Aprile 15th, 2015 Riccardo Fucile
RENZI TIRA DRITTO CON LA SOLITA ARROGANZA:”NESSUNA MODIFICA”… BERSANI: “NON DISPONIBILE AD ANDARE AVANTI COSI'”… UNA SETTANTINA I DISSIDENTI
“Il governo è legato a questa legge elettorale, nel bene e nel male: si è fatto promotore di un documento firmato dalla maggioranza convinta. In quel documento c’era lo scambio tra l’abbassamento delle soglie e il premio alla lista, anzichè alla coalizione”. Parla così Matteo Renzi dinanzi all’assemblea dei deputati Pd.
Un avviso alla minoranza dem che insiste nel chiedere meno capilista nominati al fine di trovare un’intesa da portare nell’aula di Montecitorio il 27 aprile.
Ma il premier non molla. La resa dei conti è iniziata, il redde rationem all’interno del Partito democratico si gioca sull’Italicum.
E’ un braccio di ferro carico di tensione.
Il capogruppo dem Roberto Speranza arriva a rimettere il proprio mandato: ‘Area riformista’, corrente dell’opposizione interna di cui lui è a capo, non intende cedere e annuncia di non voler votare – al termine dell’incontro – una legge elettorale ‘blindata’. Ma il premier-segretario dem non intende più perdere tempo: a suo parere sono già state fatte molte modifiche e ora è il momento di andare avanti con le riforme costituzionali. “Questo non è il Monopoli”, aveva già ammonito ieri.
“La legge elettorale perfetta non esiste da nessuna parte – ha rincarato la dose stasera-. Chi voterà la proposta della segreteria parte dalla consapevolezza che non esiste la legge perfetta. Chi deciderà di votare contro dovrebbe comunque riconoscere un lavoro di mediazione e di cambiamento lungo 14 mesi”.
Lo ‘strappo’ del capogruppo
Per tutta risposta, la minoranza del Pd stasera non partecipa al voto del gruppo: si tratterebbe di una settantina di deputati su un totale di 310 parlamentari eletti alla Camera. Speranza, tuttavia, non rinuncia a prendere la parola dopo l’intervento iniziale di Renzi.
E dice: “Sull’Italicum esprimo profondo dissenso”.
Poi annuncia il proprio passo indietro rispetto all’incarico di capogruppo: “Non sono nelle condizioni di guidare questa barca perciò con serenità rimetto il mio mandato di presidente del gruppo e non smetto di sperare che questo errore che stiamo commettendo venga risolto. Credo nel governo, credo nel Pd e nel gruppo – ha aggiunto – ma in questo momento è troppo ampia la differenza tra le scelte prese e quello che penso”.
“Sarò leale al mio gruppo e al mio partito – prosegue Speranza – ma voglio essere altrettanto leale alle mie convinzioni profonde. Non cambiare la legge elettorale è un errore molto grave che renderà molto più debole la sfida riformista che il Pd ha lanciato al Paese. C’è una contraddizione evidente tra le mie idee e la funzione che svolgo e che sarei chiamato a svolgere nelle prossime ore. Per queste ragioni rimetto il mio mandato di presidente del gruppo a questa assemblea che mi ha eletto due anni fa”.
Parte della minoranza lascia assemblea.
Alla fine, l’assemblea del gruppo Pd continua nonostante l’annuncio dato da Speranza. La maggioranza vota contro la sospensione invocata dalla minoranza.
Renzi, infatti, aveva chiesto un voto sulla legge elettorale, ma parte della minoranza ha deciso comunque di lasciare la riunione del gruppo.
Gianni Cuperlo aveva rivolto un appello a Renzi a sospendere la riunione. Avrebbero lasciato l’assemblea, tra gli altri, Bindi, Miotto, Fassina, Civati, Meloni, Lattuca. Hanno votato contro la prosecuzione dell’assemblea circa 20 deputati.
Tuttavia, non tutti i dissidenti hanno abbandonato l’aula: mentre parla Dario Franceschini, sono seduti in assemblea Bersani, Stumpo e D’Attorre.
Ma a ruota anche D’Attorre abbandona la riunione e dice: “Che non si sia deciso di fermarsi e discutere delle dimissioni del capogruppo, andando avanti come se nulla fosse, è una scelta sconcertante che lacera ancora di più il senso di comunità nel Pd”.
Il dissenso dell’ex segretario
“Se volete andare avanti così, sappiate che io non ci sto. Qui non si parla di legge elettorale bensì di un sistema democratico”, dice Pier Luigi Bersani prendendo la parola.
L’ex segretario ha quindi invitato Renzi a riaprire i termini per la modifica dell’Italicum. “Se volete andare avanti – ha ribadito – sappiate che io non sono convinto”.
Per Bersani non è solo in gioco la legge elettorale ma nel combinato disposto con il ddl costituzionale “c’è in ballo il futuro dei nostri figli. La legge – ha detto riferendosi all’Italicum – va fatta mandando il film avanti di qualche anno, senza pensare a cosa succede domani. Non sono cose da ridere”.
E ancora: “Non è questione di coscienza nè di disciplina ma di responsabilità di ogni singolo parlamentare. Non mi dite che non si trova la maggioranza al Senato: se si vuol fare, si può fare”. Poi, come chiosa: “Un partito che davanti alle dimissioni del capogruppo va avanti come se niente fosse ha un problema”.
(da “La Repubblica”)
argomento: Partito Democratico, PD | Commenta »
Aprile 15th, 2015 Riccardo Fucile
PARTENZA DELUDENTE: “TROPPE INCERTEZZE E CALCOLI COMPLESSI”…IL GOVERNO AVEVA PREVISTO DI INCASSARE 5 MILIARDI, MA A FINE SETTEMBRE SCADONO I TERMINI
“Complicazioni e incertezze nell’interpretazione della norma”. Sono questi i fattori che per Vittorio Giordano, avvocato tributarista dello studio Salvini Escalar e Associati, spiegano il numero limitato di pratiche sinora presentate all’Agenzia delle entrate per aderire alla voluntary disclosure, la collaborazione volontaria per l’emersione dei capitali nascosti all’estero: meno di mille nei primi tre mesi, secondo il dato riportato da Il Sole 24 ore.
