Aprile 8th, 2015 Riccardo Fucile
VERDINI STA GIA’ SOSTENENDO IL GOVERNO CON ASSENZE DEI SENATORI, BONDI E RAPETTI CON LUI… I FITTIANI PUGLIESI: “SILVIO PENSA DI PRENDERCI PER IL CULO, MA STAVOLTA GLI FACCIAMO MALE, FORZA ITALIA NON ENTRERA’ NEANCHE IN REGIONE”
Ignazio Abrignani, verdiniano di ferro, morde uno spicchio di arancia alla bouvette. Parlando con un collega, dice: “Il gruppo parlamentare di Verdini? Lo potremmo chiamare ‘l’ultima spiaggia’, anzi in inglese the last beach”.
Pochi metri più in là i parlamentari pugliesi, sempre in gruppo: “Sulla Puglia Berlusconi ci sta prendendo per il culo, ora esce con una nota Schittulli e manda al diavolo Vitali, l’offerta è un bluff. A questo giro a Berlusconi gli facciamo male, Forza Italia non entrerà nemmeno in consiglio regionale”.
Montecitorio pare un set, dove si proietta il film Big Bang Forza Italia.
L’esplosione è in atto, anche se il botto, quello fragoroso si sentirà dopo le regionali. Silvio Berlusconi, ancora a Villa Certosa a godersi il tepore dell’inizio della primavera, non controlla davvero più nulla.
Quelli attorno proiettano il classico film d’essai che racconta di un ex premier che si sta rimettendo in forma, dieta con molti liquidi ed esercizio fisico, perchè si è reso conto che, alle regionali, dovrà impegnarsi un po’, compatibilmente con la resistenza fisica per evitare, appunto, il big bang.
La prima uscita dovrebbe essere a Napoli, unica regione dove se la gioca un candidato governatore azzurro.
E raccontano un ottimismo degno dell’Istituto Luce: “Con Berlusconi in campo possiamo perdere bene, 4 a 3, perchè il Veneto è sicuro, la Campania è aperta e in Liguria i bersaniani giocano a far perdere la Paita per sferrare un colpo a Renzi”.
In verità , nessuno ci crede.
Ecco che Verdini da giorni ha preso il pallottoliere per contare le sue truppe: “Al suo segnale, dopo le regionali, scateniamo l’inferno”.
Da mesi una quindicina dei suoi al Senato si muove come se fosse al governo, tra voti di fiducia e assenze “tattiche” per evitare che Renzi vada sotto, l’ultima oggi con dieci assenti.
Ora però Denis è al lavoro per creare un gruppo con “dei nuovi senatori”: oltre a quelli che danno al governo il sostegno occulto è all’opera per un gruppo che dia il sostegno palese.
Una fonte a conoscenza delle sue liste racconta: “Di nuovi ne ha sei, compresi la Repetti e Bondi, con cui si sente quotidianamente. Gli altri quattro arriveranno col Big bang di Forza Italia, ma c’è anche qualche grillino interessato”.
Pare anche che Verdini avesse suggerito a Bondi di non uscire subito, ma di far coincidere il suo abbandono di Forza Italia con il disastro delle regionali, ma l’ex coordinatore non ha retto più.
Sia come sia i “dieci nuovi” oltre a quelli rastrellati finora servono a ad avere maggiore potere contrattuale con Renzi e Lotti, portando un valore aggiunto rispetto a quello attuale.
Un azzurro di rango, che ha sentito l’ex premier in Sardegna, fotografa così la situazione: “Berlusconi ormai considera irrecuperabile il centrodestra, quindi liquida Forza Italia e al prossimo giro porterà una trentina di ragazzi in Parlamento che non rompano le scatole e spingano i bottoni”.
Il terreno lo ha preparato con la circolare della Rossi, da lui letta e benedetta, sul limite dei mandati.
Nel frattempo è partito il reclutamento della Silviojugend, che già si sta facendo le ossa nei talk show come l’agguerrita Silvia Sardone, protagonista di una durissima polemica con Romani e Gasparri.
In questa inarrestabile marcia verso il big bang, la saga pugliese si arricchisce di un nuovo episodio.
Col coordinatore regionale, spedito da Berlusconi a sterminare i fittiani, che dichiara che “tutto il gruppo consiliare uscente sarà ricandidato”.
Pare un’apertura a Fitto, in verità è un bluff perchè il problema non sono gli uscenti ma gli “entranti”, esponenti della politica e della società civile che Fitto vorrebbe inserire nelle liste e su cui resta un veto.
Ecco che la risposta alla finta apertura arriva da tal Bellomo, uomo del candidato Schittulli: “In questo momento è evidente che Forza Italia si è volontariamente esclusa dalla coalizione che sostiene Schittulli”.
Se corre da sola l’otto per cento è a rischio.
E con esso la possibilità di eleggere un solo consigliere regionale.
Il big bang, appunto.
