Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
LA LEZIONE AMERICANA: LE TUTE BLU DOPO ANNI DI SACRIFICI NON ACCETTANO PIU’ SALARI DIMEZZATI
«Vote no to Sergio». Uno slogan che ha avuto molta fortuna tra i 36 mila dipendenti americani del gruppo Fca, tanto che ieri il super ceo dei due mondi (Sergio) Marchionne ha ricevuto uno schiaffo che decisamente fino a qualche giorno fa non si sarebbe aspettato.
Il 65% dei lavoratori Fiat Chrysler ha infatti rigettato l’accordo siglato dal manager con Dennis Williams, presidente del sindacato Uaw (United auto workers).
È la prima volta in 30 anni che accade nella storia di questa organizzazione, e addirittura si minaccia uno sciopero: pare che per battere un record così importante ci volesse proprio il (nostro) Sergio.
E dire che Marchionne ha sempre vantato ottimi rapporti con le tute blu Usa, contrapponendole ai più riottosi e a suo parere vetero operai italiani.
Ed è un modello per il nostro premier Matteo Renzi
Ma quando si parla di salario e di uguaglianza, il “vetero” riemerge prepotentemente: il punto più controverso dell’accordo con lo Uaw, infatti, riguarda la paga oraria dei più giovani, quelli entrati dopo la storica fusione tra la Fiat e la Chrysler.
E che hanno permesso, accettando stipendi di fatto dimezzati, alla nuova Fca di ripartire. E di arrivare oggi a ottime performance: la divisione Usa dell’azienda ha chiuso il 2014 con un profitto del 4%, e adesso che l’auto italoamericana torna a tirare, le tute blu si sono chieste: e noi?
Loro continuano a essere pagati in modo differente: 28 dollari l’ora i veterans, quelli che in Chrysler ci stavano già , prima della miracolosa rinascita realizzata grazie anche ai finanziamenti concessi da Barack Obama e dall’investimento dei fondi pensione del sindacato; e 15 dollari i giovani neo assunti, quelli con il contratto progression, destinato un giorno ad aumentare, almeno nelle intenzioni e nelle promesse reiterate dal sindacato negli ultimi anni.
Una piccola correzione al rialzo c’era già stata nell’ultimo contratto, ma adesso, a fine 2015 e con i profitti ormai consolidati, ci si aspettava la fine del doppio binario, almeno alla conclusione degli anni coperti dal rinnovo. E invece no.
Se alla delusione degli operai per il salario, si aggiunge la paura per la minacciata riduzione dei benefit sanitari, e un piano industriale che vuole delocalizzare a breve la produzione chiave in Messico, la frittata è fatta.
E così è passato il no: al 65% come detto, ma in diversi impianti, da Toledo in Ohio, passando dall’Indiana e fino allo stesso cuore della Chrysler, la Jefferson North di Detroit, con ben 4400 dipendenti, la valanga di rifiuti è stata ancora più pesante, arrivando in alcune unità produttive locali fino all’80% e oltre.
Adesso la Uaw dovrà fare il punto, e capire se converrà lasciare aperta questa vertenza, magari con lo sciopero, e tentando di siglare un nuovo contratto, o se invece sia il momento di congelarla, e aprire altri due tavoli piuttosto rognosi, quelli con Ford e Gm, che perlomeno presentano profitti più alti di Fca.
Ma le due aziende sono anche due ossi duri, visto che hanno già annunciato di voler abbassare il costo del lavoro per avvicinarlo a quello della Fca: e la Uaw, schiaffeggiata di fresco, non arriverebbe forte alla trattativa.
Bill Parker, operaio 63enne della fabbrica Chrysler di Sterling Heights, nel Michigan, ha spiegato ieri al Wall Street Journal che i lavoratori «sono arrabbiati con Marchionne, perchè lui, ora che l’azienda è più ricca, non si è sforzato di restituire loro quello che hanno dato in passato».
E no, i piani alti della compagnia italoamericana non si commuovono: ieri con un comunicato si sono definiti «delusi».
La società riteneva «di aver raggiunto, al termine di ore di dialogo e dibattito, un compromesso equo».Fca ricorda quindi «l’esperienza del 2009» (l’anno del rilancio di Chrysler) e «il grande numero di lavoratori che è stato portato nel gruppo da allora». Adesso, nella trattativa, si è cercato «il giusto equilibrio tra successo e competitività ».
«La natura ciclica dell’industria automobilistica – spiega la nota – richiede che venga riconosciuto il bisogno di premiare i dipendenti durante i periodi di prosperità , ma anche il bisogno di tutelarsi da inevitabili contrazioni del mercato».
«Siamo impazienti di continuare il dialogo con il Uaw», conclude Fca.
Dall’Italia parla Maurizio Landini, segretario della Fiom Cgil, sindacato che ha condotto un lungo braccio di ferro con Marchionne.
Landini definisce quello Usa «un esempio di democrazia sindacale e industriale da imitare, visto che in Italia non è mai stato possibile permettere a tutti i dipendenti di potere votare sull’accordo che li riguarda senza ricatti».
