Aprile 29th, 2015 Riccardo Fucile
BERLUSCONI METTE SUL MERCATO MILAN E MEDIASET PER FARE CASSA: UNA PARTE VERRA’ REINVESTITA IN POLITICA?
Follow the money. Per seguire Berlusconi.
Lo ammette, quasi non volendo, con candida sincerità il commissario pugliese di Forza Italia Luigi Vitali: “Il presidente sta facendo delle valutazioni e mi darà nella tarda serata di oggi o domani le date della sua presenza in Puglia. Purtroppo si è messo di mezzo anche un viaggio in Cina”.
In Cina, per vendere il Milan. Ad Arcore per la grande trattativa su Mediaset.
All’ufficio di presidenza del suo partito, l’ex premier si è collegato per telefono. Nel giorno in cui i suoi urlavano al “fascismo renziano”.
Follow the money, perchè è in atto una gigantesca trattativa sull’Impero delle 4 M: Mediaset, Mediolanum, Milan e Mondadori. Che porterà nelle casse di famiglia, nei prossimi mesi una montagna di soldi, liquidi: “A Berlusconi – sussurra chi lo ha sentito in questi giorni — non frega nulla del partito e delle regionali. Ha cambiato schema. Torna a muoversi come kingmaker economico, poi dall’alto di una smisurata liquidità e di una nuova rete di rapporti, punterà le sue fiches sulla politica al momento opportuno”.
Eccola, la grande trattativa. Che non è sinonimo di addio.
È all’asta il Milan tra Mr Bee e Cinesi. I quali, tra l’altro, e non è un dettaglio, gli hanno già assicurato che resterà “presidente” visto che in Cina è amatissimo e popolarissimo.
Mentre Mediaset è all’asta tra le mire australiane di Murdoch e quelle francesi della Vinendì di Vincent Bollorè.
Per la prima volta la famiglia Berlusconi si prepara a cedere la proprietà del Milan agli stranieri. A chi e a quanto è ciò che si sta definendo in queste ore. In cima alle quotazioni c’è il broker thailandese Bee Taechaubol, volato a Milano in questi giorni per definire l’affare nell’ennesimo faccia a faccia con Silvio Berlusconi ad Arcore.
Si fa sul serio, ha assicurato il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri, al termine dell’assemblea di Mediaset: “Quest chi l’è vera”. Tradotto (dal milanese): sì, l’offerta è solida.
Mister Bee è pronto a staccare un assegno da 500 milioni di euro per il 51 per cento della società , potendo contare su un sostegno che va dalla Ads Securities di Abu Dhabi alla China Citic Bank, valutando di fatto i rossoneri circa 1,2 miliardi di euro, se si escludono i 250 milioni di debiti finanziari certificati nel bilancio chiuso qualche giorno fa e che ha visto peraltro un rosso record sul fronte del risultato netto, con un passivo di 91 milioni di euro.
Ed è solida la manovra attorno a Mediaset.
Il 7 per cento messo sul mercato a febbraio, pari a quasi 380 milioni di euro, è stato soltanto l’inizio. Perchè, di fronte al crollo della pubblicità , urgono nuovi soci per Premium: “Siamo al centro dei giochi — dice Pier Silvio Berlusconi – ma noi non siamo venditori, semmai siamo aperti a partnership di minoranza”.
È in questo quadro che il Cavaliere ha incontrato ad Arcore nei giorni scorsi il suo vecchio nemico d’affari, Rupert Murdoch.
Al centro dell’incontro le possibili integrazioni nel settore delle pay-tv. E qui la questione si complica. Perchè Sky non ha intenzione a intavolare l’affare con un ruolo secondario: “Murdoch in minoranza — afferma Confalonieri – non lo vedo nemmeno a giocare a scopa”.
Epperò non è solo Premium l’oggetto della possibile trattativa tra Sky e Mediaset. C’è ad esempio il fardello dei diritti tv della Champions League, che Berlusconi ha soffiato a Sky a carissimo prezzo, 700 milioni di euro per i prossimi tre anni, che da un lato hanno sì valorizzato Mediaset lo scorso anno in vista di cessioni di quote ma dall’altro rischiano di non garantire introiti altrettanto cospicui alle casse dell’azienda.
L’altro soggetto dell’asta che ha in mente Berlusconi sono i francesi di Vivendi.
E non è un caso che sono bastate le indiscrezioni di un possibile interesse che il titolo Mediaset è letteralmente volato negli ultimi giorni. Per ora Pier Silvio Berlusconi ha giocato a sviare l’attenzione, ha pure precisato che “il controllo di Mediaset non è in discussione” e che Berlusconi non mollerà il comando delle sue tv, ma non ha affatto negato che c’è in ballo un affare che potrebbe portare nelle casse di famiglia un miliardo e settecento milioni.
Nello schema bipolare tra prede e predatori ha deciso di collocarsi decisamente tra i secondi Mondadori.
Perchè è vero che la due diligence su Rcs Libri è ancora in corso, ma l’ad Ernesto Mauri ha assicurato che entro il 29 giugno arriverà sicuramente l’offerta di Segrate, in una forchetta tra i 120 e i 150 milioni di euro.
Bruscolini in confronto al miliardo di euro che Silvio Berlusconi dovrebbe incassare, cedendo il 20 per cento di Mediolanum come chiesto dalla Banca d’Italia dopo la perdita dei requisiti di onorabilità seguita alla condanna per frode fiscale.