(da “Huffingtonpost“)
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Aprile 8th, 2015 Riccardo Fucile
DA DEPUTATA A TEMUTA CAPOSTAFF E LIQUIDATRICE DEL PARTITO
Come ha fatto la senatrice Mariarosaria Rossi, 43 anni, da Piedimonte Matese, a diventare così potente, così temuta?
Com’è riuscita a mandare in frantumi il famoso cerchio magico berlusconiano, lasciando a Deborah Bergamini il compito di trattare con la stampa e a Francesca Pascale (quando c’è, se c’è) quello di fidanzata ufficiale?
Andiamo con ordine: la donna che è, contemporaneamente, capo dello staff del Cavaliere e amministratrice straordinaria di Forza Italia, dovete provare a immaginarvela seduta su un divano di Palazzo Grazioli, i suoi tre telefonini sul tavolino, l’agenda in mano, Dudù che le lecca la caviglia, considerandola ormai una seconda padrona.
Perchè ovunque c’è Silvio Berlusconi, c’è lei.
E chiunque voglia parlare con lui, deve prima chiedere il permesso a lei.
Capi e capetti la implorano. «Dai, ti prego, un minutino…». Lei valuta, concede, nega. Ormai nega sempre più spesso.
«Non c’è». «Non può». «Con te poi non vuol proprio parlare». «Tu sei un nostro nemico». «Tu forse non hai capito chi comanda». «Dai, chiamami domattina che forse ti ci faccio parlare».
Unica sacerdotessa di ciò che resta del tempio.
Piccola di corporatura, «però ammetto di essere ossessionata dai fotografi che vogliono inquadrare sempre il mio seno», abiti eleganti, «anche se quella elegante da morire è la Santanchè», separata, un figlio, vince un seggio per Forza Italia nel 2008 in un popoloso quartiere romano dov’era diventata la «Madonnina di Cinecittà » (aveva tappezzato tutti i muri con i suoi poster): diploma di istituto tecnico commerciale, a lungo animatrice nei locali notturni romani. Esperienza che poi le torna utile.
È stato scritto che lei ha organizzato «feste e balli» per Berlusconi nel castello di Tor Crescenza.
«Niente balli, due cene politiche con le deputate. Tutto è nato nelle ore della rottura con Fini. Eravamo nella sala del governo e il premier aveva la faccia scura. Così ho radunato un gruppone di venti deputate e siamo andate a tirarlo su di morale»).
Scaltra, diplomatica, cinica, determinata.
Angelino Alfano capisce che tipo è quando, nel 2013, prova a fare le primarie. Berlusconi un pomeriggio lo gela: «Mariarosaria ha messo in piedi un bellissimo call-center: dai retta a me, Angelino, facciamo fare a lei».
Adesso fa proprio tutto lei.
L’altro giorno ha spedito una lettera ai comitati regionali.
Dentro, l’indicazione di favorire nelle liste elettorali i giovani e garantire la parità di genere: «over 65» ammessi solo in casi eccezionali e se in regola con il versamento delle quote al partito.
Dura e definitiva. E sola. Solissima a decidere insieme al capo (così un verdiniano, che pure implora di restare nell’anonimato, ricorda quando le ultime liste elettorali di FI, nel 2008, furono stilate «da un comitato composto da Bondi, Cicchitto, Verdini, Schifani, Scajola, Gelmini e Crimi»).
Il problema (per tutti) è che ormai il capo si fida solo di lei. E se è vero, come numerosi osservatori ipotizzano, che Berlusconi ha in mente di chiudere FI e creare un nuovo soggetto politico, la sensazione è che a lei sia stato affidato l’incarico di liquidare il partito.
Che sta chiudendo plasticamente: 43 impiegati in cassa integrazione (e sembra sia persino stata sbagliata la procedura), già disdetto l’affitto della sede di piazza San Lorenzo in Lucina, al centralino – da giorni – non risponde più nessuno (provare chiamando allo 06-67311).
Sì, decide tutto lei. E quando parla anche i falchi soffrono di vertigini. «Verdini, poverino, pensa solo a sopravvivere politicamente. Quando a Fitto, mah: parla come se stesse già fuori dal partito».
Ha sempre avuto il dono della sintesi.
(da “il Corriere della Sera“)
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Aprile 8th, 2015 Riccardo Fucile
IL POLITOLOGO CAMPI: “RESTANO SOLO POTENTATI E CONSENSI PERSONALI”
Se perdi una puntata rischi di non capirci più nulla.
Le Regionali 2015 sono un tale intreccio di alleanze e spaccature – tra i partiti, ma soprattutto dentro ai singoli partiti – da mettere a dura prova la buona volontà di informarsi degli elettori.
Si vota domenica 31 maggio in sette Regioni (e anche in 1.089 Comuni) per un totale di circa 17 milioni di italiani chiamati alle urne.
