Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
NEI FEUDI DI ALFANO E MARONI QUESTURE PIENE
In un momento di grande allerta per la sicurezza nazionale l’organico della polizia è sotto del 15%, manca poco meno di un poliziotto su cinque.
Ma non è sempre così.
Ad Agrigento, Bologna, Lecce, Modena e Varese, per esempio, le Questure hanno più agenti di quelli previsti.
Maggiori pericoli? Obiettivi sensibili? Macchè, solo una legge non scritta.
A illustrarla è il capo della polizia, Franco Gabrielli: “Il nostro Paese ha situazioni particolari. Per esempio, Varese è sopra organico. Come mai? Forse perchè c’è stato un ministro dell’Interno”.
Il riferimento è a Roberto Maroni, Lega Nord, oggi governatore lombardo, al Viminale con Berlusconi nel ’94-’95 e tra il 2008 e il 2011.
“A Lecce — prosegue Gabrielli in audizione — sono sopra forse perchè c’è stato un sottosegretario all’interno”. Alfredo Mantovano, ex An, tra il 2001 e il 2006 e tra il 2008 e il 2009.
“Modena — dice ancora il capo della polizia — è sopra organico perchè c’è il segretario generale del Siulp (Felice Romano, ndr). Sono cose che in questo Paese sono facilmente intellegibili”.
Di Agrigento il capo della polizia non parla ma nella città di Angelino Alfano, leader Udc e ministro dell’Interno dal 2013 al dicembre 2016, ci sono 290 agenti contro i 260 previsti: più 12 %, esattamente come a Varese (229 contro 205), un po’ più di Lecce (351 contro 319, più 10%) e di Modena (254 contro 251, più 5%).
Non sono frasi carpite al bar o confidate da Gabrielli a un cronista.
Il capo della polizia le ha pronunciate alla Camera dei Deputati, il 10 gennaio scorso, davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla sicurezza e il degrado delle città .
Gabrielli è lì per fare il punto e spiega che nel 1989 la polizia aveva un organico di 117.200 unità , mentre oggi “siamo 99.630 con un decremento medio del 15%”. Aggiunge che la legge Madia ci ha messo del suo, abbassando l’organico a 106 mila. Tanto che “quando ci sono realtà con una scopertura del 5, del 4 o del 3 per cento è grasso che cola”.
Essenziale capire dove sia finito, tanto più che oltre alle carenze d’organico incombe il problema dell’età degli agenti in servizio che mediamente hanno 48-51 anni: con il blocco del turnover — secondo stime che circolano al Viminale — nel 2030 si avrà il 40% di forze in meno. E allora addio, cara sicurezza.
Ad ascoltarlo ci sono venti deputati, di ogni colore politico, che non si scompongono. Neppure nel sentire perchè alcune città fanno eccezione alla regola generale dei vuoti di organico e che, di fatto, politici e sindacalisti in Italia riescono a convogliare gli agenti nei propri feudi elettorali o sindacali.
A scapito del diritto alla sicurezza di tutti i cittadini, specie di chi vive in realtà dove la cronica insufficienza di uomini e mezzi fa dilagare reati e criminalità .
Come succede a Reggio Calabria (2.017 unità effettive a fronte delle 2.137 previste: meno 5,6%), Bari (1.117 unità effettive contro 1.298 previste: meno 13%), Catania (1.979 unità effettive contro 2.028 previste: meno 2%), Messina (921 unità a fronte delle 1.129 previste: meno 18%), Cagliari (904 unità effettive contro 1.245 previste: meno 27%).
Ma le situazioni ritenute più gravi sono Caserta e Foggia, dove gli stessi organici del 1989 affrontano una criminalità che da allora è fortemente cambiata.
L’unica reazione, alla Camera, è del deputato Andrea De Maria (Pd) che chiede perchè Bologna, la sua città , possa contare su un organico di 2.350 unità sulle 2.320 previste.
Quando capisce si risponde da solo: “Noi abbiamo il ministro dell’Ambiente!”. È il bolognese Gian Luca Galletti (Udc), che poi tutto questo potere sul Viminale non l’ha mai avuto. Ma a intanto a Bologna, con tutti gli agenti al loro posto (e anche di più), i reati sono calati del 10%.
Facile individuare altri potenti in grado di spostare gli agenti.
Maroni da ministro degli Interni nel 2008 elesse la sua Varese a laboratorio dei “patti per la sicurezza” del governo Berlusconi. I titoli della Prealpina e della Padania celebravano un calo del 9% dei reati.
Per Lecce il nome è quello dell’ex sottosegretario del Viminale, Mantovano. Non è più in servizio dal 2013 e il trend dei reati ha ripreso a salire quell’anno (+5,9%).
Infine Modena. Ricorda Gabrielli che lì presta servizio dall’82 il segretario generale del Siulp, il potente sindacato di polizia che conta 26mila iscritti, circa il 30%.
Cade dalla sedia Felice Romano: “Il capo della polizia ha detto davvero una cosa del genere? Non ci credo neanche se lo vedo”.
Lo può leggere a pagina 56 dello stenografico di seduta. “Ma non siamo in soprannumero, siamo sotto di 300 unità ”.
Al Viminale hanno altri numeri.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
NESSUNO DEI 19 ATTENTATORI DELL’11 SETTEMBRE PROVENIVA DA QUEI PAESI… PER LA STAMPA USA E’ EVIDENTE IL CONFLITTO DI INTERESSI DI TRUMP
Nessuno dei 19 attentatori che l’11 settembre 2001 buttarono giù le Torri Gemelle di New York provenivano dai 7 Paesi colpiti dal bando.
