Aprile 9th, 2015 Riccardo Fucile
RIMBORSI BENZINA COME SE FOSSE A MILANO MA ERA AD AOSTA, DICEVA DI ESSERE A VICENZA MA ERA A GENOVA EST, PAREVA A CREMONA INVECE ERA A SPEZIA… E A PONTIDA PASSA IL CONTO DI UN B&B MA ERA IN COMPAGNIA… E QUESTO AVREBBE DOVUTO ESSERE IL CANDIDATO GOVERNATORE DEL CENTRODESTRA?
Le carte sull’inchiesta delle spese pazze in Regione Liguria rivelano aspetti inquietanti:, compresi strani mal di pancia e malesseri.
A Matteo Rosso, quando era capogruppo del Pdl, la Finanza contesta di non aver controllato i rimborsi di medicinali presentati dai consiglieri: Imodium per i disturbi intestinali, Antoral per il mal di gola, l’antibiotico Zimox.
Il capogruppo di Forza Italia, Marco Melgrati, per far risparmiare l’assistente, le prestava la Viacard di servizio.
Edoardo Rixi, ex candidato alla presidenza della Regione per la Lega, all’epoca aveva il dono dell’ubiquità : presentava il rimborso dell’autostrada per un viaggio a Milano per “l’espletamento del mandato popolare”, ma dal Telepass risultava invece ad Aosta.
E che dire di Luigi Morgillo? Il vicepresidente del consiglio regionale di Liguria Libera ha presentato le fatture di un viaggio a Bolzano per un incontro con amministratori e parlamentari della provincia autonoma (659 euro all’hotel Greif), ma nella camera 105 con lui dormiva anche la moglie.
È un potpourri di “spese pazze” quello che emerge negli atti di fine indagine dell’inchiesta del pm Francesco Pinto.
Le contestazioni della Finanza, spaziano dalle cene in ristoranti tipo la “Cuccagna” fino ai viaggi, dagli acquisti di sigarette alle compresse.
I viaggi.
A Sofia, in Bulgaria, Luigi Morgillo si reca per un incontro con l’ambasciatore dal 15 al 18 giugno del 2010.
Richiede un rimborso al centesimo di 904,69 euro tra aereo e albergo, ma stranamente i servizi vengono conteggiati tre volte.
Il 105 non gli porta bene.
A Saturnia non ci va per lavoro, ma per le terme. Prenota una camera con lo stesso numero di quella di Bolzano, gode di trattamenti benefici e presenta un conto di 1.415 euro.
La fattura svela inequivocabilmente che si trovava in compagnia della moglie.
Edoardo Rixi stupisce: a Pontida, per il raduno, alloggia in un B&B, ma secondo la Finanza il conto è per due persone.
La stanza 206 Alessio Saso (Ncd) non la prenderà più: all’hotel Duomo di Orvieto hanno scoperto che non era solo. La famiglia è la famiglia.
Alessandro Benzi del Gruppo Misto, all’hotel Cavour di Firenze (per presenziare a un forum internazionale), si è portato moglie e due figli, spendendo per due notti 403,70 euro.
Il 16 marzo 2011, l’assessore Pd allo Sviluppo economico Renzo Guccinelli “scende” a Roma per una riunione del proprio partito.
A tradirlo è la tassa di soggiorno emessa dall’hotel residenza in Farnese che “segnala” due persone per 104 euro.
I ristoranti.
Rosario Monteleone ci ha provato. Ad Assisi e Bologna già che c’era ha tirato fuori 421 euro di albergo e 52 euro al ristorante Diana: carta canta, così i funzionari addetti al controllo quando hanno visto la fattura per due persone, l’hanno dimezzata.
Nicolò Scialfa, invece, quando è stato a Roma per una riunione di partito, ha chiesto un rimborso per il ristorante Nazareno. Una batosta: 409 euro. Non per un pasto pantagruelico. Erano in tre.
In generale in tanti fanno finta di niente.
Matteo Rossi, ex Sel, si reca dai Latini (storico locale), paga 85 euro, ma c’è un ospite. Fatture ritoccate (Quaini sbaglia i calcoli, mette nei rimborsi pure le sigarette; Scibilia i giocattoli), errori casuali (Monteleone va alla Piccola Roma, alla Bettola del Buttero e spende per cinque) in cui compaiono, due, tre quattro persone inserite come ospiti a carico della Regione.
È un comportamento abbastanza comune (vedi Gino Garibaldi ex Pdl ora Ncd, il capogruppo di Forza Italia, Marco Melgrati) presentare ricevute da 100 fino a 800 euro anche se a tavola c’erano amici e conoscenti.
Le autostrade. Melgrati e Rixi pareggiano.
Prendiamo in esame il 22 dicembre 2010.
Il primo risulta entrare al casello di Pietra Ligure alle 20.09 e nuovamente dopo otto minuti. Non è lui, ma la segretaria che usa la sua Viacard: sono quasi 150 i passaggi sospetti riscontrati dalla Finanza da settembre 2010 a settembre 2012.
