Gennaio 19th, 2017 Riccardo Fucile
ANAS, COMUNI, PROVINCE, GOVERNO: UN GROVIGLIO INESTRICABILE DI RESPONSABILITA’… LA SCATOLA VUOTA “DI CASA ITALIA” CON LE CASSE VUOTE COME SEMPRE
Eccola, la Casa Italia, il progetto di prevenzione annunciato in pompa magna dal governo Renzi, “un progetto di prevenzione seria, non un elenco di parole” su cui “coinvolgere tutti insieme i principali attori del paese”.
Casa Italia sono i paesi dove chi voleva uscire di casa, per il terremoto, era bloccato dalla neve. Ma anche se ci fosse riuscito non avrebbe trovato aree attrezzate dove ricoverarsi.
“L’Abruzzo si arrende”, questo il titolo del Centro. Perchè i governatori invocano dell’esercito per spalare è la dichiarazione di un fallimento, di fronte a una nevicata eccezionale e prevedibile, non all’Apocalisse.
Persino la turbina per liberare la strada dalla neve si è fermata, sul tratto provinciale che portava all’Hotel Rigopiano, segno che prima, evidentemente, non era passato neanche uno spazzaneve.
Colpa della Provincia? Dei Comuni? Dell’Anas?
“Non è il momento di polemiche”, “ognuno dia il meglio di sè” ripetono Errani e Curcio, consapevoli che la neve non spegne, anzi accende, il gran falò delle responsabilità .
I parlamentari abruzzesi, stamattina, si sono attaccati al telefono, perchè “è chiaro che non puoi dare la colpa al governo in carica, ma qualcosa non ha funzionato e ci devi mettere la faccia, altrimenti questo governo viene sepolto dalla neve”.
Sono i primi ad essere consapevoli che chiami l’esercito se non sei in grado di fronteggiare il problema, perchè la neve, per quanto eccezionale, non è un terremoto. E te la dovresti togliere da te.
La prima protezione civile non è quella che arriva da Roma. Ma è l’Anas, che appalta i lavori a ditte magari non all’altezza del compito assegnato, l’Enel che non ha irrobustito la rete.
E poi i sindaci, che in circostanze del genere, si mettono la fascia tricolore, precettano persone e organizzano
Poi c’è la Protezione Civile. Sussurra un senatore dem: “La verità è che la Protezione civile non ha più gli strumenti di una volta, ai tempi di Bertolaso, quando la c’era una efficiente catena di comando”.
Allora aveva poteri eccezionali, perchè Bertolaso era, al tempo stesso, sottosegretario a palazzo Chigi, commissario e capo-protezione civile. E, al tempo stesso, coniugava potere, capacità e carisma, anche utilizzandoli in modo spregiudicato, dal terremoto ai giochi del Mediterraneo al G8.
Oggi la catena di comando è frantumata e rallentata nell’intreccio burocratico. Con Fabrizio Curcio di fatto senza potere, o meglio con i poteri che di volta in volta il governo gli affida con i decreti di emergenza. E Vasco Errani, commissario del cratere.
Il che rende, oggettivamente, bicefala la struttura in materia di ricostruzione.
Al fondo, poi, una considerazione che in parecchi sussurrano ma che, nel Pd, nessuno ha il coraggio di dire a voce alta: “C’è poco da fare. Per andare veloce, fai gli affidamenti diretti. Bertolaso, se doveva prendere stufe, climatizzatori, case di legno si attaccava al telefono. Affidamenti diretti e niente gare. Ora non puoi andare veloce se ogni virgola la deve vedere Cantone. Siamo passati da un eccesso a un altro”.
Oltre all’eredità storica di un paese scarsamente efficiente e senza senso civico, c’è l’eredità della palude di questi anni, in cui nulla è cambiato sul fronte della prevenzione.
Il viceministro Bubbico, dopo le sollecitazioni dei parlamentari, è andato a mettere la faccia del governo a Farindola. Ma Gentiloni, impegnato per ora a sollecitare la risoluzione dell’emergenza, dovrà innanzitutto mettere la faccia sulle voragini originali del governo di cui è stato chiamato ad essere la fotocopia
Risorse, processi da accelerare, piani strategici riassunti nello slogan referendario di Casa Italia a cui Renzi dichiarava di destinare risorse pubbliche per sette miliardi in sette anni, più altri 2,7 recuperati da spese non effettuate.
