Destra di Popolo.net

BASE GRILLINA DISORIENTATA: “ALLORA AVEVA RAGIONE PIZZAROTTI”

Gennaio 3rd, 2017 Riccardo Fucile

GLI ATTIVISTI SUL BLOG: “ABBIAMO MESSO ALLA GOGNA IL PD PER GLI STESSI MOTIVI”

Il popolo grillino è disorientato.
A frastornare la base è la svolta garantista impressa da Beppe Grillo, che divide gli animi del partito. «Finalmente un codice etico! È dal caso Quarto che avremmo dovuto adottarne uno», è la linea condivisa da molti iscritti sul blog di Grillo, ma altrettanto decise e numerose sono le perplessità  sollevate in Rete, terra patria del Movimento, per «l’ennesima scelta calata dall’alto».
«Andiamo avanti, ma Luigi Di Maio — ricorda un grillino su Twitter — non sosteneva che con un avviso di garanzia ci si dovrebbe dimettere?».
«Non capisco — interviene un altro attivista su Facebook – un anno fa, con un post sul blog, mettevamo giustamente alla gogna gli indagati del Pd. Ora invece i nostri li salviamo».
D’altronde, è proprio l’annus horribilis delle vicende giudiziarie rovesciatesi sul Movimento, con la questione romana sempre aperta, ad aver dato una forte accelerazione alla nascita di un codice di comportamento, che oggi verrà  votato online.
Il passato meno recente, però, non viene dimenticato e il nome del sindaco di Parma Federico Pizzarotti, epurato proprio per un avviso di garanzia, viene più volte rievocato.
«Aveva ragione Pizzarotti: chiunque può essere indagato, ma questo non significa dover essere cacciato dal Movimento», commenta un iscritto al blog di Grillo, seguito da chi sostiene che si debba «rimettere in discussione il suo allontanamento».
Le critiche più aspre, però, colpiscono proprio Grillo, chiamato personalmente a valutare la condotta degli iscritti.
L’accantonamento dell’«uno vale uno» e il ridimensionamento del voto online e delle decisioni della Rete, sono passi che incontrano un diffuso malcontento nella base. «Avrei lasciato meno spazio a quattro soggetti in croce con larghe possibilità  decisionali e discrezionali», si legge in molti commenti sul blog dell’ex comico.
E qualche attacco arriva anche alla Casaleggio associati, unica titolata (dallo stesso codice etico) ad essere informata di eventuali avvisi di garanzia giunti a carico di un portavoce pentastellato.
«Chi è eletto, e quindi è figura costituzionalmente pubblica — scrive ad esempio Tommaso, attivista di lunga data – non può e non deve rispondere politicamente ad un’azienda privata».
I dubbi che assalgono alcuni grillini, però, vengono dalla maggioranza degli altri iscritti sistematicamente delegittimati: «Ecco i troll del Pd», rispondono in coro.
Ma sono numerosi gli appelli all’unità  e alla «fiducia in Beppe», rifugio di ogni incertezza.

Federico Capurso
(da “La Stampa“)

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“IL CONTRATTO DELLA RAGGI E’ ILLEGALE, LO AMMETTE ANCHE LEI”