Rixi, invece, presenta rimborsi da 106 euro per viaggi a Cremona, quando le Fiamme gialle invece appurano analizzando il Telepass che si trovava a La Spezia.
E se diceva di essere a Vicenza, risultava che girasse tra Genova Est e Ovest.
Stefano Origone
(da “La Repubblica“)
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Aprile 9th, 2015 Riccardo Fucile
“NON MI SONO DIMESSA, MI HANNO SOSTITUITA PERCHE’ CRITICO LA LINEA DI APPIATTIMENTO SU RENZI”
“Ncd come il Grande Fratello. Nominata da Alfano sono dovuta uscire dalla ‘casa’ per le mie idee”. Nunzia De Girolamo commenta così, su Twitter, quanto successo alla Camera, dove ha lasciato il suo posto di capogruppo di Area Popolare (Ncd+Udc). Incarico che da oggi ricopre Maurizio Lupi, l’ex numero uno delle Infrastrutture e Trasporti, che si è dimesso dopo il coinvolgimento (non è indagato) nell’inchiesta sulle grandi opere che ha portato all’arresto di Ercole Incalza.
Il ministro degli Interni Angelino Alfano, infatti, ha chiesto a Lupi la disponibilità a guidare il gruppo di Area Popolare a Montecitorio al posto di De Girolamo (che a sua volta si è dimessa a seguito dello scandalo delle nomine alla Asl di Benevento).
Il motivo dell’avvicendamento?
“Non è possibile fare il capogruppo dicendo di voler uscire dal governo“, avrebbe detto Alfano motivando la sua scelta, almeno secondo quanto riferito alle agenzie di stampa da alcuni partecipanti alla riunione di Area Popolare alla Camera.
Chiaro il riferimento all’ex ministro alle Politiche Agricole e ai suoi mal di pancia nei confronti del rapporto Ncd-esecutivo.
Non solo. La poltrona di vice-Lupi sarebbe stata invece offerta a Rocco Buttiglione.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 9th, 2015 Riccardo Fucile
DALEMIANO D’ORIGINE, NOMINATO DA MONTI, PASSATO DA LETTA E PROMOSSO DA RENZI
Matteo Renzi ha scelto il nuovo sottosegretario alla presidenza del consiglio e il nuovo segretario generale di Palazzo Chigi.
A prendere il posto di Graziano Delrio come sottosegretario alla presidenza è l’economista Claudio De Vincenti, finora viceministro dello Sviluppo economico, mentre al vertice dell’amministrazione di Palazzo Chigi è stato chiamato il capo dipartimento dei rapporti con il Parlamento Paolo Aquilanti.
CHI È CLAUDIO DE VINCENTI
Romano, 66 anni, è nella squadra di governo da diversi anni: nominato prima da Mario Monti e confermato da Enrico Letta, De Vincenti ha ricoperto l’incarico di sottosegretario allo Sviluppo Economico.
In questa veste si è occupato di numerose vertenze di industrie in crisi, dalle acciaierie di Terni alla Lucchini, da Termini Imerese all’Ilva.
È professore di economia politica alla Sapienza di Roma e collabora con il sito di economia Lavoce.info.
In passato, tra il 1998 e il 2001, è stato consulente economico per i governi di Massimo D’Alema e Giuliano Amato.
Nel suo curriculum spicca la sua presenza nel comitato esecutivo della fondazione Nens, che fa capo all’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani e all’ex ministro Vincenzo Visco.
È autore di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali e italiane e di diversi volumi: la sua prima pubblicazione, che risale al 1978, aveva per oggetto l’influenza di Marx sul pensiero dell’economista Piero Sraffa.
È stato anche presidente del Comitato Scientifico dell’Osservatorio Prezzi del Ministero delle Attività produttive, coordinatore del Consiglio Tecnico Scientifico dell’Osservatorio sulla Famiglia presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e membro del Cda dell’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco).
PERCHÈ DE VINCENTI
Il passaggio di Graziano Delrio al Ministero delle Infrastrutture ha liberato una casella a Palazzo Chigi, al fianco di Matteo Renzi.
Posizione che il premier aveva inizialmente la tentazione di ricoprire portando più vicino a sè uno fra Maria Elena Boschi e Luca Lotti.
Il cosiddetto “giglio magico”, la cerchia di fedelissimi del premier che secondo molti osservatori sta “fiorentinizzando” Palazzo Chigi.
Una scelta che Renzi ha dovuto rivedere anche perchè la Boschi è impegnata nella battaglia parlamentare per le riforme, mentre Lotti gestisce già deleghe molto rilevanti (come il Cipe, l’Editoria e altri) che avrebbe cumulato con quelle finora in mano a Delrio, prima fra tutti la gestione dei fondi europei.
La strategia del premier è quindi cambiata in corsa, con la decisione di aprire il “giglio magico” a una personalità esterna.
La scelta è caduta su De Vincenti, che non ha col premier un rapporto neppure paragonabile a quello che aveva Graziano Delrio, o prima ancora Enrico Letta con Romano Prodi o Gianni Letta con Silvio Berlusconi.