Per Giorgio Airaudo, deputato di Sel e a lungo nel sindacato torinese negli anni dei conflitti con la Fiat, «lo Uaw ha fatto i conti con un principio semplice e basilare, direi universale, del sindacalismo: l’obiettivo dell’uguaglianza. Se in passato, al momento della ricostruzione della Chrysler, si era accettato un pesante sacrificio, adesso gli operai giustamente si aspettavano un ritorno alla regola “pari mansioni a pari salario”».
Antonio Sciotto
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
ADDIO AL GELATO MADE IN ITALY
Essere piccoli e bravi. Partire da zero e inventare qualcosa di bello o di buono. Avere un grande successo. Venire notati e corteggiati dalle grandi multinazionali del settore, per le quali la qualità ormai non è più “nicchia”.
Ma è un’arma decisiva per battersi su mercati sempre più grandi. E dover decidere se vendere, garantendo alla propria impresa (e a se stessi) solide basi finanziarie, ma non essendo più i veri padroni del prodotto.
La storia dei due ex ragazzi piemontesi Martinetti e Grom, creatori in pochi anni di una rete di gelaterie di alta qualità appena venduta al gigante alimentare Unilever, è paradigmatica del complicato e spesso conflittuale rapporto tra quantità e qualità .
Che nella società di massa riguarda un po’ tutti i settori di consumo (cultura, vacanze, comunicazione, informazione, perfino l’offerta politica), ma nel cibo trova una delle sue più efficaci rappresentazioni, in primo luogo nella vivace dialettica tra locale e globale.
Per esempio: se un gelato al pistacchio diventa apprezzatissimo perchè la materia prima proviene da una piccola enclave irripetibile, dunque da una biodiversità limitata nello spazio e da un raccolto limitato nella quantità , come aumentare la produzione senza cambiare la natura del prodotto, la sua storia, la “filosofia” di quel gelato?
Come crescere senza “perdere l’anima” (dilemma che ci porta molto più in là di un dibattito aziendale…)?
E d’altro canto: il fatto che colossi dell’alimentazione spendano attenzione e denaro per acquisire piccole o medie realtà nate a stretto contatto con il territorio e con i produttori di materia prima, non è forse una vittoria per quella cultura della qualità che ha dato appeal e forza sistemica alla produzione italiana di cibo, e di altro?
Se il grattacielo guarda alla bottega, è solo per mangiarsela in un boccone o anche per mutuare, da quella bottega, anche cose che non sa?
Il tema è complesso e dunque non merita tirate moralistiche sui “quattrini che rovinano tutto”; ma neanche può accontentarsi dei comunicati aziendali che (ovviamente) assicurano «continuità ».
Nessuno, comprando una ricetta di chiara fama, lascerebbe intendere di volerne mutare gli ingredienti: eppure, cambiando scala di mercato, aumentando il successo e il fatturato, in qualche modo la mutazione è inevitabile.
La qualità è per tutti? Può essere garantita anche quando i numeri strappano di mano il timone a chi aveva impostato la rotta, da ragazzo, sognando le cose che si sognano da ragazzi? E la quantità , è davvero destinata per sua natura a creare serialità , anonimato, prodotti “senz’anima”?
Sono grandi domande, meglio dunque non dare piccole risposte.
Forse neanche Grom e Unilever sanno esattamente che cosa aspettarsi, nè come andrà a finire. La bottega entra nel grattacielo con la solenne promessa di non venirne fagocitata.
Ma il grattacielo è infinitamente più grande e non è fatto da una somma di botteghe.
Michele Serra
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
RAPPORTI TESI, L’ITALIA DI RENZI IN EUROPA NON CONTA NULLA
A un anno dalla nomina ad Alto rappresentante della Politica estera e di sicurezza della Ue, una strana «sindrome di Bruxelles» sembra increspare i rapporti tra Federica Mogherini e il suo grande elettore, Matteo Renzi.
E se è esagerato parlare di glaciale freddezza, alcuni segnali e diverse fonti confermano che la temperatura delle relazioni tra il presidente del Consiglio e l’unica italiana nei vertici europei si è abbassata.
L’episodio che l’ha provocata è in parte conosciuto.
Una settimana fa, su invito del ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, i capi delle diplomazie tedesca e britannica si sono ritrovati a cena a Parigi per discutere dell’attualità internazionale. Il quarto commensale era proprio Mogherini.
L’Italia è stata esclusa, in apparenza perchè si trattava del gruppo che ha preso parte ai negoziati sul nucleare iraniano.
In realtà i temi centrali previsti da Fabius per il colloquio erano Siria e Libia, cioè due crisi dove il nostro Paese è da sempre fortemente impegnato.
Basta ricordare il ruolo avuto nel 2013 nello smantellamento dell’arsenale chimico di Bashar Assad o la funzione di primo piano svolta oggi nello sforzo di soluzione della crisi libica.
Sia la Farnesina che Palazzo Chigi non hanno nascosto la propria arrabbiatura.
Renzi avrebbe telefonato personalmente a Mogherini per manifestargliela, anche se la circostanza viene negata negli ambienti dell’Alto rappresentante.