Nessuno di questi Stati è tra i maggiori esportatori di foreign fighter.
In 5 di essi i caccia degli Stati Uniti bombardano l’Isis, in uno Washington ha truppe e basi militari, al settimo ha imposto per anni durissime sanzioni.
In nessuno di questi Paesi la Trump Organization ha interessi economici.
Nel pieno della bufera scatenata dall’ordine esecutivo con cui Donald Trump ha bloccato l’ingresso negli Usa cittadini di Iraq, Siria, Yemen, Libia, Somalia, Sudan e Iran, la stampa d’oltreoceano solleva dubbi sulle motivazioni e sulla strategia alla base delle scelte operate dal nuovo inquilino della Casa Bianca.
Lo scopo dichiarato è Protecting The Nation From Foreign Terrorist Entry Into The United States, “proteggere la Nazione dall’ingresso del terrorismo straniero negli Stati Uniti”, come recita il titolo dell’executive order firmato il 27 gennaio.
Eppure il bando non riguarda i maggiori Paesi esportatori di foreign fighter, i miliziani — in questo caso islamisti — che lasciano le proprie case per unirsi allo Stato Islamico e combattere per la sua causa in Medio Oriente.
La Tunisia, ad esempio, è in assoluto il Paese dal quale proviene il maggior numero di combattenti: secondo il governo, dal 2011 sono circa 3mila i jihadisti partiti per andare a prestare servizio sotto le insegne del califfato soprattutto in Siria; secondo un report Onu del luglio 2015, il loro numero si attesterebbe invece a quota 5.500-6.000. Eppure Tunisi non è nella lista stilata dall’amminsitrazione Trump.
Che non comprende nemmeno i Paesi che diedero natali e finanziamenti ai 19 membri della cellula di Al Qaeda che l’11 settembre 2011 cambiò la storia del mondo, dirottando 4 voli di linea, tre dei quali colpirono il World Trade Center di New York e il Pentagono, uccidendo oltre 2.900 persone: 15 dirottatori provenivano dall’Arabia Saudita, due dagli Emirati Arabi Uniti, uno dall’Egitto e uno dal Libano.
“Nessun estremista musulmano proveniente da uno dei Paesi interessati dal bando ha effettuato attacchi negli Stati Uniti da oltre due decenni a questa parte”, ha sottolineato Greg Myre sulle colonne del sito della National Public Radio.
I recenti casi di cronaca, secondo i dati del National Consortium for the Study of Terrorism, dipartimento della Homeland Security Center of Excellence che fa capo all’università del Maryland, parlano chiaro: solo per citare i fatti più noti Omar Mateen, autore della strage di Orlando nel 2016 era nato a New York e originario dell’Afghanistan; i due coniugi autori della strage di San Bernardino nel 2015 erano originari del Pakistan; Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev, fratelli autori dell’attentato di Boston nel 2013, erano nati nel sud della Russia.
“Non è un caso — si legge in un’analisi del think tank progressista Institute for Progress Studies, citato dalla National Public Radio — che dei sette paesi individuati, gli Stati Uniti stiano bombardando in cinque (Iraq, Siria, Yemen, Libia e Somalia), abbiano schierato truppe e basi militari in un altro (Sudan), e impongano sanzioni dure e frequenti minacce contro l’ultima (Iran)”.
Politiche militari che “alimentano il flusso dei rifugiati. In una macabra ironia, l’ordine vieta l’ingresso negli Usa ai rifugiati dalle guerre cui in molti casi gli stessi Stati Uniti hanno dato vita“, si legge nel report dell’Ips.
Che mette in evidenza anche un’altro fattore: “I paesi a maggioranza musulmana finiti nel mirino dei nuovi regolamenti sono quelli in cui l’impero Trump non ha partecipazioni“.
E’ stata l’agenzia Bloomberg ad affrontare il 27 gennaio, a poche ore dalla firma dell’executive order, la questione del presunto conflitto di interessi: “La lista non comprende i Paesi a maggioranza musulmana in cui la sua Trump Organization ha fatto affari o si è dedicata a potenziali accordi economici“.
“Attenzione, signor Presidente — ha scritto in un tweet Norman Eisen, ex consigliere di Barack Obama attuale membro della Brookings Institution — il tuo bando esclude Paesi in cui hai interessi economici. E’ una violazione della Costituzione“.
L’ordine firmato dalla Casa Bianca, fa notare il Washington Post — non fa menzione della Turchia, colpita da diversi attacchi terroristici negli ultimi mesi.
Soltanto mercoledì il Dipartimento di Stato ha emesso un “travel warning” per i turisti americani in visita nel Paese, sottolineando che “un aumento della retorica anti-americana potrebbe ispirare attori indipendenti a compiere atti di violenza nei confronti di cittadini Usa”.
Ma, fa notare il quotidiano, Trump ha concesso il proprio brand a due grattacieli di Istanbul (“Ho un piccolo conflitto di interessi — ammetteva lo stesso tycoon in una intervista dicembre 2015 con Breitbart News — perchè possiedo un importante edificio a Istanbul”), un’azienda turca produce una linea di arredamento per la casa firmata da uno dei marchi del presidente e nell’ultima dichiarazione dei redditi disponibile, presentata lo scorso maggio quando era ancora un candidato, si legge che nel 2015 gli affari in Turchia hanno fruttato al capo della Casa Bianca incassi per 6 milioni di dollari.