Non è un renziano, anzi. La sua storia politica lo vede nell’entourage di Massimo D’Alema prima e di Pier Luigi Bersani poi.
La sua storia di Governo parte da Monti e passa per Letta prima di arrivare a Renzi. Non si tratta però di un dalemiano a Palazzo Chigi.
Questa può essere la lettura di immagine della nomina. Nella terna che correva per la carica di sottosegretario alla Presidenza – oltre a De Vincenti, anche Fedeli e Rosato – Renzi era scettico sulla scelta di sollevare De Vincenti dal suo attuale incarico di gestore delle crisi aziendali, anche se molto spesso negli ultimi mesi è stato Palazzo Chigi a prendere in carico i dossier più spinosi.
Quello che più ha convinto Renzi è il rapporto di Claudio De Vincenti con la Cassa Depositi e Prestiti: si vocifera che il premier avesse pensato anche a Franco Bassanini, attuale presidente di Cdp, per il ruolo di braccio destro, anche se l’interessato ha subito smentito ogni ipotesi di passaggio al Governo.
Cruciale è il legame stretto che De Vincenti ha con Bassanini – anche con la Fondazione Astrid, da quest’ultimo presieduta – e con l’ambiente della Cassa.
È lui il tecnico a cui affidare le chiavi della macchina di Palazzo Chigi.
CHI È PAOLO AQUILANTI
A capo della dirigenza di Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha invece scelto Paolo Aquilanti, un “grand commis” dello Stato che ha lavorato a lungo come funzionario del Senato.
Laureato in Giurisprudenza all’Università la Sapienza di Roma, 55 anni, fino a oggi Aquilanti è stato voluto da Maria Elena Boschi come braccio destro al ministero delle Riforme, dove si è occupato del dossier della legge elettorale aiutando la giovane ministra a evitare le insidie delle aule parlamentari.
Entrato a Palazzo Madama nel 1987, ha lavorato in vari uffici e commissioni e dal 1999 e fino appunto al 2014 ha ricoperto l’incarico di segretario della commissione Affari costituzionali, al quale nel 2013 si è aggiunto quello di coordinatore del Servizio delle commissioni permanenti e speciali.
Ha curato vari progetti, tra cui uno concernente l’uso dei media civici in ambito parlamentare, e ha coordinato quello di dematerializzazione degli atti parlamentari.
Si è quindi occupato dell’applicazione degli strumenti informatici alle attività delle commissioni del Senato.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 9th, 2015 Riccardo Fucile
DI AREA CENTRODESTRA, SILVAGNI AVREBBE PERMESSO L’APERTURA DI UN BURGER KING IN CAMBIO DI POSTI DI LAVORO PER 20 PERSONE INDICATE DA LUI
Fabio Silvagni era stato eletto meno di un anno fa alla guida del Comune di Marino (Castelli Romani).
Lo scorso 25 maggio, grazie alla vittoria della Coalizione dei Moderati (candidato del centrodestra) con il 54,1% dei voti, era stato eletto sindaco.
Oggi il primo cittadino è stato arrestato per corruzione e peculato: per lui il gip di Tribunale ha disposto gli arresti domiciliari.
Il giudice ha disposto la stessa misura cautelare anche per il funzionario comunale Bruno Saccavino e per gli imprenditori Gianluca Tomasi e David Biancifori.
Le indagini iniziate nello scorso mese di giugno — dirette dal procuratore della Repubblica di Velletri Francesco Prete — hanno, tra l’altro, riguardato la realizzazione di uno store della catena Burger King, del valore di circa 3.000.000 di euro, per il quale il primo cittadino avrebbe rilasciato illecitamente le necessarie autorizzazioni in cambio dell’assunzione di una ventina persone da lui indicate per garantirsi così un ritorno politico ed elettorale.
Il fast food — inaugurato da poco — si trova sulla via Nettunense ed è stato sequestrato questa mattina dai carabinieri della compagnia di Castel Gandolfo, che hanno condotto le indagini insieme agli agenti del Corpo forestale dello Stato del nucleo di polizia giudiziaria della Procura di Velletri. la proprietà del capannone è riferibile alla società di un imprenditore locale, Gino Ferrazza, 73 anni, che — secondo quanto ricostruito nel corso delle indagini — aveva “diverse commesse con l’amministrazione di Marino”.
Nella stessa ordinanza di custodia cautelare la Procura contesta almeno altri due episodi corruttivi.
Il sindaco avrebbe intascato, secondo l’accusa, una tangente del 3% su una cifra di 100 mila euro, in relazione “ad un mandato di pagamento emesso dal comune di Marino”, e chiesto sponsorizzazioni per le feste del paese in cambio di rilascio di concessioni edilizie.
Subito dopo gli arresti sono state disposte diverse perquisizioni, per acquisire la documentazione contabile delle società coinvolte, alcune “di notevole importanza”.
I titolari del Burger King — il cui amministratore delegato, un poliziotto in congedo malattia da circa un anno, è stato arrestato — avrebbero in corso altre iniziative imprenditoriali in diverse città italiane.
La Guardia di finanza sta ora analizzando i documenti sequestrati per “verificare se siano state poste in essere condotte illecite”.