A meno di due mesi dall’election day «il dato più significativo – secondo Alessandro Campi, che insegna Storia del pensiero politico all’Università di Perugia – è l’estrema difficoltà con cui sono stati trovati i candidati, le guerre in corso per definire le liste: ci dicono molto sul cattivo stato della politica in Italia».
Il quadro, con l’«estrema difficoltà » di cui parla il professor Campi, si è quasi composto: il Pd, che a Roma governa con Alleanza popolare (Ncd+Udc), non ripropone la stessa formula sul territorio.
Ma nemmeno l’alleanza con Sel, il vecchio centrosinistra, è in buona salute: in Liguria, Toscana, Marche e Campania i vendoliani avranno un loro candidato.
Al partito «a vocazione maggioritaria» guidato da Matteo Renzi giocarsi da solo la partita non dispiace e il cuore della sfida a sinistra sarà in Liguria.
Dopo primarie contestate e l’addio polemico di Sergio Cofferati, un parlamentare (Luca Pastorino) ha lasciato il Pd per correre contro la candidata del Pd (Raffaella Paita). Mai visto.
Forza Italia e Lega, dopo settimane di tentennamenti, hanno quindi deciso di giocare nella regione la carta di Giovanni Toti, consigliere politico di Berlusconi.
Per il centrodestra il caso simbolo è il Veneto. Qui è stata la Lega a spaccarsi, da una parte il governatore uscente Luca Zaia, dall’altro il sindaco di Verona Flavio Tosi.
In mezzo Alessandra Moretti, Pd, che tenta il colpaccio in una regione da sempre «impossibile» per la sinistra.
Mai visto anche qui, se poi si aggiunge che ieri l’ex ministro di FI Raffaele Fitto ha ipotizzato di sostenere Tosi mentre il suo partito corre per Zaia.
Liguria e Veneto sono solo i casi più eclatanti dei tanti «inediti» di queste Regionali: in Campania ci sono i dissidenti di FI che si dicono pronti a sostenere Vincenzo De Luca (Pd), nelle Marche c’è un governatore uscente ex Pd (Gian Mario Spacca) che si ripresenta con il sostegno del centrodestra, in Puglia ci sono gli esponenti di Ncd che avevano lasciato Forza Italia proprio per non stare con Fitto, e che ora si ritrovano insieme a Fitto a sostenere il candidato del centrodestra Francesco Schittulli.
«La verità – dice Alessandro Campi – è che i partiti non sono più in grado di tenere sotto controllo gli apparati a livello locale. Ciò che succede in periferia ormai sfugge perfino al Pd, che è il partito più strutturato».
Una volta non era così: «Il legame con la politica nazionale era molto più stretto, ma negli ultimi tre-quattro anni è cambiato tutto. A livello locale contano solo i gruppi di potere, spesso sono trasversali e il personale politico passa da una parte all’altra: è una specie di neo feudalesimo, un livello di disgregazione inimmaginabile, basta vedere cosa è successo dentro al Pd romano».
Eppure non molti anni fa chi perdeva le Regionali (Massimo D’Alema nel 2000) o addirittura ne perdeva una sola (Walter Veltroni nel 2009 con la Sardegna) si dimetteva da premier: «Anche se è passato poco tempo, quella era un’altra Italia: centrosinistra e centrodestra erano fronti compatti, con differenze politiche riconoscibili. I partiti erano già deboli, ma ora – sostiene Campi – siamo alla conclusione di un processo: restano solo potentati locali e consensi personali. E i politici sul territorio spesso usano i referenti nazionali come se fosse un franchising : se uno si dice “fittiano” in Liguria o in Veneto, per esempio, lo fa solo per posizionarsi dentro a un partito».
A mano a mano che le urne si avvicinano, la posta in palio diventerà più chiara anche a livello nazionale: il Pd farà l’en plein o il centrodestra riuscirà a vincere in qualche regione?
E i Cinquestelle avranno ancora risultati in doppia cifra?
«Alla fine una lettura nazionale ci sarà – conclude Campi. Ma sarà meglio che, dopo le Regionali, i partiti affrontino seriamente questa deriva preoccupante che ha preso la politica locale».
Massimo Rebotti
(da “il Corriere della Sera“)
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Aprile 8th, 2015 Riccardo Fucile
LEGGI E LEGGINE, MA I DIRITTI UMANI MAI
Tirata d’orecchie da parte della Corte di Strasburgo. Non è la prima volta, non sarà neppure l’ultima.
Ormai abbiamo le orecchie rosse come chi soffra d’un febbrone permanente.
In questo caso dipende dai fatti (o meglio dai misfatti) della Diaz: 63 feriti, 125 poliziotti sott’accusa. Significa che anche in Italia pratichiamo (di rado, e meno male) la tortura; però non c’è il reato, sicchè l’Europa mette sott’accusa il nostro ordinamento.
Ma per l’appunto l’accusato è recidivo e per una lunga serie di delitti.
Qualche esempio, pescando un po’ a casaccio.