Un decollo difficile e che non promette bene per il governo, che ufficiosamente dall’operazione conta di ricavare almeno 5 miliardi.
Partenza in sordina soprattutto se si confronta il dato con le 50-70mila domande attese entro il 30 settembre, quando la regolarizzazione spontanea dovrebbe lasciare il passo al rigore del Fisco, che dalla sua avrà i nuovi accordi di trasparenza siglati con Svizzera, Liechtenstein e Principato di Monaco.
“Il contribuente, oltre a definire le sanzioni per non aver dichiarato disponibilità finanziarie detenute all’estero, in sostanza chiede volontariamente all’Agenzia delle entrate di essere sottoposto a un accertamento per le imposte non pagate — spiega Giordano -. Ma ad oggi, se vi è il sospetto di rilevanza penale del fatto, il professionista non può dire con certezza al suo cliente se tale procedura debba avere ad oggetto le violazioni commesse dall’anno 2010 (dal 2009 nel caso di mancata presentazione della dichiarazione dei redditi) oppure se questi termini vadano in ogni caso raddoppiati (e quindi partire dal 2006 o dal 2004)”.
“Versare imposte evase e sanzioni, ma per quanti anni?
Il problema non è da poco, visto che il raddoppio dei termini comporta più anni di imposte evase da versare per intero.
Con in aggiunta gli interessi e le sanzioni, che seppur ridotte, sono dovute.
Alla base dell’incertezza c’è il fatto che l’Agenzia delle entrate, nel caso in cui il contribuente sia sospettato di avere commesso un reato, di solito può estendere le proprie indagini oltre i quattro anni canonici.
Ma cosa succede a chi aderisce alla voluntary disclosure? Non è chiaro, visto che la cancellazione prevista per alcuni reati arriva solo a procedura ultimata, quando il ‘debito’ verso il Fisco è stato già saldato.
Per questo professionisti e contribuenti sono in attesa di un intervento chiarificatore da parte del governo.
Tanto più che la questione non è stata nemmeno sfiorata nella circolare di un mese fa con cui l’Agenzia delle entrate ha fissato i paletti della procedura.
“L’approvazione della voluntary disclosure — spiega Giordano — doveva essere accompagnata dal decreto legislativo sulla delega fiscale, che avrebbe limitato a quattro o cinque anni il periodo di riferimento per la procedura”.
Ma tutto si è bloccato dopo le polemiche sulla norma ‘salva Berlusconi’ inserita all’ultimo nel testo. E a marzo il governo si è concesso un allungamento della delega fino a giugno.
“Difficile reperire tutti i documenti. E calcoli molto complicati”
Non c’è solo l’incertezza a fare da deterrente alle prime adesioni: “La procedura è piuttosto complicata — continua Giordano -. La documentazione da presentare deve riguardare la posizione globale del contribuente. Ma non è facile reperire tutte le carte, soprattutto se i termini validi per l’accertamento sono quelli raddoppiati”.
Molte difficoltà derivano poi dai calcoli necessari per valutare le imposte evase e le sanzioni: “Sono mostruosamente complicati, soprattutto nel caso di patrimoni consistenti che comprendano, per esempio, investimenti azionari in decine di società diverse. Questi conti di solito vengono fatti con software avanzati dalle banche, che poi versano le imposte per il contribuente”.
Ma visto che nel caso di voluntary disclosure le imposte in passato sono state evase, ora i calcoli toccano a commercialisti e tributaristi: “In certi casi possono prendere anche un mese, con costi che poi vengono riversati su parcelle piuttosto salate”. Meglio sarebbe stato, secondo Giordano, applicare un meccanismo forfettario, anzichè richiedere versamenti proporzionali all’imponibile non dichiarato: “Una soluzione più appetibile per chi ha capitali all’estero, anche se più difficile da fare accettare all’opinione pubblica. Per restituire il senso di giustizia negato dalla forfetizzazione sarebbe però stato sufficiente applicare aliquote intorno al 30-40%, invece del 5% dello scudo fiscale”.
L’obbligo di indicare i ‘soggetti collegati’, tra effetto delatorio e rischio omerta’.
Altro nodo è quello dei cosiddetti ‘soggetti collegati’: se i redditi portati all’estero sono stati realizzati in nero attraverso una società italiana, questa dovrà essere indicata in fase di voluntary disclosure, insieme agli altri soci e agli eventuali cointestatari dei conti correnti.
Un meccanismo che nelle intenzioni del Fisco dovrebbe portare a un effetto a cascata nelle adesioni alla collaborazione volontaria: chi non presenta spontaneamente domanda rischia infatti di subire indagini in seguito alle domande presentate da altri e di perdere così i benefici della voluntary disclosure.
“Ma la conseguenza può essere anche quella contraria”, sostiene Giordano. “Soggetti con legami reciproci di forte solidarietà , come nel caso di una società a conduzione familiare, potrebbero accordarsi per mantenere il silenzio”.
Sul punto esiste anche un problema che il legale definisce “di rilevanza costituzionale”.
L’Agenzia delle entrate potrebbe infatti avviare indagini su un contribuente a seguito della documentazione presentata da un soggetto terzo.
Se al contribuente venisse data notizia delle verifiche, questi perderebbe la possibilità di aderire alla voluntary disclosure: “All’amministrazione finanziaria è lasciata una discrezionalità sul momento in cui notificare l’avviso dell’accertamento, contro cui è facile ipotizzare la presentazione di questioni di legittimità alla Consulta”.
“O voluntary disclosure o rischio elevato di essere scoperti in futuro”
Le problematiche ancora da superare sono dunque più d’una. E i risultati della voluntary disclosure potrebbero essere minati anche dal caos in cui è precipitata l’Agenzia delle entrate dopo che una sentenza della Corte Costituzionale ha portato alla revoca di 800 posizioni dirigenziali sulle 1.100 esistenti.
“L’auspicio — dice Giordano — è che le procedure vengano semplificate in corso d’opera e che la scadenza venga prorogata, visto che al 30 settembre mancano meno di sei mesi”.
Nessun dubbio invece sulla convenienza di fare domanda di collaborazione volontaria.
