Novembre 2nd, 2016 Riccardo Fucile
NIENTE PIAZZE E NIENTE DIBATTITI IN TV, IN FONDO GLI VA BENE COSI’
C’è un buco vistoso nella campagna referendaria del No, un’assenza che pesa perchè non riguarda un partitino dello schieramento politico o un’associazione che rappresenta solo se stessa.
Il Movimento 5 Stelle è dato dai sondaggi testa a testa con il Partito democratico, vincente in un ipotetico ballottaggio con la legge elettorale Italicum, è considerato il punto di riferimento naturale di tutti gli oppositori del governo guidato da Matteo Renzi.
E dunque dovrebbe essere scontata la leadership grillina del fronte che vuole sconfiggere il premier il 4 dicembre. E invece no.
È come se questo scontro M5S non lo sentisse suo. Il Movimento lotta, si batte, ma senza troppo clamore.
Resta in un ruolo laterale, se non marginale. Sorprendente, per un soggetto politico ormai abituato in tre anni di vita a occupare il centro del ring.
Sul sito beppegrillo.it negli ultimi giorni l’unico voto che davvero ha occupato i pensieri dei capi del Movimento Beppe Grillo e Davide Casaleggio è stato quello per il regolamento e per il “non statuto” di M5S, per cui era previsto un quorum di votanti elevatissimo, il 75 per cento degli aventi diritto su 130mila iscritti.
E poi la proposta parlamentare per dimezzare l’indennità dei deputati, portata dai dal gruppo M5S nell’aula di Montecitorio e rispedita in commissione fino a data da destinarsi. Per assistere allo spettacolo, martedì 25 ottobre, si è scomodato Beppe Grillo, in tribuna sopra i seggi del Pd, meno di trenta minuti per assistere a schermaglie regolamentari, fischi, applausi e infine il rinvio scontato.
Il Comico lì, incuriosito, divertito, le mani giunte, composto, docile alle severe regole che imbrigliano gli invitati ad assistere alle sedute della Camera, se n’è andato in punta di piedi, senza nessuna concessione alla piazza, anche perchè la folla dei militanti convocata per l’occasione era ridotta a pochi intimi .
L’immagine di un Movimento non più extra-parlamentare, quasi istituzionale, con Grillo in tribuna e Luigi Di Maio a presiedere l’aula.
Anche in questo caso, il riferimento al No referendario è stato ridotto al minimo sindacale.
Più preoccupati i deputati del Pd, che temevano la trappola. Inseguire i grillini sulla strada dei tagli allo stipendio dei parlamentari? Oppure schierarsi contro, con il rischio però di indebolire l’argomento più forte con cui Renzi sta girando l’Italia per chiedere un voto favorevole al referendum: il taglio delle poltrone e la cancellazione dell’indennità per i futuri senatori-consiglieri regionali?
Tutto rinviato al dopo 4 dicembre. Fino a quella data l’agenda di Renzi e del Pd è piena.
Quella di Grillo e di M5S è vuota. Al momento non è in programma nessuna grande manifestazione di M5S a favore del No referendario, o almeno qualcosa di paragonabile allo Tsunami Tour di Grillo che nel 2013 cambiò il corso delle cose, trascinando il Movimento al risultato di otto milioni di voti alle elezioni politiche (da zero).
L’unica iniziativa resta finora il giro in moto coast-to-coast, tra spiagge, stabilimenti, bagnini e ombrelloni del deputato romano Alessandro Di Battista, modello Che Guevara: ma appartiene a una stagione finita, un’altra canzone, «un’estate fa».
Nella versione autunnale, il Movimento ha abbandonato le strade e i mercati, ha dovuto affrontare le spine del governo, lo psicrodramma di Roma con Virginia Raggi, l’addio di Federico Pizzarotti a Parma, il misto di ammirazione e sospetto che nel Movimento circonda la sindaca di Torino Chiara Appendino.
E rifiuta di farsi trascinare troppo nella battaglia referendaria. Anche nei match in tv sul referendum finora gli esponenti del Movimento spiccano per assenza.
Al punto che Renzi ha provato a sfidare Grillo al duello nel salotto di Bruno Vespa a “Porta a Porta”. Un invito speculare a quello arrivato dal fronte opposto, dal capo leghista Matteo Salvini, che ha provato a coinvolgere i grillini in una giornata del No, con tutti i leader in campo senza distinzione di partito o di schieramento. Nessuna risposta.
Nei prossimi giorni il silenzio finirà . E anche M5S si mobiliterà massicciamente per il No: nessun dubbio.