Follow the money, dunque. Facendo i conti: un disimpegno da Mediaset potrebbe valere fino a 1,7 miliardi di euro, quasi 1,2 miliardi la quota extra di Mediolanum che è pronta ad essere ceduta, 500 milioni quella che dovrebbe arrivare dalla cessione del Milan, che si sommano agli 1,5 miliardi che già oggi sono custoditi nella cassaforte della famiglia Berlusconi portando la cassa quasi a quota 5 miliardi.
È una montagna di soldi quella che spunta nel crepuscolo del berlusconismo: “Può — riflette chi gli sta attorno — uno con una tale montagna di soldi e con una tale rete di interessi considerarsi espulso dalla politica? Che cosa farà Berlusconi, li dividerà tra i figli o inizierà l’era di una nuova crescita aziendale?”.
E ogni nuova fase aziendale, per Berlusconi è intrinsecamente molto politica. Perchè il primo imperativo politico è la difesa dell’interesse.
È da lì che discendono le forme del suo “stare in campo”: “A finanziare un listone di centrodestra per andare al ballottaggio con Renzi ci mette un attimo. Già ha annunciato una rifondazione di Forza Italia come comitato elettorale. Struttura leggera e zero debiti. Poi, anche sulla politica, dopo i saldi la crescita. Si vedrà come e con chi. Salvini non sarà insensibile al discorso”.
Follow the money.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 29th, 2015 Riccardo Fucile
CON BERSANI E LETTA NE RESTANO SOLO 36
Lo spettro del 38 (i parlamentari che non votano la fiducia) si materializza a notte fonda.
Quando, nella sala Berlinguer della Camera, unico nome che evoca antichi riti unitari, Roberto Speranza replica: “La verità è che se, dopo la lettera che abbiamo mandato a Renzi con ottanta firme, per dire no alla fiducia e tratta, fossimo stati compatti, non saremmo arrivati fino a qui”.
È l’unico accenno polemico di fronte a un fuoco di fila del grosso dei bersaniani di Area riformista.
Dopo quattro ore di riunione, alle due di notte si incrinano rapporti che sembravano inscalfibili, antiche amicizie.
È lì che, di fatto, nasce il documento dei “50 responsabili” per Renzi che sarà reso pubblico in mattinata.
Quello con cui Matteo Mauri, Cesare Damiano, la Campana e altri mettono nero su bianco la decisione di votare sì alla fiducia: “Una scelta politica, non dei singoli”.
Alla base, spiega Mauri, bersaniano doc e uomo forte del Pd milanese si Filippo Penati, c’è la consapevolezza di essere “determinanti”.
Parole dolci rispetto alla linea di “violenza al Parlamento” scandita dall’ex capogruppo.
È un confronto duro, quello nella sala Berlinguer: “Hai sbagliato a dimetterti. E poi hai sbagliato a dire che non avremmo votato la fiducia. Una cosa del genere andava quantomeno discussa, invece hai scelto da solo” dicono i “milanesi” Martina e Mauri, ma anche Damiano e la sottosegretaria al Lavoro Bellanova.
Una trentina, su una cinquantina di presenti, rompono con la Ditta.
Stumpo, Zoggia, Leva e Epifani, tra i big, restano con Bersani. A cui vanno aggiunti, tra gli altri big, Cuperlo, Fassina, D’Attorre, Bindi, Civati, i lettiani come Meloni e Vaccaro oltre allo stesso Letta.
In tutto trentotto, di un’area che, sulla carta, ne contava oltre cento.
Uno di loro dice: “Di fronte all’accelerazione di Renzi, non si poteva rimanere fermi. Perchè l’idea con cui si era partiti era di votare la fiducia e differenziarsi sul voto finale. Però il responso sulle pregiudiziali ha mostrato che Renzi, nello scrutinio segreto, ha preso 389 voti, mentre in quello palese 360. Quindi nel voto segreto aumenta e non votare la fiducia era l’unico sistema per differenziarsi e non morire renziani”.
“La corrente è sciolta” sussurrano i partecipanti dell’una e dell’altra parte.
E nel documento firmato dai 40 bersaniani dialoganti c’è già la nascita di una nuova componente. Come in tutte le separazioni, circolano i veleni.
Su quelli che stanno in segreteria come Amendola, la Campana e il cuperliano (o ex tale) Andrea De Maria.
Un bersaniano rimasto fuori dice: “Ognuno ha aperto una trattativa con Renzi in queste ore, con lui o con Lotti e la Boschi. Si sono fatte le liste”.
In Puglia, con lo smarcamento di Dario Ginefra, Bellanova e Cassano ormai con Bersani, di fatto, non ci sono più parlamentari.
Tra i Lombardi e i Campani pure.
Ed è una frattura destinata ad acuirsi sul voto finale, martedì prossimo, perchè è sottinteso che Speranza&Co voteranno contro.
Mentre tra gli altri è in atto una discussione sul se votare a favore o posizionarsi sull’astensione.
I capannelli in Transatlantico disegnano una nuova geografia del Pd.
Dice Fassina. “I 50 responsabili di Area riformista? Sì, me li aspettavo. La minoranza si definisce sulle posizioni che si prendono nei passaggi salienti della vita parlamentare, il congresso è chiuso: adesso la minoranza è quella che vota in modo diverso”.
Ecco, ora nella minoranza di discute di come preparare gruppi autonomi.