Di certo l’ha espressa con alcuni membri del gabinetto in Consiglio dei ministri venerdì scorso. La contestazione principale è che, accettando l’invito, Mogherini abbia avallato l’ennesimo formato che tende a lasciarci fuori su due dossier per noi cruciali.
E ciò proprio nel momento in cui l’Italia comincia a cogliere i frutti di un’offensiva diplomatica, tesa a rompere la tacita conventio ad excludendum , che troppo spesso i «soliti noti» mettono in pratica nei nostri confronti.
Può essere plausibile l’argomento che l’Alto rappresentante non poteva rifiutarsi di partecipare, essendo il formato lo stesso della trattativa sull’Iran, negoziato dal quale l’Italia nel 2003 si autoescluse grazie alla miopia del governo dell’epoca.
Ma è un fatto che le intenzioni del Quai d’Orsay fossero palesi: come da comunicato apparso sul sito del ministero degli Esteri francese, la cena era dedicata solo a Siria e Libia. Dell’Iran nessuna traccia.
Del tema, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha parlato in un faccia a faccia chiarificatore con Mogherini in margine ai lavori dell’Onu a New York, dove peraltro i passi dell’Alto rappresentante e quelli di Matteo Renzi non si sono incrociati neppure per caso.
Secondo fonti comunitarie, l’insoddisfazione di Matteo Renzi ha anche altre ragioni.
Il premier lamenterebbe anche di non trovare sempre sponde efficaci a Bruxelles nelle battaglie che il nostro governo ha in corso con la Commissione, di cui Mogherini è vice-presidente e unico membro italiano.
La frizione riconduce a una contraddizione implicita nella posizione di ogni rappresentante nazionale alla Ue e di quella di Federica Mogherini in particolare, la «sindrome di Bruxelles» appunto.
«Ogni capo di governo – spiega un esperto di cose comunitarie che ha trascorso molti anni nella capitale belga – si aspetta che il commissario del suo Paese sia pronto ad appoggiarne le richieste e a rispondere alle sue sollecitazioni. Cosa non facile nè scontata, perchè scorretta sul piano istituzionale. La contraddizione sta nel fatto che chi cede alle sirene, spesso interessate, della purezza europeista e prova a prendere le distanze dal proprio governo, rischia di indebolirsi. Mentre paradossalmente i commissari più forti e influenti finiscono per essere proprio quelli che vengono percepiti come più allineati con il loro governo e possono parlare a suo nome».
Quelli tedeschi per esempio sono famosi per difendere con i denti gli interessi del sistema Germania: fu Gà¼nter Verheugen, all’Industria fino al 2010, a battersi con successo per norme meno stringenti sulle emissioni di CO2 sulle auto di grossa cilindrata, uno dei tanti antefatti dello scandalo Volkswagen.
Nel caso di Mogherini poi c’è un’altra torsione.
«Matteo Renzi – spiega la nostra fonte – ha speso molto capitale politico per imporla a dei partner fino all’ultimo scettici sul suo nome, con una battaglia visibile e controversa. Ma proprio per questo, l’Alto rappresentante ha dovuto faticare più di altri per togliersi di dosso l’impressione di essere percepita come troppo italiana. C’è riuscita. Ma al prezzo di una certa delusione da parte di Renzi».
Lo scenario è in parte dèjà vu : nessuno dimentica le polemiche tra Mario Monti e Romano Prodi, quando l’allora commissario italiano alla concorrenza, profeta del monetarismo, bollava come insufficiente la manovra del premier dell’Ulivo, il quale rispondeva piccato e accusava l’altro di «stare sulla Luna».
Ma Monti era stato nominato da un altro governo, mentre Mogherini viene dalle file dell’attuale, quindi l’aspettativa appare comprensibile.
È risolvibile la contraddizione? «È strutturale. Ma bisogna trovare un giusto equilibrio, altrimenti come ogni sindrome, finirà per indebolire entrambi, l’Alto rappresentante e il suo Paese».
Paolo Valentino
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
UN VOTO IN MENO SOTTO LA MAGGIORANZA ASSOLUTA: ORMAI E VERDINI-DIPENDENTE
Il governo supera indenne il voto segreto sull’articolo 2 della riforma costituzionale, e può dunque tirare un sospiro di sollievo.
I nodi più spinosi di questo secondo passaggio a palazzo Madama del ddl Boschi sono quasi tutti alle spalle, e l’obiettivo di portare a casa il provvedimento prima della data fissata per il 13 ottobre sembra a portata di mano.
Ma il bicchiere è mezzo vuoto per diverse ragioni: la prima sono i numeri.
Nelle votazioni palesi, la maggioranza è rimasta per tutta la giornata sopra i 170, con punte più alte, ma nel voto segreto a un subemendamento Calderoli (sul tema delle minoranze linguistiche) i sì si sono fermati a 160, un voto sotto la maggioranza assoluta (161) e nonostante il robusto apporto dei verdinani e la tenuta del Pd, dopo che il patto tra renziani e minoranza dem sull’elezione semi-diretta dei senatori.
Il numero due del gruppo Pd Giorgio Tonini parla di una “prova di grande tenuta della maggioranza” e ricorda come il gruppo delle Autonomie (dove siedono i rappresentanti delle minoranze linguistiche), che pure fa parte della compagine di governo, abbia votato a favore dell’emendamento Calderoli.