La prospettiva di far perdere Renzi vale l’impegno di qualche comizio e di qualche uscita televisiva. Ma l’assenza di questi mesi racconta qualcosa di significativo sull’identità attuale del Movimento. E sulla sua sotterranea ma visibile conversione alle tattiche e alle strategie di Palazzo, il calcolo delle convenienze di parte, l’odiato politichese.
Nella vittoria del No c’è qualcosa che conviene al M5S e qualcosa che non conviene. Conviene, naturalmente, la sconfitta di Renzi.
Le cancellerie europee temono il rovescio del premier e del Sì al referendum non tanto per il blocco del cammino delle riforme, con le attuali istituzioni l’Italia è rimasta nel club delle maggiori potenze per decenni, ma perchè la considerano l’anticamera di un possibile governo grillino. Dentro M5S, però, sono molto più prudenti.
Di Battista l’ha già detto in pubblico: se i Sì dovessero perdere, dovrebbe nascere un governo di scopo per fare una nuova legge elettorale che potrebbe contare sulla benevolenza del Movimento.
Di Maio, il vice-presidente della Camera, dato fino a pochi mesi fa come il sicuro candidato premier dei grillini alle prossime elezioni, è altrettanto circospetto. Nessuno, per ora, ha chiesto la fine anticipata della legislatura e nuove elezioni. Conviene non identificarsi totalmente con la campagna del No perchè in ogni discussione di merito l’elettorato e la base di M5S tendono a dividersi: così è stato sulle unioni civili o sull’immigrazione, così potrebbe essere anche sulla riforma della Costituzione, come dimostrano i sondaggi che danno una parte di elettori grillini tentati dal voto favorevole.
Non conviene partecipare alla campagna referendaria mescolandosi agli altri leader del No: Salvini, Renato Brunetta e Massimo D’Alema. Per fedeltà al dogma del Movimento, mai fare alleanze con altri partiti, e perchè non si partecipa a un fronte così trasversale e variegato se la vittoria non è poi così sicura.
Si sa, meglio vincere da soli che perdere insieme ad altri.
Conviene, infine, ma nessun grillino lo confermerà mai, tenere in vita la legge elettorale Italicum, piuttosto che assistere a una modifica che avrebbe l’obiettivo di rendere impossibile una vittoria elettorale di M5S, anzi, di consegnarlo all’irrilevanza parlamentare.
A differenza di Renzi, che è condannato a vincere pena la catastrofe politica, il Movimento ha due risultati a disposizione: vincere, ovviamente, ma anche arrivare secondo, egemonizzando però tutto ciò che sta all’opposizione del premier.
Il successo del Sì spingerebbe Renzi a blindare l’attuale sistema: legge elettorale a doppio turno, premio di seggi al partito che arriva primo, un largo numero di eletti per chi arriva secondo, le elezioni che si trasformano in un duello tra due listoni nazionali. In questo momento ne esistono solo due: il partito di Renzi e i Cinque Stelle.
Per questo, l’atteggiamento di M5S in questa campagna referendaria sembra ripercorrere quello tenuto da Renzi durante le elezioni amministrative. Il premier si fece vedere in campagna elettorale, a Roma e a Torino, per lo spazio di una serata: per non mettere la faccia su un risultato che prevedeva negativo per lui e per il suo partito, certo, ma soprattutto perchè riteneva di giocarsi la partita decisiva sul referendum.
Allo stesso modo i grillini si sono spesi allo stremo in primavera sulle elezioni amministrative e appaiono molto meno appassionati ora che si vota sulla riforma della Costituzione.
Il Movimento che dice no è riluttante ad assumersi la leadership del No, ancora vacante. Il Movimento che è nato nelle piazze e sulla Rete sposta le sue battaglie nelle aule parlamentari e attende il 4 dicembre con apparente noncuranza.
Il Movimento che disprezzava le alchimie della politica si muove con un occhio al No e uno al Sì, per tenere unito il suo elettorato e preparare lo scontro finale, alle elezioni politiche.
In altri tempi, si sarebbe definita posizione agnostica. M5S gioca di attesa. E il fronte del No, privato dell’onda d’urto grillina, teme di scoprirsi più debole.
Marco Damilano
(da “L’Espresso”)
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Novembre 2nd, 2016 Riccardo Fucile
IL PARTICOLARE SISTEMA DI VOTO DEGLI STATI UNITI…. A TRUMP POTREBBE NON BASTARE VINCERE NEGLI STATI IN BILICO
A meno di una settimana dal voto, e dopo una defatigante campagna elettorale durata un anno e mezzo, il commento più calzante lo ha fatto lo storico inglese Andrew Roberts riesumando una battuta di Henry Kissinger all’epoca della prima guerra Iran-Iraq: “Peccato che non possano perdere entrambi”.