Per ora lo dicono senza tanti giri di parole Fassina, Civati mentre il grosso continua a ripetere “dal Pd non ce ne andiamo. Ma, da oggi, si è aperta una nuova fase.
Per tutti.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 29th, 2015 Riccardo Fucile
DAL M5S DI IMPERIA ESIGONO PULIZIA E CHIEDONO CHE COMANDANI NON SIA CANDIDATO: MA GRILLO NON RISPONDE
Il silenzio ufficiale del M5S continua, come quello di Beppe Grillo.
Se molti dall’interno del M5S avevano chiesto in “privato” di affrontare la questione, oggi la richiesta di affrontarla in mondo pubblico e netto, chiedendo che Daniele Comandani (nella foto con Alberto Cerutti e Mafodda Carmine, promotori del M5S ad Arma di Taggia), capolista del M5S per le regionali nell’imperiese, venga escluso dalla lista dei candidati alle elezioni regionali, viene dal Portavoce del M5S di Imperia.
Antonio Russo, capogruppo del M5S nel Consiglio Comunale di Imperia, infatti, tra il resto dichiara: “…Daniele Comandini, che ha orgogliosamente e pubblicamente sbandierato il suo legame di amicizia con questa persona [Maffodda Carmine, ndr]; anzi di questa sua storica frequentazione di elementi vincolati a cosche mafiose, ne ha fatto un vanto se non uno spot elettorale”
Il caso era stato sollevato dalla Casa della Legalità che aveva evidenziato certi rapporti imbarazzanti, e ogni giorno che passa l’assenza di risposta ufficiale diventa inquietante.
Ecco il testo integrale della dichiarazione del Portavoce del M5S di Imperia, Antonio Russo:
«Il Movimento 5 Stelle fa della questione morale il punto cardine, fermo ed irrinunciabile della sua ragion d’essere. Dai suoi rappresentanti esige una specchiata reputazione, un’assoluta lontananza da coloro che non fanno dell’onestà il loro stile di vita; nessuna macchia o anche solo sospetto deve adombrare la trasparenza e la purezza della loro persona.
Sono regole dure ma necessarie in un mondo dove da troppi anni regna il malaffare, la corruzione e la connivenza con le mafie.
Quindi crediamo sia opportuno che chiunque sia candidato nelle liste del Movimento 5 Stelle debba necessariamente evitare frequentazioni e rapporti con persone vicine, collegate o in qualche modo anche solo sfiorate da influenze mafiose.
Ci riferiamo alla vicenda che vede coinvolto un nostro candidato, Daniele Comandini, colpevole di poco opportune frequentazioni con una persona dal cognome tristemente noto alle cronaca nera del nostro territorio, Carmine Mafodda.
Non entriamo nel merito delle responsabilità reali che questa persona potrebbe avere data la sua parentale appartenenza ad una delle cosche mafiose più attive del ponente, possiamo affermare che a tutt’oggi non esistono pendenze penali a suo carico, ma ci rivolgiamo al nostro candidato Daniele Comandini, che ha orgogliosamente e pubblicamente sbandierato il suo legame di amicizia con questa persona; anzi di questa sua storica frequentazione di elementi vincolati a cosche mafiose, anche se solo per rapporti di parentela, ne ha fatto un vanto se non uno spot elettorale.
Il suo maggior sostenitore e amico fraterno ( per sua stessa ammissione ), il Sig. Carmine Mafodda, è un rampollo della tristemente nota famiglia mafiosa dei Mafodda, che da anni è attiva sul territorio e già oggetto di numerose indagini della magistratura, come si evince dai rapporti della polizia e verbali dei Pubblici Ministeri; ripetiamo che non esiste nulla di penalmente rilevante nella vita del Sig. Carmine Mafodda, ma il solo fatto di portare quel cognome così sinistramente ingombrante dovrebbe indurre il nostro candidato a tenersi alla larga da queste inopportune frequentazioni, a fare un passo indietro e ritirare la sua candidatura, proprio per evitare il generarsi e svilupparsi di false ombre di connivenza tra il nostro Movimento e elementi mafiosi; si deve evitare che si insinuino sospetti di voto di scambio tra il mondo della malavita e i nostri candidati.
Chiediamo formalmente e pubblicamente al Sig. Comandini Daniele, poichè il suo nome è ormai legato a quello di Carmine Mafodda, di ritirare la sua candidatura dalla lista del Movimento 5 Stelle per le elezioni regionali, per il bene e l’interesse del Movimento, perchè noi siamo e dobbiamo restare trasparenti come il vetro, e su un vetro pulito, anche una piccolissima macchia lo trasforma in un vetro sporco».
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Aprile 29th, 2015 Riccardo Fucile
IL NOSTRO PADIGLIONE NON È COMPLETO…INTANTO I COSTI SONO LIEVITATI: PER IL PALAZZO PAGHEREMO 93 MILIONI DI EURO
Sarebbe piaciuto a Pier Paolo Pasolini il nome scelto dai manager di Expo 2015 per l’edificio destinato a rappresentare il nostro biglietto da visita all’esposizione universale che si apre il primo maggio.
Se il Palazzo di Pasolini era una metafora della politica italiana, ‘Palazzo Italia’ è una metafora del nostro paese.
Se potesse parlare questo edificio con la pelle bianca bella ed elegante racconterebbe che il suo disegno è stato realizzato dalla Proger Spa insieme all’architetto Michele Molè, riuniti nell’associazione Nemesi.