I nostri processi durano più di un’era geologica; dal 1999 la Corte europea dei diritti dell’uomo ci bastona, perfino con 24 sentenze di condanna pronunziate in un solo giorno (16 gennaio 2001).
Nel febbraio 2012 la medesima Corte ci ha punito per i respingimenti in mare verso la Libia (15 mila euro a ciascuno dei 22 migranti che s’erano appellati).
Nel gennaio 2014 ha stabilito il diritto d’attribuire ai figli il solo cognome della madre, formulando anche in quel caso l’esigenza di correggere la legislazione italiana. Nell’agosto 2000 fu la volta degli sfratti decretati e mai eseguiti: 69 milioni di vecchie lirette pagate dallo Stato italiano a un cittadino, che da 10 anni cercava invano di rimettere piede nel proprio appartamento.
Un precedente poi bissato nel 2003, questa volta a beneficio di un’anziana signora in attesa da 14 anni.
È tutto? No, è soltanto il frontespizio del librone dei nostri peccati.
Nell’ottobre 2008 la Corte di Strasburgo verga l’ennesima sentenza di condanna: 80 mila euro a un padre accusato ingiustamente, cui per 10 anni le autorità italiane avevano impedito di rivedere la figlia.
Nel novembre 2014 un’altra randellata, stavolta perchè il nostro Paese non offre sufficienti garanzie per i rifugiati.
Infine la celebre sentenza contro il sovraffollamento carcerario (gennaio 2013: 100 mila euro a sette detenuti stipati in celle con meno di 3 metri quadrati a testa), cui seguì l’altrettanto celebre messaggio di Napolitano al Parlamento.
Senza dire degli interventi firmati da altri giudici europei: per esempio dalla Corte di giustizia, che nell’aprile 2011 bocciò sonoramente il reato di clandestinità , introdotto due anni prima nel «pacchetto sicurezza».
O senza citare i moniti dettati dallo stesso Parlamento dell’Unione: nel luglio 2001 si pronunziò a favore del rientro dei Savoia, in nome della libertà di circolazione.
Diciamolo: non va affatto bene.
Le nostre orecchie rosse sono anche orecchie d’asino e per sovrapprezzo a bocciarci è un giudice straniero.
Inoltre la bocciatura costa, in quattrini oltre che in reputazione. E le sentenze della Corte di Strasburgo sono direttamente vincolanti per gli Stati.
Noi invece, per lo più, preferiamo svicolare. Oppure le traduciamo in chiacchiere di carta, usando la carta delle Gazzette ufficiali.
Per esempio rispetto alla ragionevole durata dei processi: nel 1999 l’abbiamo iscritta nell’art. 111 della Costituzione, ma l’anno dopo il tempo medio dei giudizi penali è lievitato da 1451 a 1490 giorni.
O altrimenti rispetto al sovraffollamento nelle carceri: una leggina addosso all’altra, però ospitiamo ancora 4.000 detenuti di troppo.
E la tortura, che ci ha fatto guadagnare l’ultima medaglia?
Nel 1955 abbiamo ratificato la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (che ne prescrive il divieto), nel 1988 la Convenzione contro la tortura.
Ma ogni ratifica rimane per aria, come un prosciutto appeso al soffitto.
Papa Francesco ha introdotto nuove figure criminose per contrastare il genocidio e l’apartheid, noi ci teniamo sul groppone il codice Rocco del 1930, firmato dal Guardasigilli di Benito Mussolini.
Intanto il reato di tortura giace da due anni in Parlamento e forse è pure meglio che riposi in pace. Venne già risvegliato il 22 aprile 2004, quando la Camera approvò un emendamento della Lega Nord.
Con quali contenuti? Stabilendo che è vietato torturare per due volte, ma una volta sola no.
Da qui la conclusione: diamoci una mossa.
Il nostro ritardo sul fronte dei diritti non è certo colpa del governo in carica; prima di Renzi ritardava Letta, e Monti, e Berlusconi.
Però l’esecutivo Renzi marcia con passo da bersagliere e tutti gli italiani dietro col fiatone.
Ecco, se il bersaglio del bersagliere diventassero i diritti civili, saremmo tutti più contenti di sudare.
Michele Ainis
(da “il Corriere della Sera“)
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Aprile 8th, 2015 Riccardo Fucile
TUTTO COME PREVISTO: PREFERITI TRE COLLEGHI MENO NOTI E CON MENO ESPERIENZA
Magistrato simbolo della lotta antimafia, pubblica accusa nel processo per la trattativa Stato-mafia ma Nino Di Matteo non andrà alla procura nazionale antimafia.
Il Csm ha bocciato la sua domanda al concorso per la copertura di tre posti alla procura nazionale antimafia.
Il plenum gli ha preferito tre colleghi meno noti, tra cui Eugenia Pontassuglia, pm del processo di Bari sulle escort che frequentavano le residenze di Silvio Berlusconi.
La decisione è stata presa a maggioranza.