Gennaio 3rd, 2017 Riccardo Fucile

NELLA MEMORIA DEI LEGALI DELLA RAGGI SI DICE CHE IL CONTRATTO FIRMATO DAL SINDACO E’ DA CONSIDERARE NULLO

Il Messaggero torna oggi sulla storia del ricorso contro l’elezione di Virginia Raggi a sindaca di Roma presentato al tribunale civile di Roma dall’avvocato Venerando Monello e che mette sotto accusa il contratto firmato dagli eletti M5S in Campidoglio e dalla prima cittadina con il MoVimento 5 Stelle.
La tesi dell’accusa è che il contratto sia nullo e quindi sia nulla anche l’elezione.
Ma ora si scopre che qualcosa di molto simile è scritto anche nella memoria che Raggi ha inviato al Tribunale civile di Roma in vista dell’udienza del prossimo 13 gennaio. La prossima settimana, infatti, il Tribunale dovrà  pronunciarsi nel merito di una causa, intentata da Monello appunto, che ruota intorno a due richieste: l’annullamento del contratto nel quale si prevede una penale da 150mila euro per i consiglieri eletti coi 5 Stelle in caso di violazione dei principi del Movimento oppure, in alternativa, la decadenza del sindaco che lo ha firmato.
Nella memoria presentata in vista dell’udienza, parlando di «Incompatibilità  della domanda di decadenza», i legali di Raggi dicono esplicitamente che il contratto firmato dal sindaco può essere considerato nullo.
Insomma, sempre secondo i legali della Raggi, in caso di lite del sindaco con i responsabili dei 5Stelle non sarebbe la Raggi a decadere ma, al contrario, il primo cittadino rimarrebbe al suo posto senza dover rispondere della firma di un contratto considerato illegittimo: «In virtù del noto principio vigente nel nostro ordinamento secondo cui “quod nullum est nullum producit effectum” — si legge nella memoria — l’eventuale dichiarazione di nullità  del codice di comportamento accerterebbe in automatico l’inesistenza ex tunc di qualsivoglia obbligo in capo a Virginia Raggi in virtù della sottoscrizione del suddetto codice».
Gli avvocati di Raggi nella loro memoria conclusiva riprendono un principio di base del codice civile, ovvero che nessuno può essere vincolato ad un contratto illecito o “immorale”:
Vale a dire, per stare sul paradosso, che l’accordo in cui si vende un arto del proprio corpo non può essere fatto valere in nessun grado di giudizio.
Il problema però è che a utilizzare questo argomento, facendo capire che la possibilità  della nullità  esiste eccome, è lo stesso sindaco di Roma.
Un dettaglio non da poco, visto che gli avvocati di Beppe Grillo, pure costituiti in giudizio, non toccano proprio l’ipotesi della nullità .
Ad animare la battaglia che potrebbe portare all’annullamento del contratto di Raggi (e di tutti quelli firmati da consiglieri e parlamentari) è stato l’avvocato Venerando Monello del foro di Roma.
«Ho letto del contratto a febbraio scorso e dopo le elezioni ho deciso di avviare il ricorso»,spiega: «E’ il diritto che stabilisce i confini in cui si muove la politica ed è al diritto che dobbiamo rivolgerci tutte le volte che subiamo o notiamo un abuso. Un fondamento delle democrazie occidentali che ai miei occhi ha sempre avuto un certo peso è che chi lotta per un proprio diritto lotta per far valere i diritti anche degli altri».
In realtà , come si capisce dal documento pubblicato, gli avvocati della Raggi sembrano invece fare un’ipotesi per assurdo allo scopo di spiegare che la decadenza dalla carica di sindaco di Roma, chiesta da Monello, non sarebbe valida anche se il contratto dovesse essere nullo.

(da “NextQuotidiano”)

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“BEPPE GRILLO VUOLE UNA BANCA”: L’INCONTRO TRA DAVIDE CASALEGGIO E WIDIBA

Gennaio 3rd, 2017 Riccardo Fucile

CONTATTI DELL’AZIENDALISTA GRILLINO CON L’AD DELLA BANCA ONLINE DEL MONTE DEI PASCHI

Il Giornale apre oggi con un articolo di Giampiero Timossi che racconta di un incontro tra Davide Casaleggio e Andrea Cardamone, amministratore delegato di Widiba, banca online del Monte dei Paschi di Siena.
Il titolo, forzato, del quotidiano, è «Grillo vuole una banca», che ricorda la frase di Piero Fassino «Allora abbiamo una banca?» rivolta a Giovanni Consorte nel 2005 nell’intercettazione pubblicata illegalmente dal quotidiano all’epoca diretto da Vittorio Feltri
Dal flashmob al rendez-vous, l’incontro tra Casaleggio e Cardamone, amministratore delegato della banca che ha ancora il Monte quale socio unico.
Si sono dati appuntamento a Milano, a pochi passi da parco Sempione, due giorni prima di capodanno.
Neppure due settimane dopol’ultima iniziativa perchiedere «chiarezza e giustizia» sul futuro del più antico istituto di credito italiano. Di cosa si è parlato? Dagli ambienti bancari nulla trapela sull’argomento della chiacchierata, c’è chi parla di un «incontro cordiale, molto cordiale, durante il quale Cardamone ha spiegato a Casaleggio i prossimi obiettivi della banca e quali nuove iniziative si potranno mettere in campo per venire sempre più incontro alle esigenze dei giovani che vogliono affidarsi a Widiba per acquistare casa o per avviare una nuova start-up».
L’articolo si conclude con un aneddoto che riguarda proprio Davide Casaleggio:
Ora c’è chi ricorda un’altra vicenda, quella raccontata dal Giornale il 31 dicembre 2005. La trascrizione di una telefonata tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, durante la quale l’allora segretario dei Ds chiede all’allora amministratore delegato di Unipol: «Ma abbiamo una banca?».
Quella domanda fa riferimento ai tentativi di acquisizione da parte di Unipol della Banca Nazionale del Lavoro.
«Questa è tutta un’altra storia, un incontro e una pubblicità  alla luce del sole», già  fanno sapere i fedelissimi di Grillo e Davide Casaleggio.
Ma tra i fuoriusciti dal Movimento c’è subito chi ricorda, con astio e una certa sete di vendetta, una frase ricorrente di Davide.
Usata spesso per declinare inviti a colazione, pranzo e cena. La frase: «Che interesse ho io a pranzare con te?».
Con Andrea Cardamone qualche interesse c’è.