È forse l’unica cosa su cui oggi la maggioranza degli americani sono d’accordo: la scelta è fra due pessimi candidati, le cui debolezze sono diventate ancor più evidenti in quest’ultima fase segnata da fango, veleni, scandali, uno spettacolo da Repubblica delle banane.
Per capire lo scenario elettorale disegnato dai sondaggi – sempre soggetti a errore, sia chiaro – bisogna ricordare alcuni dati essenziali, sia sul sistema politico americano, sia sul conteggio dei voti.
IL BIPARTITISMO
Primo punto: questa nazione si è abituata da molto tempo ad avere un sistema bi-partitico. Questo è essenziale per capire alcune tendenze dell’ultima ora come la rimonta di Donald Trump: più ancora dell’effetto emailgate scatta semplicemente un riflesso di appartenenza. Molti elettori di destra preferiscono votare comunque il loro candidato pur di non lasciare che Hillary Clinton conquisti la Casa Bianca.
GLI STATI CONSIDERATI SICURI PER I DUE CANDIDATI
Le “due Americhe”. Il rosso (che qui indica la destra) e il blu si mescolano poco. L’America liberal è prevalentemente sulle fasce costiere, quella conservatrice presidia il profondo Sud e i petro-Stati, dove domina il business delle energie fossili.
Le varianti sono spesso legate ai flussi migratori. Alcuni Stati del Sud sono diventati “contendibili” per i democratici in seguito all’aumento dell’elettorato ispanico.
Non è scontato che gli immigrati siano di sinistra: nella sua storia il partito repubblicano ha saputo conquistare dei consensi tra italiani, irlandesi, polacchi. Ma le ultime posizioni sull’immigrazione hanno creato un solco.
Qui sotto una lista di Stati che dovrebbero essere saldamente da una parte e dall’altra, ma che non bastano a sancire un vincitore
Trump: 16 Stati sicuri e 115 grandi elettori (sui 270 necessari)
Wyoming, West Virginia, Oklahoma, Idaho, Arkansas, Alabama, Louisiana, Kentucky, Tennessee, South Dakota e North Dakota, Montana, Mississippi, Kansas, Indiana, Alaska.
Clinton: 15 Stati sicuri e 192 grandi elettori (sui 270 necessari)
Vermont, Maryland, Hawaii, Massachusetts, California, New York, Rhode Island, Illinois, Delaware, Connecticut, Washington, New Jersey, Oregon, New Mexico e il District of Columbia.
Questa tradizione bi-partitica, solo occasionalmente perturbata da candidature indipendenti o di micro-partiti extraparlamentari, ha un’altra conseguenza: più ancora che nella capacità di attirare elettori indipendenti o indecisi, la forza di un candidato si misura spesso nella sua capacità di fare il pieno dei voti nel proprio partito, alzando le percentuali di affluenza e contrastando l’astensionismo.
GLI STATI DA TENERE D’OCCHIO: LA FLORIDA
Da sempre il trofeo più ambito tra i collegi in bilico. Esprime 29 “grandi elettori”, un pacchetto inferiore solo a California e Texas, pari a New York.
Fu decisiva (con brogli) nella sfida Bush-Gore. La demografia favorisce la Clinton: aumentano gli immigrati ispanici che hanno la cittadinanza, e non gradiscono la xenofobia di Trump.
Ma lei può anche permettersi di perderla mentre per Trump un “percorso di vittoria” senza Florida è arduo. La media degli ultimi sondaggi assegna la Florida a Trump con un margine esiguo, dello 0,5%, ben al di sotto della probabilità di errore statistico.
GLI STATI DA TENERE D’OCCHIO: TEXAS
L’inverosimile traguardo che fa sognare i democratici. Dopo il presidente Lyndon Johnson (ultimo democratico texano alla Casa Bianca) lo Stato del Big Oil è passato stabilmente nel campo repubblicano. Con i suoi 38 grandi elettori è indispensabile alla destra per bilanciare la progressista California (55). I sondaggi lo assegnano a Trump, ma con un margine meno solido di altre tornate elettorali.
Se dovesse scivolare a sinistra il Texas, si aprirebbe uno scenario da “landslide”, la frana del Grand Old Party. Con effetti a catena sul Congresso dove i democratici potrebbero riconquistare la maggioranza non solo al Senato ma forse perfino alla Camera.
GLI STATI DA TENERE D’OCCHIO: OHIO
Altro Stato industriale, cerniera tra la East Coast e il Midwest, ha un bottino di 18 voti. Era la roccaforte del governatore repubblicano (moderato) John Kasich malamente sconfitto da Trump nelle primarie.