Oltre a Pontassuglia, gli altri nuovi sostituti della Procura guidata da Franco Roberti sono il sostituto procuratore napoletano Marco Del Gaudio, pm del processo all’ex presidente di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini e il sostituto Pg di Catanzaro Salvatore Dolce, titolare di diverse inchieste sulle cosche calabresi.
A Di Matteo sono andati 5 voti, contro i 16 attribuiti agli tre magistrati scelti.
Un anno fa Di Matteo aveva chiesto al Consiglio superiore della magistratura di passare alla procura nazionale antimafia di Franco Roberti. “Da parte mia non c’è alcuna intenzione di lasciare il lavoro cominciato. È solo una domanda come tante altre che ho fatte nel corso della mia carriera — aveva detto Di Matteo al fattoquotidiano.it —. Se dovesse essere accolta non vuol dire che dovrei abbandonare la indagini sulla Trattativa, dato che esiste la possibilità di applicare i magistrati in servizio alla Dna alle inchieste che conducevano in precedenza”.
Ma per il magistrato, più volte minacciato dal boss Totò Riina e sottoposto al livello più alto di scorta, non ci sarà questo problema.
Per Di Matteo sembravano essersi riaperti i giochi, l’11 marzo scorso, dopo l’esclusione dalla terna indicata dalla Terza Commissione del Csm di qualche giorno prima, grazie alla proposta alternativa presentata dal togato Aldo Morgigni, di Autonomia e Indipendenza.
Non era invece passata la richiesta del togato di Area Piergiorgio Morosini — che è stato il gup del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia in cui Di Matteo è pubblico ministero — di far tornare la pratica in Commissione per un “supplemento di riflessione”, finalizzato a valutare se la posizione del magistrato fosse stata “adeguatamente considerata”.
Il tutto nell’obiettivo di arrivare a una “soluzione condivisa”.
Il 17 marzo poi la Terza Commissione aveva proposto a Di Matteo il trasferimento ad altra sede per ragioni di sicurezza.
Ma il magistrato aveva risposto che preferiva aspettare l’esito di alcuni concorsi per i quali aveva presentato domanda per uno dei tre posti di sostituto alla procura nazionale.
Il plenum ha approvato con 16 voti la delibera di maggioranza della Terza commissione. Bocciata con 5 voti la proposta di minoranza, presentata da Morgigni, che rimetteva in corsa Di Matteo, insieme con Pontassuglia e Dolce, escludendo Del Gaudio.
Quattro sono stati gli astenuti.
Morgigni, illustrando la sua proposta, aveva definito Di Matteo “il magistrato con maggiore esperienza in attività antimafia“.
I due relatori della delibera approvata, i togati Massimo Forciniti (Unicost) e Valerio Fracassi (Area) hanno difeso i criteri di scelta della commissione, “una sintesi complessiva di vari profili: la conoscenza del fenomeno criminale, il lavoro di gruppo, i rapporti con altre strutture” e la necessità “di rispettare le esigenze dell’ufficio, che è quella di creare una squadra”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 8th, 2015 Riccardo Fucile
“IL SUO UNICO OBIETTIVO SEMBRA ESSERE FERIRMI, MA COSI’ E’ UN COLPO ALL’INTERO MOVIMENTO”
“Jean-Marie Le Pen sembra essere entrato in una spirale di terra bruciata e suicidio politico”. Lo ha scritto Marine Le Pen, figlia e leader del Front National, in una nota, annunciando che si opporrà alla candidatura del padre come presidente della regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra (Paca) alle elezioni regionali in programma per il prossimo mese di dicembre.
“E’ una crisi senza precedenti — dice la Le Pen a Le Monde – il suo obiettivo è nuocermi”.
La nota della leader del partito francese prosegue: “Lo status di presidente onorario non consente a Jean-Marie Le Pen di prendere in ostaggio il Front National con provocazioni il cui unico obiettivo sembra essere ferire me, ma sfortunatamente sono un colpo all’intero movimento, ai suoi quadri, ai suoi candidati, ai suoi sostenitori, ai suoi elettori”.
Le provocazioni a cui la presidente del partito di estrema destra francese — fondato dallo stesso genitore — fa riferimento sono le parole dell’anziano leader — in un’intervista al giornale Rivarol – in difesa del maresciallo Philippe Petain, alla guida della Francia collaborazionista con i nazisti durante la seconda guerra mondiale.
Nella stessa intervista Le Pen ha attaccato le origini straniere del primo ministro Manuel Valls – nato in Spagna e nazionalizzato all’età di 20 anni — e di altri dirigenti politici: “Siamo diretti da immigrati”, ha commentato.
È giunta prontamento la risposta di Jean-Marie Le Pen, 86 anni, che ai microfoni della radio RTL ha commentato la definitiva rottura con la figlia: “Madame Le Pen deve porsi la questione di sapere se quello che fa è utile agli interessi che pretende di servire”.