Tutto rimasto slogan, ad accezione di una “cabina di regia”, ovvero un ufficio organizzato a palazzo Chigi che riunisce strutture pre-esistenti per il dissesto idrogeologico e l’edilizia scolastica.
Perchè, la verità è che siamo alle solite e alla solita Italia.
Che promette prevenzione, di fronte alla calamità , per poi bruciare risorse quando l’ordinario diventa oblio dei drammi.
Bruciare o fare spesa che porta più voti. E così il governo ha chiesto 3,4 miliardi di flessibilità all’Europa in nome del terremoto di Amatrice. Ma nella manovra, alla voce terremoto, c’erano sono solo 600 milioni stanziati in modo diretto a cui aggiungere un altro miliardo spalmato in più voci.
Il resto della “flessibilità ” utilizzato per le “mance referendarie”, dalle quattordicesime ai pensionati ai fondi per il trasporto in Campania.
Mentre il fondo per la protezione Civile, che diventa la cassa di fronte all’emergenza e non viene usato per la prevenzione, è di 300milioni di euro
E se Amatrice è ancora sotto i riflettori, purtroppo per una serie di calamità , l’eredità contempla anche ciò che è stato più dimenticato che risolto, almeno a giudicare dai soldi stanziati.
Al 31 agosto del 2016, prima di Amatrice, la cifra richieste per calamità naturali o danni da precedenti terremoti è di circa un miliardo e 700milioni.
Ci sono dentro le richieste di fondi per il terremoto dell’Abruzzo, l’alluvione in Liguria, il terremoto dell’Emilia, i danni da maltempo in Lombardia.
A fronte di questa richiesta, che arriva per la metà (804mila euro circa) da privati, per metà da aziende (890mila circa), sono stanziati e utilizzabili al 31 dicembre solo 400milioni.
Casa Italia è uno slogan senza risorse, e sul tavolo del premier attuale non c’è ancora un’agenda e un piano strategico, con annessi capitoli di spesa.
“Tenaglia senza precedenti”, “istituzioni impegnate al massimo”. Le poche dichiarazioni sono un atto dovuto e segnalano, rispetto al governo precedente, una discontinuità nei toni.
E anche un modo per tenere basse le polemiche, comunque annunciate. Ma sull’eredità , per non ora, non c’è nè discontinuità nè risorse. E se non ci mette la faccia, dicono i parlamentari che hanno il polso delle zone colpite, “finisce sepolto dalla neve”.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 19th, 2017 Riccardo Fucile
QUALCOSA NON HA FUNZIONATO PRIMA NELL’EVACUAZIONE, POI NEI SOCCORSI
Se la strada fosse stata libera dalla neve, potevano essere salvati. Anzi, non ci sarebbero proprio rimasti intrappolati sotto la slavina.
Alle 15 di ieri i clienti dell’albergo Rigopiano (rimasti sepolti vivi), avevano pagato il conto ed erano scesi nella hall dell’hotel, già pronti per andarsene.
Gli ospiti dell’Hotel Rigopiano volevano andare via perchè avevano capito che la situazione era grave. Ma hanno dovuto aspettare. Aspettare che arrivasse lo spazzaneve.
Annunciato prima per le 17 e poi per per le 19. Così era stato detto loro. Ma appunto lo spazzaneve non è riuscito ad arrivare.
Visto che la strada che portava alla struttura era totalmente bloccata. Poi alle 17.40 il primo sos dopo la caduta della slavina. Dalle 15 alle 17 sono passate due ore che avrebbero potuto salvarli tutti.
Questa ricostruzione drammatica emerge dalla testimonianza di Quintino Marcella, ristoratore e datore di lavoro di Giampiero Parete, superstite della valanga sull’hotel Rigopiano. ”Già alle 15 erano pronti per andare via”, ha dichiarato Marcella. Ma nessuno spazzaneve è potuto arrivare.