Nel novembre 2012 Nemesi vince un concorso internazionale con un disegno avveniristico che rappresenta il genio italico delle costruzioni.
Il palazzo, secondo il progetto, doveva costare alla collettività 40 milioni di euro.
Grazie alle tante varianti richieste dal committente Expo Italia Spa (partecipata da Ministero Economia, 40 per cento; Comune di Milano, 20 per cento, Regione Lombardia 20 per cento e Provincia, 10 per cento, amministrata da Giuseppe Sala) invece il costo è lievitato già del 36 per cento a 53,6 milioni e alla fine costerà non meno di 93 milioni di euro, come ammette lo stesso Giuseppe Sala, Amministratore di Expo 2015.
La ragione dell’aumento e del ritardo?
Subito dopo avere assegnato nell’ottobre 2013 (a seguito di una turbativa secondo i pm fiorentini) l’esecuzione dei lavori a un’Ati composta da Italiana Costruzioni e Coveco, la Expo 2015 Spa si accorge di avere sbagliato a chiedere poco spazio espositivo e troppi uffici.
Senza tenere conto dei rischi e dei costi Expo chiede all’Ati di aumentare lo spazio espositivo con le varianti che fanno decollare i costi.
Inoltre Expo non assegna la direzione dei lavori al progettista Nemesi, che avrebbe guidato la realizzazione di quello che aveva disegnato, ma al responsabile unico del procedimento per Expo, quell’Antonio Acerbo poi arrestato nell’ottobre 2014.
A quel punto il committente si lega mani e piedi all’esecutore che può imputare i suoi eventuali ritardi ai cambiamenti in corso d’opera del progetto.
Il risultato è l’aumento dei costi e una lite chiusa da una probabile transazione con una spesa di 93 milioni di euro, il doppio del costo di partenza.
Se il Palazzo Italia potesse parlare spiegherebbe agli ignari visitatori cinesi che il suo responsabile unico del procedimento Antonio Acerbo è stato arrestato nel 2014, che uno dei progettisti che ha scritto il programma della sua realizzazione, Stefano Perotti, è finito in carcere nel 2015.
Racconterebbe che l’associazione di imprese che lo ha costruito è una riedizione di Peppone e Don Camillo: c’è una cooperativa rossa veneta (Co.ve.co., già coinvolta nello scandalo del MOSE) e c’è un’impresa vicina al Vaticano, la IC, Italiana Costruzioni. Racconterebbe poi che i titolari di IC, Attilio e Luca Navarra, sono indagati con il già citato Stefano Perotti (amico di Maurizio Lupi e sodale di Ercole Incalza) arrestato anche perchè avrebbe turbato con Antonio Acerbo la gara del Padiglione Italia a beneficio dei Navarra.
In questa storia del ‘Palazzo Italiano’ non poteva mancare il monsignore.
Il presidente della Peregrinatio ad Petri Sedem, Francesco Gioia, è intercettato dal Ros mentre presenta telefonicamente Luca Navarra al solito Perotti.
Insomma c’è tutto il ‘sistema Italia’ nel Palazzo Italia.
Quando Navarra, dopo avere vinto la gara per il Padiglione anche grazie all’ausilio di Perotti, non rispetta i patti sulla direzione dei lavori, per trovare la quadra del sistema entra in campo Francesco Cavallo, uomo forte di Comunione e Liberazione: l’appuntamento Cavallo-Perotti-Navarra si svolge nello studio di un avvocato, già presidente della Compagnia delle Opere (il braccio imprenditoriale di Cl) nel Lazio. Storie di ‘Palazzo’ direbbe Pasolini al quale interesserebbe certamente di più la sfida dei 400 operai che stanno correndo su e giù da settimane per salvare la faccia all’Italia davanti al mondo.
Da qualche settimana l’Ati di IC ha accelerato la sua difficile rimonta.
Si lavora 24 ore su 24 come tante formiche con il casco arancione in un immenso playmobil. Il 28 aprile, due giorni fa, tre consiglieri regionali M5s, guidati da Stefano Buffagni, son tornati sul cantiere filmando un lieve miglioramento.
Intanto le gru, per ragioni di sicurezza, sono state portate via rendendo più difficile il trasporto dei materiali.
Eppure tutti a Expo 2015 Spa giurano che l’Italia non farà la figuraccia prevedibile.
Gli spazi espositivi secondo Expo, saranno tutti pronti. Il pubblico non noterà i tagli al progetto iniziale, la minore quantità della ‘pelle’ bianca dell’esterno e dell’interno nè i materiali meno resistenti al fuoco usati per la vela che copre l’opera.
Varianti che hanno ridotto i costi di fattura aumentando i profitti dell’impresa.
Il visitatore resterà ammirato dalla bellezza dell’edificio firmato dalla Proger Spa con l’architetto Molè.
Se davvero ci volessero due settimane per consegnare un lavoro a regola d’arte passando dallo stato grezzo a quello definitivo in così poco tempo perchè impiegare mesi?
La verità è che il risultato di questa corsa folle sarà un doppio ‘oh’ di stupore.
Il primo ‘oh’ riempirà d’orgoglio gli italiani se riusciremo a dimostrare ancora una volta agli stranieri quanto siamo bravi nell’emergenza.
Poi però, quando i riflettori si saranno spenti, arriverà il secondo ‘oh’ per l’aggravio di costo di questa insensata gara contro il tempo.