Anche se la Clinton gode di un leggero vantaggio nei sondaggi, qui il tycoon rimane competitivo. Strappare l’Ohio per lui può significare anche una performance migliore del previsto in altri Stati della cosiddetta “cintura della ruggine”, la vecchia America delle fabbriche.
GLI STATI DA TENERE D’OCCHIO: PENNSYLVANIA
Con 20 “grandi elettori” è uno Stato medio-grande. C’è abbastanza classe operaia bianca danneggiata dalle delocalizzazioni, da essere conquistabile per Trump col suo protezionismo. Invece la Clinton è favorita con un margine di 5 punti.
Forse per questo Trump ha parlato di “cose orrende” che accadono a Philadelphia: i presunti brogli sono un’allusione a qualcos’altro, troppi neri che votano. Ma se la sera dell’8 dovessimo scoprire che la Pennsylvania va a destra, sarebbe il segnale che i sondaggi hanno sbagliato, l’avvisaglia di una “frana” imprevista di Hillary.
I NUMERI PER LA VITTORIA
Secondo punto, le regole del conteggio. Il presidente degli Stati Uniti non viene eletto sulla base di una percentuale nazionale, per questo i sondaggi generalisti compiuti sui 50 Stati Usa sono un termometro di popolarità ma possono indicare un vincitore diverso da quello che alla fine conquisterà la Casa Bianca.
Nel sistema americano i voti si contano Stato per Stato. Ciascuno Stato esprime un certo numero di “grandi elettori” che andranno a formare il collegio elettorale nazionale.
Il peso dello Stato è proporzionale alla popolazione, sicchè il numero uno è la California, secondo il Texas, al terzo posto si affiancano New York e la Florida, e così via. Vince chi si aggiudica 270 delegati.
Con rarissime elezioni gli Stati applicano un sistema maggioritario puro, per cui il primo arrivato arraffa la totalità dei delegati nello Stato.
Molti Stati esprimono da tanto tempo una maggioranza abbastanza netta, di destra o di sinistra, il che accentua l’importanza di quegli Stati che invece sono “in bilico” e possono di volta in volta finire nel campo repubblicano (rosso) o democratico (blu).
Tuttavia, sia per effetto di cambiamenti demografici (immigrazione) sia per il carattere anomalo di questa campagna e della candidatura Trump, non è escluso che le tradizionali preferenze politiche possano subire cambiamenti vistosi.
Infine non va dimenticato che martedì 8 novembre si elegge anche la Camera dei deputati, e si rinnova un terzo del Senato.
Chi conquista il Senato condiziona le nomine del presidente alla Corte suprema (fra l’altro), sicchè è giusto dire che perfino il massimo organo giudiziario è in palio. Attualmente la Corte suprema è divisa a parità fra giudici repubblicani e democratici ma c’è un seggio vacante da riempire.
GLI STATI ‘SICURI’ E I QUELLI DOVE UNO DEI DUE CANDIDATI E’ DATO NETTAMENTE FAVORITO NEI SONDAGGI
Sulla base dei sondaggi, qui sono colorati in rosso chiaro quegli Stati che “scivolano verso” i repubblicani, in blu chiaro quelli dove una leggera preferenza va ai democratici. Ovvero:
Trump: Texas, Utah, che porterebbero il suo bottino a 159 grandi elettori
Clinton: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Colorado, Virginia, New Hampshire, New Mexico, che porterebbero il totale a quota 269, cioè un solo delegato al di sotto della maggioranza assoluta
Quali sono le possibili sorprese qui?
Anzitutto è già sorprendente trovare il Texas in questa seconda mappa anzichè nella prima. È per l’appunto un effetto dell’immigrazione ispanica, oltre che di una evoluzione tra i Millennial.
Ho spiegato sopra che se il Texas dovesse smentire la tradizione e le previsioni, dando una maggioranza a Hillary, questo di per sè chiuderebbe la partita in suo favore.
Ma ci sono soprese possibili nell’altra direzione: un travaso di operai bianchi maschi in favore di Trump nelle zone industriali della Pennsylvania o del Michigan o del New Hampshire, se così massiccio da far vincere il repubblicano, può rendere molto più problematico il percorso di Hillary verso quota 270.
I SONDAGGI E LE TENDENZE
Venendo alle ultime tendenze, continua a restringersi il vantaggio di Hillary, ed è solo in parte un effetto del mail-gate. I primi sondaggi compiuti parzialmente a cavallo del weekend, e che quindi includono qualche effetto della vicenda Fbi, confermano l’erosione del suo vantaggio, che comunque era già in atto da oltre una settimana.
L’ultimo sondaggio di Politico.com, per esempio, le dà solo 3 punti su Trump.