Ed è sempre la strada completamente bloccata ad aver impedito – dopo la caduta della slavina – per oltre dodici ore che potessero salire sul luogo del disastro mezzi meccanici, dato che i primi soccorritori hanno raggiunto l’albergo sugli sci e le pelli di foca.
Neppure la turbina riusciva ad avanzare nel muro di neve che si era stratificato.
Primo De Nicola, direttore del Centro, quotidiano di Pescara, è stato testimone oculare di quello che è successo: “Ieri sera alle 10 – racconta ad Huffpost – ero in macchina dietro alla turbina che non riusciva ad andare avanti, verso gli intrappolati. C’era troppa neve, ma proprio un mare di neve, detriti e tronchi, neve accumulata da giorni, non da ore”.
Alla tragedia si aggiunta la beffa dell’SOS non ritenuto credibile, dopo lo schianto della slavina.
Lo stesso sindaco di Farindola ha dichiarato a La Stampa: “Ieri sera ci hanno detto che cosa era successo all’albergo. Sinceramente all’inizio mi sembrava così incredibile, pensavo che fosse una bufala. Poi abbiamo materializzato la portata di questa tragedia immensa”.
La strada in ogni caso ha ucciso due volte: prima e dopo il crollo della slavina.
Di chi la responsabilità ? A chi spettava la sua manutenzione in condizioni tanto proibitive? Perchè l’albergo non è stato evacuata prima e chiuso? Solo i clienti avevano capito che la situazione era grave? E come mai?
La Procura indaga per omicidio colposo. Anche perchè l’allerta meteo lanciato dalla Protezione civile per l’Abruzzo parlava chiaro e forte: era “arancione” almeno dal 16 gennaio.
Il codice arancione cioè il terzo livello più alto di allarme (su quattro) prevede il coinvolgimento di una sala operativa di livello regionale.
Perchè ci sono sintomi inequivocabili di un’emergenza imminente .
In questo caso, viene attivata come prima cosa la sala operativa regionale, e qui vengono convocati d’urgenza i componenti dell’Unità di Crisi Regionale: tecnici esperti delle Direzioni generali interessate dal tipo di evento, che da questo momento in poi siedono in permanenza nelle loro postazioni informatizzate e analizzano i dati che cominciano ad affluire in Sala Operativa dalle aree colpite.
Allo stesso tempo le Prefetture dovrebbero attivare le strutture operative periferiche. Tutto ciò è stato fatto? C’è stata un’ordinanza di sgombro? Sono stati richiesti gli interventi di tutte le strutture dello Stato? Quando esattamente è stato dato il primo allarme?
La strage dell’hotel fa storia a sè nel disastro delle zone terremotate con anziani, uomini, donne bambini e centinaia di animali lasciati dentro tensostrutture, nemmeno tendoni militari, sotto metri e metri di neve.
Ma è un po’ il paradigma di un Italia senza protezione (civile).
La “protezione civile” non è un servizio che cala dall’alto, ma per legge, è l’insieme delle attività messe in campo per tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni che derivano dalle calamità : previsione e prevenzione dei rischi, soccorso delle popolazioni colpite, contrasto e superamento dell’emergenza e mitigazione del rischi.
Per legge la protezione civile non è un compito assegnato a una singola amministrazione, ma è una funzione attribuita a un sistema complesso che funziona in base al principio di sussidiarietà .
Cioè funziona o meglio dovrebbe funzionare partendo dal basso e andando via via verso l’alto: i Comuni e le Comunità montane poi le Province, le Province autonome, le Regioni, le Prefetture fino alle amministrazioni centrali dello Stato per l’emergenza nazionale. Ai sindaci in particolare spetta l’attivazione immediata anche dei livelli superiori.
È stato fatto nel caso dell’albergo, anche prima che cadesse giù la slavina? E se no, come mai? E con quanto ritardo?