Anche nei casi più ‘sfortunati’, per i quali tra imposte evase, interessi e sanzioni andranno versate cifre vicine al 100% del capitale nascosto all’estero.
Alla luce degli accordi di trasparenza siglati con alcuni paradisi fiscali, l’alternativa infatti è una sola: “Essere scoperti in futuro”.
Luigi Franco
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: denuncia | Commenta »
Aprile 15th, 2015 Riccardo Fucile
POSSIBILI CONVERGENZE FORZA ITALIA-MINORANZA PD SUL PREMIO DI LISTA
Un sistema che preveda, al posto dei capilista bloccati e delle preferenze per gli altri in lista come scritto nell’ultima versione dell’Italicum, un 25% di listino bloccato e un 75% di preferenze per tutti i partiti.
E, in più, la possibilità di apparentamenti di liste tra il primo turno e l’eventuale secondo turno (il ballottaggio previsto dall’Italicum scatta soltanto se la prima lista non supera il 40%).
A queste due modifiche all’Italicum renziano, o almeno alla prima di esse, la minoranza del Pd ha appeso quella che appare in queste ore la battaglia delle battaglie politiche.
Il ragionamento – ripetuto in più occasioni da autorevoli esponenti della minoranza a cominciare dall’ex leader Pier Luigi Bersani – è che con il sistema dei capilista bloccati le preferenze varrebbero solo per il primo partito (al momento appunto il Pd) mentre i partiti minori, che naturalmente eleggeranno meno deputati, avranno una rappresentanza fatta quasi completamente di eletti scelti dalle segreterie dei partiti e non dai cittadini.
A parte la maliziosa osservazione fatta la scorsa settimana dalla ministra per le Riforme Maria Elena Boschi che anche se ci fossero solo preferenze i candidati verrebbero comunque scelti dalle segreterie dei partiti, il ragionamento ha la pecca di non considerare che in presenza della possibilità di candidature multiple (elemento chiesto dal Nuovo centrodestra) il numero degli eletti con le preferenze sarà di una certa consistenza anche per i partiti minori.
Per il semplice fatto che il plurieletto, dovendo scegliere un solo collegio, lascerebbe gli altri ai candidati del suo partito che avranno preso più preferenze.
Ma hanno le loro ragioni Bersani e gli altri esponenti della minoranza a far notare che la maggiore presenza di “nominati” va a cadere proprio su quei partiti (al momento il Movimento 5 Stelle, Forza Italia e Lega) che in diversa misura non hanno un meccanismo democratico di selezione delle candidature e della leadership.
Se a questo si somma il fatto che la riforma costituzionale prevede l’abolizione del Senato elettivo, per la minoranza si corre il rischio di avere un Parlamento fatto in gran parte da “nominati” (da qui,anche, la richiesta collaterale di cambiare il Ddl Boschi ora all’esame del Senato).
Tuttavia il sistema alternativo proposto non prevede le preferenze per tutti bensì il meccanismo del listino bloccato per il 25% e delle preferenze per il restante 75%.
Facile controbattere che sempre di “nominati” si tratta, anche se complessivamente in misura minore.
L’altra questione, quella degli apparentamenti tra liste, ha a che fare con una concezione diversa del partito.
Per la maggioranza renziana l’Italicum ha il pregio di esaltare la vocazione maggioritaria del Pd e di evitare di sottostare ai ricatti dei “cespugli”, per la minoranza va invece salvaguardata la possibilità di coinvolgere nella responsabilità di governo le formazioni a sinistra del Pd.
Ora il punto è capire su quali di queste modifiche potrebbe coalizzarsi nel segreto dell’urna una maggioranza trasversale in grado di ribaltare l’Italicum e mettere in seria difficoltà il governo.
Sul primo punto, quello della lotta contro i capilista, a ben vedere l’interesse è solo della minoranza del Pd, che con i listini bloccati potrebbe contrattare una quota fissa di suoi eletti (niente di scandaloso: è accaduto a parti invertite alle scorse elezioni).
I capilista bloccati sono stati imposti a suo tempo da Silvio Berlusconi e sono graditi anche ai centristi della maggioranza.
Bisogna poi tener conto che dal 2006, da quando cioè si è votato con il Porcellum, i parlamentari non sono più abituati a fare campagna elettorale. E per di più la campagna elettorale con le preferenze è molto costosa.
Diverso è il discorso sugli apparentamenti o sulla reintroduzione del premio alla coalizione invece che alla lista (su questo Fi ha già preannunciato emendamenti): è evidente che il premio alla lista e il divieto di apparentamenti favorisce il Pd e sfavorisce il centrodestra, che su questo punto potrebbe sommare i suoi voti a quelli della folta pattuglia della minoranza del Pd.
Vero è che il premio alla lista favorisce di contro il Movimento 5 Stelle, che non ha alleati, ma l’atteggiamento oppositivo e ostruzionistico dei grillini lascia intendere che saranno pochi tra loro a fare “giochini” nel segreto dell’urna.
Anche in base a queste considerazioni nelle prossime ore Matteo Renzi e i suoi prenderanno la decisione più politica di tutte: se mettere o no la fiducia sull’Italicum.
Perchè con la fiducia, va ricordato, decadono tutti gli emendamenti.
Emilia Patta
(da “il Sole24ore”)
argomento: Parlamento | Commenta »
Aprile 15th, 2015 Riccardo Fucile
IL MANIFESTO PRO-POVERI DI MILIBAND
«Sono pronto a scrivere la parola fine al vecchio adagio secondo il quale per stare bene bisogna occuparsi solo dei ricchi e potenti…la verità è che quando i lavoratori vincono, vince la Gran Bretagna».
Ed Miliband mette da parte lo sguardo un poco torvo, corregge la parlata a tratti incerta, afferra i vessilli della sinistra laburista e annuncia di aver finito l’allenamento sui banchi dell’opposizione. È “pronto”, dice, a governare.
Guarda a Downing street accompagnato da sondaggi che gli alzano una metaforica Ola, attribuendo al Labour due punti e mezzo di vantaggio sul Tory party del premier uscente David Cameron.
Troppo poco per sperare di guidare l’esecutivo da solo, ma abbastanza per immaginare una coabitazione, ancorchè acrobatica, con le forze minori.