Nella lista non compaiono neanche l’Egitto, dove secondo il database della Federal Electoral Commission il presidente possiede due compagnie: la Trump Marks Egypt e la Trump Marks Egypt LLC; gli Emirati Arabi, quando a Dubai sorge un golf resort griffato Trump, un’agenzia che tratta immobili di lusso e una spa; l’Arabia Saudita, dove la Trump Organization ha avviato e poi interrotto le pratiche per la costruzione di un mega hotel.
Fuori dall’elenco è rimasta anche l’Indonesia, la più grande nazione a maggioranza musulmana, dove è in corso la costruzione di due resort firmati Trump e costruiti con il MNC Group, gruppo editoriale con base a Jakarta.
Marco Pasciuti
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
I GRILLINI PROMISERO DI BLOCCARE IL PROGETTO DI PARCO MICHELOTTI, MA, UNA VOLTA ELETTA, LA SINDACA LI HA TRADITI
Una lettera a Beppe Grillo, garante del Movimento 5 Stelle, per denunciare il “tradimento delle promesse elettorali”.
È quella che hanno scritto al leader pentastellato alcune associazioni animaliste di Torino contrarie alla realizzazione sulle sponde del fiume Po di un nuovo zoo. “L’amministrazione cittadina a guida M5S ha ereditati questa scelta — si legge nella missiva — dall’amministrazione precedente, ma si è perfettamente allineata ad esso, in contrasto con il programma elettorale presentato a giugno”.
Enpa, Lac, Lav, Leal e Sos Gaia sono contrarie alla realizzazione a Parco Michelotti, non lontano dalla centrale piazza Vittorio, di uno zoo con ‘children farm’, con animali delle fattorie di tutto il mondo, e una biosfera per riprodurre l’ecosistema del Rio delle Amazzoni.
“Le promesse del M5S vengono sacrificate per il timore di sostenere ipotetiche richieste di danni in caso di sospensione”, dicono le associazioni, ricordando di avere contribuito alla vittoria del M5S.
E chiedono l’intervento di Beppe Grillo “per ottenere il rispetto degli impegni elettorali, la difesa degli spazi pubblici e la tutela degli animali”.
La vicenda di Parco Michelotti era finita anche nell’assemblea pubblica in cui la giunta di Torino era stata processata dalle tante associazioni della città a causa della scarsa aderenza della realtà alle promesse elettorali della sindaca.
«Il provvedimento è inoppugnabile e se lo bloccassimo — spiegò qualche tempo fa l’assessore all’Ambiente Stefania Giannuzzi — i costi sarebbero enormi».
In effetti, se il consiglio comunale fermasse la macchina burocratica — il bando ormai è concluso — innescherebbe l’intervento immediato della Corte dei Conti, con il rischio concreto di una pesante sanzione da diversi milioni di euro.
I no zoo hanno anche presentato un ricorso al TAR del Piemonte per fermare il bioparco.
Quando l’inceneritore di Parma venne messo in funzione, Beppe fece pressioni sul sindaco di Parma Pizzarotti all’epoca ancora nei 5 stelle.
Ma quello era Pizzarotti, non la Appendino.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
COMPLICAZIONI ED ERRORI DI VALUTAZIONE STANNO CAUSANDO I RITARDI NELLA REALIZZAZIONE DEI MODULI ABITATIVI
Una gara d’appalto preventiva viziata da un errore di valutazione dei vertici della Protezione civile. E una serie di sgangherati tentativi di recuperare a quell’errore, senza mai riuscire a trovare il bandolo della matassa.
Ecco cosa c’è alla base di molte delle difficoltà che stanno caratterizzando l’emergenza post-terremoto nell’Italia centrale.
Dove i moduli abitativi temporanei vengono consegnati a ritmi ridotti, e i sindaci si vedono costretti ad assegnare le casette ricorrendo al sorteggio.
Dov’è l’errore?
Nell’aver pianificato a priori, nel 2014, una strategia d’intervento che non prevedeva in alcun modo il ricorso ai container.
Solo dopo i terremoti del 24 agosto e del 30 ottobre scorsi ci si accorge che quei container servono. Allora si indicono nuove gare d’appalto, ma lo si fa in fretta, e lo si fa male.
Col risultato che le spese aumentano, la macchina dell’emergenza s’ingolfa, tanto che — scriveva Libero — al 18 gennaio mancavano ancora 1300 posti nei container.
E gli sfollati devono rassegnarsi a sperare nella buona sorte per poter ricevere le chiavi della loro casetta.
La gara preventiva: solo casette, niente container. “Non si prevedeva di dovervi ricorrere”
Tutto inizia nell’aprile del 2014, quando la Protezione civile decide di aprire un bando (un “Accordo quadro”, tecnicamente) per “la fornitura, il trasporto ed il montaggio di soluzioni abitative in emergenza e i servizi a esse connessi”.
Non c’è stato alcun sisma grave, nelle settimane precedenti, ma l’allora capo dipartimento, Franco Gabrielli, sceglie di lanciare una gara preventiva.
Meglio indire simili bandi in tempo di quiete, così da farsi trovare pronti nel momento della tragedia: questo era il ragionamento alla base della procedura. Che viene gestita, come da prassi, dalla Consip (la centrale d’acquisti che fa capo al ministero dell’Economia).
La gara si chiude oltre un anno dopo, il 5 agosto 2015, e ad aggiudicarsela è il Consorzio nazionale dei servizi (Cns) di Bologna, iscritto alla Legacoop: spetterà al Cns costruire le casette per gli sfollati (le cosiddette Sae: Soluzioni abitative emergenziali) in caso di calamità nei successivi 6 anni.