Magra consolazione: nell’analisi dei 20 milioni che hanno già votato (voto per corrispondenza e voto anticipato in quegli Stati che lo consentono) Hillary è in vantaggio, ma ovviamente sono molti di più quelli che voteranno il giorno stesso (precisazione: ovvio che le schede mandate in anticipo non si possono aprire e contare, ma c’è un metodo indiretto per stimarne l’esito, in un paese dove ci si “registra” come democratici o repubblicani).
E per Usa Today i Millennial stanno mollando Hillary: avrebbe perso 6 punti fra i giovani.
La vittima quasi certa di questa elezione, chiunque vinca: la legittimazione dell’avversario. Quindi la possibilità di trovare intese bipartisan, e un’agenda di riforme condivise da varare rapidamente al Congresso.
Su questa analisi del dopo-voto concordano quasi tutti. Se si avvera, avremo una democrazia più malata che mai, un sistema indeciso a tutto, un Congresso paralizzato.
A TRUMP POTREBBERO NON BASTARE TUTTI GLI STATI IN BILICO
In questo terzo scenario abbiamo ipotizzato che Trump vinca quasi tutti gli altri Stati in bilico, ad esclusione di Nebraska e Maine, gli unici che possono dividere i loro delegati perchè hanno un sistema elettorale diverso.
In questo scenario Trump arriverebbe a 260 contro i 269 già ottenuti dalla Clinton con i risultati ipotizzati nella mappa 2. E i tre grandi elettori del Maine (quelli sicuri) basterebbero alla Clinton per vincere comunque.
Lo scenario ipotizzato nella mappa numero 3 (sulla base degli ultimi sondaggi disponibili) mostra quanto potrebbe essere difficile per Trump conquistare la Casa Bianca.
Oltre a dover vincere tutti gli Stati in bilico, Trump dovrebbe ‘scipparne’ almeno uno dove è indietro, come Colorado, Michigan o Pennsylvania.
E alla Clinton potrebbe bastare la sola Florida (dove le analisi del guru Nate Silver la dà ancora in leggero vantaggio) per compensare la perdita di uno o due di questi Stati.
Insomma: lo scenario della mappa 3 presuppone che Hillary abbia “blindato” gran parte degli Stati in bilico che oscillano verso una maggioranza democratica.
Gli spostamenti delle ultime settimane consigliano prudenza, visto che quasi ovunque il vantaggio della Clinton si è ridotto. E fino all’alba del 9 novembre, presumibilmente, incomberà l’incognita di un possibile fiasco dei sondaggi.
Cosa potrebbe determinare un flop monumentale delle previsioni? In genere chi mette in dubbio la loro attendibilità , pensa che possano sottostimare gli elettori di Trump.
Due le ipotesi in questo caso. La prima è che esistano dei seguaci di Trump che si vergognano a palesarsi nei sondaggi; la seconda è che la campionatura delle indagini demoscopiche non tenga sufficientemente conto della capacità di attrazione del tycoon newyorchese su fasce di popolazione che tradizionalmente non vanno a votare.
Altre teorie spingono nella direzione opposta, per esempio ipotizzano che certe donne conservatrici siano state orripilate dalla misoginia di Trump e possano scegliere Hillary nel segreto dell’urna; oppure che la paura delle espulsioni di massa possa far salire oltre il previsto l’affluenza di ispanici che votano democratico.
Sono tutte supposizioni, illazioni, che ci inseguiranno fino alla fatidica nottata elettorale.
(da “La Repubblica”)
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Novembre 2nd, 2016 Riccardo Fucile
A ROMA IL MUNICIPIO XII SOSPENDE L’ASSISTENZA GLI ANZIANI E ALLE PERSONE CON HANDICAP PERCHE’ E’ IN RITARDO CON GLI ATTI… MA INVECE CHE AMMETTERE LE PROPRIE COLPE SE LA PRENDONO CON LA STAMPA
Una meravigliosa figuraccia sta andando in scena nelle ultime ventiquattr’ore tra Municipio XII e amministrazione comunale: nei panni della guest star c’è l’assessore al bilancio Andrea Mazzillo.
La storia comincia ieri, quando si diffonde la notizia che il Municipio XII ha sospeso il servizio ad anziani (Saisa), a persone con handicap (Saish) e anziani fragili (Cedaf) fino a data da destinarsi.
A testimoniarlo è la lettera ricevuta dalle aziende che se ne occupano protocollata dal Municipio XII e da Roma Capitale.
La lettera è un inno alla trasparenza e recita: «Si comunica che i servizi in oggetto sono temporaneamente sospesi sino al perfezionamento degli atti volti alla prosecuzione del rapporto».