Il sindaco di Penne, il comune più grande e più prossimo a Farindola) Mario Semproni ha dichiarato oggi: “Sono scioccato, quella dell’albergo è una vicenda drammatica, ho seguito tutta la notte le operazioni di soccorso. Il nostro Comune ha fornito ogni mezzo a disposizione per accelerare e agevolare i soccorritori, nonostante, in quel momento, il territorio di Penne fosse alle prese con una forte criticità legata all’emergenza neve. Sin dall’inizio ho avuto la percezione che fosse una tragedia”. Anche Penne è in ginocchio. “Già ieri mattina ho chiesto aiuto sia al presidente del Consiglio dei ministri, Paolo Genitori, sia al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, affinchè potessero invitare mezzi e militari”.
(da “Huffingtonpost“)
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Gennaio 19th, 2017 Riccardo Fucile
VOLI DI STATO, ESCE FUORI DALL’HANGAR IL NUOVO AEREO PRESIDENZIALE CHE MATTEO NON AVEVA MAI USATO PER EVITARE POLEMICHE
La “timidezza” finora dimostrata da palazzo Chigi nell’uso del mega-jet – preso in leasing e poi lasciato muffire negli hangar – è finita: nel viaggio che lo ha portato da Roma e Berlino e viceversa, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha utilizzato e “scongelato” l’Airbus 340.
Si chiude così una delle vicende più paradossali della presidenza Renzi.
Tutto era iniziato nel luglio del 2015, quando il presidente del Consiglio aveva annunciato ai giornalisti: «Ad ottobre andremo in Sudamerica con un aereo più grande, con il wi-fi, l’abbiamo già ordinato…».
Nulla di più se ne seppe allora, l’unica certezza riguardava l’arrivo di un aereo destinato a mandare in pensione un anziano A319 in servizio da molti anni e che, per le tratte più lunghe, costringeva i voli dei presidenti del Consiglio ad uno scalo tecnico.
Nel giro di qualche settimana si scoprì che l’aereo scelto da palazzo Chigi era l’A340, un mega-jet preso in leasing da Etihad che porta abitualmente più di 300 passeggeri e ha una larghezza di 60 metri, appartiene alla stessa tipologia del Boeing 747 ma è al livello di quelli a disposizione di alcuni dei capi di governo di altri Paesi del G20.
In tempi di grande sensibilità per tutto quello che riguarda Casta e spese facili, l’annuncio del premier aveva fisiologicamente alimentato retroscena giornalistici e politici sulla presunta “grandeur” renziana: tanto era bastato per bloccare il battesimo del mega-jet.
Certo, al blocco avevano contribuito anche problemi legati all’equipaggio e al contratto di leasing, sta di fatto che da allora Renzi ha continuato ad usare il vecchio aereo.
Nulla era bastato a far cambiare idea al presidente del Consiglio, persino un incidente (sul quale nulla si è saputo) subito dall’anziano A320, al quale si era rotto in volo il finestrino della cabina di pilotaggio.
Le ragioni di tanta “resistenza” non hanno mai avuto una spiegazione ufficiale ma si po’ immaginare che abbia giocato il timore per polemiche sul fronte anti-Casta e dunque la decisione di Renzi di non rivendicare una precedente scelta.
Nella speranza di contendere almeno una parte di elettorato ai Cinque Stelle.
Il risultato paradossale di tanta “timidezza” era stata una immobilizzazione forzata del super-jet, con molteplici inconvenienti funzionali e finanziari, a cominciare dal fatto che il contratto con Etihad nel frattempo “corre”.
Ora il nuovo presidente del Consiglio ha deciso di sbloccare l’aereo, sfruttandone appieno gli elevati standard tecnologici e di sicurezza.
Fabio Martini
(da “La Stampa”)
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Gennaio 19th, 2017 Riccardo Fucile
CON IL SUO MOVIMENTO “EN MARCHE!” CRESCE NEI SONDAGGI… IL SUO “POPULISMO LIBERALE NE’ DI DESTRA NE’ DI SINISTRA” E’ UNA VARIABILE PERICOLOSA PER CHI PENSA DI ARRIVARE AL BALLOTTAGGIO… NEI SONDAGGI E’ AMATO DAL 40% DEI FRANCESI E PRECEDE FILLON (32%) E MARINE LE PEN (26%)
Il “fenomeno Macron” continua a crescere. A soli tre mesi dal primo turno delle prossime presidenziali, l’ex ministro dell’economia avanza nei sondaggi con il suo movimento En Marche!, smentendo così le voci che nelle scorse settimane lo avevano definito come una “bolla” passeggera pronta a scoppiare.