Eppure l’Expo è stata assegnata all’Italia nel 2008 e questo edificio di 13 mila metri quadrati per quattro piani è l’unico tra tutti i padiglioni dei 135 paesi partecipanti all’esposizione universale che resterà in piedi.
Gli altri saranno smontati al termine della grande fiera mondiale.
Insomma, a prescindere dal raddoppio della spesa pubblica, l’Italia non farà una gran figura.
Anche Sala ha ammesso che non tutti gli spazi aperti al pubblico saranno pronti.
Per esempio l’Auditorium del Palazzo non sarà finito.
I responsabili della comunicazione di Expo 2015 e Martini giurano in coro che la terrazza Martini con la vista mozzafiato sull’Expo sarà ultimata in tempo.
Tutti gli italiani si augurano di brindare davvero il primo maggio con Sala, il premier Matteo Renzi e lo sceriffo Raffale Cantone sulla terrazza alla faccia degli stranieri e dei gufi. Però qualche dubbio guardando lo stato della terrazza resta.
Al posto dei bancali stesi sul cemento dovrebbe sbocciare la splendida terrazza con parquet disegnata da Pininfarina del rendering di Martini.
Anche la tranquillità ostentata da Expo sull’apertura del ristorante Peck al quarto piano del palazzo sembra fatta apposta per far morire di invidia i comuni mortali.
Un ristoratore comune difficilmente potrebbe superare i controlli di Asl e vigili con un locale che a pochi giorni dall’apertura.
Comunque la battaglia di Italiana Costruzioni non finisce il primo maggio.
I 400 operai continueranno a lavorare tutte le notti dalle 23 alle 5 di mattina.
Poi entreranno le ditte delle pulizie per far sparire le tracce.
I visitatori non si accorgeranno di niente. I contribuenti purtroppo sì.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 29th, 2015 Riccardo Fucile
ARRESTATI ANCHE COGNATO E UN AGENTE PENITENZIARIO
Un cognato di Nicola Cosentino (fratello della moglie), lo stesso ex sottosegretario di Stato ed un agente di polizia penitenziaria in servizio al carcere di Secondigliano a Napoli risultano essere destinatari di ordinanze di carcerazione nell’ambito di un fascicolo aperto dalla procura presso la Direzione distrettuale antimafia di Napoli su presunti favori chiesti ed ottenuti dall’ex politico in regime di detenzione, al quale venivano recapitati documenti e regalie.
L’accusa formulata è quella di corruzione.
Cosentino, già leader del Pdl in Campania, è stato trasferito di recente nel carcere di Terni.
La nuova inchiesta della Dda – scaturita da una precedente inchiesta condotta dal pm Antonello Ardituro – vede anche l’emissione di una quarta misura cautelare: si tratta di un obbligo di dimora notificato alla moglie di Nicola Cosentino, Marisa Esposito.
Le misure sono state firmate dal gip del tribunale di Napoli, Isabella Iaselli.
Cibo, abiti, documenti e iPod in cella
Secondo l’accusa, Giuseppe Esposito, 54 anni, era riuscito a far arrivare nella cella del cognato cibo, abiti, documenti da consultare e finanche un iPod.
Nel corso si una perquisizione disposta dai magistrati il 21 marzo scorso nei confronti di Cosentino era stato appurato che in cella l’ex politico poteva godere di 30 tipologie di oggetti diverse: 12 in sovrannumero rispetto a quanto previsto dai regolamenti del carcere di Secondigliano.
Ma Dda e carabinieri già da un pezzo tenevano sotto controllo i movimenti degli agenti penitenziari, secondo l’accusa anche remunerati attraverso somme di denaro o addirittura l’assunzione di familiari e conoscenti, e in particolare di uno di essi, Umberto Vitale, di 43 anni e residente a Succivo, sempre nel Casertano.
Attraverso pedinamenti ed intercettazioni ambientali sono stati monitorati e anche filmati trentasei incontri fra quest’ultimo e il cognato del politico, che spesso si tenevano su un’area di servizio del suo stesso comune.
Dopo la perquisizione nella cella di Cosentino ne fu disposto il trasferimento nel penitenziario di Terni. L’indagine è stata coordinata dai sostituti procuratori Fabrizio Vanorio e Alessandro D’Alessio nonchè dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli sotto il coordinamento del procuratore capo Giovanni Colangelo.
Piero Rossano
(da “il Corriere della Sera”)
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Aprile 29th, 2015 Riccardo Fucile
GIA CONDANNATO A 2 ANNI E OTTO MESI PER CORRUZIONE ELETTORALE MAFIOSA
Quattrocento mila euro alla ‘ndrangheta per essere eletto nel Consiglio regionale della Calabria.
Centomila euro alla cosca Pelle più altre 300mila che i boss di San Luca dovevano utilizzare per rastrellare altri voti tra le altre famiglie mafiose della Locride.
Già condannato a 2 anni e 8 mesi di carcere per corruzione elettorale, è stato arrestato di nuovo l’ex consigliere regionale Santi Zappalà .
Questa volta, l’esponente di centrodestra (eletto con più di 11mila preferenze nel 2010 con il Pdl che sosteneva l’ex governatore Giuseppe Scopelliti) è accusato di scambio elettorale politico-mafioso.