E tuttavia i numeri indicano una situazione in bilico, e una prospettiva assai incerta per il prossimo e definitivo passaggio in Aula della riforma, che avverrà in primavera. In quel caso, infatti, sarà necessaria una maggioranza qualificata di 161 voti, che ad oggi è solo sfiorata.
I nervi sono stati molto tesi tra i banchi del governo.
Per tutta la giornata Luca Lotti è rimasto in Senato per controllare la situazione da vicino. Poco prima del voto segreto, il ministro Boschi ha annunciato che il governo si sarebbe “rimesso all’Aula”.
Un modo per mettere le mani avanti nel caso in cui la maggioranza fosse andata sotto. E invece la votazione finisce 160 a 116. Sono 44 voti di differenza. “Un buon margine”, per il renziano Marcucci. Ma in quei minuti sui banchi del governo tutti hanno tenuto il fiato sospeso temendo un incidente.
La giornata è stata segnata da una forte tensione al mattino, quando le opposizioni hanno nuovamente contestato l’emendamento Cociancich, votato giovedì, che ha consentito di bypassare un’enorme mole di emendamenti.
Calderoli ha chiesto una “perizia calligrafica” per verificare la firma del senatore dem in calce all’emendamento (l’accusa delle opposizioni è che il vero autore sarebbe Paolo Aquilanti, segretario generale di palazzo Chigi), Cociancich si è assunto la “totale paternità ” del testo e lo stesso concetto ha ribadito il presidente Pietro Grasso: “Il documento esiste ed è sottoscritto dal senatore Cociancich”.
Nel pomeriggio l’ostruzionismo cala di tono, le votazioni iniziano a scorrere con un certo ritmo, ma poco prima delle 18 scoppia, inatteso, il “caso Barani”.
Il senatore ex Pdl ed ex Gal, e ora capogruppo dei verdiniani, mima il gesto del sesso orale all’indirizzo della collega del M5s Barbara Lezzi. In Aula scoppia il caos: urla, insulti. “Porco, maiale”, grida la grillina Barbara Lezzi, che lascia il suo posto per correre sotto i banchi della presidenza.
“Sulla mia onorabilità io non ho fatto nessun gesto. ho dato la parola al senatore Falanga. Se loro interpretano il gesto in maniera maliziosa…”, si giustifica Barani, craxiano mai pentito passato per Berlusconi e ora approdato con Verdini.
La giustificazione non convince, la tensione sale ancora.
Le donne di tutti i partiti insorgono. Erika Stefani (Lega) interviene: “Io il gesto di Barani l’ho visto, non offende solo la senatrice Lezzi ma tutte le donne qui dentro, Questi sono gesti volgari che devono essere allontanati da quest’aula”.
La fittiana Cinzia Bonfrisco è durissima: “Barani si deve vergognare. E’ un poveraccio. Si tolga quel garofano dal taschino, i socialisti si rivoltano nella tomba…”. Dalla minoranza dem Cecilia Guerra interviene per chiedere di fare piena luce su un fatto che “offende tutte le senatrici”.
E la vicepresidente Valeria Fedeli (Pd) chiese una riunione del consiglio di presidenza, per valutare “gesti e parole che in quest’aula vengono spesso ripetuti e che sono offensivi per le donne”.
Grasso sospende la seduta per un quarto d’ora, poi annuncia che lunedì 5 ottobre il consiglio di presidenza, dopo aver visto i filmati, prenderà gli adeguati provvedimenti. Barani non si ripresenta nell’emiciclo, il forzista Paolo Romani e Renato Schifani di Ncd lo invitano a “non partecipare ai lavori almeno per oggi”.
Parte un lungo dibattito che si allarga sui tanti episodi di insulti e scorrettezze visti in Aula in questa legislatura.
Luigi Zanda, Pd, chiama in causa direttamente Grasso: Quest’aula è diventata l’anticamera di una stazione ferroviaria. Dall’inizio della legislatura ci sono stati molti tumulti e i toni si sono alzati troppo. Chiedo anche a lei, presidente, un’applicazione molto rigorosa del regolamento perchè non è possibile che vengano tollerate in quest’aula continue infrazioni che impediscono che si svolgano i lavori del Parlamento”.
Tutti sembrano concordare sulla necessità di cambiare verso, almeno nei toni. Ma dal gruppo dei verdiniani partono altre accuse verso i grillini: “Una scostumatezza si può riparare con le scuse, la vostra ipocrisia no. Anche dare le persone in pasto al web è inammissibile”, tuona Vincenzo D’Anna.
Alla fine di una giornata tesissima per Ncd, con Alfano costretto a sostare per ore in Senato per tenere a bada i suoi, anche Ncd tira un mezzo sospiro di sollievo: “Nelle votazioni di oggi il gruppo di Area popolare al Senato ha dimostrato compattezza e tenuta a dispetto di quelle tante ‘Cassandre’ che da settimane predicono scissioni, divisioni e spaccature”, dice Schifani.