La notizia è stata inizialmente data dall’emittente francese Bfm Tv, sottolineando che la La Pen non obietterà alla presenza del padre sulla lista del partito.
La decisione sarà ratificata il prossimo 17 aprile nel corso del direttivo del partito. Sulla questione si è espresso Florian Philippot, vicepresidente del Front National, che su Twitter ha commentato: “La rottura politica con Jean-Marie Le Pen è ormai totale e definitiva. Sotto la guida di Marine Le Pen saranno prese rapidamente delle decisioni”.
Dalla parte di Marine Le Pen si è schierato anche il deputato Gilbert Collard: “Non abbiamo più niente a vedere con tutto quel che dice Jean-Marie. Io sarei felice se non fosse più presidente onorario del partito. Dovrebbe ormai entrare al museo delle cere”.
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Aprile 8th, 2015 Riccardo Fucile
NEL 2009 FU IL MINISTRO DEGLI INTERNI MARONI A STANZIARE 60 MILIONI E A DEFINIRLO “UN MODELLO DA ESPORTARE IN TUTTA EUROPA”…MA FORSE SALVINI ERA CHIUSO AL CESSO IN VIA BELLERIO
Prima dell’avvento di Matteo Salvini, prima delle copertine a torso nudo e soprattutto prima che le tensioni sociali e gli scandali colpissero il Comune di Roma, c’era una Lega che finanziava con convinzione la costruzione di nuovi campi nomadi.
E non era tanto tempo fa.
Maggio 2008. Appena preso il Comune di Roma, Gianni Alemanno annuncia una «rivoluzione copernicana» nel piano per i nomadi.
Nel frattempo a Palazzo Chigi s’è insediato il quarto governo Berlusconi e al ministero dell’Interno c’è il leghista Roberto Maroni, che plaude all’iniziativa del sindaco definendola «un modello da esportare in tutta Europa» e varando l’anno dopo un piano di finanziamento per costruire nuove strutture per l’accoglienza inserito nei decreti emergenziali.
Il fiume di soldi pubblici pompato nel business dei campi rom nella capitale arriva da lì, dall’asse Campidoglio-Viminale.
Una trentina di milioni l’anno solo su Roma. Che però ad Alemanno non bastano.
Tanto che, quando nel febbraio 2011 quattro bambini rom muoiono carbonizzati nel rogo della loro campo abusivo su via Appia Nuova, il sindaco si precipita a scrivere al ministro Maroni per battere cassa, chiedendo altri trenta milioni per affrontare l’aggravarsi dell’emergenza.
Fa anche la nota della spesa. Dieci milioni serviranno per costruire un nuovo campo, gli altri venti per ristrutturare i vecchi insediamenti, garantire l’assistenza e smantellare gli oltre trecento microcampi abusivi che costellano in quel momento la capitale.
Il Viminale, sempre guidato da Maroni, gli risponde ricordando di aver già stanziato complessivamente per quell’anno 60 milioni di euro per l’emergenza in cinque regioni (Lazio, Campania, Lombardia, Veneto e Piemonte).
Al Lazio ne erano andati un terzo (oltre 20 milioni), ai quali vanno aggiunti altri 12 milioni concessi da Comune e Regione, per un totale di 32 milioni di euro.
Il ministero degli Interni doveva essere particolarmente stupito per la richiesta, dato che il piano nomadi di Roma era stato approvato e finanziato da tempo e nelle riunioni dei mesi successivi all’approvazione non era state segnalate nuove esigenze.
Il sindaco prese malissimo quel rifiuto e promise di rivolgersi direttamente a Berlusconi, il quale però era alle prese con gli ultimi mesi del suo governo.
Ma con o senza un ulteriore sforzo economico, la rivoluzione copernicana annunciata da Alemanno e finanziata da Maroni aveva già prodotto i suoi effetti, traducendosi soprattutto in esborsi stellari ai quali non corrispondono quasi mai prestazioni all’altezza.
Finanziamenti che finiscono invece nel business milionario che le inchieste di questi giorni hanno portato a galla, foraggiato dal ministero degli Interni guidato dalla Lega.
Francesco Mesiano
(da “La Stampa”)
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Aprile 8th, 2015 Riccardo Fucile
TUTTI CONTRO TUTTI, DIVISI ALL’INTERNO DELLA STESSA CORRENTE DI PARTITO
Il simbolo di un’intera storia è la Campania, dove si confondono i renziani con i fittiani, i democratici con i berlusconiani, i legalitari con i garantisti.
C’è Vincenzo D’Anna, eletto al Senato con il Pdl e berlusconiano da anni, che sostiene Vincenzo De Luca, candidato del Pd.
Mentre Guglielmo Vaccaro, deputato Pd, lettiano, dialoga con Stefano Caldoro, perchè il suo partito candida un “ineleggibile”, De Luca appunto.