All’alba del 29 aprile è scattato il blitz dei carabinieri del Ros e della guardia di finanza che hanno stretto le manette ai polsi anche ad altri 4 soggetti. Accogliendo la richiesta dei pm Antonio De Bernardo e Giovanni Musarò, il gip ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il boss Giuseppe Pelle detto “Gambazza”, il suo referente con la politica Giuseppe Antonio Mesiani Mazzacuva e Antonio Pelle.
Arresti domiciliari, invece, per Sebastiano Pelle.
L’operazione “Reale 6” dimostra — scrivono i magistrati — “come in occasione delle elezioni regionali del 2010, il candidato Santi Zappalà chiese in modo scientifico l’appoggio non solo della cosca Pelle, ma di numerosi sodalizi appartenenti alla ‘ndrangheta e operanti nel territorio del suo collegio elettorale”.
Un rastrellamento di voti che, in sostanza, vide Santi Zappalà fare il giro della provincia per chiedere il sostegno delle famiglie mafiose.
I carabinieri e la guardia di finanza, infatti, hanno ricostruito non solo i rapporti con i Pelle di San Luca man anche con i Barbaro di Platì, i Commisso di Siderno, i Greco di Calanna, i Gallico di Palmi e i Bellocco-Cacciola di Rosarno.
Un vero e proprio pellegrinaggio a casa dei boss.
Santi Zappalà trattava personalmente con i mammasantissima Giuseppe Pelle, Francesco Barbaro, Rocco Gallico e Giuseppe Greco. Proprio quest’ultimo, oggi diventato collaboratore di giustizia, ha riferito ai pm che Zappalà “si recò al suo cospetto, accompagnato dall’avvocato Antonio Marra, e nel corso di un incontro durato circa un’ora, si dichiarò disponibile ad acquistare un pacchetto di cinquecento voti in cambio della somma di 30mila euro”.
“Non valeva la pena”. È stata la risposta di Peppe Greco.
E così l’offerta del politico del Pdl non fu accolta dal boss “perchè ritenuta non conveniente”. Stando all’ordinanza di arresto, Santi Zappalà riusciva a sguazzare liberamente tra le cosche della Locride e quelle della Piana di Gioia Tauro. Nell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, sono finiti anche i verbali dell’ex testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, morta qualche anno fa per avere ingerito acido muriatico dopo essere ritornata a Rosarno.
“Era pacifico che le famiglie Cacciola e Bellocco — aveva affermato la testimone — avrebbero appoggiato la candidatura di Santi Zappalà . Quando all’interno della ‘famiglia’ si decide di appoggiare un certo candidato, ciò accade perchè quest’ultimo promette in cambio qualcosa”.
Grazie alle intercettazioni e agli accertamenti bancari, quindi, gli inquirenti sono riusciti a ricostruire nel dettaglio il passaggio di soldi tra Zappalà e il referente dei Pelle, Mesiani Mazzacuva.
Pesanti le considerazioni del gip Cinzia Barillà nel motivare le esigenze cautelari nei loro confronti.
Si tratta di soggetti — scrive il magistrato — che “hanno dimostrato una inquietante inclinazione ad inquinare le prove precostituendo una notevole quantità di documentazione falsa”.
Il politico del Pdl e l’imprenditore vicino al clan avevano tentato di spacciare gli assegni utilizzati per comprare pacchetti di voti con un prestito fatto da Zappalà e Giuseppe Mesiani Mazzacuva la cui azienda stava affrontando una crisi economica. Zappalà si è rivelato un soggetto che “ha uno straordinario spessore criminale e una sconcertante disinvoltura a negoziare con la criminalità organizzata. Disinvoltura che è certamente frutto di comportamenti analoghi già perpetrati in passato”.
Secondo la Dda, infatti, l’inchiesta “Reale” che in questi anni ha travolto i Pelle e l’ex consigliere regionale del Pdl non impedirebbe a quest’ultimo di essere funzionale alla ‘ndrangheta anche in futuro.
“Lo Zappalà — conclude il gip riprendendo quanto scritto dal Tribunale della Libertà in occasione del primo arresto — ha dimostrato un habitus operativo continuo: ha favorito alcuni in passato e continuerà a farlo anche in futuro, in un contesto di cointeresse che ha come occasione di incontro, quel giorno monitorato, l’accordo elettorale, ma che si è ramificato nel tempo nelle diverse richieste che gli sono state formulate nell’interesse del sodalizio mafioso”.
Lucio Musolino
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 29th, 2015 Riccardo Fucile
ALTRI 50 PD DA DISSIDENTI A DISSENTERICI: SI SOTTOMETTONO AL CAPOGANG ALTRIMENTI GLI PORTAVA VIA IL PALLONE
Il governo ha ottenuto alla Camera la prima fiducia, quella sull’articolo 1 della riforma della legge elettorale, con 352 voti favorevoli, 207 contrari e un astenuto.
Numeri alla mano, alla maggioranza che sostiene il governo Renzi ( che parte, sulla carta, da 396 voti) mancano 44 voti, ma vanno considerate alcune assenze giustificate. Il margine dunque resta elevato per l’esecutivo anche se pesa la rottura in atto nel Pd: ben 36 deputati della corrente dem di Area riformista non hanno votato.
Si consuma così lo strappo tra Renzi e una parte della minoranza Pd che ha ritenuto ingiustificata l’apposizione della questione di fiducia da parte del premier.