Poco prima delle 21, Grasso sospende le votazioni. Per chiudere l’articolo 2, e mettere quindi il ddl Boschi definitivamente al riparo, bisognerà aspettare almeno fino a sabato mattina, quando l’Aula (eccezionalmente) si riunirà per proseguire i lavori.
Sul tavolo ci sono ancora tre voti importanti, tutti a scrutinio palese: un emendamento Calderoli che prevede di utilizzare il Consultellum per votare il nuovo Senato, il testo Finocchiaro, figlio dell’intesa dentro il Pd, che prevede per i nuovi senatori una elezione da parte dei consiglieri regionali “in conformità ” a quanto deciso degli elettori e il voto finale sull’articolo 2.
Paolo Romani di Forza Italia fa in tempo ad annunciare il suo no al testo Finocchiaro, bollato come “un accordicchio dentro il Pd”.
Ma col voto palese ormai i brividi per il governo sembrano alle spalle.
Salvo sorprese, dunque, sabato mattina Renzi potrà tirare un sospiro di sollievo.
Ma palazzo Madama -e i numeri lo dimostrano – resta la trincea più difficile per il governo dei rottamatori.
Nonostante l’abbraccio con Verdini.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
SOLIDARIETA’ DI TUTTI I GRUPPI POLITICI ALLA SENATRICE CINQUESTELLE
“È un gesto sessista, volgare, gratuito. Mi sento offesa. E hanno il coraggio di dire che è stato provocato? Vent’anni fa sentivo dire che uno stupro veniva provocato da una minigonna. Sembra di essere tornati indietro all’età della pietra. È assurdo, è da maschilisti”.
Barbara Lezzi, senatrice del Movimento 5 Stelle, a cui Lucio Barani del gruppo Ala ha destinato un gesto molto poco educato durante il dibattito sulla riforma del Senato nell’Aula di Palazzo Madama, risponde al telefono all’Huffington post ed è ancora sconcertata da quanto è accaduto.
Cosa e’ successo di preciso?
Stavamo contestando il fatto che Grasso facesse intervenire il senatore Falanga violando il regolamento. Stavamo contestando questa disparità di trattamento nei nostri confronti.
E poi?
E poi Barani ha fatto verso di me un gesto sessista: simulava sesso orale.
Si è scusato?
Barani ha detto che il gesto c’è stato ma che è stato male interpretato. Anche il senatore D’Anna lo ha ammesso ma dice che questo gesto sessista è stato provocato.
Spera che l’ufficio di presidenza prenda provvedimenti?
Se Barani avesse chiesto scusa, per me poteva anche finire qui, ma adesso mi sento presa in giro. In due anni e mezzo ci sono state discussioni anche accese ma così mai.
Gli altri gruppi parlamentari le hanno espresso la loro solidarietà ?
Sì, tutti. Dal Pd a Forza Italia e anche la Lega Nord. Luigi Zanda e Marina Sereni hanno chiesto subito di prendere provvedimenti.
Che genere di provvedimenti si aspetta?
Un provvedimento in linea con la prassi che è stata utilizzata in questi anni. Almeno una sospensione, anche solo di un giorno, non voglio strumentalizzare. Io non ho un carattere punitivo ma quanto successo non deve più ripetersi. Adesso Barani non è ancora rientrato in Aula voglio sperare che sia un’ammissione di colpa.
(da “Huffingtonpost)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
IL GESTO DEL VERDINIANO FA SCATENARE IL CAOS: “PORCO MAIALE” LA REPLICA DELLA TAVERNA… GRASSO APRE INCHIESTA
Il Senato discute su come cambiare la Costituzione del 1948, quella nata dall’antifascismo e dalla Resistenza, e si trasforma in una bettola.
La probabile fine della storia dell’assemblea di Palazzo Madama per come si è conosciuta in questi quasi 70 anni rischia di finire triviale.
Il merito è del senatore Lucio Barani, l’ultimo craxiano in Parlamento, ex sindaco di Aulla che per il suo Bettino eresse anche una statua nella piazza del suo paese in Lunigiana.
Ora è capogruppo del verdiniano Alleanza liberalpopolare per le autonomie, quindi sostenitore delle riforme istituzionali e quindi sogna — con i suoi colleghi — di entrare nella maggioranza di governo.
Barani, durante l’ennesimo scambi di insulti, grida e epiteti durante il dibattito sulle riforme, ha guardato la collega Barbara Lezzi, del Movimento Cinque Stelle, e ha mimato un rapporto orale.
A raccontarlo non sono solo i senatori grillini, ma Aldo Di Biagio, eletto con Scelta Civica e ora passato in Area popolare, cioè il gruppo che riunisce Ncd e Udc, quindi in maggioranza.
Barani nega, smentisce, giura che è stato un equivoco, che faceva il gesto di un microfono. Ma tra gli altri senatori non ce n’è uno che gli dia credito.
Dopo il gesto osceno esplode la protesta di larga parte dell’Aula del Senato.
Paola Taverna, chiede subito a Grasso di intervenire contro Barani e fargli chiedere scusa. “Mi vergogno a rifarlo” dice la Taverna, gridando al microfono, mentre denuncia il comportamento del collega senatore. “Porco maiale” aggiunge per farsi capire bene da Barani, se fosse disattento.
