Ottobre 28th, 2015 Riccardo Fucile
PENSIONI CONTRO SUSSIDI, ANZIANI PIU’ TUTELATI… SOCIAL JUSTICE INDEX: L’ITALIA IN FONDO ALLA CLASSIFICA
C’è un fantasma che si aggira per l’Europa. E risponde al nome di ingiustizia sociale. Con una divisione che si fa sempre più marcata tra le generazioni, con i giovani che sono sempre più in difficoltà dal punto di vista economico, lavorativo e di opportunità .
Un solco che cresce all’interno dell’Unione Europa anche tra gli stati membri, con i paesi dell’area del Mediterraneo che se la passano sempre peggio e che vedono i loro indici economici peggiorare, nonostante la (modesta) ripresa degli ultimi due anni.
E’ quanto si può leggere nel rapporto della Fondazione Bertelsmann Stiftung di Bruxelles che ogni hanno che pubblica il “Social justice index”.
A scorrere le posizioni della classifica per nazioni non c’è da stare molto allegri: l’Italia si trova in 25esima posizione tra i 28 stati Ue, in coda assieme agli altri paesi del sud Europa.
Non a caso i più colpiti dalla recessione economica. E quelli che fanno più difficoltà a recuperare le posizioni perdute.
Giovani, i grandi perdenti.
Secondo il rapporto, i giovani europei sono “i grandi perdenti della crisi europea economica e del debito”.
Impietosi i numeri a dimostrazione dell’assunto. All’interno dell’Unione europea ci sono 26 milioni di ragazzi e giovani a rischio povertà o esclusione sociale. Di questi, il 27,9 per cento sono minorenni.
Non si tratta solo di mancanza di risorse economiche. A peggiorare la situazione c’è la mancanza di una prospettiva per il futuro, la quale porta molti ragazzi alla rassegnazione: ci sono 5,4 milioni di giovani che non lavorano nè si stanno formando o studiando. E’ la generazione Neet, acronimo che sta per “Not (engaged) in Education, Employment or Training”.
Non studio e non lavoro: i Neet.
In Italia, i giovani che non studiano e non lavorano e nè imparano un mestiere – secondo gli ultimi dati – sono il 26,09% degli under 30.
All’inizio della crisi, nel 2008, erano il 19,15%, quasi 7 punti percentuali in meno.
Tra i giovani “Neet” italiani, il 40% ha abbandonato la scuola prima del diploma secondario superiore, il 49,87% si è fermato dopo il diploma e il 10,13% ha un titolo di studi universitario.
La percentuale di “Neet” è più elevata tra le femmine (27,99%) che tra i maschi. Peggio di noi solo la Spagna. La quale, però è in una condizione meno sfavorevole per la fascia di età tra i 20 e i 24 anni: in Spagna, la percentuale dei giovani che non lavorano nè si stanno formando o studiando è passata dal 16,6 al 24,8%, in italia si sale dal 21,6 al 32%.
Povertà , in aumento tra i giovani.
Altro che poveri pensionati. L’ingiustizia sociale colpisce solo da una parte, dimostrando una volta di più come l’Unione Europea sia per lo più un paese per vecchi.
O, per lo meno, ci sono nazioni che non si possono di certo definire paesi dove ai giovani conviene crescere.
Dal 2007, si legge nello studio Bertelsmann Stiftung, in Spagna, Grecia, Italia e Portogallo il numero dei giovani a rischio povertà ed esclusione sociale è aumentato di 1,2 milioni, passando da 6,4 a 7,6 milioni.
In 25 stati membri questo valore è aumentato, in parte, in misura considerevole dal 2008 e solo in Germania e in Svezia le prospettive per i giovani di questa fascia d’età sono migliorate negli ultimi anni.