La gara non prevede in alcun modo, però, la realizzazione di container o strutture utili a superare i primi mesi di crisi post-sisma.
Una leggerezza o un errore nella pianificazione dell’emergenza? Secondo i tecnici della Consip che hanno seguito quei dossier, “il punto è che all’epoca non si prevedeva che, nella gestione delle future crisi, si sarebbe deciso di puntare sui container”.
La Protezione civile era invece convinta che, dopo la fase iniziale delle tende, si passasse direttamente alle Sae.
“Del resto Gabrielli era stato Prefetto all’Aquila durante l’emergenza post-sisma del 2009. E lì il modello imposto da Berlusconi e Bertolaso era stato quello delle new town: dopo le tende, subito le case di legno, senza il periodo intermedio nei container”.
Così invece non è stato nel caso del terremoto che ha colpito il Centro Italia: “Evidentemente il governo ha ritenuto opportuno montare i container per superare l’inverno. Però nel 2014 non si poteva immaginare che la tragedia si sarebbe verificata in un territorio di montagna e a ridosso dei mesi più freddi dell’anno”.
Ma allora che senso ha fare un bando preventivo che non tenga conto di tutti i possibili scenari? In Consip si giustificano così: “Questo non dovete chiederlo a noi. Qui ci siamo limitati a gestire le procedure seguendo le direttive che ci dava la Protezione civile. Certo è che nel 2014 l’impiego dei container non veniva visto con favore da nessuno. Questa è stata una scelta adottata dal governo Renzi”.
Il pasticciaccio dell’appalto per i container. Necessarie 3 edizioni della stessa gara, una va deserta
Il governo e i container, dunque. E di nuovo gare d’appalto pensate male e gestite peggio.
È l’11 novembre del 2016 quando il Consiglio dei ministri, presieduto da Matteo Renzi, licenzia il decreto legge sulle procedure d’emergenza da adottare nel Centro Italia. Il giorno seguente, ecco la pubblicazione del bando (“Procedura negoziata d’urgenza”) da parte di Consip.
Obiettivo? La “fornitura di beni e servizi connessi, finalizzati all’allestimento delle aree di accoglienza”. Il bando prevede tre lotti (tre diverse forniture): uno dei quali riguarda proprio il “noleggio di container abitativi provvisori e servizi connessi”.
Base d’asta fissata a 80 milioni di euro. La gara si chiude il 17 novembre e la vincono 6 diverse ditte: dovranno consegnare 758 container entro un mese.
Ci si accorge subito, però, che questa fornitura è insufficiente a soddisfare le richieste crescenti dei Comuni del cratere, anche perchè le scosse continuano e le perizie che sanciscono l’inagibilità delle case si moltiplicano.
Si decide di fare un secondo bando, per cercare sul mercato nuovi container.
La gara (base d’asta di 20 milioni per i container) si apre il 20 novembre e si conclude 5 giorni dopo in modo clamoroso: deserta. Nessuna ditta ha risposto alla chiamata. Spiega un tecnico della Consip che ha seguito la procedura: “Dopo la prima gara abbiamo pensato di modificare i requisiti dei container, passando da un’altezza di 2 metri e 70 centimetri a 2 metri e mezzo”.
Perchè? “Ci sembrava, da alcuni sondaggi che avevamo svolto durante la prima gara, di poter avere maggiori riscontri sul mercato”. E menomale: visto che la procedura si conclude in un nulla di fatto.
Risultato? Si deve passare ad una terza gara. Una terza “procedura negoziata d’urgenza” in cui si mantengono gli stessi requisiti sulle misure standard (2 metri e mezzo d’altezza) ma si alza la base d’asta: da 20 a 36 milioni.
“Era inevitabile — spiegano in Consip — visto che molte imprese avevano disertato il secondo bando proprio temendo scarsi guadagni. Parecchie ditte del settore, inoltre, avevano quel tipo di container depositati all’estero, e dunque i costi di trasporto erano notevoli”.
Sarà , ma forse anche la modalità della procedura ha favorito il lievitare della base d’asta. Lo riconoscono anche i tecnici della Consip: “Ovvio, indire una gara subito dopo il terremoto invoglia gli imprenditori ad aumentare le loro pretese, consapevoli che in tempi di emergenza i costi di mercato si alzano”.
Dai ritardi nella consegna a quelli per la realizzazione delle casette
Ma a questo punto i ritardi si accumulano. Perchè il rallentamento nell’installazione dei container si ripercuote anche nella costruzione delle Sae, le casette d’emergenza a più lunga durata.
I sindaci dei Comuni colpiti dal terremoto si giustificano tutti allo stesso modo: dicendo, cioè, che nel giro di poche settimane hanno dovuto individuare sia le aree per le tendopoli sia quelle per i container.
A quel punto, i luoghi dove installare le Sae erano davvero pochi, anche in virtù della difficoltà con cui si può procedere all’esproprio di campi e terreni.
Ed è così che, di fronte alla difficoltà nel reperire le aree e renderle adatte ad ospitare le Sae, queste ultime vengono installate a ritmi più lenti.
E le consegne avvengono col contagocce: anzi, per sorteggio. È accaduto a Norcia l’11 gennaio, è accaduto ad Amatrice 9 giorni dopo.
Estrazione pubblica per decidere chi, tra i tanti sfollati che avevano avanzato richiesta, avesse diritto ad occupare una casetta.