Andrea Palladino
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 9th, 2015 Riccardo Fucile
IL KILLER PASSA PER L’ACCESSO RISERVATO CON FALSO TESSERINO SENZA CHE NESSUNO LO CONTROLLI…ORLANDO AMMETTE: “GRAVI ERRORI”
Voleva fare fuori tutti i testimoni, zittirli per sempre.
“Volevo vendicarmi contro chi mi ha rovinato” ha confessato ai carabinieri. Difficile spiegarsi in altro modo quella pistola fra la cinta.
Difficile spiegare altrimenti quei 13 colpi di arma da fuoco e i due caricatori con cui ha esploso i proiettili calibro 7.65.
Giacca, cravatta e impermeabile: nelle prime ore della mattinata Claudio Giardiello, imprenditore in gravi difficoltà economiche, 57 enne nato a Benevento e residente in Brianza, varca la soglia del Tribunale di Milano.
Capire dove e come sia passato è il compito della procura di Brescia che ha preso in mano le indagini.
Secondo il procuratore Bruno Liberati Giardiello avrebbe usato un falso tesserino per entrare da un ingresso laterale del Palazzo e dalla porta riservata all’accesso di magistrati, avvocati e cronisti (ed è stato ripreso dalle telecamere).
Giardiello è dentro, la pistola è con lui.
Si siede fra i banchi del pubblico di un’aula del terzo piano, quella dove si discute sulla bancarotta della sua Magenta Immobiliare.
Una faccenda, quella dellla Magenta – dichiarata fallita nel 2008 – che vede più protagonisti. Ci sono i coimputati, soci con Giardiello dell’azienda (lui detenva il 55%): suo nipote Davide Limongelli (30%) e un altro coimputato, Giovanni Erba. Sono tutti lì. In aula c’è anche un giovane avvocato del foro milanese, Lorenzo Alberto Claris Appiani, che aveva avuto a che fare con quel fallimento e che ora parla come teste.
Poco prima delle 11 sale la tensione nell’aula.
E’ in corso un controesame e le voci si fanno grosse, un litigio, il diverbio è sempre più acceso. Il suo avvocato rinuncia alla difesa di Giardiello.
A quel punto Giardiello scatta. Estrae la pistola e spara: colpisce al cuore Lorenzo Claris e lo uccide. Aveva 37 anni.
Spara ancora – testimoni parleranno di più colpi – e ferisce il nipote e il coimputato Erba che morirà poco dopo in ospedale.
Scatta il panico nel tribunale. Giudici e avvocati si chiudono per precauzione nelle stanze. Il 57enne fugge, testimoni raccontano di averlo visto nascosto sotto una panca. Non si sa se prima o dopo essere sceso con le scale al secondo piano, dove la sua necessità di “azzittire” continua.
Arriva davanti alla porta del giudice fallimentare Ferdinando Ciampi, citato come teste al suo processo perchè aveva emesso una sentenza di fallimento di una società collegata a quella di Giardiello.
L’omicida apre e spara. Il corpo di Ciampi verrà ritrovato poco dopo da alcune cancelliere. Ucciso con 2 colpi di pistola.
Da quanto si è saputo, Ciampi ha cercato di proteggere anche una sua collaboratrice prima di essere ammazzato nella sua stanza.
A questo punto Giardiello non si trova.
E anche qui la procura di Brescia dovrà ricostruire punto per punto come ha fatto. Il beneventano si nasconde e poi riesce a uscire dal tribunale.
Inforca una moto, raggiunge la provinciale e in circa mezzora corre verso Vimercate, dove verrà fermato dai carabinieri che grazie alla videosorveglianza del tribunale hanno identificato la targa del Suzuki.
I militari lo disarmano. Il premier Renzi – mentre esprime cordoglio ai famigliari delle vittime – spiega che “aveva ancora i caricatori” e Alfano dice che “poteva uccidere anche a Vimercate”.
Comincia l’interrogatorio, poi Giardiello si sente male e viene portato via in ambulanza.
Durante l’ interrogatorio di garanzia che si è svolto nel pronto soccorso dell’ospedale di Vimercate si avvale della facoltà di non rispondere “adesso è sotto choc e sedato”.
Cinque ore dopo – con un conto di tre vittime e una quarta persona ferita gravemente – in conferenza stampa, il ministro della Giustizia Orlando dirà che “il sistema ha visto compiersi un insieme di errori gravi” che “le indagini dovranno chiarire”.
Un palazzo di giustizia dove si entra e si esce indisturbati: un bel biglietto da visita per Expo’.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 9th, 2015 Riccardo Fucile
RACCOLTI APPENA 114.000 EURO DEI 14 MILIONI NECESSARI PER CELEBRARE LA CONSULTAZIONE…”PRESI IN GIRO I VENETI”
Il piatto piange. E per giungere al traguardo, di questo passo, ci vorranno 61 anni.
Se non di più. Tanto, infatti, bisognerà aspettare per raccogliere tutti i 14 milioni di euro necessari per tentare di rendere il Veneto indipendente dall’Italia attraverso un referendum consultivo da finanziare con contributi privati.