È, infatti, ancora testa a testa la corsa in vista del voto del 7 maggio, nel segno di un’incertezza assoluta, figlia di un mondo nuovo, liberato dalla regola del pendolo britannico, garantita dal bipolarismo assoluto.
I partiti in campo, oggi, sono almeno sette e le uniche ipotesi realistiche immaginano coalizioni a tre, perchè a due non basterebbero.
Mentre gli esegeti del voto nei seggi marginali studiano i flussi degli elettori, Ed Miliband ha deciso di accelerare presentando sè stesso come uomo di governo del Paese e dell’economia del Paese.
In 86 pagine di manifesto elettorale ad alto tasso ideologico ha spiegato come ridarà l’equlibrio sociale, a suo avviso perduto, al Regno.
Descrive il “travaso” di risorse che imporrà ai ricchi per tutelare i poveri con pochi, efficaci concetti.
Due miliardi e mezzo per la Sanità pubblica arriveranno da una nuova tassa sulle abitazioni di valore superiore ai 2 milioni di sterline; i contratti a zero ore, simbolo del lavoro precario, saranno in parte aboliti mentre il salario minimo sarà elevato del 20 per cento circa; i più rotondi assegni famigliari che promette saranno finanziati da un balzello sulle banche; l’aliquota marginale Irpef passerà dal 45 al 50% e aiuterà a ridurre di un terzo le tasse universitarie che Cameron triplicò in una notte.
Il catalogo è questo, ma ad aprirlo c’è un preambolo che il leader del Labour ha scandito dal palco di Manchester dove ha presentato il manifesto.
«Questo — ha detto – è l’impegno a proteggere le nostre finanze. È l’impegno a presentare solo leggi che abbiano copertura garantita, senza nessuna nuova forma di indebitamento».
Il partito laburista è ancora percepito come la forza che “sfondato” i bilanci dello Stato per gestire una crisi determinata anche dalle cattive politiche degli esecutivi Blair-Brown.
Per risalire la china della sfiducia popolare, quindi, Ed Miliband ha dovuto insistere sulla sua capacità nel reggere con cautela il timone dell’economia.
Se questo era il primo messaggio, il secondo è stato altrettanto netto e piuttosto allarmante per la City.
Ha riaffermato ieri, infatti, che cancellerà la condizione fiscale di «residente non domiciliato», bizzarro e secolare istituto del Regno che ha contribuito a fare di Londra una sorta di paradiso fiscale a beneficio dei Paperoni di mezzo mondo.
L’extragettito aiuterà il teorico governo laburista a non ritoccare l’Iva.
In realtà la misura sui “residenti non domiciliati” rischia di aver un effetto a catena piuttosto perverso. Se le misure annunciate toglieranno a Londra l’appeal maturato in questri anni si metteranno in fuga molti investitori internazionali.
L’effetto sulla City potrà essere doloroso, quello sul mercato immobiliare, a danno di stranieri ma anche di cittadini inglesi,ancor più pesante.
Ed è sul mattone che poggia, in larga misura, l’economia di Londra e del Regno.
Il rischio è che la delicata architettura su cui si regge un Paese che ha chiuso il 2014 con una crescita del 2,8%, primato d’Occidente, possa incrinarsi e cominciare a cedere.
Leonardo Maisano
(da “il Sole24ore”)
argomento: Europa | Commenta »
Aprile 15th, 2015 Riccardo Fucile
DAL WEB ALLLA SCUOLA, LA CARICA DELLE BULLE: “UN VIOLENTO SU TRE E’ UNA RAGAZZA”
Non voleva andare più a scuola Marina, 14 anni neppure compiuti.
La sua scuola è nel centro di Massa Carrara. Aveva preso botte, tanti schiaffi, da una ragazza di due anni più grande, due anni più alta e cattiva.
Erano a un passo dall’istituto, quando è accaduto. «Sfigata, ti sei messa contro di me». Colpiva e riprendeva con lo smartphone. L’ha ridotta male e poi l’ha umiliata postando tutto su Facebook.
I commenti delle compagne, anche quelle che erano in classe con Marina, sono stati cattivi, di una gratuità avvilente.
Risolini iconizzati, «l’ha ridotta uno straccio, d’altronde quella si veste come uno straccio». E poi commenti personali come solo gli adolescenti riescono a fare: «La disgrazia si è abbattuta su una disgraziata».
Lo scorso febbraio quel video di violenza l’ha visto la mamma di Marina, ed è andata dritta alla polizia postale.
Racconta la funzionaria della postale di Firenze che le adolescenti che non denunciano sono molte di più. Per vergogna e perchè hanno paura di essere tagliate fuori.
«Noi suggeriamo alle vittime di bullismo di cancellare l’account su WhatsApp, ma non vogliono: su quello smartphone corrono tutte le loro relazioni, c’è il loro mondo».
Il dossier della polizia sul cyberbullismo contemporaneo, costruito da Skuola.net, racconta che ormai le offese e le botte partono da bambine-ragazze una volta su tre.
Le giovani donne sono sempre più violente.
A Livorno, a cavallo tra il 2014 e l’anno che corre, la rivalità tra femmine – maschietti contesi – è arrivata sotto casa della vittima.
Le nemiche di una quindicenne hanno scritto sotto la finestra, con nome e cognome cubitali: «… è una troia, offre prestazioni a tutti».
E poi il solito Facebook utilizzato come un ariete che sfonda la privacy portando sugli schermi dei coetanei nuovi insulti e nuove bugie.
Nella provincia di Siena hanno messo sui telefonini, ferocissime, le goffaggini di una ragazzina non vedente che faticava a mettersi lo zaino in spalla e quando si sedeva scopriva involontariamente le gambe.
Risate, commenti gaglioffi. «Quasi mai insegnanti e presidi comprendono la rabbia dei genitori delle adolescenti maltrattate, la gravità della situazione», spiega chi investiga.
In provincia di Cagliari la bulla, 15 anni, con una falsa foto di un poliziotto sul profilo WhatsApp insolentiva l’amica passata di moda: «Sei brutta», e faceva girare il commento nella cerchia del gruppo classe.
Il sexting (far girare foto compromettenti) è, per diffusione, il primo cyber problema di questa generazione.