Dopo aver destabilizzato il Partito Socialista rifiutando di partecipare alle primarie della sinistra, Macron comincia a preoccupare anche la destra francese, impegnata nel duello tra i due grandi favoriti all’Eliseo: il candidato dei Rèpublicains, Franà§ois Fillon, e la leader del Front National, Marine Le Pen.
Per arginare questo nuovo rivale senza esporsi in prima persona, Fillon ha sguinzagliato i suoi più fedeli collaboratori, affidandogli il compito di attaccare il candidato colpendo i suoi punti più deboli.
Ad aprire le danze è stata Valèrie Precresse, presidente della regione dell’Ile-de-France, che ha definito l’avversario come “il figlio parricida di Hollande”, mentre per il senatore Bruno Retaillau, Macron sarebbe il “candidato della contraddizione e del vago”.
Ma a sferrare il colpo più duro è stato il segretario generale del partito, Bernard Accoyer, che in una tribuna pubblicata su Le Monde lo scorso 16 gennaio ha qualificato Macron come un “Beppe Grillo vestito da Giorgio Armani” che incarna una certa “forma di populismo”, nonostante sia “un prodotto” di quel sistema che “lui stesso pretende di denunciare”.
Ed è proprio sul terreno del populismo mediatico che Macron sta costruendo il suo successo.
Proclamatosi candidato annunciando un progetto che non è “nè di destra, nè di sinistra”, Emmanuel Macron si è posizionato come una nuova forza anti-sistema capace di attrarre consensi in maniera trasversale.
La scelta di lasciare l’esecutivo sei mesi fa, dopo due anni passati alla guida di Bercy, ha permesso all’ex ministro di scrollarsi di dosso il pesante fardello del governo Hollande, che passerà alla storia come il più impopolare della V Repubblica.
Una volta libero dall’opprimente giogo delle dinamiche interne al partito, Macron ha puntato su una strategia comunicativa basata sulla critica all’establishment politico, lo stesso di cui ha fatto parte quando era ministro.
Nei suoi discorsi, l’ex banchiere di Rotschild ha puntato più volte il dito contro quel sistema partitico colpevole di aver “bloccato il paese”, provocando una stagnazione economica e un conseguente innalzamento del tasso di disoccupazione.
In contrapposizione alla farraginosa macchina istituzionale, Macron ha poi creato un movimento, più dinamico rispetto ai tradizionali partiti, capace di suscitare la curiosità degli elettori e di tesserare più di 135mila iscritti in meno di un anno.
Facendo leva su una retorica centrata sulla “rottura” con l’attuale sistema istituzionale, il leader di En Marche! sta guadagnando terreno nell’opinione pubblica.
Secondo un sondaggio pubblicato martedì dal quotidiano Les Echos, Macron risulterebbe essere il politico più amato dai francesi con il 40%, superando così Franà§ois Fillon (32%) e Marine Le Pen (26%).
La sua linea politica, però, sembra essere lontana da quella delle altre correnti populiste europee.
Anche se il suo programma verrà svelato alla fine di febbraio, Macron ha anticipato alcuni temi nei meeting di questi ultimi giorni.
Le sue idee ultra-liberali volte a “sbloccare” l’economia del paese prevedono una serie di riforme nel settore dell’impresa mirate ad abbattere quei vincoli statali che opprimono la libera concorrenza.
In campo europeo, poi, l’ex ministro si è detto più volte favorevole a “un’Europa della sovranità ” guidata dalla “coppia franco-tedesca”.
Il populismo di Macron risiede quindi nella sua impostazione elettorale ma non nei contenuti del suo programma, per certi versi vicini a quelli di Franà§ois Fillon in termini di liberalizzazione del mondo del lavoro e del settore imprenditoriale.