Il divario intergenerazionale cresce. In queste condizioni non è potuto che aumentare: se la percentuale media dei ragazzi a rischio povertà ed esclusione sociale è aumentata dal 2007 passando dal 26,4 al 27,9%, il valore corrispondente nella fascia di popolazione a partire dai sessantacinque anni d’età si è ridotto dal 24,4 al 17,8 per cento.
Ciò è dovuto, secondo alla rapporto della Fondazione, al fatto che la riduzione delle rendite e delle pensioni di anzianità è stata meno marcata di quella subita dai redditi della popolazione più giovane o non si è verificata affatto.
Tradotto: la politica ha garantito che il potere di acquisto delle pensioni potesse reggere nonostante la recessione, sacrificando i giovani che sono rimasti con minori tutele sociali.
Il debito pubblico ricade sui giovani. In sostanza, si legge nelle note che accompagnano il “Social Justice index” anche gli effetti del crescente debito pubblico degli stati membri fanno cadere la bilancia solo da una parte, visto che a soffrirre delle risorse pubbliche sempre più scarse sono le giovani generazioni: “Si nota come gli investimenti futuri nell’istruzione o in ricerca e sviluppo ristagnino e l’invecchiamento delle società aumenta la pressione sulla sostenibilità finanziaria dei sistemi di previdenza”.
Il livello di indebitamento degli stati Ue rispetto alla rispettiva performance economica è aumentato in media dal 63% del 2008 all’attuale 88%.
Italia in fondo alla classifica.
Guardando la tabella che riassume la posizione in classifica dei singoli stati membri in rapporto al livello di giustizia sociale, l’Italia si piazza al 25imo posto su 28 paesi. Nonostante l’introduzione del Jobs Act (i cui effetti non si possono ancora misurare) il rapporto sottolinea come ci siano ancora carenze “ancora gravi” del mercato del lavoro.
Rispetto all’indagine del 2014, c’è stato un peggioramento in questo fondamentale: tra il 2008 e il 2014 il tasso di disoccupazione è quasi raddoppiato salendo dal 6,8% al 12,9%, mentre il livello dell’occupazione con una percentuale del 55,7% è rimasto stazionario a un livello molto basso (26o posto).
Solo in Grecia e in Croazia si è registrato un tasso di occupazione ancora più basso. Per i giovani italiani la situazione “si presenta particolarmente drammatica”: dal 2008 al 2014 la disoccupazione giovanile è infatti più che raddoppiata, passando dal 21,2% al 42,7% (25 esimo posto).
Luca Pagni
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 28th, 2015 Riccardo Fucile
NEGATA L’ESTRADIZIONE IN TUNISIA.. ORA CHI AVEVA SPECULATO SULLA VITA DI UN INNOCENTE ABBIA LE PALLE DI CHIEDERGLI SCUSA
Non solo i giudici della V Corte d’Appello di Milano hanno negato l’estradizione verso la
Tunisia di Abdel Mayid Touil, il marocchino accusato dalle autorità tunisine dell’attentato del 18 marzo al museo del Bardo (24 morti tra cui 4 italiani), ma la Procura di Milano ha anche deciso di chiedere l’archiviazione per le accuse di strage e terrorismo internazionale per le quali il giovane era indagato.
Touil, dunque, potrà lasciare il carcere di Opera in cui è rinchiuso da cinque mesi con l’accusa di terrorismo internazionale.
Gli investigatori – coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Enrico Pavone – hanno accertato, dunque, che Touil non è coinvolto nella strage.
A suo carico – stando alle accuse dei tunisini – c’era il fatto che fosse stato riconosciuto da testimoni sul luogo della strage e che avesse contattato un soggetto coinvolto nell’attentato.
Ma l’indagine ha permesso di accertare come Touil sia arrivato in Italia già il 17 febbraio, e da quel momento non abbia mai abbandonato il territorio nazionale, così da rendere poco attendibile il riconoscimento fotografico.
