LASCIATO PASSARE BOMBE E ARMI… LAVORATORI CHE SCAVALCANO RETI SENZA CONTROLLI
Si può rubare un aereo e arrivare sull’Expo in tre minuti.
Basta andare a Bresso, il terzo aeroporto di Milano, dove i velivoli restano incustoditi sulla pista. Tre minuti di volo soltanto.
Ma un terrorista, manovrando senza regole e alla massima velocità , impiegherebbe anche meno.
Fabrizio Gatti, nell’inchiesta choc sulle falle nella sicurezza del grande evento, in edicola con L’Espresso, dimostra come sarebbe facile compiere un attentato sull’area dell’Esposizione universale.
Per sei volte il giornalista, armato di telecamera, attraverso i buchi nella rete è entrato nell’aeroporto, che ospita anche una tendopoli di profughi arabi e africani.
E per ore, di giorno o di notte, si è mosso indisturbato tra gli aerei, compreso un bimotore con serbatoi da seicento litri di benzina.
Molto più del tempo necessario a un pilota-kamikaze per scassinare il portellone, mettere in moto e decollare.
Il nostro inviato, seduto alla cloche, ha anche calcolato il tempo di volo che separa la pista di Milano Bresso dal Padiglione Italia: tre minuti e 38 secondi.
L’inchiesta, durata un mese sul campo alla ricerca di tutte le falle intorno a Expo, rivela che il sistema di sicurezza non rispecchia affatto le dichiarazioni ufficiali.
Una questione molto delicata a Milano, dopo la strage del 9 aprile a Palazzo di giustizia.
Il punto debole è proprio il curriculum delle sei imprese alleate che hanno vinto l’appalto da 20 milioni per proteggere i visitatori di Expo.
Una delle sei in servizio all’aeroporto di RyanAir a Orio al Serio, durante i test del 2014 ha più volte fatto passare oltre i varchi di controllo bombe e armi, nascoste nei bagagli a mano.
Un altro dei super manager vincitori con Expo, a capo di una società vicina ai boss della politica, tre mesi fa ha perso la licenza di vigilanza in mezza Puglia per aver lasciato senza protezione le sedi di Inps e Poste Italiane a Taranto, nonostante il contratto pagato dai due enti.
Tutto questo mentre le segnalazioni degli 007 alla polizia parlano di estremisti marocchini e libici addestrati al pilotaggio che potrebbero compiere clamorosi attentati in Europa.
E di undici aerei executive e di linea rubati dagli islamisti all’aeroporto di Tripoli.
L’inchiesta di Gatti, con le foto di Massimo Sestini, mostra anche decine di lavoratori, soprattutto stranieri, mentre scavalcano la recinzione intorno ai padiglioni dell’Expo: un’area già super sorvegliata, almeno a parole
Decine di persone ogni giorno si sottraggono invece a qualunque controllo. Forse sono lavoratori in nero. Ma in queste condizioni aumentano le preoccupazioni per gli apparati di sicurezza dei capi di Stato che verranno in visita a Milano: nessuno per ora può garantire che all’interno dei padiglioni non siano stati introdotti armi o esplosivi per futuri attentati.
Fabrizio Gatti
(da“L’Espresso“)
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Aprile 17th, 2015 Riccardo Fucile
“BERLUSCONI PEDINA DI DELL’UTRI”… “NANIA A CAPO DI UNA LOGGIA MASSONICA”…”DI MATTEO LO VOGLIONO MORTO ANCHE I SERVIZI SEGRETI”
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano? “Portato da Cosa nostra, ma poi gli ha voltato le spalle”. Forza Italia? “Nata per volere dei servizi segreti”. Silvio Berlusconi? “Una pedina nelle mani di Marcello Dell’Utri”. Il pm Nino Di Matteo? “Lo vogliono morto sia Cosa Nostra che i servizi segreti”.
Parola di Carmelo D’Amico, l’ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, oggi diventato l’ultimo super testimone dell’inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra.
È un collaboratore importante D’Amico, un pentito che i pm del pool Stato — mafia considerano altamente credibile. Merito delle confidenze raccolte nei due anni trascorsi in carcere con Nino Rotolo, il boss di Pagliarelli fedelissimo di Bernardo Provenzano.
“Rotolo mi disse che Matteo Messina Denaro non è il capo di Cosa nostra, perchè è il capomandamento di Trapani: ma il capo di Cosa nostra non può essere un trapanese, deve essere palermitano”, è uno dei tanti passaggi della deposizione di D’Amico, ascoltato come testimone dalla corte d’Assise di Palermo che sta processando politici, boss mafiosi ed alti ufficiali dei carabinieri per il patto segreto tra pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra.