Se è vero che l’abito non fa il monaco, Emmanuel Macron potrebbe aver indossato gli stracci di un populismo alla Beppe Grillo per mascherare un progetto che, nonostante non sia ancora stato interamente svelato, potrebbe risultare meno innovativo di quanto promesso.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 19th, 2017 Riccardo Fucile
SU TWITTER MOSTRA IMMAGINI DI “PERSONALE DELL’ESERCITO IN AZIONE NELLE PROVINCE DI TERAMO E CHIETI”, MA SONO FOTO DI DUE ANNI FA IN VENETO
La voglia di strafare è sempre stata una cattiva consigliera.
Se poi è riferita a Roberta Pinotti gioca anche brutti scherzi, come quando la sampierdarenese volle candidarsi a sindaco di Genova alle primarie del Centrosinistra convinta di sbaragliare il campo e finì miseramente terza.
Allora era legata alla cordata di Burlando, governatore della Liguria,e non si era ancora convertita alla via renziana.
Quella sconfitta determinò la sua temporanea uscita di scena, poi il recupero attraverso l’adesione alla corrente di Franceschini e di conseguenza il passaggio con Renzi, quando stava tramontando la segreteria Bersani.
Ed eccola arrivare al ministero della Difesa, dove ormai staziona da anni.
Ma la voglia di protagonismo da quelle parti è una prassi e Twitter può diventare un’arma a doppio taglio.
Lo dimostra la serie di fotografie che la ministra ieri ha postato su Twitter per elogiare l’intervento del personale e dei mezzi specializzati dell’esercito nelle province di Teramo e Chieti.
Quattro foto di militari e mezzi in azione sotto il titolo: “”Personale e mezzi specializzati dell’esercito goà operativi nelle province di Teramo e Chieti per emergenza Abruzzo. Al servizio del Paese”
Che il militare in foto sia al servizio del Paese è indubbio, visto che la foto è relativa a un intervento dell’esercito che risale al 2014 in Veneto come dimostra il confronto delle due foto che pubblichiamo.
Forse sarebbe stato meglio che la Pinotti attendesse almeno di avere una foto aggiornata dell’intervento dell’Esercito in Abruzzo, invece che rimediare una brutta figura, riciclando foto d’archivio.
Ma la fretta di fare la prima della classe certe volte fa finire dietro la lavagna chi copia i compiti.
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Gennaio 19th, 2017 Riccardo Fucile
MA A BRUXELLES QUANDO SI E’ TRATTATO DI VOTARE PER SBLOCCARE GLI AIUTI AI TERREMOTATI ERA ASSENTE
Matteo Salvini l’aveva annunciato ed è riuscito a farlo: ha annullato tutti gli impegni e oggi è in Abruzzo.
Ai disagi dovuti alla neve che è caduta copiosa sulle montagne abruzzesi si aggiungono quelli della visita del leader della Lega Nord che pare non si presenterà a bordo di una ruspa e che probabilmente vorrà verificare che negli alberghi non ci sia nessun migrante.
Gli studi televisivi oggi saranno un po’ più vuoti (ma non c’è dubbio che il nostro riuscirà a collegarsi dalle zone del sisma) così come lo sarà anche il Parlamento Europeo che proprio in questi giorni è riunito in seduta plenaria a Strasburgo.
Ma è cosa nota che Salvini non sa rinunciare all’opportunità di farsi qualche selfie ad effetto dai luoghi dei disastri, poco importa che siano attacchi terroristici, terremoti o bufere di neve.
Ed eccolo qui il nostro che ci regala il primo scatto della giornata in direzione Abruzzo dove il Capitano visiterà (tempo permettendo) Pescara, Montesilvano, Penne, Atri, Teramo, Isola del Gran Sasso, L’Aquila e Alta Valle Aterno.
Una tabella di marcia davvero serratissima e visto lo stato della circolazione viaria c’è da chiedersi come farà Salvini a ultimare il suo tour.
Qualcuno potrebbe obiettare che Salvini sarebbe molto più utile alla causa dei terremotati del Centro Italia dicendo che se si limitasse a fare il suo lavoro a Bruxelles sarebbe un grande risultato.
E quel qualcuno avrebbe ragione visto che poco più di un mese fa Matteo Salvini quando a Strasburgo c’era da votare sullo sblocco dei finanziamenti per il terremoto in Aula non c’era.