Così Grasso — come se si fosse alle medie a cercare chi ha nascosto il gesso della lavagna — chiede spiegazioni a Barani e lui, noto quasi solo perchè va in giro con il garofano nel taschino, nega, fa il vago, cerca di toccarla in corner: “Io ho solo detto che dopo che avevano interrotto il senatore Falanga, ora lo abbiamo fatto parlare. Se loro lo vogliono interpretare male… Vogliono buttarla in rissa. Se è stato interpretato male io mi scuso”.
Ma è come buttare carbonella, la Lezzi è furibonda: “E’ stato un gesto volgare e scurrile, non è stato male interpretato. Noi vogliamo che Lucio Barani venga espulso. E chiediamo che chieda scusa altrimenti non si può andare avanti”.
Ma non sono solo i Cinque Stelle a protestare.
Anche altre senatrici di altri gruppi si lanciano contro Barani.
La leghista Erika Rossi dice di aver visto il gestaccio e invita con fermezza a chiedere scusa. Ma Barani, niente, non ne vuole sapere, si trincera dietro la propria “onorabilità “:
“Non ho fatto alcun gesto”, ripete. Ma non ci crede nessuno, almeno al Senato.
Cinzia Bonfrisco, che come Barani è un’ex berlusconiana (ora è capogruppo dei fittiani) e prima ancora un’ex socialista, non molla un centimetro: “L’Aula deve essere difesa — scandisce rivolgendosi a Grasso — non deve essere un bivacco. Io prego il senatore Barani di chiedere formalmente scusa per questo gesto inqualificabile. E si tolga quel garofano che fa rivoltare nella tomba i socialisti. Togliti quel garofano che sei un pagliaccio”.
C’è tensione come su un ring, Grasso sospende la seduta, subito dopo la richiesta di Valeria Fedeli (Pd, vicepresidente vicario di Palazzo Madama) di convocare un consiglio di presidenza.
Grasso lo fissa per lunedì 5: lì saranno decise le sanzioni per Barani.
“Chiedo la collaborazione di tutti i senatori per l’autodisciplina — dice Grasso — Chiedo ai capigruppo di fare opera nei rispettivi gruppi per prevenire, per evitare provvedimenti rigorosi che possono arrivare a togliere la possibilità di partecipare ai lavori d’aula. Chiedo la massima collaborazione per ripristinare l’ordine e poter usare l’Aula per la funzione per cui è stata pensata, discutere e votare”.
Il problema è che Barani è lui stesso un capogruppo.
Diego Pretini
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
DOPO AVER IMPEDITO LO SFRATTO DELLA STORICA SEDE DI VIA OTTAVIANO, LA RABBIA DEI MILITANTI
Dopo il tentato sgombero della sede del Msi di via Ottaviano 9 a Roma, i militanti di destra sono sul piede di guerra.
”E’ la nostra sede storica – ha dichiarato Alfredo Iorio, storico responsabile della sezione Prati – da lì non ce ne andremo mai.”
A dieci anni dalla sua fondazione, in via Ottaviano nel 1975 è stato ucciso Mikis Mantakas, militante del Fuan, e negli anni 80 proprio lì è esplosa una bomba.
Dopo il tentato sgombero i militanti di estrema destra puntano il dito contro i vertici della Fondazione Alleanza Nazionale: ”La nostra guerra non è contro il proprietario dell’immobile (discendente della famiglia Romualdi), ma contro i vertici che hanno abbandonato le proprie radici e pensano solo a spartirsi i soldi e le proprietà immobiliari del Movimento Sociale Italiano.
Se il compito della Fondazione è quello di preservare il patrimonio del Msi non si comprende perchè non intervenga, acquisendo i locali.
Se poi il patrimonio di 250 milioni di euro deve servire ad altri scopi e i compiti della Fondazione sono quelli di affittare la sigla di An a qualche “grande fratello”, basta saperlo.
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
“LA SINISTRA VIVE DI NOSTALGIA, NON DISPONE NE’ DI IDEE FORTI, NE’ DI UOMINI”
Caos Senato. Era o no possibile seguire una strada di discussione costruttiva e di condivisione senza cadere nell’immobilismo e nell’ostruzionismo?
Il fatto che una riforma cruciale come quella che muta radicalmente l’assetto costituzionale avvenga tra tatticismi, trabocchetti, offese è il segno che la politica italiana non è ancora diventata adulta?
E, soprattutto, dopo questa bagarre e questi strappi, la legislatura continuerà come prima o rimarranno le ferite?
Ne parliamo con Gianfranco Pasquino, tra i politologi più arguti, ha diretto Il Mulino e la Rivista italiana di scienza politica, docente emerito (scienza della politica) all’università di Bologna, professore di European studies alla Johns Hopkins University. Sono appena usciti due suoi volumi, Cittadini senza scettro (Egea) e A changing republic, politics and democracy in Italy (ne è coautore, Edizioni Epokè).
Partiamo dal suo libro: cittadini con o senza lo scettro?