Attenzione: la nota, in alto a destra, è protocollata 92069. Che vorrà dire tutto ciò?Vuole dire che siccome è il Municipio (la cui presidente è Silvia Crescimanno, moglie del consigliere in Campidoglio Daniele Diaco) ad essere in ritardo nella stesura degli atti necessari alla prosecuzione del servizio, il servizio va sospeso.
Ma, stranamente, la comunicazione non viene mandata alla stampa nè vengono avvertiti i cittadini delle circostanze, anche perchè bisognerebbe anche ammetterne le colpe.
Ma la notizia comincia a diffondersi lo stesso
Repubblica Roma riporta anche la dichiarazione di una delle coop che ha ricevuto la comunicazione: «Noi ovviamente speriamo che avvenga in tempi brevi», dice Fabio Magrini, presidente di Agorà , coop che per conto del Comune si prende cura dei disabili, «ma certo la situazione è grave, da questo servizio dipende spesso la sopravvivenza stessa degli utenti». Che senza operatori non sono nelle condizioni di far niente: alcuni neppure di alzarsi dal letto.
Il Municipio XII rimane silente per tutto il pomeriggio.
Nessuno spiega, nessuno parla, nessuno dice niente.
Ma alle 23:45 compare una nota su Facebook della presidente del Municipio Silvia Crescimanno: la nota non spiega nulla su quanto sta accadendo e sulla comunicazione inviata agli operatori, se la prende con gli avversari e conclude dicendo che il servizio non sarà interrotto.
“Nonostante le note stampa diffuse nel pomeriggio dai soliti personaggi della nomenclatura romana dei partiti oggi all’opposizione, si comunica che i servizi saish e saisa nel Municipio XII saranno garantiti e non ci sarà pertanto interruzione del servizio. Per quanto riguarda il servizio cedaf si comunica che mercoledì 2 novembre gli uffici provvederanno a completare la procedura necessaria per la prosecuzione del servizio. I servizi erogati alle persone con disabilità sono sempre stati al centro dell’azione della nostra attività di governo del municipio. La mancata programmazione di anni di mal governo continua a provocare gli inceppamenti della macchina amministrativa troppo spesso incastrata nella burocrazia. Questo modo di operare finirà presto.”
Ovviamente a tutti quelli dotati di senno è chiaro cosa è accaduto.
Vista la diffusione della notizia e il potenziale deflagrante, l’amministrazione si è mossa per “perfezionare gli atti volti alla prosecuzione del rapporto“, come diceva lo stesso municipio poche ore prima.
Ovviamente i commenti della presidente si riempiono delle battute di cittadini e avversari politici che ribattono a quanto raccontato.
La trasparenza e la correttezza, queste sconosciute
Ma la Crescimanno non si scusa in alcun modo dell’errore nè spiega come sia uscita dai suoi uffici la comunicazione di sospensione del servizio.
In compenso suo marito, il consigliere comunale Daniele Diaco, su Facebook pubblica gli atti che riconfermano il SAISH e il SAISA (il CEDAF rimane sospeso perchè evidentemente non c’è stato tempo di recuperare, come del resto confermato dalla Crescimanno nel suo status) spiegando che questa nota arriva “di seguito alla nota protocollata CQ 92069“, ovvero quella che abbiamo letto prima e che quindi è autentica (nel caso qualcuno volesse sostenere qualche improbabile tesi complottistica).
La nota prosegue spiegando che “è stato possibile completare gli adempimenti necessari al perfezionamento degli atti indispensabili per la prosecuzione del servizio”.
È quindi EVIDENTE a tutti che dopo la diffusione della notizia i politici grillini si sono mossi per correggere quanto prima deciso. E invece il consigliere comunale Daniele Diaco mente all’opinione pubblica e ai cittadini parlando di bugie e sciacallaggio da parte dei partiti.
Ma c’è di peggio. Perchè l’assessore al bilancio Andrea Mazzillo, che ricopre una carica istituzionalmente più elevata rispetto a un consigliere comunale e a un presidente di municipio, fa la stessa identica cosa anche se stavolta mette sotto accusa la stampa…
Ma tra le righe ammette che “c’è stato un problema amministrativo” che la presidente Crescimanno “ha risolto lavorando fino alla tarda serata di ieri e predisponendo le determine necessarie”.
Il riferimento alla tarda serata (le 23 e 45? Che vita da cani deve aver fatto finora Mazzillo!) non può non far venire in mente la luce accesa lasciata a Palazzo Venezia ai bei tempi.