Un racconto cominciato con un mea culpa: “Ho commesso almeno una trentina di omicidi, soprattutto per i catanesi dal 1992 in poi: a un ragazzo ho anche tagliato le mani”, ha confessato D’Amico, spiegando di aver deciso di collaborare con la magistratura “dopo la scomunica dei mafiosi di Papa Francesco, quelle parole mi hanno colpito moltissimo”.
L’anatema del pontefice contro i boss è del 21 giugno 2014: da quel momento D’Amico inizia ad aprire il suo personalissimo libro dei ricordi, prima davanti ai pm della dda di Messina, e poi con i magistrati del pool palermitano.
È davanti ai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene che D’Amico mette a verbale tutto quello che ha appreso sui rapporti tra Cosa Nostra e le Istituzioni.
Un racconto pieno di rivelazioni inedite, replicato davanti alla corte d’assise, che coinvolge direttamente il ministro dell’Interno.
“Angelino Alfano — ha spiegato D’Amico collegato in videoconferenza con l’aula bunker del carcere Ucciardone— è stato portato da Cosa nostra che lo ha prima votato ad Agrigento, ma anche dopo. Poi Alfano ha voltato le spalle ai boss facendo leggi come il 41 bis e sulla confisca dei beni”.
Ma non solo. Perchè a godere dell’appoggio delle cosche sarebbe stato anche l’ex presidente del Senato Renato Schifani, già indagato per concorso esterno alla mafia e poi archiviato.
“Cosa nostra ha votato anche Schifani, poi hanno voltato le spalle, e la mafia non ha votato più Forza Italia”.
Per il collaboratore, poi, il partito di Silvio Berlusconi sarebbe nato perchè sostenuto direttamente da Totò Riina e Bernardo Provenzano.
“I boss votavano tutti Forza Italia, perchè Berlusconi era una pedina di Dell’Utri, Riina, Provenzano e dei Servizi. Forza Italia è nata perchè l’hanno voluta loro”.
Poi però il patto tra politica e boss s’interrompe. “All’epoca i politici hanno fatto accordi con Cosa nostra, poi quando hanno visto che tutti i collaboratori di giustizia che sapevano non hanno parlato, si sono messi contro Cosa nostra, facendo leggi speciali, dicendo che volevano distruggere la mafia”.
D’Amico ha anche raccontato che a Barcellona Pozzo di Gotto era attiva una loggia massonica.
“Ne facevano parte uomini d’onore, avvocati e politici, e la comandava il senatore Domenico Nania (ex vice presidente del Senato col Pdl) : a questa apparteneva anche Dell’Utri”.
La fonte dell’ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto è Rotolo, il boss palermitano con il quale condivide tra il 2012 e il 2014 l’ora di socialità .
Rotolo è un pezzo da novanta, ex fedelissimo di Totò Riina e poi di Bernardo Provenzano.
“Mi raccontò che i servizi avevano fatto sparire dal covo di Riina un codice di comunicazione per mettersi in contatto con politici e gli stessi agenti dei servizi”.
Ma il boss di Pagliarelli avrebbe fatto a D’Amico anche confidenze sulla latitanza di Provenzano.
“Mi disse anche che Provenzano era protetto dal Ros e dai Servizi e non si è mai spostato da Palermo, tranne quando andò ad operarsi di tumore alla prostata in Francia”.
Ed è sempre Rotolo che racconta a D’Amico il piano di morte per assassinare Di Matteo.
“Rotolo ne parlava con Vincenzo Galatolo: all’inizio non lo chiamavano per nome, ma lo definivano cane randagio, poi io chiesi di chi parlavano e mi risposero che si trattava di Di Matteo, e che aspettavano da un momento all’altro la notizia dell’attentato”.
Il racconto di D’Amico riscontra implicitamente le rivelazioni di Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, il boss dell’Acquasanta, che per primo ha svelato come a partire dal dicembre del 2012, Cosa Nostra avesse studiato nei dettagli un piano per assassinare il pm della Trattativa.
“Era stabilito che il dottor Di Matteo doveva morire — ha aggiunto D’Amico — Rotolo mi ha raccontato che i servizi segreti volevano morto prima il dottor Antonio Ingroia, poi Di Matteo. E siccome Provenzano non voleva più le bombe, dovevamo morire con un agguato”.