Chissà se i terremotati si ricorderanno di chiedere conto al leader leghista della sua assenza proprio quando c’era da votare per “aiutare i terremotati”.
Quando invece c’è da fare del facile sciacallaggio politico sulla pelle di chi soffre Salvini non si smentisce mai: è il primo.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 19th, 2017 Riccardo Fucile
PAGATO DA SCARPELLINI CON 3 ASSEGNI DA 367.000 EURO PER INGRAZIARSI IL FUNZONARIO COMUNALE
L’appartamento di via dei Prati Fiscali e il relativo posto auto di proprietà di Raffaele Marra è stato sequestrato dai carabinieri del Comando Provinciale di Roma. L’immobile è quello per il quale l’ex braccio destro di Virginia Raggi è finito in carcere lo scorso 16 dicembre: Marra infatti, secondo il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Barbara Zuin, avrebbe preso nel 2013 una tangente da 367 mila euro dal costruttore Sergio Scarpellini tramite 3 assegni.
Gli assegni sarebbero stati versati dal costruttore romano proprio per l’acquisto della casa in Prati Fiscali.
Una tangente scucita per ingraziarsi Marra, allora al vertice del Comune con la giunta guidata da Alemanno.
Per un analogo episodio, avvenuto nel 2009, l’acquisto di un’altra casa da parte di Marra sempre con soldi di Scarpellini la procura ha deciso di non procedere in quanto si tratta di un caso coperto da prescrizione.
(da agenzie)
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Gennaio 19th, 2017 Riccardo Fucile
LE ALTRE CITTA’ ALLARMATE: COSI’ SALTA TUTTO… LA MARCHETTA DELLA RAGGI PER RIPAGARE L’APPOGGIO DEI NETTURBINI
Lavorare come prima, e meno dei colleghi delle altre città , guadagnando di più: in tempi di crisi, il miracolo avviene nell’Ama della stagione M5S a Roma.
Dal primo gennaio l’azienda (con soldi pubblici) corrisponde ai 7800 dipendenti l’aumento di stipendio stabilito dal nuovo contratto nazionale, ma non esige che lavorino due ore in più alla settimana e anche la domenica, com’è previsto dallo stesso contratto e avviene nel resto d’Italia.
I documenti che pubblichiamo dimostrano che l’Ama, che aveva voluto e difeso il contratto, sotto Natale ha cambiato linea, vantando l’appoggio del Comune azionista, di cui è sindaco Virginia Raggi, e arrendendosi ai sindacati interni.
Tra questi l’Usb, che in campagna elettorale sosteneva la Raggi a colpi di battaglieri volantini interni.
Le altre aziende del settore, in una riunione ad hoc svoltasi ieri, hanno definito l’intervento del Campidoglio «anomalo e improprio», frutto di una gestione politicizzata che «rischia di far saltare il contratto nazionale».
L’accordo
Il contratto nel settore rifiuti è stato firmato nel luglio 2016, dopo quattro anni di trattative e scioperi. Raggi si era pubblicamente vantata di aver contribuito a evitare disagi ulteriori a causa di vertenze sindacali dei netturbini.
La novità principale, in cambio di 120 euro mensili in più in busta paga, è l’aumento dell’orario di lavoro da 36 a 38 ore e la distribuzione dei turni anche di domenica.
«Una rivoluzione necessaria a migliorare produttività e servizio», spiega Gianfranco Grandaliano, vicepresidente di Utilitalia, l’associazione delle imprese del settore.
L’azienda che più ne ha bisogno è proprio l’Ama. A Roma la domenica lavora solo il 15 per cento dei dipendenti.
La raccolta si blocca e i rifiuti si accumulano nelle strade per giorni. L’aumento dell’orario di lavoro – e dei dipendenti in servizio domenicale – consentirebbero di garantire il servizio senza emergenze.