Se la bufera di correnti dentro al Pd è fatto noto, guardare Forza Italia di questi tempi è come avere a che fare con le confessioni di una religione monoteista: i fittiani contro i berlusconiani, i giovani forzisti contro i vecchi custodi del berlusconismo e addirittura fittiani-cosentiniani contro fittiani-cosentiniani.
E’ difficile decidere se questa mappa faccia più ridere o più sbadigliare, ma il fermo immagine di tutto questo è a Napoli.
Sono gli effetti del renzismo: la destra spolpata e disorientata, la sinistra-sinistra che respira con il boccaglio, un continuo rimescolamento di carte stile croupier.
A 7 settimane dalle Regionali la situazione non è “fluida”: è eterea.
E tutte le certezze sono diventate improvvisamente delle nebulose, se vogliamo credere ai sondaggi.
In Liguria la diretta discendente di Burlando e campionessa di renzianesimo, Raffaella Paita, ha solo 4 punti di vantaggio su Toti che nemmeno ha cominciato la campagna elettorale.
In Veneto Alessandra Moretti è a due punti dal presidente uscente Luca Zaia, nonostante il patto tra Forza Italia e Lega Nord che per il centrodestra dovrebbe essere una linea Maginot del centrodestra nelle Regioni in cui spera di spuntarla.
“Cerchio magico di Forza Italia tracotante”
“Forza Italia non lascia spazio alla democrazia: in Campania non ho capito perchè io e i fittiani dovremmo votare Caldoro e i dirigenti del cosiddetto cerchio magico”. Vincenzo D’Anna ce l’ha con il cerchio magico — “tracotante e insipiente” — e in particolare con Maria Rosaria Rossi — tesoriera di Forza Italia — e la first lady Francesca Pascale.
Spiega il suo sostegno a De Luca che “ha un forte radicamento tra le gente, è percepito come un uomo capace, in grado di portare a concreta soluzione alcuni dei tanti problemi rimasti irrisolti con Caldoro” che invece è “un ottimo politico, ma un pessimo amministratore”.
Secondo i giornali napoletani in questa operazione si porterà dietro una truppa formata dal consigliere regionale Carlo Aveta (che fu eletto con la Destra di Storace), l’ex sindaco di Melito Antonio Amente (forzista fino a gennaio), l’ex consigliere comunale di Napoli Diego Venanzoni (ex An, ex Udeur, ex Fi e ex Pd), il coordinatore campano di Scelta Civica Giovanni Palladino, l’ex europarlamentare Udc Erminia Mazzoni.
D’Anna ci ha infilato anche Angelo Pisani (presidente della municipalità di Scampia), ma quest’ultimo ha precisato che una lista lui ce l’ha già e farà per conto suo.
Di certo non ci sarà Ciro Falanga, lui forzista tutto intero, “fittiano non meno del senatore D’Anna ed ancora una volta, devo precisare che la linea dell’onorevole Fitto in Campania è quella di sostegno al presidente Caldoro”.
Quando prese il “vaffa” da Berlusconi
Presidente di Federlab (la federazione dei laboratori d’analisi), Vincenzo D’Anna è un ex democristiano di 64 anni di Santa Maria a Vico.
Fittiano, vicino nonostante tutto a Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’Economia, in galera da un anno in attesa di giudizio per varie ipotesi di reati collegate a clan di camorra dei Casalesi.
Era tra i portabandiera della “scissioncina” regionale di Forza Campania. Al tempo dei Responsabili di Domenico Scilipoti e Massimo Calearo (quando Razzi non era ancora Razzi), lui c’era.
Ora D’Anna, eletto con il Pdl, è iscritto al Gal, il gruppo-frittata che, da costoletta di Forza Italia, al Senato mette insieme socialisti nostalgici, ex montiani che si battono il petto, ex tutto pronti a votare tutto, anche la fiducia al momento giusto.
“Vaffanculo” gli disse Silvio Berlusconi durante una riunione a San Lorenzo in Lucina nell’afa di luglio di un anno fa quando, insieme a Capezzone, a Minzolini e alla Bonfrisco, provava a dire che il patto del Nazareno era deleterio e che la riforma del Senato (di cui lui fa parte) è “un attentato alla democrazia che instaurerebbe un regime”. (Va detto che lo provocò ribattendo con “Che fai, ci cacci?”).
A quel paese ce lo mandò anche la democratica Monica Cirinnà e lui reclamò le royalties sull’insulto.
Oltre all’ironia, lo aiuta la retorica, mescola volentieri l’Alto e il Basso, anche in Aula. Mentre faceva ostruzionismo al Senato proprio sulle riforme istituzionali si alzò e, per dare contro alla Boschi, in 20 secondi citò nell’ordine Tommaso Moro, Erasmo da Rotterdam, Il berretto a sonagli di Pirandello, Uomo e galantuomo di Eduardo De Filippo e Thomas Mann, accusando il governo di conformismo, l’opportunismo e la mediocrità .
Però non si mise i guanti per gridare “deficiente” al collega dei Cinque Stelle Ciampolillo seduto qualche seggio più in là .