(da “NextQuotidiano“)

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SE LO STATO TRASFORMA I MIGRANTI CHE LAVORANO IN CLANDESTINI DA ESPELLERE

Gennaio 3rd, 2017 Riccardo Fucile

C’E’ CHI SI E’ VISTO RESPINGERE LA RICHIESTA DI ASILO MA NEL FRATTEMPO HA TROVATO LAVORO

Lo Stato prima li accoglie, poi li forma, in alcuni casi li aiuta a trovare un lavoro, infine li trasforma in fantasmi condannandoli alla clandestinità .
Dietro la stretta sugli irregolari annunciata dal Viminale si nasconde un cortocircuito che impedisce a migliaia di profughi di costruirsi una vita in Italia. Anche se ci sono aziende pronte ad assumerli.
Conviene partire da una domanda: perchè i migranti non lavorano?
La risposta è: perchè non glielo permettiamo.
Oggi, di fatto, gli stranieri possono mettersi in regola solo dopo essere entrati illegalmente. Le strade sono due.
La prima è aderire al decreto flussi. Pensato per fare arrivare dall’estero un numero di lavoratori adeguato alle esigenze dell’economia, nel 2016 erano previsti 13.000 ingressi per lavoratori stagionali, 3600 per non stagionali e 14.250 conversioni di permessi di soggiorno.
Ma è ardito pensare che un’azienda assuma una persona da un Paese straniero, magari senza averla mai incontrata. Risultato: il decreto flussi è una sorta di sanatoria mascherata per chi si trova già  in Italia.
La seconda strada è, invece, quella di fare richiesta di asilo. Ma non tutti scappano dalle guerre. E allora si pone il problema: che fare con chi non lo ottiene?
Su oltre 180mila cittadini stranieri sbarcati in Italia nel 2016 circa 23mila vengono gestiti attraverso la rete Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) degli enti locali, mentre gli altri finiscono nel calderone dei Centri di accoglienza straordinaria di competenza prefettizia.
I primi sono i più fortunati: per loro sono previsti progetti di formazione e d’inserimento lavorativo.
Di solito si comincia con un tirocinio di sei mesi pagato con fondi statali. Se l’azienda è soddisfatta può richiedere di prolungare l’apprendistato, stavolta facendosi carico dell’indennità  versata al richiedente asilo.
Nei percorsi più virtuosi il tirocinio potrebbe trasformarsi in un vero e proprio contratto di lavoro. Ristoratori, imprese agricole, cooperative, artigiani, commercianti: in tanti vorrebbero assumere i ragazzi arrivati dall’Africa.
Ma qui sorgono i problemi: sul futuro dei migranti pende infatti il verdetto alle loro richieste di asilo.
Per sei su dieci la risposta è negativa. Le commissioni territoriali e i tribunali chiamati a valutare le domande di protezione seguono infatti altri criteri, senza prendere in considerazione il percorso svolto dal richiedente asilo e la sua situazione lavorativa.   «Ben venga chi arriva in Italia per lavorare, fuori i delinquenti», è il ritornello bipartisan che ripetono i politici.
Peccato che anche a chi un’occupazione l’avrebbe trovata, spesso vengano negati i documenti.
Il paradosso è tutto qui: l’Italia sta trasformando potenziali lavoratori in clandestini.
Si stima che sul territorio nazionale ci siano almeno 50mila migranti fantasma e altrettanti potrebbero diventarlo nei prossimi mesi. In gergo li chiamano “diniegati”: stranieri che hanno fatto richiesta di asilo, ma per i quali è stata respinta.
A loro viene consegnato un foglio di via che intima di lasciare autonomamente il territorio nazionale entro sette giorni. Cosa che non accade quasi mai: i migranti restano in Italia e spariscono in una zona grigia senza diritti nè doveri, esposti a sfruttamento e illegalità .
Ora il Viminale vuole rafforzare i controlli e accelerare sui rimpatri. Il capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, ha diramato una circolare che invita i prefetti a rintracciare gli irregolari. L’obiettivo è fare in modo che le espulsioni non restino sulla carta.
Ma gli operatori dell’accoglienza sono convinti che per prosciugare questa zona grigia esistano anche altre strade. Come regolarizzare chi ha un contratto di lavoro.
Nei giorni scorsi le cooperative e le associazioni dei progetti Sprar di Torino che gestiscono i richiedenti asilo e le aziende che ospitano i tirocinanti hanno creato la rete “SenzaAsilo” nel tentativo di dare la sveglia alle istituzioni: «Non possiamo far finta che il problema non esista, serve una revisione delle regole», è la richiesta che intendono sottoporre a governo e Parlamento.
«Chi valuta le domande d’asilo deve prendere in considerazione anche la situazione lavorativa dei singoli migranti». In pochi giorni sono arrivate adesioni da tutta Italia.
Tra le proposte sul tavolo una sanatoria e l’introduzione di forme di regolarizzazione su base individuale degli stranieri. Perchè trasformare i migranti lavoratori in fantasmi non conviene a nessuno.
LE STORIE
Ibrahim, dal Gambia   “Ho un posto da lavapiatti, ma sogno di diventare chef”  