Risultato? Rabbia dei cittadini e frustrazione dei sindaci.
Questi ultimi comprendono quanto la procedura sia paradossale, ma se gli si chiede un parere si giustificano spiegando che è inevitabile affidarsi ad un sistema a suo modo imparziale: “Oltre al sorteggio — dicono in coro — non vediamo soluzioni”.
E denunciano un’altra stortura che caratterizza la strategia adottata dalla Protezione civile. Il bando voluto da Gabrielli nel 2014, infatti, stabiliva che la ditta aggiudicatrice dovesse occuparsi solo della costruzione e della consegna delle Sae.
I lavori di urbanizzazione e quelli necessari per gli allacci dei servizi (dall’acqua al gas, energia elettrica) restano in capo alle amministrazioni locali: i Comuni o, a seconda della tipologia d’intervento, le Regioni.
Oppure, in casi specifici, il Genio militare. Una parcellizzazione delle responsabilità che comporta, inevitabilmente, ulteriori lungaggini.
L’altra gara d’appalto per i container: in stand-by per oltre 8 mesi, e aggiudicata solo dopo il terremoto
Spulciando tra le carte di Consip, si scopre che una gara d’appalto preventiva (“Accordo quadro”) per “il noleggio, il trasporto e l’installazione di moduli container in emergenza” c’è stata.
Non si tratta, però, di container a uso abitativo, ma di container destinati ad altri fini: mense, magazzini, box doccia. L’accordo, di validità di 6 anni, prevede consegne per un valore complessivo di 11,3 milioni.
Il bando viene pubblicato il 2 ottobre del 2015: la gara si chiude l’11 dicembre dello stesso anno. È quello il termine ultimo per la presentazione delle offerte. Perchè venga aggiudicata, però, bisogna attendere fino al 24 agosto 2016, guarda caso il giorno in cui Amatrice viene rasa al suolo.
Perchè questo ritardo? E perchè lo sblocco arriva solo a tragedia già avvenuta?
“Si tratta di tempi tecnici che rientrano nella media, per gare così complesse”, si giustificano in Consip.
E aggiungono: “È chiaro poi che il terremoto ha costretto ad accelerare le procedure”. Se si chiedono maggiori dettagli, però, nessuna risposta: “Bisognerebbe esaminare da capo tutti i verbali, compresi quelli delle analisi effettuate sulle varie offerte pervenute”.
Ad aggiudicarsi la gara, due ditte: la leccese R.I. Spa e la vicentina Frimat Spa, dove un responsabile conferma che “i tempi della burocrazia in Italia sono sempre lunghi”, ma ammette: “In questo caso, di fronte al prolungarsi dell’attesa, abbiamo comunque chiesto chiarimenti a Consip. Ci hanno detto che stavano valutando le offerte”.
Poi però è arrivato il terremoto, e tutto si è sbloccato.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
“IL NOSTRO PAESE HA BISOGNO DI UNA SINISTRA MODERNA E INNOVATRICE”
Benoit Hamon si è aggiudicato le primarie della sinistra francese con il 58,65% dei voti, contro il 41,35% totalizzato dall’ex primo ministro, Manuel Valls.
Lo ha annunciato Christophe Borgel, responsabile del comitato organizzatore delle primarie dopo lo spoglio del 60% dei seggi.
«Questa sera la sinistra alza la testa e guarda al futuro – ha dichiarato Hamon, ringraziando i suoi sostenitori -, il nostro Paese ha bisogno di una sinistra moderna e innovatrice, bisogna scrivere una nuova pagina della nostra storia. Non mi rassegno alla fatalità , il reddito universale permetterà di scegliere il lavoro invece di subirlo».
Valls: “Restiamo mobilitati e vigili”
Manuel Valls ha ammesso la sconfitta, augurando a Hamon «buona fortuna» nella corsa per l’Eliseo. «Ormai è il candidato della nostra famiglia politica e gli auguro buona fortuna per la battaglia che ha davanti». Battaglia dinanzi alla quale dobbiamo «restare mobilitati e vigili», ha avvertito Valls, perchè dinanzi «all’avanzata del populismo dell’America data a Donald Trump, noi rifiutiamo che il volto di Marine Le Pen sia il volto della Francia, che Francois Fillon distrugga il nostro modello sociale».
Mentre Valls concludeva il suo discorso, Hamon ha «forzato» le telecamere che erano tutte sull’ex primo ministro e ha cominciato a parlare.
Tutti i canali tv si sono sintonizzati su Hamon, lasciando cadere le ultime frasi di Valls. L’incidente è stato considerato molto «eloquente» dagli osservatori presenti negli studi tv.
Il “rottamatore” di Hollande
Hamon è il rottamatore di Francois Hollande, Manuel Valls e dei cinque anni trascorsi nel tentativo di riformare la Francia.
Ma il Partito socialista è da rifare, il progetto della gauche da ricostruire. Hamon ha battuto al ballottaggio delle primarie Manuel Valls, consacrandosi come seconda grande sorpresa, proprio come aveva fatto Francois Fillon nelle primarie di destra a novembre.
Ma nessuno sa immaginare, stasera, chi rappresenterà davvero la sinistra, quali sono i valori di questa sinistra, se i cinque anni fallimentari di presidenza Hollande siano la premessa dell’implosione del partito socialista.
Battuto nettamente, Valls – se manterrà la sua promessa – «sparirà », nell’impossibilità di sostenere all’interno del partito un programma assolutamente incompatibile con il primo degli ideali che fino ad oggi ha difeso, il lavoro per tutti, la lotta contro la disoccupazione.