In più, le forze dell’ordine hanno ricostruito i movimenti della scheda telefonica: quando Touil si muove dalla Tunisia per raggiungere l’Italia attraverso la Libia, la scheda è attiva solo il 4 e il 5 febbraio.
Touil racconta che il 5 febbraio il suo cellulare viene requisito dagli scafisti prima di mettersi in viaggio verso l’Italia.
La scheda resta inattiva fino all’8 marzo quando risulta essere operativa ancora in Tunisia, per di più caricata su un altro telefono.
Ma in quel momento il ragazzo è gia in Italia da tempo.
Anche l’ultimo indizio a suo carico cade quando si scopre che il presunto terrorista che Touil avrebbe contattato era innanzitutto uno scafista, chiamato nella trasferta dal Marocco alla Tunisia, probabilmente per organizzare il suo viaggio in Italia.
La decisione della Corte che ha negato l’estradizione era prevedibile, visto che già la Procura generale aveva chiesto alla Corte di non estradare il 22enne verso la Tunisia perchè nel Paese nordafricano il reato di strage viene punito con la pena di morte. Touil avrebbe rischiato, dunque, la pena capitale.
E questa è una motivazione ostativa all’estradizione, non essendo ammessa nell’ordinamento italiano.
“D’altra parte – spiega ancora la nota del tribunale – la convenzione bilaterale di estradizione Italia-Tunisia non prevede alcun meccanismo di conversione della pena di morte in altra sanzione detentiva. Nè l’autorità tunisina ha fornito alcuna assicurazione sulla non esecuzione della pena capitale”.
Le accuse formulate dagli inquirenti tunisini avevano sollevato dubbi sin dai giorni dell’arresto.
Touil – che si è sempre professato “innocente” aveva spiegato ai giudici di essere stato a lezione di italiano in una scuola di Gaggiano sia il 16 che il 19 marzo scorso (l’attentato al Bardo fu il 18 marzo), come risulta anche da testimonianze e dai registri della scuola.
Dal carcere, il 22enne aveva fornito pure una versione che ricalcava quella di sua madre: “Non sono un jihadista – aveva detto – quel giorno ero con lei davanti alla tv a guardare quello che succedeva a Tunisi”.
Non solo i parenti, dunque. Anche gli insegnanti della scuola di italiano frequentata da Touil a partire dal suo arrivo in Italia, a bordo di un barcone approdato a Porto Empedocle (Agrigento) e senza documenti avevano confermato la sua versione.
Così Flavia Caimi: “Confermo che il 16 e il 19 marzo era in classe”.
Questo aveva portato gli investigatori italiani a escludere, con ragionevole certezza, che il giovane abbia avuto un ruolo da esecutore materiale.
Dopo 5 mesi in carcere la innocente, Touil torna finalmente in libertà : chi ha speculato per settimane sul “terrorista a casa nostra” dovrebbe avere almeno le palle di bussare alla sua porta e chiedergli scusa.
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Ottobre 28th, 2015 Riccardo Fucile
NELLE BASI DI VENEZIA E GROTTAGLIE TRA MANGIMI E MUNGITURE: PRESO SUL SERIO IL CAPO DI STATO MAGGIORE
Farsi venire un’idea, anche fantasiosa, magari bizzarra, e vederla subito realizzata: anche questo è potere. E allora: “Se non bastano i soldi per falciare i prati, potete comprare delle caprette”.
L’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, in visita a una caserma pugliese, contrariato dall’erba alta, forse intendeva fare una battuta.
Ma al capo di Stato maggiore della Marina militare capita spesso di essere preso sul serio. E così, dalla Puglia al Veneto, a luglio di quest’anno, le caprette sono arrivate davvero in almeno due caserme.
Gli ufficiali della base aeromobili della Marina di Grottaglie, vicino a Taranto, hanno preferito le tibetane, più piccole. Quelle di stanza a Venezia si direbbero capre alpine.