Una posizione da sempre cara alla Lega Nord e al suo segretario federale, Matteo Salvini.
Peccato per lui e per i ferventi secessionisti che dall’inizio di ottobre 2014, secondo quanto risulta a ilfattoquotidiano.it, siano stati raccolti appena 114 mila euro. Centesimo più centesimo meno
CONTO IN ROSSO
Si tratta di una vicenda che inizia alla metà dello scorso anno, quando il Consiglio regionale del Veneto ha approvato due leggi, entrambe già impugnate dal governo perchè in contrasto con alcuni articoli della Costituzione.
Una, appunto, per indire una consultazione popolare sull’indipendenza della Regione, l’altra per chiederne l’autonomia ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione stessa. Mentre però quest’ultima è finanziata dal bilancio regionale, per lo svolgimento del referendum secessionista, benedetto — fra gli altri — dal governatore Luca Zaia, è necessaria una raccolta fondi popolare.
Il motivo è semplice: è un percorso non previsto dalla Costituzione.
Perciò sei mesi fa è stato aperto un conto corrente sul quale riversare i contributi. Risultato?
Al 31 marzo 2015 risultano arrivati, in media, 19 mila euro ogni trenta giorni, circa 633 euro ogni ventiquattro ore. Poco più dell’uno per cento del totale necessario allo svolgimento del referendum. Cioè: un flop.
SOLDI BUTTATI
Dei 114 mila euro presenti al momento in cassa, poi, 13 mila sono stati bonificati fra l’inizio di gennaio e la fine di marzo, visto che al 31 dicembre 2014 se ne potevano contare solo 101 mila.
Una performance che sta provocando persino qualche reazione ironica: “La pochezza di quanto raccolto dimostra come i veneti abbiano altri problemi a cui pensare che non l’indipendenza”, attacca Gennaro Marotta, consigliere regionale del Veneto in quota Italia dei valori (Idv).
Si tratta, aggiunge Marotta, di “un referendum che non si farà mai e che è stato promosso mediante una legge che ha impegnato parecchio tempo il consiglio regionale che, forse, avrebbe avuto ben altro da fare. Massimo rispetto per chi ha ritenuto di versare materialmente il proprio contributo economico — conclude il consigliere dell’Idv — massimo sdegno per una sonora presa in giro dei nostri concittadini”.
SECESSIONE AL PALO
Il presidente della Regione Luca Zaia non sembra invece essere troppo preoccupato dall’andamento della raccolta fondi. Almeno in apparenza.
“Il consiglio ha deciso di imboccare questa doppia strada”, spiegano dal suo staff, ma “Zaia ha sempre detto che per arrivare all’indipendenza occorre un serio percorso di autonomia”.
Una posizione soft dovuta, molto probabilmente, all’avvicinarsi delle elezioni regionali del prossimo 31 maggio, quando l’ex ministro dell’Agricoltura si giocherà la rielezione sfidando Alessandra Moretti (Pd) e il sindaco di Verona Flavio Tosi, suo ex collega di partito. In campagna elettorale, si sa, meglio smorzare i toni.
Per la secessione c’è sempre tempo. Forse.
Giorgio Velardi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 9th, 2015 Riccardo Fucile
CALDAROSSI A FINMECCANICA CON DE GENNARO, FERRI ALLA SICUREZZA DEL MILAN, GAVA A UNICREDIT
Banche, squadre di calcio, aziende di Stato. In attesa di indossare di nuovo la divisa. Ricche consulenze per i big rimasti (temporaneamente) fuori dal corpo, e neppure un giorno di sospensione per i capisquadra che guidarono gli agenti torturatori.
Con i protagonisti di una delle pagine più nere della democrazia italiana, in fondo, la sorte non è stata così maligna.
Ed è anche questo aspetto, quello di un’impunità quasi totale, che ha influito non poco nel giudizio con cui la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia per le torture avvenute all’interno della scuola Diaz al G8 genovese del 2001.
La Corte di Strasburgo ha sottolineato che di fronte al semplice sospetto di gravi abusi commessi da appartenenti alle forze dell’ordine la Convenzione dei Diritti dell’uomo prevede l’allontanamento degli stessi dalle posizioni che occupano già nella fase d’indagine.
Invece per la Diaz è accaduto l’esatto contrario, molti di loro sono stati promossi questori, capi di dipartimento, prefetti, e da indagati e condannati hanno raggiunto livelli apicali.
Quelli che hanno dovuto lasciare la divisa sono quasi tutti “caduti in piedi” e gli altri rappresentano ancora lo Stato nelle strade e nelle piazze d’Italia
Quando nel luglio 2012 la Cassazione conferma le pesanti condanne di appello per falso (le uniche che si sono salvate dalla prescrizione a differenza delle lesioni gravi) Franco Gratteri è il capo della Direzione centrale anticrimine, Gilberto Caldarozzi, capo dello Servizio centrale operativo, Giovanni Luperi, capo del dipartimento analisi dell’Aisi, l’ex Sisde, Filippo Ferri, il più giovane, figlio dell’ex ministro e fratello del sottosegretario alla giustizia, guida la squadra mobile di Firenze.