Il voto sancisce anche una spaccatura all’interno di ‘Area riformista’, con 50 deputati che hanno firmato un documento favorevole alla fiducia pur considerandola “un errore” da parte del premier.
Ieri sera invece, al termine di una discussione durata oltre quattro ore e mezza dell’area più vasta della minoranza Pd, Roberto Speranza, capogruppo dimissionario e guida della componente, aveva confermato il suo non voto, escludendo in modo netto ogni ombra di scissione dal Pd.
Nel partito la ferita sembra sempre più difficile da sanare.
Tra coloro che non hanno votato ci sono nomi che hanno fatto la storia del partito: l’ex premier Enrico Letta, l’ex presidente del partito Rosy Bindi, l’ex segretario Guglielmo Epifani, i candidati alle ultime primarie Gianni Cuperlo e Pippo Civati.
“Io non esco dal Pd, bisogna tornare al Pd. Il gesto improprio di mettere la fiducia lo ha fatto Renzi, non io”. L’ex segretario Pd Bersani ha espresso tutta la sua amarezza nei confronti del premier e dell’attuale dirigenza del partito: “Si ricordano degli ex leader per chiedere loro lealtà solo quando si tratta di votare queste fiducie, non quando rimuovono dalla commissione o non ti invitano alle feste”.
Respinge così al mittente l’appello alla responsabilità arrivato in queste ore dai vertici Pd. “No, non credo si andrà subito a votare se passa l’Italicum, ma è chiaro che d’ora in poi Renzi avrà il Parlamento nella sua disponibilità “.
Il malessere nel partito è diffuso.
Se Guglielmo Epifani e Alfredo D’Attorre hanno annunciato direttamente in aula prendendo la parola la non partecipazione al voto, altri hanno annunciato che si adegueranno non senza qualche mal di pancia.
Come nel caso dei prodiani Sandra Zampa, vice presidente Pd, e Franco Monaco, che hanno annunciato il loro sì alla fiducia solo “per mera disciplina”.
Mal di pancia non mancano anche in altri gruppi che sostengono la maggioranza: il vice segretario nazionale dell’Udc, Giusepe De Mita, ha annunciato che non parteciperà al voto di fiducia.
Stessa decisione presa da Nunzia De Girolamo, ex capogruppo Ap, che lascerà l’aula: “Le regole del gioco si scrivono e votano insieme senza abuso nè forzature”.
Sel, molto critica sulla scelta di chiedere la fiducia, ha partecipato alle votazioni con una fascia nera al braccio in segno di lutto.
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Aprile 29th, 2015 Riccardo Fucile
PARTE DELLA MINORANZA PD SI AGGRAPPA ALLA POLTRONA
Almeno 50 deputati di Area riformista, la corrente del Pd guidata da Pierluigi Bersani e Roberto Speranza, voteranno sì alla fiducia sulla legge elettorale.
Il fronte dei cosiddetti dissidenti si spacca e la minoranza perde così ulteriore peso nella battaglia parlamentare sull’Italicum.
Anzi, si allarga il gruppo di chi non seguirà l’ex segretario nel “non voto“, visto che in tutto i bersaniani sono 70.
In un documento, ha annunciato Matteo Mauri, si definisce la fiducia un “errore” ma si aggiunge che “se non passa il governo cade e sarebbe da irresponsabili non votarla”. Tutto questo mentre è in corso la prima chiama per il primo voto di fiducia.
Tra coloro che nella minoranza Pd (non solo della corrente di Bersani) non voteranno la fiducia, secondo Stefano Fassina, saranno più di 30.
A questi si aggiungerà sicuramente Nunzia De Girolamo, ex capogruppo del Nuovo Centrodestra a Montecitorio.
I deputati di Sel sfileranno sotto il banco della presidenza, per esprimere il proprio voto, con una fascia nera al braccio in segno di lutto.
Un deputato vendoliano, Giulio Marcon, ha votato mostrando un libro rosso, un volume sulla Costituzione di Giuseppe Dossetti. Per questo viene richiamato all’ordine dal vicepresidente Luigi Di Maio.
Per l’approvazione della fiducia non è necessaria la maggioranza assoluta, ma è sufficiente quella relativa.
Alla Camera il computo della maggioranza per la fiducia è condotto esclusivamente sui voti favorevoli e contrari, mentre gli astenuti non sono considerati votanti ai fini del quorum di maggioranza.
Ai fini del risultato finale, perciò, al contrario di quello che avviene in Senato, astenersi rappresenta un atto meno ostile al Governo rispetto a votare no, dal momento che questo concorre a ridurre il quorum.
Nel documento dei 50 della minoranza del Pd sembra trasparire anche una certa critica alla scelta di Bersani e Speranza di non partecipare al voto: “Le prove muscolari non portano lontano. Chiunque le faccia. Non votare la fiducia non è una dimostrazione di coraggio. È una scelta politica — si legge — E la nostra scelta è sempre, coerentemente, invece quella di migliorare i provvedimenti e costruire le condizioni del dialogo e dell’unità nel Pd. In modo ostinato. Contro gli estremisti e i tifosi”.
Parole che rischiano di far diventare Bersani e i suoi una minoranza dentro la minoranza.
In mattinata, era tornato a parlare Pier Luigi Bersani, uno dei leader che hanno annunciato che non voteranno la fiducia al governo.
“Io non esco dal Pd, bisogna tornare al Pd. Il gesto improprio di mettere la fiducia lo ha fatto Renzi, non io. E’ lui che ha fatto lo strappo“.