Dal punto di vista sia della nuova legge elettorale sia della non elezione del senato sia dell’aumento del numero di firme per richiedere un referendum sia, infine, della pure augurabile, scomparsa delle province, il pacchetto di riforme Renzi-Boschi comprime e riduce il potere elettorale dei cittadini. Non restituisce affatto lo scettro (della sovranità popolare). Al contrario, lo ammacca, per di più, senza nessun vantaggio per la funzionalità del sistema politico. Peccato che i mass media non abbiano saputo nè voluto discutere a fondo la qualità delle riforme, troppo interessati agli scontri, in definitiva poca roba, dentro il Pd e ai trasformisti che si affollano alla corte del fiorentinveloce. Quanto ai costituzionalisti, l’estate ha consentito ai più accondiscendenti di loro di esibirsi en plein soleil.
Quali le riforme sbagliate e quali quelle possibili?
Tutte le riforme sono sbagliate. Alcune lo sono nel loro impianto stesso; altre lo sono nelle probabili conseguenze. L’Italicum è una versione appena corretta del Porcellum. Se il bicameralismo «imperfetto» va superato, allora la vera riforma è l’abolizione del senato, non questo bicameralismo reso ancora più imperfetto e pasticciato. Bisognava guardare alle strutture e ai meccanismi che funzionano altrove. Quindi la scelta elettorale doveva essere fra il sistema proporzionale personalizzato tedesco e il doppio turno nei collegi uninominali di tipo francese.Una volta deciso di avere una camera rappresentativa delle Regioni il modello migliore era e rimane il Bundesrat: 69 rappresentanti che, populisticamente, costano meno di cento, e che, politicamente, sono molto più efficaci di cento personaggi designati, nominati o ratificati, mai dotati di autonomo potere decisionale e personale. Per il referendum, l’aumento del numero di firme per richiederlo dovrebbe essere compensato con la riduzione del quorum per la sua validità . Per le autonomie locali, bisognerebbe prevedere forti incentivi per l’aggregazione dei piccoli comuni, ma anche qualche «castigo» per chi vuole rimanere per conto suo.
Quali saranno le conseguenze sull’intero sistema politico della nuova legge elettorale?
Darà una maggioranza assoluta ad un partito, sottorappresenterà le opposizioni, produrrà una camera dei deputati fatta per almeno il 60 per cento, forse il 70, di parlamentari nominati che non avranno nessun bisogno di rapportarsi ad elettori che neppure li conoscono. Pertanto, l’Italicum aggraverà la crisi di rappresentanza.
È utile un eventuale referendum contro l’Italicum o creerà più confusione?
Sono sempre favorevole ai referendum. Sull’Italicum, però, dovrebbe esprimersi la Corte Costituzionale in coerenza con la sua sentenza n. 1/2014 che ha fatto a pezzi il Porcellum. Dovrebbe bocciare le candidature multiple e imporre una percentuale minima per l’accesso al ballottaggio. Qualsiasi referendum elettorale consente di aprire una discussione vera su pregi, nessuno, e difetti, moltissimi, dell’Italicum.
Poi ci sarà un altro referendum. In fondo, al di là delle critiche, vi sarà un referendum su cui esprimersi sulle leggi costituzionali
Fintantochè non sarà stravolto, l’art. 138 è limpido. Il referendum costituzionale è facoltativo. Può essere chiesto (qualora la riforma costituzionale non sia stata approvata da una maggioranza parlamentare dei due terzi) da un quinto dei parlamentari oppure da cinque consigli regionali oppure da 500 mila elettori. I referendum chiesti dai governi, da tutti i governi, compreso quello di Matteo Renzi, sono tecnicamente dei plebisciti, fra l’altro monetariamente costosi, e sostanzialmente inutili tranne che per il capo di quel governo. Populisticamente dirà che il popolo è con lui. È lui che lo interpreta e lo rappresenta, non le minoranze dentro il Pd, non l’opposizione politico-parlamentare, meno che mai i gufi. E’ dal popolo che lui sosterrà di avere avuto quella legittimazione che gli manca da quando produsse il ribaltone del governo Letta. Ovviamente si tratta di un inganno.
Il presidente del senato riuscirà a gestire la bagarre (per altro già incominciata)?
Il presidente del senato si barcamena. Barcolla, ma non tracolla. Certo, lo dico non come critica alla persona di Grasso, sarebbe stato preferibile un presidente con una storia politica e parlamentare alle spalle, con conoscenza diretta dei suoi colleghi. Per fortuna, Grasso può ricevere ottimi consigli dai preparatissimi funzionari del senato. Speriamo li ascolti.
Dopo tanto tempo non era comunque arrivato il momento del decisionismo, magari poi emendabile?
No, è una grossa bugia quella che finalmente si fanno le riforme dopo decenni di immobilismo. Nei 30 anni anteRenzi abbiamo fatto due riforme elettorali, una bella legge per l’elezione dei sindaci, due riforme costituzionali del Titolo V e siamo anche riusciti a introdurre le primarie. Tutte riforme brutte? Ma quelle che ci stanno arrivando addosso sono almeno belline? Proprio no. Sicuramente emendabili, appena si accorgeranno che hanno squilibrato e impasticciato il sistema. Ma perchè non migliorarle subito?
Con la riforma costituzionale cambia anche il ruolo del presidente della Repubblica: continuerà ad avere una funzione di garanzia?