«I ragazzi vorrebbero parlare, ma spesso non con i genitori». Otto casi recenti si sono registrati a Catania, città complicata.
Tre riguardano dodicenni, prima media. Sono dovuti intervenire papà e mamma a scuola per far sì che l’aggressione digitale non diventassero lividi.
Dicevamo del dossier della polizia postale.
Su 15.268 ragazzi intervistati dal portale Skuola.net, uno su tre si è dichiarato vittima di bullismo.
La fascia d’età più esposta è tra i 14 e i 17 anni. L’87 per cento delle vittime è stato preso di mira nella vita reale, ma lo stalking online cresce tra le adolescenti.
Quasi l’85 per cento degli studenti appartiene a un gruppo classe su WhatsApp, il 97 ha uno smartphone.
Contro un fenomeno che cresce e offende si è sviluppato il progetto “Una vita da social”, incontri degli esperti della postale nelle scuole: mezzo milione gli studenti raggiunti.
E domani il ministro Stefania Giannini annuncia le linee guida di una legge sul cyberbullismo otto anni dopo quella del ministro Fioroni.
Formazione del personale, scuole scelte sul territorio dove poter denunciare, numero verde collegato a Telefono azzurro, due hot line di Save the Children per segnalare materiale pedopornografico.
“Utilizzo critico e consapevole dei social network e dei media”, dice, d’altronde, il disegno di legge “La buona scuola”.
Corrado Zunino
(da “La Repubblica”)
argomento: denuncia | Commenta »
Aprile 15th, 2015 Riccardo Fucile
OLTRE AI 12 CONSIGLIERI INDAGATI PER LE SPESE PAZZE E RICANDIDATI, ORA PER IL MANCATO ALLARME SULL’ALLUVIONE INDAGATA ANCHE LA CANDIDATA PD ALLA PRESIDENZA
L’inchiesta giudiziaria sull’alluvione del 2014 irrompe nella corsa alle Regionali: la Procura ha iscritto sul registro degli indagati Raffaella Paita (omissione di atti d’ufficio), candidata del Partito Democratico.
Le contestazioni riguardano la mancata allerta, disposizione che dipendeva dalla Regione e in particolare dall’assessorato alla Protezione civile, e che non è stata diramata nonostante previsioni meteo che facevano presagire fortissime precipitazioni.
Gli accertamenti riguardano il funzionamento della Protezione civile regionale,ufficio responsabile del coordinamento delle misure da prendere, che la notte del disastro chiuse i battenti dalle 18 fino a quasi mezzanotte, nonostante le forti piogge iniziate quella stessa mattina.
In serata, l’assessore Paita ha commentato la notizia con un comunicato in cui ha difeso il suo operato, ma anche invitato la magistratura ad andare avanti, mettendosi «a disposizione del partito».
A novembre la convocazione in Procura
Lo scorso 17 novembre, la Paita era stata convocata in Procura e aveva riposto per oltre 4 ore ai pubblici ministeri Gabriella Dotto e Patrizia Ciccarese, che coordinano l’inchiesta: «Ho risposto a ogni domanda – disse allora la Paita – Hanno sentito me come stanno sentendo tutti per chiedere i dettagli di quanto successo».
Insieme con la Paita è indagata anche Gabriella Minervini, direttore della Protezione civile regionale, che in serata ha detto di essere «tranquilla e pronta a difendermi dalle accuse che mi vengono contestate: a mio avviso in quelle ore non c’erano i presupposti per dare l’allarme meteo».
Ancora: «Mi contestano la mancata allerta, ma ho fatto tutto quello che dovevo fare. Abbiamo agito sulle previsioni di Arpal, che parlavano di temporali. Non c’era la base per fare scattare un’emergenza meteo».
(da “il Secolo XIX”)
argomento: Genova | Commenta »
Aprile 15th, 2015 Riccardo Fucile
“I VOTI DEI CALABRESI IN CAMBIO DI NOMINE ALLE MUNICIPALIZZATE”… A GIUDIZIO L’EX SENATORE DELLA LEGA CHIAPPORI
Nelle loro mani, i voti dei calabresi erano diventati merce di scambio per nomine, favori e concessioni, per questo motivo il pm Alessandro Bogliolo della procura di Imperia ha chiesto il rinvio a giudizio di diversi politici di Diano Marina, la cui amministrazione è oggi al vaglio della commissione d’accesso, spedita nel gioiellino turistico della costa imperiese per verificare la presenza di infiltrazioni mafiose.
Di fronte al gup, si dovranno a breve presentare il sindaco, Giacomo Chiappori e gli assessori Francesco Bregolin e Cristiano Za Garibaldi e il consigliere comunale Bruno Manitta, l’amministratore della municipalizzata Gm, Domenico Surace e il padre Giovanni e l’imprenditore Giovanni Sciglitano.
I VOTI DEI CALABRESI IN CAMBIO DELLE NOMINE
A far finire tutti nei guai è stato proprio l’affidamento della direzione della municipalizzata “G.M. SPA”, società che conta circa 2 milioni di euro di fatturato in un anno, e che gestisce il Porto turistico, le spiagge comunali e le aree parcheggio. Secondo quanto emerso dall’inchiesta e documentato dalle intercettazioni, Chiappori avrebbe offerto a Surace la direzione della municipalizzata in cambio dei voti della comunità calabrese, decisiva per l’affermazione alle municipali.
Un patto siglato con il beneplacito degli assessori — ipotizza la Procura — se è vero che poco prima di affidare l’incarico a Surace, lo statuto della società verrà modificato per poter affidare la GM ad un amministratore unico e non più, come in precedenza, ad un consiglio di amministrazione.
Una circostanza in passato già denunciata dalla Casa della Legalità , combattiva associazione antimafia ligure, che in un suo dossier finito all’attenzione della commissione parlamentare antimafia denunciava «l’indotto e la possibilità di relazione che tale azienda garantisce sono quindi di indiscutibile peso e ricaduta considerando che il settore turistico rappresenta la vocazione storica di Diano Marina.