Ma a stupire è l’atteggiamento di Crescimanno, Diaco e Mazzillo: di fronte a un evidente errore tecnico-amministrativo commesso nessuno si ritiene in dovere nè di dire tutta la verità nè di scusarsi con i cittadini: una volta riparato (per fortuna) tutti se la prendono con la stampa e con gli avversari politici, in una specie di campagna elettorale permanente che non ha alcuna remora di inventare falsità pur di salvare la faccia e non ammettere l’errore.
Il nuovo che è avanzato è identico alla vecchia politica.
(da “NetxQuotidiano”)
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Novembre 2nd, 2016 Riccardo Fucile
UN AUMENTO DI IMMIGRATI PARI ALL’1% DELLA POPOLAZIONE ADULTA DI UN PAESE ACCRESCE IL PIL PROCAPITE DI ALMENO IL 2%
Non saranno le statistiche a risolvere le dispute e gli scontri sull’immigrazione. Se così fosse, la questione sarebbe in gran parte risolta.
Uno studio pubblicato dal Fondo monetario internazionale ha cercato di stabilire le conseguenze dell’immigrazione sul Pil pro capite nei Paesi più sviluppati, in sostanza sugli standard di vita.
Il risultato più notevole è che, nel medio-lungo periodo, un aumento degli immigrati pari all’ 1% della popolazione adulta di un Paese accresce il Pil pro capite generale di almeno il 2% .
Avviene, in parte, perchè i migranti sono di solito più giovani della media dei cittadini delle Nazioni ricche e quindi fanno salire la quota di persone in età da lavoro; soprattutto, però, avviene perchè migliora la produttività , in quanto spinge i nativi a occupare lavori più specializzati
Una delle conclusioni interessanti dello studio dell’Fmi (che utilizza un approccio sviluppato in anni recenti da Alberto Alesina, Johann Harnoss e Hillel Rapoport) è che, a differenza di quanto in genere si pensa, il grado di istruzione degli immigrati non è l’elemento determinante per giudicarne l’effetto su un’economia.
Per esempio, migranti con minori competenze spesso aumentano il numero di donne native che lavorano, in quanto vanno a sostituirle nelle prestazioni di assistenza famigliare.
Inoltre, i benefici di più immigrati tendono a distribuirsi su tutta la scala sociale, anche se non allo stesso modo: per un 1% di aumento della quota di immigrati ad alta istruzione sulla popolazione, il reddito pro capite aumenta di quasi il 6% per il 10% più ricco dei residenti e di quasi il 2,5% per il restante 90% ; se l’aumento dell’ 1% della quota è composto invece da persone di istruzione media o bassa, il reddito pro capite cresce del 2,5% per il 10% più ricco dei locali e del 2,2% per il restante 90% . Interessante notare che i migranti hanno livelli di competenza sempre più alti.
Tra il 1980 e il 2010, i meno istruiti in arrivo sono restati di fatto stabili, anzi leggermente in calo, attorno al 5% della popolazione.
I mediamente istruiti sono saliti dal 2% al 4,5% . E i più istruiti dal 2 al 5,7% (hanno superato la quota di chi ha basse competenze a metà del decennio scorso).
Tutto questo è una media tra Paesi. Decisive perchè i vantaggi si concretizzino sono le politiche di integrazione nel mercato del lavoro.
Su questo sarebbe bene che i governi si concentrassero.
Danilo Taino
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 2nd, 2016 Riccardo Fucile
L’EX MINISTRO SI SCHIERA NELLA LITE INTERNA… UNA PARTE DEI RADICALI RIVENDICA LA CONTINUITA’
Da quel giorno, da quando ha osservato la sua bara entrare in un loculo a Teramo, non ha più detto una parola in pubblico su di lui.
Troppo dolorosa la rottura degli ultimi anni, troppo fresca la crepa nei loro rapporti umani e politici.
E troppo intenso l’affetto e il dolore per la perdita di una persona al cui fianco ha vissuto quasi tutta la vita.
Ha scelto il congresso dei Radicali italiani, Emma Bonino, per pronunciare il nome di «Marco». E per avvertire i compagni radicali di un rischio: «Stiamo ben lontani dall’esibire, come altri fanno, la placca degli eredi veri. Sottintendendo che gli altri sarebbero falsi».
La presenza di Pannella, viva e ingombrante
Marco Pannella non ha eredi. O nessuno si senta tale, avverte la Bonino. Eppure la sua presenza è più viva e ingombrante che mai.
Una parte dei radicali, quella che fa capo al Partito e che gli è stata vicino negli ultimi mesi, nella sua casa di via della Panetteria, rivendica la continuità .
Nega, in una lettera al Corriere, «di aver rinchiuso Pannella in un cerchio magico: se di cerchio si trattava, la circonferenza era molto più larga dei nomi indicati».