E in una di quelle occasioni accusò “i muti astanti, che votano senza alcun sussulto i nominati” dopodichè rilevò che a Palazzo Madama vedeva “degli inchini talmente profondi che a molti di loro gli si vede il culo a furia di abbassarsi e non è un bel vedere, cari amici”.
La presidente di turno Linda Lanzillotta lo riprese: “Lo dicevo tanto per non metterla nella semantica” si giustificò lui.
Vaccaro, il nemico di sempre di De Luca
Dialoga con Caldoro, “ma solo con lo streaming”, Guglielmo Vaccaro.
Ex candidato alla segreteria regionale del Pd, nemico da sempre di Vincenzo De Luca, che da anni marca a uomo.
“Un sondaggio del Corriere della Sera ha detto che l’84% degli elettori democratici italiani ritiene la candidatura di De Luca inopportuna — ha spiegato alcuni giorni fa — Io rappresento questo 84% in questa vicenda”.
Lettiano, sostenitore di Gianni Cuperlo, non trova scandalo nel confronto con Caldoro, l’ex socialista ora berlusconiano: lui e Salvatore Vozza (ex sindaco di Castellammare, candidato di Sel) sono uguali perchè “potrebbero essere a pieno titolo democratici, sono due riformisti per cultura, hanno militato in formazioni che hanno dato origine al Pd, e di fronte a una candidatura largamente considerata inopportuna diventano l’approdo naturale di un pezzo di elettorato che si confronta con la deriva del Pd in Campania”.
“Sono prigioniero politico dei brogli del Pd di Salerno”
Vaccaro, ex capo dei giovani democristiani in Campania, è arrivato dal Pd attraverso la Margherita.
Era il consulente della segreteria tecnica di Enrico Letta quando quest’ultimo, dal 1999 al 2001, era ancora sereno perchè faceva il ministro dell’Industria.
Quando si candidò alle Regionali nel 2005 Vaccaro raccolse oltre 10mila preferenze. Col Pd ha un brutto rapporto da tempo.
Alla Camera si è astenuto a fine marzo sul ddl riforme, ha annunciato di votare contro l’Italicum. Chiamò Luigi De Magistris — allora decaduto — “sindaco fuorilegge”: “A Napoli — twittò — serve l’esercito. La tensione e illegalità sono visibili a occhio nudo”. Quando De Luca ha vinto le primarie per la candidatura alla Regione disse che c’era “da vergognarsi” perchè “le primarie sono state truccate come sempre”.
Un anno prima, nel febbraio 2014, aveva occupato la sede Pd di Salerno per una settimana perchè anche lì denunciava brogli alle primarie (per la segreteria): “Mi dichiaro prigioniero politico dell’università dei brogli del Pd salernitano” scandì.
Ora, forse, il salto finale: meglio Caldoro.
Diego Pretini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 8th, 2015 Riccardo Fucile
SILVIO VOLEVA ELIMINARE I FITTIANI, ALLA FINE E’ STATO COSTRETTO A RIPRESENTARLI TUTTI IN QUANTO ERA RIMASTO SENZA CANDIDATO GOVERNATORE
Berlusconi cede, e Fitto vince su tutta la linea in Puglia.
Il commissario Vitali deve accettare le imposizioni dei ricostruttori e tutti gli azzurri uscenti saranno ricandidati.
Nessuno escluso, come aveva chiesto Raffaele Fitto, forte del consenso che ha tenuto stretti i suoi, su quali si era abbattuto il diktat: “Mai in lista con Forza Italia”.
“A seguito dell’incontro tenuto ieri con i consiglieri regionali di Forza Italia – si legge in una nota – in accordo con il presidente Silvio Berlusconi, per favorire l’unità del centrodestra in Puglia (unità auspicata anche dal coordinatore regionale del Ncd Massimo Cassano), Forza Italia tramite il segretario regionale onorevole Luigi Vitali conferma la disponibilità a ricandidare l’intero gruppo regionale, anche al fine di sgomberare il campo da tutte le polemiche divampate in queste settimane. Forza Italia ribadisce inoltre la convinzione che il centrodestra unito possa aspirare alla vittoria e la volontà , mai venuta meno, di sostenere la candidatura alla presidenza del professor Francesco Schittulli”.
Tutti insieme dunque, in campo per le Regionali a sostegno dell’oncologo che dovrà vedersela contro Michele Emiliano, candidato del centrosinistra.
Tutti insieme dopo mesi di polemiche e veleni che hanno portato Schittulli prima a minacciare di ritirarsi dalla competizione, poi di abbandonare Fi per abbracciare Fitto: una possibilità che rischiava di tenere gli azzurri isolati, alla disperata ricerca di un candidato governatore (erano spuntati i nomi dello stesso Vitali – il vero sconfitto della partita – di Andriana Poli Bortone e Francesco Paolo Sisto), con il rischio di non superare la soglia di sbarramento.
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