Ventidue anni e un sorriso disarmante. Ibrahim è uno spilungone cresciuto in Gambia e sbarcato in Sicilia nell’estate del 2014.
Oggi lavora come lavapiatti al ristorante “Centenario”, tappa obbligata per i palati torinesi sedotti dalla cucina messicana. Dopo due tirocini, ha un contratto part-time che scade il 31 gennaio 2017, ma il datore di lavoro è pronto ad assumerlo a tempo indeterminato. «Ringrazio l’Italia per avermi accolto e aiutato. Adesso chiedo solo che non mi venga tolta la possibilità  di lavorare, per il resto so cavarmela da solo».
Ibrahim racconta la sua storia seduto sui divani di velluto rosso del locale che per lui è diventato una seconda casa: «Ho fatto il muratore in Libia, ma lì non c’era futuro. Non vedo mia madre da quattro anni, mi manca. Ogni mese cerco di mandarle cento euro per i miei fratelli più piccoli». La paura è quella che il sogno svanisca: ha chiesto asilo e dopo due dinieghi è in attesa della sentenza d’appello.
All’altro capo del tavolo siede Stefano Cavallero, proprietario del ristorante e di altri tre locali in città . «Ho 45 dipendenti. Sono pronto ad assumere Ibrahim, ma senza i documenti non posso farlo».
Ma perchè un imprenditore vuole a tutti i costi puntare su questo ragazzone arrivato dal Sud del mondo che parla un italiano zoppicante? «Perchè lui è educato, puntuale, umile, affidabile. Mi spiace ammetterlo, ma sono qualità  che non è semplice trovare nei giovani italiani».
Nell’ultimo anno Ibrahim si è dato da fare: «Ha voglia di imparare, nelle ultime settimane gli sto facendo seguire un corso da aiuto cuoco», racconta Cavallero. «Il mio sogno? Mi piacerebbe diventare chef», dice Ibrahim ridendo. Poi si fa serio: «No, ho sbagliato a rispondere. Il mio sogno è un altro: riabbracciare mia madre e portarla in Italia. Ha sofferto troppo, se lo merita».
Luis, dal Congo   “La mia famiglia è perseguitata, nessuno mi crede”  
«La mia vita è un tunnel senza luce. Io non ho più diritto al futuro». Singhiozza e piange Luis, seduto nel bar di un ipermercato della periferia di Torino.
E le sue lacrime stridono con la stazza imponente di questo uomo congolese di 33 anni, arrivato in Italia nel 2012 come studente alla facoltà  d’informatica del Politecnico.
Figlio di insegnanti, parla un italiano impeccabile. Ha chiesto asilo perchè i suoi familiari «sono perseguitati politici». Nel suo passato c’è anche lo strazio per un fratello sparito in circostanze misteriose, il corpo non è mai stato trovato.
Luis ha raccontato tutto questo e molto altro alla commissione territoriale chiamata ad esaminare la sua richiesta di asilo. «Ma non mi hanno creduto», racconta.
Attraverso lo Sprar sta svolgendo un tirocinio presso un’azienda che crea reti digitali. Perchè Luis è un talento. Ha un diploma universitario in informatica e certificazioni internazionali che testimoniano la sua professionalità . Se solo potesse, non avrebbe problemi a trovare un lavoro.
Ma Luis ha ricevuto un doppio diniego. Niente protezione, niente futuro.
Ora aspetta la sentenza definitiva che deciderà  la sua sorte. «Questa attesa mi devasta». Ringrazia l’Italia per averlo accolto: «Mi spiace solo che la gente abbia paura. Quando mi siedo sul pullman, c’è chi si alza per non starmi vicino». Luis sogna la normalità : una casa, una moglie, dei figli. «Ma ormai ho perso fiducia. Spesso evito di uscire a pranzo con i miei colleghi e resto in ufficio perchè ho paura di essere fermato dalla polizia».
Luis sospira, poi guarda l’orologio. La pausa pranzo è finita, si torna in ufficio. Si strofina gli occhi e le lacrime tornano a scendere lungo le guance: «Nella mia testa passano tanti brutti pensieri. La cosa che mi fa più male è che non sono più la stessa persona, questa storia mi ha cambiato per sempre».