L’interdizione dai pubblici uffici obbliga il ministero ad espellerli.Non restano a spasso per molto.
Ferri diventa responsabile della sicurezza del Milan e per alcuni mesi è l’angelo custode di Mario Balotelli
Gilberto Caldarozzi lavora prima per le banche e poi viene chiamato come consulente della sicurezza a Finmeccanica dal suo vecchio capo, Gianni De Gennaro. Indiscrezioni raccontano che anche Franco Gratteri abbia avuto rapporti con il colosso di Stato ma dall’ufficio stampa dicono che non risulta.
A Gratteri, nel 2013 il ministero pagava ancora un appartamento di servizio nel centro di Roma, ufficialmente per motivi di sicurezza.
Tra gli altri funzionari di vertice che si sono riciclati come consulenti c’è anche Salvatore Gava ex dirigente di squadra mobile che oggi lavora per Unicredit.
Attività manageriale starebbe svolgendo anche un altro condannato per la Diaz, quel Fabio Ciccimarra che è stato condannato in appello (prescritto in Cassazione) per sequestro di persona per i fatti del G7 di Napoli alla Caserma Raniero, sempre nel 2001.
Ciccimarra da indagato in due processi e già con condanne in primo grado era un funzionario in carriera fino al 2012, quando il definitivo per la Diaz lo colse capo della squadra mobile all’Aquila.
Vincenzo Canterini, il capo del reparto mobile di Roma dopo il 2001 ha avuto prestigiosi incarichi nelle ambasciate europee e una volta in pensione si è dedicato anche a rievocare, a modo suo, la vicenda Diaz in un libro.
Il suo vice Michelangelo Fournier, il funzionario che interruppe i pestaggi al grido di “basta basta”, che al processo parlò di “macelleria messicana”, ma che non fu mai in grado di individuare neppure un responsabile delle brutalità tra i suoi uomini, oggi è sempre in servizio e ricopre anche un ruolo sindacale.
Se, per questioni anagrafiche, i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici mettono fuori gioco Gratteri e Luperi (anche se non sono vietate consulenze con i servizi segreti), per i più giovani non è escluso, ed è anzi previsto, un ritorno in divisa una volta scontato il periodo.
Nessun esponente di governo ha infatti mai specificato che non saranno riammessi.
Potrebbero indossarla ancor prima due funzionari responsabili di condotte minori nella vicenda Diaz.
Uno di loro è quel Pietro Troiani che diede ordine al suo autista di trasferire dal blindato al cortile della scuola Diaz il sacchetto con le molotov poi addebitate ingiustamente ai manifestanti.
L’aver beneficato dell’affidamento ai servizi sociali per i pochi mesi da scontare non coperti dall’indulto consente infatti di ottenere la cancellazione dell’interdizione.
Grazie alla prescrizione per le lesioni gravi non hanno invece subito nessuna interdizione i capisquadra condannati: Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri.
Hanno continuato a fare il loro lavoro. Addirittura il governo italiano, come si legge nella sentenza della Corte europea, non ha mai voluto informare i giudici di Strasburgo circa le sanzioni disciplinari adottate.
E lo stesso sta facendo il ministro Angelino Alfano da due anni esatti.
Nel maggio del 2013 i parlamentari di Sel presentarono un’interrogazione al Viminale per sapere quali misure disciplinari fossero state prese nei confronti dei condannati per la Diaz.
La risposta deve ancora arrivare.
Marco Preve
(da “La Repubblica”)
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Aprile 9th, 2015 Riccardo Fucile
REATO DI TORTURA, FAMILIARI DELLE VITTIME E ASSOCIAZIONI DENUNCIANO: ”COSàŒ COM’È NON SERVE A NULLA, SARà€ IMPOSSIBILE TROVARE LE PROVE”
L’avvocato Fabio Anselmo scuote la testa piuttosto nervoso: “Oh, io ho la tessera del Pd eh… sia chiaro! Ma questa volta hanno ragione!”.
Il soggetto sottinteso sono i parlamentari del Movimento Cinque Stelle. Davanti a lui — diventato il legale “ufficiale” dei morti di Stato — hanno appena annunciato che oggi, se non verrà accolto nessuno dei loro emendamenti, voteranno contro il disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura.
Il consueto ragionamento sui grillini che troppo vogliono e nulla stringono questa volta vacilla, e l’avvocato Anselmo vuole dire proprio questo quando tira in ballo la sua tessera del Pd.
Dice Anselmo che approvare quel testo così com’è sarebbe solo concedere “un alibi”al Paese: “Di fronte a un’altra Diaz potrà dire: ‘io la legge l’ho fatta, punire il reato è compito dei magistrati’. Ma se una legge sulla tortura consente che escano dalle maglie casi come quello di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi o Francesco Mastrogiovanni, allora è meglio non averla. Ho paura che questa legge serva solo a levare l’Italia dall’imbarazzo”.