Un preposto alla salute sul lavoro dell’Istituto di studi militari marittimi scrive una mail al comandante e ai colleghi: “Rientrato dalla licenza ho appreso che in arsenale erano state destinate due capre e un montone come manutentori delle aree verdi. Ho subito pensato a uno scherzo. Invece, con mio stupore, era proprio così”.
Che si faceva sul serio l’hanno capito subito i marinai, addestrati a navigare e spediti a fare i pastori.
Negli ultimi anni, in mancanza di fondi, molte caserme hanno rotto i contratti con le ditte di manutenzione, scaricando il lavoro sui militari di leva, su base per così dire volontaria. Anche i radaristi specializzati, con qualche malumore, si sono adeguati a seguire corsi da giardiniere, muratore, carpentiere.
Ma i marinai non sono alpini e le capre non sono tosaerba: sporcano, in mancanza di recinzioni vanno un po’ dove gli pare e c’è pure qualche rischio di beccarsi una cornata.
Anche se arriva dai massimi vertici, l’idea delle caprette si rivela un pasticcio.
A Venezia si stancano presto dell’erba di prato, tocca compargli il mangime. Arriva la pioggia e nessuno aveva pensato di costruirgli un riparo. Poi salta fuori che una capra
è gravida, si lamenta, bisogna capire come mungerla.
“Oltre a preoccuparmi dei miei simili mi stanno a cuore anche gli animali. E’ notizia di stamane che un capretto è stato partorito morto”
Il preposto alla salute chiede se le capre hanno cibo e acqua a sufficienza, se sono registrate all’ufficio sanitario, se hanno già ricevuto le opportune vaccinazioni e se fra gli ordini di servizio c’è anche quello di pascolare e spalare il letame.
“Oltre a preoccuparmi dei miei simili” scrive, “mi stanno fortemente a cuore anche gli animali. E’ notizia di stamane che un capretto è stato partorito morto”. La lettera, rispettosa, si conclude “con la viva speranza che le caprette vadano presto a pascolare, tutte assieme, sulle vicine Dolomiti”.
Per tutta risposta il comandante gli affibbia tre giorni di consegna di rigore, punizione severissima, per “violazione delle funzioni attinenti al grado” e perchè il sottoposto, con “dichiarazioni incomplete”, avrebbe rivelato “segreti militari”.
Nella lettera di rapporto, comunque, il comandante ammette di sfuggita che “sono in corso le azioni per registrare gli animali”.
Fra punizioni e ricorsi la storia delle caprette ha fatto il giro delle caserme, fino all’orecchio di Luca Comellini, ex maresciallo dell’aeronautica e responsabile del “Movimento diritti dei militari”, che sta preparando un dossier “sull’uso delle punizioni nelle forze armate”.
Secondo Comellini “le regole sui provvedimenti disciplinari non sono adeguate e spesso non vengono rispettate. Negli ultimi anni le punizioni arbitrarie sono sempre più frequenti. Questa storia delle caprette rende bene l’idea: sarà che mancano i soldi, o che sono male impiegati, ma le forze armate stanno marciando all’indietro, verso gli inizi del Novecento. Vogliamo che il tema arrivi in Parlamento”.
Ecco, anche questo è potere: farsi venire un’idea fantasiosa e vederla subito realizzata, e poi trasformata in una faccenda serissima. E poi in una grana.
Francesco Martini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 28th, 2015 Riccardo Fucile
IL PD HA LE MANI LEGATE: ANDARE AL VOTO SU UNA MOZIONE DI SFIDUCIA FAREBBE EMERGERE LA SPACCATURA INTERNA… ARDUO FAR DIMETTERE IN MASSA 19 CONSIGLIERI DI FRONTE AL TIMORE DI PERDERE LA POLTRONA E COMUNQUE NON SAREBBERO SUFFICIENTI
L’uomo che in poche settimane ha conquistato la segreteria del Partito Democratico e ha
defenestrato un presidente del Consiglio – Enrico Letta — anticipando l’impresa con un hashtag che rimarrà nella storia (#enricostaisereno) tenuto in scacco da un sindaco dimissionario, alla gogna da settimane per qualche migliaio di euro di spese opache effettuate con la carta di credito del Comune e fino all’altro giorno dato per finito.