George, dal Gambia   “Quando esco dal cantiere ho il terrore di finire al Cie”  
Davide Dan è un elettricista torinese. Due settimane fa ha deciso di prendere carta e penna per scrivere una lettera. L’ha indirizzata al tribunale d’appello che, dopo il doppio diniego, dovrà  riesaminare la richiesta d’asilo del ragazzo che lavora per lui: «È molto disponibile e puntuale. È cresciuto sotto l’aspetto professionale dall’inizio del tirocinio ad oggi grazie alla sua costante attenzione, applicazione ed interesse. In questo momento sono disponibile ed interessato per un’assunzione a tempo indeterminato del ragazzo. Distinti saluti».
Il ragazzo si chiama George, ha 26 anni e arriva dal Gambia. Indossa guanti da lavoro e si sfrega le mani per combattere il freddo di un’umida mattina di dicembre: «Sono scappato dal mio Paese perchè laggiù c’è una dittatura – racconta-. Per alcuni mesi ho lavorato in Libia, ma era troppo pericoloso. Sono stato rapinato più volte. Sono arrivato nel luglio del 2014, la mia vita ormai è in Italia».
Per attraversare il Mediterraneo ha pagato 900 dollari agli scafisti. Sulla barca con lui c’erano altri 700 migranti, in 150 non ce l’hanno fatta.
«Ci avevano ammassati nella stiva. I più deboli sono morti asfissiati dai vapori della benzina o per le ustioni sulla pelle dovute alle perdite di carburante».
George si muove agile tra cavi elettrici e corrugati: «Davide mi sta insegnando tutto, mi piace creare la luce. Ma quando torno a casa ho paura di essere fermato dalla polizia e di finire al Cie».
Fuori dal cantiere scorre la vita. «Mi alleno con una squadra di calcio che milita in prima categoria, ma non posso giocare le partite ufficiali perchè non ho il permesso di soggiorno».
Per Davide Dan questo ragazzo non è solo un dipendente: «George è speciale perchè capisce il mio umore. Ho avuto vari apprendisti, ma con nessuno mi ero trovato così bene. Spero che lo Stato gli dia i documenti per restare».
Gimi, dal Gambia     “Amo preparare i ravioli e vorrei studiare Economia”  
Nel cuore della movida torinese c’è una coppia di ristoratori che con spirito battagliero sfida le leggi italiane.
La disobbedienza civile di questi due cinquantenni brizzolati è un atto d’amore per Gimi, aiuto cuoco gambiano di 27 anni.
Dopo due tirocini, il proprietario del locale ha deciso di assumerlo a tempo indeterminato. Il problema è che Gimi, nel mentre, è diventato clandestino. La sua corsa verso il futuro si è fermata davanti al doppio diniego alla sua domanda d’asilo.
Ha tentato un ultimo ricorso, ma le speranze sono minime. Il ristoratore lo sa: «Di fatto lui lavora da noi senza documenti. Avevamo anche inviato una lettera al giudice del tribunale spiegando che lui per noi è una risorsa fondamentale. Ma la risposta è stata negativa».
Gimi è serio e affidabile, in cucina non sgarra mai. Ma per la coppia che gestisce questo ristorante c’è di più. «È un ragazzo straordinario, ormai è diventato uno di famiglia, ha le chiavi di casa nostra. È frustrante non poterlo aiutare».
E così questi due ristoratori hanno deciso di forzare le regole, ben consapevoli dei rischi: «Abbiamo chiesto al nostro consulente del lavoro di attivare comunque un contratto a tempo indeterminato, anche se non ha il permesso di soggiorno».
Gimi lavora in cucina: «Mi piace preparare i ravioli, sono il mio piatto preferito», racconta quasi spaesato di fronte a tanto affetto.
Sogna di iscriversi all’università : «Vorrei studiare economia». Ma per ora resta qui, a sfornare prelibatezze per i suoi coetanei . Se arriva qualcuno per un controllo, Gimi sparisce dalla porta del retro.
«Gli abbiamo chiesto di essere pronto a scappare», raccontano i ristoratori. «Gimi oggi non può aprire un conto corrente. Se sta male, non può curarsi. Non è giusto. Ma se lo Stato è miope, qualcuno deve pur fare qualcosa».