Ebbene sì, se anche la legge che aspettiamo da 27 anni venisse approvata oggi dalla Camera sull’onda della condanna della Corte di Strasburgo, l’ipotesi di tortura non sarebbe stata contemplata nemmeno in casi eclatanti come quelli elencati dall’avvocato Anselmo.
Nè per gli occhi pesti del romano Cucchi, nè per le 54 ferite inferte su Aldrovandi in una strada di Ferrara, nè per le 90 ore che Mastrogiovanni ha trascorso legato a un letto in un centro di salute mentale a Vallo della Lucania.
La ragione sta nella serie di “incisi superflui e pericolosi” che sono stati introdotti nel testo di legge (e che per questo motivo dovrà tornare al Senato): avverbi, frasi e specifiche che trasformano l’accertamento del reato in una missione quasi impossibile.
Li hanno illustrati ieri i deputati M5S Vittorio Ferraresi e Giulia Sarti, accompagnati appunto dall’avvocato Anselmo, dai famigliari delle vittime e dai rappresentanti di Amnesty International e di Antigone.
Prima di tutto c’è la parola “intenzionalmente”. In pratica, non basta dimostrare che un soggetto ha, attraverso la violenza o la minaccia, inflitto “acute sofferenze fisiche o psichiche” allo scopo di punire, ottenere informazioni, vincere una resistenza. No, bisogna anche provare che nel farlo, il torturatore, ha sentito un “compiacimento personale”.
Dice Anselmo: “Presuppone il sadismo. Ma come lo dimostriamo?”.
Poi c’è la questione della prescrizione. Gli agenti dell’irruzione alla Diaz li ha salvati quella. E forse, sarebbe il caso che su temi così delicati, il reato fosse a lunga conservazione.
Succede in molti dei Paesi che, come noi, hanno ratificato la convenzione Onu del ’84 che vieta la tortura: hanno istituito un reato “proprio”, circoscritto ai pubblici ufficiali (noi no) e lo hanno qualificato come un reato di “lesa umanità ” imprescrittibile (noi no).
Raccontava ieri Antonio Marchesi, portavoce di Amnesty, che il nostro ordinamento in materia, per esempio, è molto più arretrato rispetto a quello dell’Argentina: così, non abbiamo concesso l’estradizione di alcuni torturatori del regime perchè da noi quei reati non erano puniti (e in ogni caso sarebbero stati prescritti).
Marchesi è dell’idea che il testo all’esame della Camera sia “tutt’altro che perfetto” ma teme che uno stop sarebbe un’occasione persa: “Non è detto — ricorda — che il tempo che rimane da qui a fine legislatura sia sufficiente a fare una legge migliore”. Un po’ la stessa tesi di Luigi Manconi, senatore Pd e presidente dell’associazione A Buon Diritto : “Una legge mediocre è meglio che nessuna legge”.
Tra gli altri punti che i Cinque Stelle mettono all’indice c’è il fatto che il reato è contemplato solo nell’esercizio delle funzioni (loro chiedono che venga ampliato anche al di fuori). E poi la spiegazione secondo cui “la sofferenza” provata dalla vittima deve essere “ulteriore” rispetto a quella che proverebbe con le “legittime misure privative o limitative di diritti”.
Si tratta di ipotesi già contemplate dal codice penale: “Più paletti metti, più specificazioni fai — conclude l’avvocato Anselmo — più sarà faticoso accertare il reato”.
I Cinque Stelle sono fiduciosi che un compromesso si troverà . Ma l’Ncd di Alfano pare irremovibile. Renzi, provocato sul suo no comment alla sentenza di Strasburgo, ha risposto all’ex disobbediente Luca Casarini: “Quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in Parlamento con il reato di tortura”.
Cosa ci sia scritto dentro è un di più.
Paola Zanca
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 9th, 2015 Riccardo Fucile
I SILENZI DELLA SINISTRA
Dice bene Concita De Gregorio: “Bisogna essere molto longevi, in questo Paese”. Molto longevi per avere giustizia almeno in Europa. Ma anche per ricordare a chi non c’era, a chi ha dimenticato, a chi ha visto solo la tv tanti fatti gravissimi, e chiamarli con il loro nome.
Ora che l’ha messa nero su bianco la Corte di Strasburgo, molti scoprono che l’Italia ha conosciuto la tortura.
Non nelle galere nazifasciste nel 1943-45. Ma in una scuola di Genova, 14 anni fa, in piena “democrazia”.
Negli stessi mesi l’Italia conosceva anche la censura. Ma era vietato parlare di regime e quei pochi che si azzardavano a farlo venivano scomunicati.
Non solo dal regime, ma anche dalla stampa “indipendente”, e persino dalla cosiddetta opposizione. Non è acqua passata, perchè con quella stagione nefasta non abbiamo mai fatto i conti.
“Voltiamo pagina”, si dice. Troppo comodo il revisionismo di opinionisti e intellettuali “di sinistra”, che confondono la “normalità ” con l’amnesia.