E’ il rapporto di forza che in questo momento intercorre tra Matteo Renzi e Ignazio Marino.
Il primo in viaggio di Stato in Sudamerica e rimasto sostanzialmente in silenzio sulla vicenda degli scontrini che sta provocando la caduta del sindaco di Roma, per inciso esponente di quel Partito Democratico che, sempre più incartato, aspetta da lui un cenno su come dirimere la questione.
Il secondo che, dopo aver rassegnato le dimissioni il 12 ottobre, si avvicina alla data del 2 novembre — giorno in cui le stesse diventeranno irrevocabili — agendo come se sedesse sulla più solida delle poltrone e lasciando trapelare l’intenzione di ritirarle e andare avanti come se nulla fosse successo.
La guerra di nervi tra il “marziano” e il Pd si gioca su uno scacchiere che somiglia a un campo minato: sotto ognuna delle caselle, in un campo e nell’altro, si nasconde un ordigno — regolamentare e politico — pronto a esplodere.
L’idea di Marino: ritirare le dimissioni
Fino a qualche giorno fa Marino pensava di convocare il consiglio per affrontare la vicenda in sede politica, ritirando le dimissioni dinanzi all’Assemblea.
“Verifichiamo quello che succede in aula — spiegava martedì l’assessore all’Ambiente, Estella Marino, ai giornalisti che le chiedevano cosa farebbe se il sindaco facesse dietrofront, dando così per scontato che Marino avesse deciso di andare alla conta — questa vicenda è soprattutto politica e nelle sedi politiche va affrontata”.
Ma il Testo Unico degli Enti locali prevede che dalla convocazione alla riunione del consiglio possano passare fino a 20 giorni, termine che sforerebbe, e di molto, il limite del 2 novembre, giorno in cui le dimissioni diventeranno irrevocabili.
Quindi Marino potrebbe revocare le dimissioni senza passare per l’Assemblea.
Se lo facesse, resterebbe in sella e potrebbe andare avanti per un po’ a furia di delibere di giunta, ma senza una maggioranza con cui amministrare una città che ha estremo bisogno di essere amministrata.
Quanto durerebbe? Al massimo fino al 31 dicembre, data entro la quale l’assemblea deve approvare il bilancio (che potrebbe slittare non oltre gennaio).
Sarebbe uno strappo senza precedenti, con il quale il sindaco rischierebbe di dare di sè l’immagine del politicante che non molla la poltrona.
L’immagine peggiore per un politico che potrebbe ripresentarsi alle primarie del Pd e, nel caso probabile di sconfitta, correre per il Campidoglio con una sua lista civica in grado di far perdere al Pd un bel gruzzolo di voti.
Le mosse del Pd: presentare una mozione di sfiducia…
Per portare a termine il dietrofront Marino non ha bisogno di chiedere un voto dell’Assemblea capitolina: gli basta ritirare le dimissioni.
A quel punto la palla passerebbe al Pd, che potrebbe presentare una mozione di sfiducia e andare al voto.
Ma la strada è impervia: per farla passare, i dem avrebbero bisogno del “voto della maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio”, si legge nel regolamento comunale. Ovvero del voto favorevole di 25 consiglieri su 48, quando il Pd ne conta soli 19.
Dove andare a prendere gli altri 6? Servirebbe un’alleanza con uno dei gruppi dell’opposizione, strada difficilmente praticabile e che metterebbe in serio imbarazzo il Nazareno.