L’avere il controllo assoluto (come Amministratore Unico) da parte del Surace Domenico significa per questi e ciò che rappresenta la possibilità di gestire e quindi condizionare assunzioni, concessioni di spazi per attività economiche e commerciali, nonchè opere di manutenzione per le attività gestite (Porto, Spiagge, Parcheggi), incidendo pesantemente sulla vita sociale ed economica di Diano Marina».
SURACE, TRA PARENTELE INGORMBRANTI E INTERCETTAZIONI SCOMODE
Allo stesso modo, era stata la Casa della legalità a richiamare l’attenzione sulle ingombranti parentele di Surace.
Originario di Seminara, dove un cugino – Giovanni Surace – è stato ucciso in un agguato di mafia, Domenico Surace si è trasferito da anni in Liguria dove ha fatto fortuna e si è fatto strada nella politica locale, arrivando a ricoprire più volte e con varie deleghe il ruolo di assessore.
A suo carico non ci sono- allo stato – procedimenti penali, ma il suo nome appare nelle intercettazioni fra Alessio Saso – indagato nell’inchiesta della Dda di Genova Maglio 3 per violazione del Dpr 16560 numero 570 articolo 86, ovvero il vecchio voto di scambio, perchè pizzicato a chiacchierare di voti con Giuseppe Marcianò e Michele Ciricosta, capi della locale di Ventimiglia — e Vincenzo la Rosa, personaggi che gli investigatori fotografano in compagnia di Massimo Gangemi, nipote del boss Mimmo Gangemi, ma soprattutto pizzicano a contabilizzare voti in odor di mafia con Alessio Saso.
Ed è proprio quest’ultimo ad assicurargli che su Diano Marina potranno contare su «anche i Surace sono (le voci si accavallano) … quello che fa il…il consigliere comunale».
Ma il nome di Surace non è l’unico fra quello degli indagati per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio ad essere finito nelle carte delle procure antimafia e non. Anche il sindaco Giacomo Chiappori non è uno sconosciuto per gli investigatori.
OMBRE NERE SU CHIAPPORI
Eletto alla Camera nel 1996, ma non riconfermato nel 2001, salvato l’anno successivo dalla nomina voluta dall’allora Ministro delle Attività Produttive, Antonio Marzano, che lo catapulta nel cda dell’Ente Nazionale del Turismo, il nome di Chiappori diventa in breve tempo noto alle cronache.
Ma più che per la sua attività politica, quello che lo fa salire alla ribalta nazionale è la frequentazione con Gennaro Mockbel, l’imprenditore romano, con un passato da protagonista nell’estrema destra, che grazie a specifici accordi con le ‘ndrine degli Arena Nicoscia avrebbe spianato la strada all’elezione al Senato di Nicola Di Girolamo.
La circostanza viene fuori dalle carte dell’inchiesta Phuncard-Brokers della Procura Distrettuale di Roma, una storiaccia di riciclaggio, fondi neri, tangenti e false transazioni che ha coinvolto grandi aziende di telecomunicazione come Fastweb e Sparkle, società controllata al 100% da Telecom Italia, pizzicate in affari con le ndrine di Isola Capo Rizzuto, e ha lambito anche i vertici di quella Finmeccanica oggi sotto indagine a Busto Arsizio per le presunte tangenti versate alla Lega.
Per i pm romani, sarebbe stato proprio Gennaro Mockbel a mettere in contatto l’ovattata realtà dell’alta finanza nel periodo di massimo boom delle Tlc e la ndrangheta, coinvolta anche nell’elezione del senatore del Pdl e uomo di Mockbel, Nicola Di Girolamo, che per questo ha patteggiato una pena a cinque anni di reclusione.
BELSITO E L’ALLEANZA FEDERALISTA
Intrecci che emergeranno solo nel 2010. Tre anni prima, lo stesso Mockbel viene scelto proprio da Chiappori come segretario regionale del Lazio per la sua Alleanza Federalista, quell’avventura politica- ha rivelato l’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito al pm Giuseppe Lombardo in sede di interrogatorio – che “fra il 2000- 2006” tenterà di radicare il Carroccio o meglio un suo omologo al Sud.
«Questo progetto era stato dato all’onorevole Chiappori , si chiama Alleanza Federalista — spiega Belsito – praticamente aveva come diciamo, finalità … quello di mandare la Lega al sud, promuovere l’ideologia del movimento».
Saranno invece i magistrati romani — nell’ordinanza che farà scattare le manette per l’imprenditore romano — a ricostruire quel periodo, indicando Mockbel come saldamente legato — almeno fino al 2008 — a quel «movimento politico nato nell’ottobre del 2003 gravitante nell’area politica della Lega Nord, la cui sede è ubicata in Roma.
L’attuale segretario, Giacomo Chiappori, è stato eletto nelle liste della Lega Nord, alla Camera dei Deputati nella circoscrizione Liguria. In tale movimento Gennaro Mokbel assumerà la carica di segretario regionale, con altre cariche distribuite anche ad altre persone».
Chiappori oggi è sindaco di Diano Marina, dove su circa 6.000 abitanti vi sono ben 6 famiglie di ‘ndrangheta e l’ombra delle cosche di Seminara sembra testimoniata anche dall’arresto del noto latitante Carmelo Ditto, in seguito ucciso in un agguato di ndrangheta nel reggino.
Alessia Candito
(da “Corriere della Calabria“)
argomento: LegaNord | Commenta »
Aprile 15th, 2015 Riccardo Fucile
E’ LA NUOVA FRONTIERA DELLO SFRUTTAMENTO, RENZI ESTENDE LA POSSIBILITA’ DI USARLI
Riviera romagnola, estate 2014. Un bagnino di 19 anni racconta al Fatto che, per assistere i bagnanti dalle 8 del mattino alle 8 di sera, sarà pagato con i voucher lavoro.
“Faccio orario completo per tre mesi e il datore di lavoro mi paga a fine stagione — racconta —. Mi dà 2 mila euro tutti in voucher. Poi mi richiama l’anno dopo”.
Il ragazzo, per riscuoterli, dice che dovrà andare in almeno dieci diverse tabaccherie.
O dividersi tra posta, banca e tabaccai.
“Altrimenti si insospettiscono — dice —. Non che cambi nulla. Lo sanno tutti come funziona il sistema dei voucher. O mi accontento di questo metodo oppure il capo chiama un altro. Lavorare qui è sempre meglio che stare a casa senza fare niente”.