Gabriele Martini
(da “La Stampa”)

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LA RIVOLTA NEL CENTRO DI ACCOGLIENZA DI COMA: RITARDO NEI SOCCORSI, MUORE UNA GIOVANE, LE RESPONSABILITA’ DELLO STATO PER UN CENTRO VERGOGNOSO

Gennaio 3rd, 2017 Riccardo Fucile

UN AVVOCATO AVEVA DENUNCIATO: “PEGGIO DEI CAMPI PROFUGHI IN TURCHIA, UN AMMASSO INDEGNO DI PERSONE, ASSISTENZA SANITARIA CARENTE”

Rivolta nel centro di prima accoglienza di Cona, in provincia di Venezia, dove alcuni migranti hanno bloccato all’interno della struttura 25 operatori che si occupano dei richiedenti asilo per alcune ore.
Solo l’intervento dei carabinieri e della polizia ha consentito di riportare la calma. Intorno alle 2, gli operatori sono stati fatti uscire.
La rivolta sarebbe scoppiata in seguito alla morte di una ragazza della Costa d’Avorio all’interno del centro. Alcuni migranti, lamentando ritardi nei soccorsi, avrebbero dato inizio alla protesta che si è protratta per diverse ore, arrivando a bruciare alcuni scaffali.
La struttura di Cona, e’ una ex base missilistica e oggi ospita circa un migliaio di migranti
La ragazza si chiamava Sandrine Bakayoko, aveva 25 anni e veniva dalla Costa d’Avorio.
Era arrivata in italia il 30 agosto 2016 ed era ospitata nel centro di prima accoglienza di Cona in attesa di avere una risposta alla sua richiesta d’asilo.
Il malore finito in tragedia.
«Un malore che non le ha lasciato scampo – spiegano dalla Cooperativa – si è sentita male la mattina mentre era in bagno e non si è più ripresa».
La giovane donna si sarebbe sentita male in doccia intorno alle 7 ma l’ambulanza che l’ha portata via è arrivata intorno alle 15 e non sarebbe riuscita a salvarla.
«La prima ambulanza non ha potuto portarla via ed è dovuta arrivare una seconda ambulanza ma per lei era troppo tardi. La ragazza è morta 5 minuti dopo essere partita con la seconda ambulanza», dice uno dei profughi al Corriere della Sera.
Al 118 hanno risposto a una richiesta di intervento proveniente da Cona alle 12.50, un’ambulanza è arrivata sul posto dieci minuti dopo e la donna era ancora nel locale adibito alle docce.
Successivamente è arrivata una seconda ambulanza con medico a bordo. Ma la ragazza era ormai morta.
All’arrivo i sanitari l’hanno trovata riversa in bagno priva di conoscenza. Subito sono iniziate le manovre rianimatorie e il trasporto al Pronto Soccorso piovese, dove però è arrivata priva di vita.
In una nota diramata in serata dalla prefettura si legge che «alle ore 12.48 è giunta alla Centrale Operativa del Suem 118 di Padova una richiesta di soccorso per una giovane donna (25 anni) di nazionalità  della Costa d’Avorio, trovata dal compagno riversa in bagno priva di conoscenza, presso il Centro di Accoglienza e Assistenza di cittadini stranieri richiedenti la protezione internazionale, sito in località  Conetta del Comune di Cona. Stante la gravità  della situazione, la Centrale Operativa attivava, sia l’equipaggio dell’ambulanza di stazionamento nel Comune di Cavarzere, sia l’automedica dell’Ospedale “Immacolata Concezione” di Piove di Sacco.