Anche Vito Galatolo ha raccontato che in un primo momento l’attentato contro il pm palermitano doveva essere fatto con 200 chili di tritolo, già acquistati dalla Calabria e arrivati a Palermo.
Poi però si passo ad un piano di riserva, che prevedeva l’eliminazione del magistrato in un agguato a colpi di kalashnikov.
Appena poche settimane fa l’allerta al palazzo di Giustizia è tornata ai massimi livelli, dato che uomini armati sarebbero stati localizzati nei pressi di un circolo tennistico sporadicamente frequentato dal pm.
E se Galatolo aveva indicato in Messina Denaro il mandante dell’omicidio (“Perchè Di Matteo si sta spingendo troppo oltre” aveva scritto il padrino di Castelvetrano ai boss di Palermo) per D’Amico l’ordine arrivava anche da altri ambienti.
“A volere la morte di Di Matteo erano sia Cosa Nostra che i Servizi perchè stava arrivando a svelare i rapporti dei Servizi come fece a suo tempo il dottor Giovanni Falcone”.
E quando ad un certo punto l’attentato sembra essere entrato in fase d’impasse, Rotolo e Vincenzo Galatolo provano ad inviare D’Amico a Palermo.
“Io — ha spiegato il pentito — dovevo uscire da lì a poco dal carcere e si parlava di delegare me per portare avanti questa cosa”.
Il vero chiodo fisso di D’Amico, però, sono i servizi. “Arrivano dappertutto ed è per questo che altri pentiti come Giovanni Brusca e Nino Giuffrè non raccontano tutto quello che sanno sui mandanti esterni delle stragi”.
Alla fine ecco anche una paradossale precisazione. “I servizi organizzano anche finti suicidi in carcere: per questo voglio chiarire che io godo di ottima salute e non ho nessuna intenzione di suicidarmi”.
Giuseppe Pipitone
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 17th, 2015 Riccardo Fucile
ORA CAMBIA IDEA E APRE ALLA MEDIAZIONE, MA PER LUI E LA BOSCHI ERA “UN PALETTO DELLA RIFORMA”
Il Senato non elettivo a qualsiasi costo. Ma anche no.
Dopo più di un anno di polemiche, Matteo Renzi cambia idea nella sala d’aspetto di un aeroporto prima di volare negli Stati Uniti.
Se la minoranza Pd vuole che la seconda camera sia eletta dai cittadini, insomma bastava dirlo.
Quindi: il corteo dal presidente della Repubblica e le barricate; l’approvazione del ddl in Parlamento con le opposizioni fuori dall’Aula; sei mesi di battaglie tra “bene e male” o “tra rottamatori e gufi”; la minoranza Pd che si dimette dalla commissione a Palazzo Madama; lo scontro con il presidente del Senato Pietro Grasso; le direzioni e i voti bulgari in assemblea; Civati che dice che se ne va e poi resta.
Quello era prima. Il presidente del Consiglio dice che se proprio vogliono Palazzo Madama eletto dai cittadini, se lo prendano pure.
Eppure non possiamo averlo sognato: c’è stato un tempo in cui Renzi aveva fatto del Senato non elettivo la sua crociata.
C’è stato un tempo in cui il segretario del Pd diceva che la non eleggibilità del Senato era il “paletto della riforma” e “l’elemento imprescindibile”.
La prima volta che lo ricordiamo aver pronunciato il requiem per Palazzo Madama era il 15 dicembre del 2013.
Segretario Pd da poche settimane, forse già tramava la spallata a Enrico Letta, e intanto annunciava quello che sarebbe stato il suo cavallo di battaglia principale: ”Alla prossima legislatura noi non eleggiamo più 315 senatori, perchè il Senato non deve più avere una funzione elettiva”.
Poi in primavera, quando la discussione era entrata nel vivo, a parlare era stato il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi: “Il testo”, disse il primo marzo 2014, “può essere modificato fermo restando che “l’elemento imprescindibile è che non ci sia l’elezione diretta dei senatori”.
Il primo scontro campale per Renzi era stato con il presidente del Senato il 30 marzo 2014 a poche ore dal Consiglio dei ministri che licenziò il famigerato ddl Boschi: “Il combinato disposto del disegno di legge”, disse Grasso, “con l’Italicum mette a rischio la democrazia”.
Colpi dall’alto che però non fecero cambiare di una virgola la posizione di Renzi. Anzi solo 24 ore dopo si presentò in conferenza stampa per annunciare la grande svolta: “Intendiamo superare il bicameralismo perfetto con quattro paletti per il Senato: no a fiducia, no a voto su bilancio, no elezione diretta per i senatori, no indennità ”.