E non s’accorgono che il berlusconismo non finirà con Berlusconi (ammesso che sia giunta la sua ora): finirà quando si chiameranno finalmente le cose con il loro nome (non solo a Strasburgo, ma anche in Italia), e il virus che ha contagiato tutto e tutti, a destra e a sinistra, sarà sradicato dalle nostre teste e viscere fino all’ultimo sintomo. Berlusconismo è “politica del fare” purchessia, leggi per favorire i pochi contro i molti, collusione fra arbitri e giocatori, disprezzo per la Costituzione camuffato da “riforme istituzionali”, Parlamento controllato da due o tre boss con legge elettorale ad hoc, insofferenza alle critiche della libera stampa, allergia a un’opposizione forte e radicale (l’unica possibile nelle vere democrazie), ostracismo ai controlli terzi (magistratura, informazione e opinione pubblica), orrore per la “piazza”, occupazione partitocratica della tv, trasformazione della stampa in megafono del potere, cupidigia di servilismo ai piedi dei potenti, impunità per la classe dirigente gabellata per “primato della politica”.
Tutte tossine letali che tuttora ammorbano l’Italia. I “fatti di Genova”, come pudicamente la vaselina della stampa di regime ha sempre chiamato le torture del G8 2001, non spuntarono dal nulla come un fungo raro. Furono la prova generale di un’operazione studiata a tavolino, e perfettamente riuscita, per abituarci alle maniere spicce e sfigurare i fondamentali della democrazia liberale e dello Stato di diritto. Chi nel 2001 non era nato o andava all’asilo non ha mai avuto la fortuna di vederli. Così non ne sente neppure la mancanza.
Montanelli l’aveva già capito il 17 marzo 2001, nel pieno delle polemiche sulla mia intervista al Satyricon di Luttazzi sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri e la mafia: “Questa non è la destra, questo è il manganello”.
E così altri tre vegliardi — Bobbio, Galante Garrone e Sylos Labini — che raccolsero l’appello di Flores d’Arcais su Micromega contro B. “pericolo per la democrazia”.
Il 13 maggio Berlusconi non vinse, stravinse le elezioni.
Primo atto: la mattanza di Genova.
Rai e Mediaset censurarono le scene più crude, salvo il Tg5 di Mentana e il Tg3. Un cineoperatore del Tg2 riuscì a riprendere 20 minuti di pestaggi ai manifestanti. Si vedeva un gruppo di ragazzine che urlavano “Siamo delle Acli!”, mentre la polizia le massacrava di botte. Ma il filmato non fu trasmesso.
Lo utilizzò un inviato del Tg1, Bruno Luverà , per un reportage che gli valse il premio Saint Vincent.
Dieci giorni dopo anche La7, unica alternativa al monopolio televisivo, fu normalizzata col passaggio di Telecom a Tronchetti Provera, che subito smantellò il palinsesto già pronto con Lerner direttore del tg e i programmi di Fazio e dei Guzzanti.
A settembre, dopo la strage delle Torri Gemelle, l’Italia entrò in guerra contro l’Afghanistan. Il 12 gennaio 2002 Borrelli aprì l’anno giudiziario col celebre “resistere, resistere, resistere”.
Subito dopo partirono i girotondi. Intanto B. si pappava la Rai con un Cda di stretta osservanza e un dg, Agostino Saccà , che aveva appena dichiarato: “Voto Forza Italia con tutta la mia famiglia”.
E Violante ricordava a B. le benemerenze del centrosinistra: “Nel ’94 gli è stata data la garanzia piena che non gli sarebbero state toccate le tv. Lo sa lui e lo sa Gianni Letta”.
Il premier, da Sofia, ordinò alla sua Rai di cacciare Biagi, Santoro e Luttazzi. Detto, fatto.
Il 9 luglio il Cda bloccò pure la messa in onda del documentario Bella ciao di Freccero (appena rimpiazzato a Rai2 col leghista Marano), Marco Giusti e Roberto Torelli sulla macelleria di Genova, appena applaudito al Festival di Cannes, ma proibito in Italia.
Poi, nell’estate 2004, i vertici Ds pensarono bene di invitare alla Festa nazionale dell’Unità in programma a Genova l’ex ministro dell’Interno Scajola, responsabile politico della repressione.
Padellaro, condirettore dell’Unità , scrisse un editoriale dal titolo sarcastico: “I testimoni di Genova”: “È possibile che Scajola ci racconti finalmente chi diede l’ordine dei pestaggi al G8? No, il massimo che possiamo attenderci è qualche cautissima, genericissima, fumosissima apertura al dialogo destinata a evaporare con la fine dell’estate, quando riapriranno il Parlamento e Porta a Porta”.
Rispose tal Paganelli, responsabile della Festa: “Appare perlomeno singolare la scelta dell’Unità (giornale) di dedicare all’Unità (festa) un editoriale di critica alla vigilia dell’apertura”.
E Vannino Chiti: “La gente non vuole una contrapposizione frontale permanente”. Colombo e Padellaro, nella serata inaugurale della Festa, furono accolti da un lungo applauso della folla in piedi.
Pochi mesi dopo, fu cacciato Colombo. Poi anche Padellaro.
Chiamare regime il regime non portava buono. Nemmeno a sinistra.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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