Bersani — che sui giornali ha detto che il Pd “non è più il mio partito” — smentisce qualsiasi rischio di scissione. Per l’ex segretario, Renzi “non ha messo la fiducia perchè non aveva fiducia in noi, l’ha fatto per la bellezza del gesto, ed è anche peggio”.
L’obiettivo di Renzi, dopo l’approvazione dell’Italicum, non è per Bersani andare a votare ma “disporre” del Parlamento: “Potrà dire si fa così o si vota”.
Per l’ex segretario “si ricordano degli ex leader per chiedere loro lealtà solo quando si tratta di votare queste fiducie, non quando rimuovono dalla commissione o non ti invitano alle feste”.
Una risposta all’appello alla responsabilità arrivato dal vertice Pd.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 29th, 2015 Riccardo Fucile
UN CONVEGNO RICORDA IL RAGAZZO DI DESTRA UCCISO DA AVANGUARDIA OPERAIA NEL 1975… QUALCUNO CONTESTA, IL PASSATO NON PASSA
Sono tornati gli Anni 70, il piombo frigge e uccidere un fascista non è reato.
Ieri notte, a Milano, è stata incendiata una libreria: la Ritter.
La sede dell’Ugl, poi — il sindacato “di destra” — è stata devastata e una bombetta, infine, fortunatamente inesplosa, è stata collocata nella sede di Forza Nuova.
Un rewind consumato tutto in una notte, quello di ieri. Nessuno azzarderà solidarietà , figurarsi analisi. E tutto questo, in sequenza, è successo per rispondere “all’attacco fascista”.
Sono tornati gli Anni 70 ed è stata considerata una provocazione, infatti, l’organizzazione di un convegno.
Ecco il titolo: “Divide et impera. Milano Burning, le radici dell’odio”.
Un incontro organizzato in città — anche con il concorso di esponenti di sinistra — per ricordare l’assassinio di Sergio Ramelli.
Una storia degli Anni 70, questa delle radici dell’odio: studente dell’Itis Molinari, militante del Fronte della Gioventù, Ramelli si vede sequestrare il tema di italiano dall’insegnante.
Il professore non accetta che lo studente faccia propaganda fascista. Ecco, la propaganda. Nel compito, Ramelli, parla dell’omicidio di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci — due militanti del Msi di Giorgio Almirante — vittime di un assalto delle Brigate Rosse a Padova nel giugno 1974.
Ramelli, nel tema, fa una chiamata di correo: lo Stato italiano che non ha espresso il cordoglio in nessuna forma per due padri di famiglia scannati come cani. Ecco, l’odio. Il professore, al modo di un capo d’accusa, attacca in bacheca — ben visibile, nell’atrio della scuola — il tema di Ramelli. È fatta.
Uccidere un fascista non è reato. I militanti della sinistra extraparlamentare, individuati dopo nella sigla di Avanguardia Operaia, con le spranghe e le chiavi inglesi hanno modo di tenere Ramelli in agonia quarantotto giorni per farlo morire il 29 aprile 1975, quarant’anni fa oggi.
Alla notizia della morte di Ramelli — arrivata dopo quarantotto giorni di agonia — esplode il battimani di evviva.
“Uno di meno”, questo è il grido. Succede al consiglio comunale di Milano, riunito con il sindaco Aldo Aniasi, e sono i dipendenti del municipio ad applaudire, accorsi come per rinnovare un Piazzale Loreto di pronto accomodo.
A dare la notizia della morte dello studente — arrivata dopo quarantotto giorni di agonia — è stato Tommaso Staiti di Cuddia, consigliere comunale del Msi.
Malgrado l’orgia d’odio, orripilato di fronte a tanta scena, Staiti continua a parlare e solo Guido Cappelli, un liberale, indignato, si schiera con Staiti e chiede ad Aniasi di porre fine al sabba.
È la stessa Milano che con il Corriere della Sera, quando Indro Montanelli il 2 giugno 1977 viene gambizzato dalle Brigate Rosse, pur di non urtare la sensibilità altolocata dell’antifascismo, l’attentato a quell’uomo disobbediente e libero se lo racconta così, con un titolo: “Ferito un giornalista”.
È la stessa Milano di tanti film, perfino epici, dove nè questa scena, nè quella di Ramelli viene ricostruita, per non dire della cattiva coscienza su cui tutta la borghesia benecomunista non saprà mai trovare lavacro per affrontare, in punto di verità , l’omicidio del commissario Luigi Calabresi.
Ecco, sono passati quarant’anni dalla morte di Ramelli, ma gli Anni 70 non se ne vogliono andare se poi il Novecento — dopo aver saltato l’appuntamento con la storiografia — diventa, come lo è stato in questi giorni in alcune celebrazioni resistenziali, il pretesto di una “narrazione” buona al più per far vendere qualche bottiglia di vino a Oscar Farinetti o per trasformare su Repubblica un Luca Lotti, l’uomo forte di Matteo Renzi, nella reincarnazione del colonnello Moranino senza che un solo professore osi dirgli scusi, ma di cosa parla?
Dopo di che, certo, c’è chi non parla. Frigge col piombo e torna agli Anni 70.
Ad azione fa seguito reazione.
Le radici dell’odio non hanno mai smesso di germogliare.
Pietrangelo Buttafuoco
(da “il Fatto Quotidiano“)
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