Punti irrinunciabili e guai a chi li avesse toccati: “Sono molto colpito da questo atteggiamento del presidente Grasso. Io su questa riforma ho messo tutta la mia credibilità ”.
Il leader Pd vantava il sostegno delle migliori occasioni: “E’ noto da tempo che il presidente Giorgio Napolitano ha espresso la sua convinzione in merito”.
No agli “struzzi che mettono la testa sotto la sabbia”, ora “la classe politica rischia insieme ai cittadini”, disse nelle stesse ore a SkyTg24.
Nella crociata renziana contro il Senato elettivo si era messo poi a creare problemi Vannino Chiti con un disegno di legge appoggiato da un gruppo di parlamentari dissidenti.
Erano gli albori dello scontro interno al Pd, che poi non è mai andato molto oltre.
Così il 22 aprile Maria Elena Boschi “proponeva, ma non pretendeva” di ritirare il ddl che nel frattempo le opposizioni (5 Stelle in prima fila) avevano detto di essere pronte a sostenere.
Un invito sottile a fare un passo indietro per “il bene del Paese e dell’intera popolazione”, quasi fosse una scelta solo patriottica, in vista dell’incontro di Renzi con i premier europei: “Se ci presentiamo agli appuntamenti”, diceva a Repubblica la ministra, “avendo approvato la riforma del Senato e del Titolo V, avremo una maggiore credibilità ”.
E lì il pezzo forte della difesa renziana del Senato non elettivo: “Avevo 15 anni quando l’Ulivo mise, nelle sue tesi, l’idea di un Senato non elettivo, sul modello tedesco. Nessuno gridò allo scandalo”.
Mentre in commissione a Palazzo Madama ci si metteva pure Forza Italia (erano ancora i tempi d’oro del patto del Nazareno quando il soccorso azzurro faceva sognare grandi riforme a Renzi) a chiedere il Senato eletto dai cittadini, anche il vicesegretario Lorenzo Guerini scese in campo in difesa del punto irrinunciabile: “Il Pd non è una caserma”, disse al Mattino il 24 aprile, “e la circolazione delle idee è non solo garantita ma auspicabile. Sul Senato che vogliamo per il futuro c’è un’idea molto chiara, risultato di un percorso avvenuto anche all’interno del partito. Questo l’orizzonte a cui facciamo riferimento. Sono certo che l’impianto reggerà ”.
Renzi del resto aveva le idee chiare: una Camera delle Autonomie con rappresentanti di secondo livello è la soluzione imprescindibile.
“Dietro l’eleggibilità diretta del Senato”, disse a “In 1\2 ora” il 27 aprile, “c’è la produzione di ceto politico”.
Non ci credevano tutti dentro il partito, tanto che a giugno i dissidenti lasciarono la commissione a Palazzo Madama in aperta polemica.
Dettagli sulla strada del cambiamento e che in nome del dopo il presidente del Consiglio si limitò a digerire con fastidio: “Trovo davvero sorprendente che tutte le volte che c’è il tentativo di fare una battaglia in Europa sostenendo le riforme in cambio della flessibilità , uno prende l’aereo e non fa tempo ad atterrare che emerge che c’è parte del suo partito, ancorchè minoritaria che riapre discussioni che sembravano chiuse. Il compromesso raggiunto è il migliore possibile”.
Ma quello era solo l’inizio dell’estate di fuoco con Palazzo Madama pronto alle barricate.
Così il 30 luglio 2014, a pochi giorni dal primo sì in Senato al ddl Boschi Renzi diceva: “Approveremo tutto in prima lettura, nonostante le urla e gli insulti. Faremo le riforme a ogni costo: non sono il capriccio di un premier autoritario. Ma l’unica strada per far uscire l’Italia dalla conservazione, dalla palude, dalla stagnazione che prima di essere economica rischia di essere concettuale. Io non lo lascio il futuro ai rassegnati”. Seguì l’approvazione del ddl Boschi a Palazzo Madama, poi alla Camera.
E in entrambi casi con uno scontro con le opposizioni arrivato allo stremo.
Renzi ora a sorpresa cambia tutto per vincolare un appoggio alla legge elettorale e forse salvarsi dai sondaggi sempre più in calo.
Resta da capire come farlo tecnicamente e se il gioco dell’oca deve ripartire da zero. Ma il come, ancora una volta, sembra essere un dettaglio.
Martina Castigliani
(da “il Fatto Quotidiano”)
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