Al secondo turno affluenza in crescita
In Francia è cresciuta l’affluenza al secondo turno delle primarie socialiste per scegliere il candidato alle presidenziali: a mezzogiorno il dato era superiore del 21% rispetto al primo turno svoltosi domenica scorsa.
Gli organizzatori hanno riferito che hanno votato in 570.000 nel 75% dei collegi di cui era disponibile il dato, il che fa ritenere che sarà superato il milione e 655mila voti della tornata precedente.
Nel 2011 i votanti alle primarie socialiste per l’Eliseo erano stati 2,6 milioni. A novembre Francois Fillon era stato eletto candidato del centrodestra in una consultazione che ha visto il voto di quattro milioni di francesi.
(da “La Stampa”)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
TIM COOK: “APPLE NON ESISTEREBBE SENZA IMMIGRAZIONE”
Dopo il papà di Facebook Mark Zuckerberg, che si è detto “preoccupato” per la stretta di Donald Trump su visti e rifugiati, tutta la Silicon Valley sta protestando contro il cosiddetto Muslim ban, il controverso decreto che limita l’ingresso negli Usa ai cittadini di sei Paesi a maggioranza musulmana.
Così, se per Google il provvedimento “ostacola l’arrivo di grandi talenti nel Paese”, Tim Cook fa presente che “Apple non esisterebbe senza l’immigrazione”, dal momento in cui Steve Jobs, il fondatore del marchio, era figlio di un immigrato siriano.
“Le misure di Trump colpiscono i dipendenti di Netflix in tutto il mondo – scrive su Facebook Reed Hastings, l’amministratore delegato dell’azienda – è tempo di unirsi per proteggere i valori americani di libertà e opportunità “.
Sergey Brin, co-fondatore di Google e presidente di Alphabet, è stato fotografato mentre manifestava contro il Muslim ban all’aeroporto di San Francisco.
“Sono qui a titolo personale e perchè sono un rifugiato”, ha dichiarato ai giornalisti che l’hanno fotografato vicino a un bambino con un cartello con la scritta “Voglio che mio nonno torni dall’Iran”.
Google ha richiamato i suoi dipendenti provenienti dai Paesi islamici a “rientrare negli Stati Uniti il prima possibile” dopo il giro di vite sugli ingressi imposto dal presidente Trump nei confronti di tutti i rifugiati (per 4 mesi) e per i cittadini di sette Paesi – Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen – per almeno tre mesi. Sundar Pichai, amministratore delegato di Google, ha precisato che sono quasi duecento i dipendenti dell’azienda colpiti dalla misura.
“È doloroso vedere il costo personale di questo ordine esecutivo sui nostri colleghi. Abbiamo sempre reso pubblica la nostra visione in materia di immigrazione e continueremo a farlo”, ha scritto Pichai.
“Siamo preoccupati per l’impatto di questo decreto e di qualsiasi proposta che possa imporre restrizioni ai dipendenti di Google e alle loro famiglie e che potrebbero creare ostacoli all’arrivo di grandi talenti negli Stati Uniti”, ha sottolineato il colosso di internet.
Da Google a Microsof. “Come immigrato e come amministratore delegato, ho consapevolezza dell’impatto positivo che l’immigrazione ha avuto nella nostra azienda, nel paese e nel mondo”, ha detto Satya Nadella, leader di Microsof di origini indiane. Microsoft aveva denunciato giovedì scorso il rischio di non riuscire a completare i team di ricerca e sviluppo (r&s), andando così a ledere l’innovazione.
(da “Huffingtonpost“)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
IL NYT: “STA FACENDO MARCIA INDIETRO”… MIGLIAIA DI PERSONE PROTESTANO IN AEROPORTI E STRADE
La protesta contro il bando dell’immigrazione raggiunge anche la Casa Bianca: migliaia di persone si sono radunate davanti alla residenza del presidente per partecipare ad una manifestazione intitolata «No Muslim ban» e promossa sulle reti sociali con il motto «Non staremo in silenzio. Combattiamo».
Il decreto firmato dal presidente Donald Trump che ha congelato per tre mesi gli arrivi da sette paesi a maggioranza islamica e per quattro mesi il programma dei rifugiati (a tempo indeterminato per quelli siriani), ha causato caos e indignazione in tutto il mondo, mentre a diversi viaggiatori è stato impedito l’ingresso nel Paese.
L’opposizione dei procuratori generali: “Incostituzionale”
I procuratori generali di 15 stati e della capitale hanno emesso una dichiarazione congiunta con cui condannano come incostituzionale il bando del presidente Donald Trump contro i viaggiatori provenienti da sette Paesi a maggioranza islamica.
Gli attorney general sostengono che la libertà religiosa è un principio fondamentale del Paese, auspicando che l’ordine esecutivo sia ritirato e impegnandosi nel frattempo a garantire che il minor numero possibile di persone soffrano per questa situazione.
Gli Stati cui appartengono i firmatari sono, oltre a Washington, California, New York, Pennsylvania, Massachusetts, Hawaii, Virginia, Oregon, Connecticut, Vermont, Illinois, New Mexico, Iowa, Maine e Maryland
Il «New York Times»: la Casa Bianca depotenzia il bando sui profughi
La Casa Bianca avrebbe deciso di depotenziare la portata dell’ordine esecutivo che predispone il bando dei profughi e dei cittadini provenienti da sette paesi islamici, che sta portando ad un’ondata di proteste dentro e fuori gli Stati Uniti.