Ahimè, temo che il presidente della Repubblica sarà ingabbiato. Non nominerà il presidente del Consiglio poichè questi sarà automaticamente il capo del partito/lista che ha vinto il premio di maggioranza, e pazienza. Ma, più grave, non potrà sostituirlo. Il sistema s’irrigidisce e quindi può anche spezzarsi rovinosamente. Non potrà , il presidente della Repubblica, neppure opporsi alla richiesta faziosa di scioglimento del parlamento. Altro irrigidimento, altro rischio. Potrà , però, bella roba senza nessuna logica istituzionale, nominare cinque senatori nella camera delle regioni
Berlusconi, Grillo, Salvini: tutti e tre fuori gioco alle future elezioni politiche?
Il vecchio Berlusconi sarà certamente fuori gioco nel 2018 quando avrà 82 anni. L’allora cinquantenne Salvini sarà pimpante, battagliero, con una nuova felpa colorata, ma consapevole di non potere vincere da solo e altrettanto consapevole che la sua politica gli impone di correre da solo per prendere tutti i voti che può, che saranno molti, ma mai abbastanza. Grillo è il giocatore che si trova nelle condizioni migliori. Stando così le cose, continuando l’insoddisfazione degli italiani nei confronti della politica, dell’euro, dell’Unione europea, e rimanendo il premio in seggi da attribuire a partiti e/o liste singole, il candidato di Grillo alla presidenza del Consiglio andrà al ballottaggio e parte dell’elettorato italiano gli consegnerà il proprio pesante voto di protesta. Ne vedremo delle belle.
E che ne sarà dell’alleanza Berlusconi-Salvini?
Costretti ragionevolmente ad allearsi, ma scoraggiati a farlo dal sistema elettorale. Poi, sicuramente, il centro-destra dovrà fare i conti con altre grane che verranno da Alfano&Co.
Si riuscirà a ricomporre la sinistra al di fuori del Pd? O l’esempio della Grecia, coi radicali di sinistra fuori dal parlamento, vale anche per l’Italia?
La sinistra non sa e non vuole ricomporsi. Non ha nessun punto programmatico forte. Non ha neppure un leader attraente com’è Tsipras in Grecia, o com’è Pablo Iglesias di Podemos in Spagna. La sinistra italiana testimonia la sua nostalgia (non quella degli elettori) e si crogiola nella sconfitta, tutta meritata.
(da “Italia Oggi“)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
ELENA DONAZZAN: “ECCO LA TEORIA GENDER NELLE SCUOLE: SUI LIBRETTI NON C’E’ SCRITTO MADRE/PADRE”…MA LA DICITURA E’ DEL MINISTRO BOTTAI, GOVERNO MUSSOLINI (E LEI VIENE PURE DA AN)
Brutto infortunio dell’assessore all’Istruzione della Regione Veneto Elena Donazzan che ha pubblicato sulla sua bacheca Facebook una foto che sarebbe, secondo lei, “la prova del furore dell’ideologia gender”.
Il post è di qualche giorno fa, ma la raffica di commenti (più di 4mila) che continua a ricevere è impressionante.
“Domattina chiederò a quale livello decisionale si è data indicazione di omettere la dicitura “padre ” e “madre” nel libretto che certifica la vita dello studente. Un papà indignato (in realtà forse un burlone n.d.r.) mi ha segnalato questa cosa e giustamente ha pensato di correggere a mano scrivendo : papà e mamma. Voglio sapere se qualche zelante politico o funzionario ha, surrettiziamente , modificato la procedura magari spinto da un furore ideologico gender!”, scrive l’assessore.
“Chiunque sia deve assumersi la responsabilità e rispondere. Invito i genitori che devono firmare i libretti in questi giorni a seguire l’esempio di questo indignato papà e a segnalarmi la cosa”.
Difficile dire quanti siano i genitori che abbiano preso la stessa “svista” dei due che hanno sommessamente segnalato all’assessore l’errore nel libretto.
Perchè i libretti scolastici presentano da sempre la dicitura “Firma dei genitori o di chi ne fa le veci”.
Un utente prova a farlo notare all’assessore: “Semplicemente perchè ci sono famiglie dove i genitori sono divorziati, e allora diventa molto difficile capire chi firma sotto la voce papà . Chi ha fecondato? Quello che cresce i figli di un precedente matrimonio della partner? O il nonno che va a portare il nipote ogni giorno mentre la madre single che non ha rapporti col padre lavora? Lei faccia le sue crociate contro i mulini a vento ma almeno non complichi la vita a milioni di famiglie separate e divorziate e single”.
“Scusi ma uno che per disgrazia dovesse rimanere orfano di padre e di madre che dovrebbe fare? – scrive un altro utente – Non avrebbe diritto ad avere un libretto scolastico?”.
Qualcuno alla fine prova a togliere ogni dubbio all’assessore: “La informo io: è stato il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, governo Mussolini. Tale dicitura infatti compare fin dal 1938. Scopriamo quindi grazie a lei che l’ideologia gender era ben radicata nella cultura fascista. Si dimetta, incapace”.
E per una politica che viene da An in effetti la svista è alquanto imbarazzante.
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