Al congresso di Rebibbia, il Partito ha deciso di sospendere lo Statuto e le altre associazioni che facevano parte della galassia radicale, come i Radicali italiani. Maurizio Turco, due giorni fa, ha scritto che sarà tolto qualunque aiuto economico ai «furbetti del partitino».
Sergio D’Elia si è spinto fino a dire che si «evoca Pannella dopo averlo umiliato, negato, deriso e ucciso».
La scelta
La Bonino ha scelto i Radicali italiani. E contesta Rita Bernardini, Maurizio Turco, Sergio D’Elia e Antonella Casu: «Quando riceviamo le lettere dei quadrumviri, o dell’unumviro (Turco, ndr), molti di noi si offendono. Io ho la reazione opposta: mi viene ancora più voglia di iscrivermi al Partito radicale, perchè io so di vivere nella storia radicale. Non ci sono idee che appartengono a qualcuno: ci appartengono. Mi iscriverò al partito, ai Radicali italiani, alla Luca Coscioni e persino a Nessuno Tocchi Caino. Anche se la vita cambia e non sono più in grado di versare 2.500 euro al mese».
Bonino replica a Turco, che le contesta di essere entrata nel board della Fondazione Soros sostenendo che questa «non ha mai finanziato un’iniziativa del Partito»: «Non ho niente da nascondere, la fondazione Soros è una delle migliori. Dev’essere saltato un paragrafo all’unumviro: contributi finanziari sono in corso per due campagne ».
E ancora: «Non si fa politica per sentimenti o per risentimenti. Non bisogna scendere a queste meschinità ».
La Bonino è amareggiata, ma decisa. Parlando di «Marco», spiega che «la memoria è selettiva»: «Ognuno di noi ha imparato tanto, forse cose diverse. Ma trovo stucchevole dire: “Marco avrebbe detto o fatto questo”. Non ci mettiamo sullo stesso piano dei quadrumviri».
Il referendum act
La Bonino poi si rivolge al «signor premier Renzi» e rivendica il «referendum act», l’atto con il quale i radicali chiedono di semplificare le procedure di raccolta delle firme dei referendum: regole da «Medioevo troglodita».
«Mandi qualcuno», dice la Bonino, riferendosi al ministro Boschi, attesa al congresso. Poi il referendum: «Non sarà lo spartiacque tra Medioevo e future sorti progressive». Ma tra i due, meglio il Sì: «Non ho l’impressione che per i nostri temi avremo più ascolto, se vincesse il no, da Salvini, Brunetta o Grillo. Non è così drammatico, in politica, dire che si sceglie il meno peggio».
Alessandro Trocino
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 2nd, 2016 Riccardo Fucile
TRE CARABINIERI CONDANNATI PER OMICIDIO COLPOSO PER LA MORTE DEL 40ENNE FIORENTINO DECEDUTO MENTRE VENIVA ARRESTATO
La sentenza di responsabilità per tre carabinieri era arrivata il 13 luglio 2016.
Ma la procura di Firenze ha presentato appello contro quel verdetto: tre militari condannati per omicidio colposo (8 mesi per uno e 7 mesi per gli altri due) e assoluzione per un altro militare e due volontarie della Croce Rossa.
Tutti imputati per la morte di Riccardo Magherini, il 40enne fiorentino deceduto in una strada dell’Oltrarno la notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 mentre veniva arrestato.
Secondo quanto riportato da alcuni quotidiani fiorentini, il pm Luigi Bocciolini chiede pene più severe perchè convinto che quella notte i tre militari non avrebbero compiuto solo omissioni, non accorgendosi che mentre lo tenevano fermo il 40enne aveva smesso di respirare: Magherini sarebbe stato tenuto “prono e immobilizzato con pressione sulle scapole” impedendogli di “respirare liberamente”.
E questo avrebbe portato “la sofferenza asfittica, concausa nel decesso” dell’uomo e quindi, secondo il pm, per i militari non si può parlare solo di colpa omissiva.
Nelle motivazioni della sentenza i giudici avevano scritto che la “causa preponderante” della morte dell’uomo era stata una “intossicazione da cocaina”
La procura, sempre secondo quanto riportato, ha presentato appello anche contro le due volontarie della Cri (non contro l’assoluzione del quarto militare presente) alle quali, sempre secondo il pm, “i carabinieri non avrebbero frapposto alcun ostacolo all’avvicinamento dei soccorritori” e che, quindi, sarebbero da condannare per “inerzia colpevole”.
Bocciolini, al processo, aveva chiesto la condanna a 10 mesi per un militare e 9 mesi per tutti gli altri imputati.
Soddisfatti i familiari di Magherini che presto, tramite i legali, presenteranno appello a loro volta.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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