Secondo il New York Times, il capo di gabinetto di Donald trump, Reince Priebus, ha fatto sapere che verranno esentati dal divieto di ingresso i possessori della carta verde, quella che garantisce il soggiorno su territorio americano.
Sempre a detta di Priebus, comunque, la polizia di frontiera mantiene «l’autorità discriminatoria» di trattenere e sottoporre a interrogatorio viaggiatori sospetti che provengano da taluni paesi. Caos e proteste negli aeroporti americani
Genitori che arrivavano negli Usa per riunirsi con le famiglie, studiosi impegnati nelle università americane, rifugiati in fuga dalla guerra, sono stati le prime persone colpite dal provvedimento. Durante la giornata sono stati resi noti vari casi di viaggiatori a cui non è stato consentito di salire a bordo di aerei diretti negli Usa, in particolare da Egitto, Turchia e Olanda. Altre persone sono state invece bloccate all’ingresso negli Stati Uniti.
A New York, più di una decina di persone è stata fermata all’aeroporto internazionale JFK, tra cui due iracheni che avevano visti speciali per gli Usa.
Uno di loro, Hameed Jhalid Darweesh, è stato liberato dopo tre ore di detenzione e dopo l’intervento di varie organizzazioni e di due deputati democratici. Il 53enne aveva ottenuto un visto per sè e la famiglia, dopo aver collaborato per anni con le forze americane in Iraq.
«Ho appoggiato il governo Usa dall’altro lato del mondo, ma quando arrivo qui mi dicono ‘no’ e mi trattano come se avessi violato le regole e fatto qualcosa di male», ha raccontato ai giornalisti, ringraziando per il sostegno molti statunitensi.
A nome di Darweesh e di un altro iracheno fermato a New York, gli avvocati delle organizzazioni per i diritti civili hanno presentato una richiesta in un tribunale federale per domandare la liberazione di tutti quelli che siano stati colpiti dalla misura e perchè non sia impedito l’ingresso del Paese secondo l’ordine di Trump.
«La guerra contro l’uguaglianza del presidente Trump già sta avendo un terribile peso umano, non si può permettere che questo divieto prosegua», ha detto Omar Jadwat, direttore di American Civil Liberties Union (Aclu), tra i gruppi promotori del ricorso.
(da “La Stampa“)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
L’EX CAPO DI GABINETTO DELLA RAGGI ACCUSA LA SENATRICE DI AVER COPERTO MARRA E LA RAGGI
Repubblica in un articolo a firma di Giovanna Vitale pubblica oggi una serie di scambi via sms tra Paola Taverna, ex componente del direttorio romano che doveva vigilare su Virginia Raggi oltre che senatrice della Repubblica, e Daniela Raineri, ex capo di gabinetto della sindaca poi dimessasi dopo gli scontri con Romeo e Marra.
I messaggi attraversano la giornata del 31 agosto e il 3 settembre e nell’articolo si sostiene che la Taverna «non solo era al corrente della manovra (per far fuori la Raineri), ma sembra agire per tutelare Raffaele Marra, all’epoca vice-capo di gabinetto e già fedelissimo di Raggi».
In giornata le due si sentono perchè la Raineri, a quanto si sostiene, ha intenzione di sostituire Marra con un ufficiale dei carabinieri di sua fiducia; la Taverna le chiede di attendere l’incontro con “V.” (ovvero Virginia), come da accordi con Minenna.
Poi la Raineri viene convocata dalla sindaca per il parere dell’ANAC sul suo compenso, scoppia la lite e arrivano le dimissioni della magistrata.
Il 3 settembre la Raineri scrive un sms alla Taverna nominando anche il suo compagno Stefano Vignaroli:
Raineri, 3 settembre, ore 17,10: «Desideravo congratularmi con te e Stefano per le belle interviste a sostegno di Virginia! Fra le tante delusioni questa non l’avevo messa in conto!».
Taverna, 17.14: «Parliamoci chiaro. Nessuna intervista se non due righe rubate. Io e il direttorio romano siamo gli unici ad aver mantenuto il punto e saremo i prossimi ad essere impallinati. Poi sei donna troppo intelligente per non capire la mia posizione, dove alla fine sarà tutta colpa mia che fortemente vi ho voluto con buona pace di tutti».
Taverna, 17,18: «Spero ti sia chiaro e se ciò che hai conosciuto di me ti fa pensare differentemente io come penso anche tu vado a dormire con la coscienza a posto».
La Raineri però non replica. L’altra insiste.
Taverna, 18.47: «Mò sono diventata lo sfogatoio di tutti e poi non merito nemmeno risposte?».
Raineri, 18.53: «Che vuoi che ti dica Paola. Ho letto sconcertata! Qualunque commento sarebbe offensivo e preferisco tacere!».
Taverna, 18.59: «Ti sei fatta la tua opinione per due righe di giornale». 19.00: «Ma cosa vuoi che ti dica. Va bene così». 19.01: «Pensa di me quello che vuoi. So di essere stata sempre una persona corretta». 19.15: «Io ho una responsabilità enorme nei confronti del Movimento 5S nazionale». 19.16: «Carla sono sufficientemente provata e penso anche tu. Lasciamo stare che è meglio». 19.17: «Mo la stronza sono io. Va beh meglio che taccia anch’io».
Raineri 19.22. «Direi che è proprio meglio lasciar stare. Mi chiedo soltanto perchè ci avete così tanto voluti! (il riferimento è a lei e a Marcello Minenna ndr) Io non vi avevo mai cercati! Non si chiamano i magistrati e le persone oneste a condividere centri di malaffare!».