E con il Jobs Act, l’uso dei voucher è destinato ad aumentare.
Milioni di pezzi di carta per milioni di lavoratori
Secondo i dati dell’Inps, l’Istituto nazionale di previdenza sociale, in totale sono stati venduti 69.183.825 di voucher.
Considerando che l’I talia ha 60 milioni abitanti circa, è come se ogni italiano ne avesse utilizzato almeno uno.
E il volume economico che producono è pari a circa 70 miliardi di euro.
Ad aprile 2012, in circolazione c’erano poco meno di 29 milioni di buoni lavoro. Nel 2013 si era arrivati a 43 milioni.
“È la più grande operazione di lavoro nero legalizzato che ci sia nel nostro Paese — spiega Gugliemo Loy, segretario confederale della Uil —. Non si può neanche parlare di vero rapporto di lavoro: i vincoli sull’uso dei voucher sono minimi. Ci sono solo i tetti: il datore di lavoro può elargire al massimo 2 mila euro in voucher per ogni lavoratore, il lavoratore può guadagnare in voucher non più di 5 mila euro all’anno. Ma il datore di lavoro non ha limiti per quanto riguarda il numero di persone che può pagare con i voucher. Quindi potrebbe anche cambiarne uno al giorno e utilizzarne 300 all’anno”.
Di legge in legge, cosa sono e come funzionano
L’uso dei buoni lavoro è legato al cosiddetto lavoro occasionale accessorio, cioè quello che genera un reddito netto inferiore a 5 mila euro all’anno.
Un voucher costa 10 euro e corrisponde al pagamento di un’ora di lavoro: 7,50 euro vanno al lavoratore, 1,30 euro alla gestione separata dell’Inps, 70 centesimi sono destinati all’assicurazione Inail e il resto compensa la gestione del servizio.
L’intento con cui furono introdotti, nel 2003, era quello di limitare il lavoro nero e riuscire a tassare alcune attività saltuarie come il giardinaggio, l’assistenza domestica, le ripetizioni private e gli altri tipi di impieghi occasionali indicati nel decreto 276 del 2003. Poi, di legge in legge, di decreto in decreto, di circolare in circolare, le limitazioni sono cadute.
Le prestazioni di lavoro accessorio sono stata estese a quasi tutti i settori produttivi e a tutte le categorie di lavoratori.
E con il diminuire dei vincoli, è aumentato il ricorso a questo tipo di rapporto di lavoro. “Una sicurezza per le aziende nei periodi di crisi”
“La formula funziona — spiega Elvira Massimiano, responsabile delle politiche del lavoro di Confesercenti — soprattutto nei casi in cui le imprese non riescono a far fronte al carico di lavoro con il personale fisso”.
Per la Massimiano, poi, il tetto di 2 mila euro per le imprese è in alcuni casi troppo stringente. “Se fosse più alto, molte categorie ne beneficerebbero. Penso ai tirocinanti e ai praticanti: potrebbero essere pagati per il lavoro in più che fanno. Si porterebbe alla luce moltolavoro nero. Ed è una formula che il Jobs Act sta incentivando”.
Secondo Confesercenti, i voucher lavoro sono utilizzati specie nei casi in cui il datore non riesce a sostenere i carichi di lavoro ricorrendo ai dipendenti regolarmente assunti.
“È il caso dei weekend e della stagione estiva per le attività del settore del turismo —dice, ma ammettendo anche che si tratta dell’approdo degli imprenditori in difficoltà per la crisi —. Quando un’azienda non può fare una programmazione a lunga durata sui costi del personale, i voucher sono una salvezza”.
Negli anni, la vendita più estesa dei buoni lavoro è stata registrata nei settori del commercio, del turismo, dei servizi e di altre attività .
Il primo decreto legge prevedeva, negli articoli dal 70 al 73, che il lavoro occasionale accessorio, pagato con i voucher, fosse riservato a “piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa la assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, all’insegnamento privato supplementare, ai piccoli lavori di giardinaggio, nonchè di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti, alla realizzazione di manifestazionisociali, sportive, culturali o caritatevoli, alla collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà ”.
L’intenzione iniziale, però, è stata tanto snaturata che oggi questi settori rappresentanoil minor campo di applicazione per i voucher lavoro.
E il Jobs Act prevede proprio l’abrogazione degli articoli dal 70 al 73 del 276 del 2003. Liberalizzazione e mancati introiti con la firma del governo “Quella dei voucher — spiega Corrado Barachetti, responsabile mercato del lavoro della Cgil — è diventata una politica principe di questo governo. Deve essere messa in cima alla scala della precarietà .
Il recente abbozzo delle riforme contrattuali, con accento sul lavoro ac-cessorio, rivede le tabelle pre Fornero e, alzando il tetto massimo di guadagno, genera solo un aumento del lavoro precario”.
Nel riordino dei contratti previsto nel Jobs Act, infatti, i buoni subiranno un’u l t eriore liberalizzazione. La bozza del decreto analizzata in consiglio dei ministri lo scorso 20 febbraio prevede che il limite di guadagno netto annuo per la definizione del lavoro occasionale accessorio passi da 5 mila a 7 mila euro.
Secondo i rilievi della Uil i voucher producono 70 milioni di euro di elusione fiscale ogni anno: gli oltre 46 mila lavo-zoratori pagati con i voucher genererebbero un mancato gettito dell’Irpef, l’imposta sul reddito, pari a 57,8 milioni di euro e un mancato gettito dell’Irap, imposta sulle attività produttive, di 12,2 milioni.
“Il voucher non è imponibile per l’Irap e il lavoratore è esentasse — dice Loy della Uil — ed è pertanto un sistema che spinge i lavoratori verso il basso. Altro che contratti a tutele crescenti. Le aziende possono accordarsi e scambiarsi i dipendenti e, come se non bastasse, creano un danno alle casse dello Stato”.
Zero tutele, nessun contratto, diritti col contagocce
Sul sito stranierinitalia. it , un utente chiede agli esperti: “Al momento ho un permesso di soggiorno per attesa occupazione. Ho trovato una persona che mi prende come babysitter e mi paga con i buoni lavoro. Posso richiedere il rilascio del permesso di soggiorno con questo lavoro?”