…o far dimettere in blocco i consiglieri. Ma è ancora più difficile
Seconda possibilità : i consiglieri Pd dovrebbero dimettersi in blocco, ma le stesse dimissioni dei soli democratici non basterebbero a far cadere l’intero consiglio. Secondo l’articolo 45 del Tuel, infatti, al consigliere dimissionario subentra il primo dei non eletti e solo a esaurimento della lista scatta la decadenza.
“Nei consigli provinciali, comunali e circoscrizionali — recita il comma 1 — il seggio che durante il quinquennio rimanga vacante per qualsiasi causa, anche se sopravvenuta, è attribuito al candidato che nella medesima lista segue immediatamente l’ultimo eletto”.
Cosa accaduta, ad esempio, per Mirko Coratti, presidente dell’Assemblea Capitolina dimessosi il 27 giugno perchè coinvolto in Mafia Capitale e sostituito da Cecilia Fannunza.
Ma per far decadere l’intero consiglio servirebbero le dimissioni della metà dei consiglieri più uno, ovvero 25 su 14, come prevede il comma 2 dell’articolo 9 del regolamento del Comune.
Quindi il Pd dovrebbe trovare altri 6 consiglieri di opposizione disposti a lasciare la poltrona pur di far cadere un sindaco del Pd.
Un’altra soluzione che metterebbe in imbarazzo il Nazareno. Impresa non facile al di là dell’opportunità politica: tutti e 19 consiglieri dem dovrebbero lasciare la poltrona dopo aver speso un capitale in campagna elettorale dopo appena due anni e mezzo di mandato.
Di certo non potranno contare sui 4 membri di Sel, che ha fatto sapere di non prendere “neanche in considerazione l’ipotesi dimissioni”.
Il gruppo del Pd è spaccato
Un dato alla base dell’immobilismo: il gruppo dem in consiglio comunale è diviso. Secondo un retroscena riportato da La Repubblica, nei giorni scorsi Matteo Orfini ha convocato i consiglieri del Pd e ha chiesto loro da che parte stanno.
Risultato: 9 si sono schierati contro Marino e 10 si sono detti al suo fianco.
In attesa di un intervento di Renzi tanto invocato quanto lento ad arrivare, lunedì mattina, poi, i consiglieri dem si sono riuniti e hanno diramato alle agenzie una nota con la quale prendono tempo senza esprimere una posizione chiara: “Ribadiamo che il gruppo consiliare e il Partito democratico sono tutt’uno nel giudicare l’amministrazione Marino — si legge nella nota, in cui non si spiega quale sia il giudizio del Pd — la posizione assunta dal Pd nazionale e da tutti noi non è mai cambiata rispetto al 12 ottobre, quando il sindaco ha presentato le dimissioni, ogni futura decisione sarà condivisa e concordata con il partito”.
“Ognuno di noi ha una posizione diversa — ha ammesso lo stesso capogruppo Fabrizio Panecaldo — io sono per non votare nessun atto contro il sindaco insieme alle destre”.
Marco Pasciuti
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 28th, 2015 Riccardo Fucile
A REGGIO CALABRIA SEMPRE PIU’ RAGAZZI DELLE COSCHE SONO “ALLONTANATI DAL CONTESTO FAMILIARE” PER DECISIONE DEL TRIBUNALE DEI MINORI
“Di notte ha gli incubi, si sveglia, prova a parlare ma non gli esce la voce, poi quando ce la fa racconta di morti ammazzati, pistole. E se gli chiedo cosa ha sognato inizia a piangere: “mamma ho sognato lo zio morto ammazzato in quell’agguato, ho paura che anch’io o papà possiamo morire così””.
Questo è lo sfogo di una donna di ‘ndrangheta che bussa alla porta del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria in cerca di aiuto.
Chiede ai magistrati di “salvare” il figlio da un destino certo: quello di mafioso, killer oppure vittima di una delle tante faide calabresi che sembrano non finire mai. Ma il grido di Maria (nome di fantasia, ndr ) non è l’unico.