Taverna, 19.24 «Condividere i centri di malaffare?».
Raineri, 19.24: «Proprio così! Cara Paola dopo quello che è successo l’unica cosa decente da fare era prendere le distanze dalla sindaca non certo sostenerla!».
Dopo questi scambi le due non si sentiranno più.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 29th, 2017 Riccardo Fucile
IL DEBUTTO DEI SOVRANISTI E LA FUGA DI TURISTI DALLA VIA DELLO SHOPPING: NON PASSA LO STRANIERO… CI MANCAVA PURE IL MOSCOVITA IN CORTEO CON IL CROCEFISSO ORTODOSSO CHE BENEDIVA IL MONDO
Primo risultato raggiunto dai sovranisti: via del Tritone ripulita dai giapponesi. Per ora un successo incidentale.
Ma alla fuga dei turisti dalla via di shopping, percorsa dal corteo della destra quasi unita, dovrebbero seguire risultati secondo progetti più ambiziosi.
E le cui premesse sono state illustrate dalla signora del pomeriggio, Giorgia Meloni leader di F.lli d’Italia, sul palco di piazza San Silvestro , a due minuti a piedi da palazzo Chigi.
«Seguite il ragionamento», ha detto Meloni, e noi lo abbiamo seguito, eccome, e non è stato nemmeno complicato perchè il ragionamento era il seguente: «L’immigrazione è pianificata per fornire manodopera a basso costo al grande capitale».
Dunque, si ritmava, «via gli stranieri dall’Italia», e non per questioni etniche, ma per far fronte al complotto planetario del «grande capitale» ma, è stato detto nel corso degli interventi, anche delle «lobby col potere saldamente in mano», della «finanza globalizzata» e naturalmente dei «poteri forti».
Un nemico di tale inafferrabile vastità meritava uno slogan all’altezza, sebbene, per una folla di destra, dalla sorprendente assonanza leninista: «Il popolo al governo» («L’insurrezione è la risposta più energica, più uniforme e più razionale di tutto il popolo al governo», dal celebre discorso del «Che fare»).
Un impegno politico tanto vibrante e impegnativo avrebbe meritato una partecipazione più massiccia di quella di una piazza di media grandezza non più che pienotta, ma chi segue la politica sa che le «manifestazioni oceaniche» sono rimaste nella mitologia del secolo scorso e forse dei primissimi anni di questo.
È meno banale notare il meticciato ideologico fatto di sigle che andava dai leghisti (qui nella versione centromeridionale di «Noi con Salvini») al Partito liberale di Giancarlo Morandi (esangue reincarnazione del vecchio Pli), che alle elezioni Europee del 2014 stava in una lista che si chiamava «Scelta europea», e adesso aderisce a scelte antieuropee, e fino al movimento di Gaetano Quagliariello (Idea) e ai ragazzi di Patria e Libertà , di cui ignoriamo colpevolmente i contorni, ma li si possono intuire dalla pagina Facebook, illustrata da una foto di Yukio Mishima con la katana.
E poi c’erano anche quelli di Forza Italia, capeggiati dal governatore ligure Giovanni Toti e da un Renato Brunetta naturalmente rissoso («il centrodestra unito vince, e chi non ci sta se ne assume la responsabilità »), ma la loro presenza non ha impegnato il partito, visto che non una bandiera forzista s’è unita allo sventolio.
A caratterizzare lo spirito dell’iniziativa sono state bandiere più suggestive, per esempio quella russa, innalzata da una delegazione guidata da un moscovita con crocefisso ortodosso impugnato a benedire il mondo; una giovane donna di Odessa aveva con sè una drappo nero-arancione, ridisegnato sui colori del nastro di San Giorgio che in Russia simboleggia patriottismo e indipendenza.
«Arancione come il fuoco, nero come il fumo», ha detto la donna per evocare la risolutezza di un sentimento: infatti è di Odessa, cioè Ucraina, ma si sente una donna della Grande Madre, e l’ovvia conseguenza del gruppo di cui faceva parte erano due grandi icone di Vladimir Putin e Donald Trump.
Però poi a distinguerci siamo sempre noi italiani, soprattutto con i cori che hanno seguito la tradizionale etichetta di happening di questa natura: «Gentiloni / fuori dai cog…» si direbbe il più apprezzato da un popolo con una visione del mondo non sempre lineare, per esempio fermo nel dichiarare abusivo il presidente del Consiglio (lo avrebbe fatto più tardi anche Giorgia Meloni), nonostante gli sia stato affidato l’incarico dal presidente della Repubblica secondo le più consolidate – e forse usurate – obbedienze costituzionali, e cioè secondo la dottrina di quella Carta che tutti questi hanno difeso con enfasi nel referendum di dicembre.
Probabilmente sono soltanto sofismi, la posta in gioco, per tornare all’inizio, è la sovranità . «I nostri soldi li prendono così / miliardi a clandestini e banche del Pd», si cantava. Bisognerà mandare al diavolo Bruxelles e Francoforte, la burocrazia e la finanza, ristabilire i confini e controllarli armi in pugno. Reintroduciamo il servizio di leva, ha detto Salvini, e creiamo eserciti regionali: un insuperabile progetto che però non è stato accolto con l’atteso nerboruto entusiasmo.
Legalizzare la prostituzione, ecco l’idea di Salvini più applaudita: non è questione di destra o sinistra, è che siamo italiani.
Mattia Feltri
(da “la Stampa”)
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