La risposta è “no”, nonostante la maggior parte degli stranieri (quella non pagata in nero) sia retribuita proprio con questa forma di pagamento.
Il reddito percepito con il lavoro accessorio ha un’utilità esclusivamente integrativa.
Con i buoni lavoro, insomma, non si hanno diritti: non si matura il Tfr, il trattamento di fine rapporto, non si maturano ferie, non si ha diritto alle indennità di malattia e di maternità , nè agli assegni familiari.
“Fino a due anni fa — spiega Isabella Pavolucci, della Filcam di Rimini — avevamo registrato un aumento del lavoro a intermittenza, quello cioè che permette al datore di chiamare il dipendente quando ne ha bisogno. Non era il massimo per il lavoratore, ma perlomeno poteva contare sulle garanzie e le tutele di un contratto. Invece abbiamo notato che parallelamente all’aumento della vendita dei voucher e alla loro graduale liberalizzazione, c’è stata una conseguente diminuzione di questo tipo di contratti”.
E con il Jobs Act, dicono tutti, sarà anche peggio.
Il punto debole dei controlli e dei pochi ispettori Per rendere più tracciabili i voucher, sarà introdotto l’obbligo per le aziende di acquistare i buoni solo con modalità telematiche e quello di comunicare alla Direzione territoriale del lavoro il luogo della prestazione e l’arco temporale in cui sarà usato (che non può superare i trenta giorni successivi all’a cquisto).
“In questo modo l’Inps crede di poter controllare la domanda — spiega Barachetti della Cgil —. Ma in realtà è una stupidaggine. Prima si acquistavano in tabaccheria, ora per via telematica. Forse così si assicura in automatico il contributo all’Inps ma non c’è alcuna operazione di controllo aggiuntiva. Il committente può prendere un voucher e farlo valere per due, tre, quattro prestazioni. Può far lavorare il dipendente 10 ore e pagarlo con soli cinque voucher”.
Uno dei maggiori problemi dei voucher lavoro è legato ai controlli.
L’ispettore del lavoro non può verificare orario d’inizio e fine del lavoro, limitandosi ad appurare che siano stati pagati i contributi. Inoltre, sempre il Jobs Act prevede la nascita di un’agenzia unica ispettiva del lavoro che dovrà occuparsi di sicurezza, infortuni, contribuzione e rispetto delle norme contrattuali.
“Gli ispettori non riusciranno mai ad acquisire competenze complete in tutti e tre i fronti — commenta Barachetti — nè a tenere sotto controllo in modo efficiente aziende e imprese. Quest’agenzia, prima di nascere, sembra già essere depotenziata.
Inoltre, tutti gli ispettori nominati che avrebbero dovuto entrare in ruolo quest’anno, sono ancora precari. Non è previsto un euro per loro. Già sono sotto organico, figuriamoci se riusciranno a vigilare anche sui voucher”.
Virginia Della Sala
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: denuncia | Commenta »
Aprile 15th, 2015 Riccardo Fucile
AUMENTARE LA STIMA DELLA CRESCITA E’ STATO GIUDICATO DAGLI ESPERTI UN BLUFF
Il Def di Renzi e Padoan è un documento che riassume perfettamente questo governo: nei fatti lavora sul piccolo cabotaggio — in perfetta continuità con l’esecutivo di Enrico Letta —, si prende qualche libertà sui numeri e poi lavora sulla comunicazione, lo spin come dicono gli esperti di renzismo.
Renzi e il suo ministro non contestano i vincoli di bilancio imposti dall’Ue, men che meno “l’ideologia ufficiale” della svalutazione interna che sta alla base dell’Eurozona, però non adottano nemmeno i provvedimenti conseguenti per “con — solidare il bilancio pubblico”, cioè si guardano bene dal tagliare spesa pubblica e stato sociale come chiede Bruxelles.
L’esecutivo Renzi è come una squadra di calcio di qualche decennio addietro: butta la palla in avanti e spera che succeda qualcosa.
Segnatamente: che Bruxelles si accontenti della distruzione dello Statuto dei lavoratori (Jobs Act) e della Costituzione, che il Quantitive easing della Bce inneschi davvero la ripresa, che lo spread rimanga basso e il petrolio pure.
Sotto e sopra tutte queste grandi speranze c’è, però, la capacità di inventare slogan che catturino l’attenzione dei media (frame nell’italiano renzizzato).
Nel caso di questo Documento di economia e finanza si tratta del famoso “tesoretto” da un miliardo e mezzo: c’è ma vi diremo chi lo avrà solo tra qualche tempo.
Perchè? Non si sa. Questo ircocervo che vive solo nei numeri del Def e la cui destinazione occupa tv e giornali da giorni (“Ecco a chi andrà il tesoretto”, apriva ieri Il Messaggero) sta cominciando a irritare un po’ tutti, soprattutto quelli che i numeri li sanno leggere.
Ha cominciato l’ex capo economista del Tesoro Lorenzo Codogno, oggi a Londra, seguito dall’Uffi — cio parlamentare di bilancio (Upb): “Il principale fattore di rischio riguarda la crescita del Pil per il 2016, pari a 1,3%”, che è lo scenario più roseo tracciato dagli analisti indipendenti.
E ancora: è “ottimistica la previsione sulla dinamica dei consumi delle famiglie”, visto che dovrebbe essere “so — stenuta da un aumento dell’occupazione più intenso rispetto a quello stimato” (ma Upb “ha validato le nostre stime”, dice il Mef). Pure Il Sole 24 Ore si è tolto i guanti e ieri ospitava un commento in prima pagina così intitolato: “Se il tesoretto è solo un arma di distrazione di massa”.
Questi quattro soldi, scrive il vicedirettore Fabrizio Forquet, li avete solo perchè avete aumentato la crescita stimata sul 2015, anno in cui peraltro il bilancio pubblico è già pieno di coperture poco chiare.
Il giornale di Confindustria, come si capisce alla fine, non ha digerito il tentativo di aumentare i contributi alle imprese nell’ambito dei decreti attuativi del Jobs Act.
È quel che capita quando le amicizie si basano sul do ut des.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
argomento: governo | Commenta »