I sanitari giunti tempestivamente sul posto, hanno prontamente iniziato le manovre rianimatorie e trasportato la donna al Pronto Soccorso piovese, dove, purtroppo è arrivata priva di vita. Poichè non è nota la dinamica dei fatti accaduti all’interno del Centro di Accoglienza prima del sopraggiungere del personale sanitario e, al fine di accertare le cause del decesso, la salma rimane a disposizione dell’Autorità  Giudiziaria».
La notizia ha cominciato a girare nella notte, ma già  stamattina sui social network si parla della rivolta senza però segnalare che è stata scatenata dalla morte di una ragazza, ma si parla solo di generiche proteste di insoddisfatti:
Il centro di prima accoglienza di Conetta
Il centro di prima accoglienza di Conetta era stato già  al centro di polemiche per le condizioni della struttura.
È gestito dalla cooperativa Ecofficina. Nel gennaio 2016 si era verificata un’altra protesta con «una lunga serie di lamentele sulle loro condizioni di vita: freddo, soprattutto durante la notte, mancanza di acqua calda per lavarsi, scarsità  di docce e servizi igienici, cibo insufficiente e nessun cambio di vestiti disponibile, carenza di medicinali e di assistenza medica».
Una delegazione dell’Associazione Giuristi Democratici nell’aprile scorso aveva visitato il centro e diramato un comunicato sulle condizioni dei profughi:
I delegati riferiscono che le stanze sono piccole, con tre letti a castello e una finestrella ciascuna, non ci sono altri arredamenti, armadi o sedie dove sistemare le proprie cose. La struttura muraria in generale è degradata e la parte migliore paradossalmente è quella dei tendoni, dove vivono comunque in centinaia
I servizi non hanno neanche la parvenza di essere decenti e un avvocato dei delegati commenta facendo un paragone con i campi profughi che ha visto in Turchia: sono meglio organizzati del c.a.s. veneto.
Non ci sono spazi dedicati alla vita collettiva e la cooperativa non offre attività  ricreative o educative.
Ancora più importanti se si pensa alla collocazione del centro d’accoglienza: la zona, infatti, è isolata e lontano da tutto e i ragazzi vivono in una condizione di isolamento forzato anche potendo uscire dalla base
“Quello dell’ex base di Conetta è un chiaro esempio di accoglienza disfunzionale, sia per gli ospiti che per gli abitanti ospitanti”, dichiara Luana Zanella, esponente dei Verdi.
A dimostrazione di quanto siano difficili le condizioni di vita, la delegazione ha avuto anche notizia di molti ricoveri psichiatrici e addirittura di due T.S.O..
La permanenza nel centro porta i soggetti più deboli all’esasperazione e questa notizia fa pensare che anche l’assistenza medica e psicologica sia estremamente carente
Nonostante le promesse del Prefetto Cuttaia, che qualche mese fa dichiarava la diminuzione degli ospiti, e le smentite sulle cattive condizioni di vita, il centro continua ad essere un ammasso indegno di persone e le condizioni non sono migliorate, anzi.
È inaccettabile che esseri umani in fuga da situazioni spaventose e con trascorsi traumatici siano costretti a vivere in un posto come Cona, senza un’accoglienza degna e percorsi d’integrazione adeguati.
Finchè la gestione sarà  questa l’accoglienza invece di essere un diritto sarà  più che altro una violazione.

(da “NextQuotidiano”)

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