Da anni sono molte le donne che, sfidando la vendetta dei mariti o di altri componenti della famiglia si rivolgono a giudici del Tribunale dei Minori per salvare i loro figli.
È una rivolta difficile e silenziosa per sfuggire al controllo della “famiglia” quella delle madri calabresi che, pur di dare un futuro diverso ai loro figli, rischiano la morte e con vari stratagemmi riescono a far giungere messaggi e richieste di aiuto al Tribunale di Reggio.
Perchè molte madri, a parte quelle che scelgono di “collaborare” con la giustizia, chiedono che il figlio venga allontanato da quel contesto senza esporsi in prima persona.
“Non possono dirlo apertamente, perchè allontanare da casa un figlio della ‘ndrangheta significa andare incontro a numerose criticità “, spiega Roberto Di Bella, Presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria.
Quello di Reggio è l’unico Tribunale d’ Italia che ha intrapreso la strada dei “liberi di scegliere”, adottando una serie di provvedimenti pericolosi, disponendo l’allontanamento di una ventina tra ragazzi e ragazze dalle loro stesse famiglie, inviandoli fuori dalla Calabria, lontani dal contesto mafioso, in strutture specializzate dove possono conoscere e sperimentare una nuova vita
Si tratta di ragazzi che reprimono le loro emozioni perchè gli viene insegnato che non possono mostrare debolezze e che devono incutere terrore al prossimo.
Sono esposti a continui pericoli, vengono educati dai padri a maneggiare pistole e kalashnikov, a spacciare droga a fare attentati intimidatori e riscuotere per conto del padre il pizzo dagli imprenditori.
“La legge prevede che i figli dei tossicodipendenti possano essere allontanati da casa, perchè non fare la stessa cosa con i figli degli ‘ndranghestisti?”, si chiedono Roberto di Bella e il procuratore della Repubblica di Minori di Reggio Calabria Giuseppina La Tella, due magistrati che si sono trovati davanti gli stessi cognomi di persone che da pubblici ministeri o giudici di tribunali ordinari avevano processato e condannato.
“Questi sono i loro figli, i loro nipoti”, dice Di Bella.
“L’appartenenza alla ‘ndrangheta spesso si eredita e garantisce la vita stessa dell’organizzazione”. Di Bella e La Tella sono stati spesso attaccati ferocemente, accusati di “deportare i figli” dalle stesse famiglie. Non è un lavoro facile ma sono convinti che seguendo questa strada forse sarà possibile salvare dei ragazzi da un destino segnato.
“Lo dimostra il fatto che la maggioranza dei ragazzi allontanati dalle famiglie che hanno vissuto fuori da quel contesto, non vogliono più ritornare nei loro paesi d’origine”, spiegano.
“Il Tribunale dei Minori” , dice il Procuratore aggiunto Gaetano Paci, “lavora in sinergia con la Procura”.
Il procuratore aggiunto Nicola Gratteri spiega: “il lavoro che stanno facendo i colleghi del Tribunale dei Minori è straordinario e importante: hanno avuto coraggio quando tutti erano contrari e criticavano questo tipo di provvedimenti, anche la Chiesa. Di Bella aveva visto giusto. Aveva visto talmente bene che si cominciano a osservare i primi frutti di quel lavoro. Perchè la storia ci insegna che la scelta di campo, essere mafiosi oppure no, parte dal luogo e dalla famiglia in cui nasci. Se io fossi nato 50 metri più in là forse oggi sarei un mafioso. Purtroppo le madri sono espressione di quella cultura, anche se non spacciano droga, anche se non sparano, le figlie femmine sono costrette spesso a sposare maschi di altre famiglie mafiose. Così quel modo di vivere e di pensare si perpetua. Ecco perchè dare una chance a questi ragazzi, allontanandoli da quel modus operandi, ha un sapore rivoluzionario”.
Francesco Viviano
(da “il Fatto Quotidiano”)
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