«Tra settembre e novembre – prosegue Grandaliano – abbiamo convocato tutte le aziende per istruirli su come gestire la novità . Procedura chiara e tempi certi: convocazione dei sindacati, ricerca di un’intesa, in caso contrario introduzione unilaterale del nuovo orario». Così si sono regolate le aziende delle principali città . Ciascuna ha definito una specifica applicazione del nuovo orario. Chi ha preso qualche settimana in più, ha anche previsto come recuperare nel 2017 le ore non lavorate a gennaio.
L’eccezione
A Roma è successo qualcosa di strano. Ieri le aziende omologhe di altre città ne hanno discusso e hanno manifestato autentico «terrore» per le conseguenze. Il motivo è semplice: Ama da sola occupa il 20 per cento di tutti i lavoratori del settore, e se non applica il nuovo contratto rischia di farlo saltare dappertutto.
I sindacati hanno immediatamente ostacolato il nuovo contratto e si capisce perchè. Primo: non vogliono lavorare la domenica.
Secondo: se non lavorano la domenica possono reclamare «l’indennità per maggior carico di lavoro di lunedì», una voce retributiva che esiste solo all’Ama e vale quattro milioni di euro l’anno.
Terzo: l’accumulo di rifiuti domenicale costringe nei giorni successivi a un ricorso massiccio agli straordinari (ogni ora costa all’azienda il 30 per cento in più). Turni, indennità e straordinari sono gestiti dai capizona, che storicamente sono delegati sindacali.
L’ostruzionismo dei sindacati non aveva trovato sponde nel direttore generale dell’Ama Stefano Bina, arrivato dalla Lombardia e stimato da Casaleggio e dall’assessore Massimo Colomban, l’imprenditore che aveva promesso di portare efficienza nordica nelle scassate aziende partecipate dal Campidoglio.
Cambio di rotta
Il 15 dicembre Bina avverte per iscritto i sindacati dell’«assoluta necessità di dare seguito alle reciproche obbligazioni dal primo gennaio». Dunque nessun rinvio dell’applicazione del nuovo orario a 38 ore.
Ma nei giorni successivi viene scavalcato. È l’amministratrice unica Antonella Giglio (avvocato, romana, di diretta nomina della sindaca Raggi) a parlare con i sindacati e a sposare la loro linea: il nuovo orario non entra in vigore, l’aumento di paga sì.
La trattativa viene prolungata almeno di due mesi per approfondire imprecisate «esigenze della città ».
Nonchè allargata ad altri temi e richieste (ulteriori soldi alla voce «produttività », non bastavano quelli del contratto nazionale?). Per ragioni tecniche (febbraio è mese di congressi sindacali, si ferma tutto) il nuovo orario di fatto non entrerà in vigore prima di aprile. Perchè Roma sguazza mentre altrove i netturbini fanno sacrifici?
I conti
All’Ama (quindi all’azionista Comune, quindi ai cittadini attraverso la tassa rifiuti) il ritardo nell’applicazione del nuovo orario di lavoro costa almeno un milione di euro al mese, tra retribuzioni e straordinari.
Possibili ricorsi per danno erariale. E si apre anche una questione politica che investe la giunta Raggi: l’assessore alle partecipate Colomban, che prometteva tagli e efficienza, era informato che il Comune patrocinava un accordo in senso contrario?
La sindaca ha avuto un ruolo?
E perchè il vertice dell’Ama, in assenza di atti formali del Comune, cita come decisivo, in una questione organizzativa, l’intervento del Campidoglio, che non ha titolo diretto?
Jacopo Iacoboni, Giuseppe Salvaggiulo
(da “La Stampa”)
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Gennaio 19th, 2017 Riccardo Fucile
DUEMILA PERSONE NEL FANGO, DECINE DI NIGERIANE COSTRETTE A PROSTITUIRSI, CENTINAIA DI BRACCIANTI SFRUTTATI DAI CAPORALI… E LE ISTITUZIONI CHE FANNO?
Il bancone dei superalcolici sembra una gabbia da polli. Dentro la rete, una giovanissima nigeriana. Gli uomini bevono e aspettano seduti al tavolo. Le stanze da letto sono sul retro. Fuori, il buio e la pioggia.
L’impianto, alimentato da un generatore a nafta, propone musica assordante. “She’s Anastacia”, spiega una ragazza
Nell’ultima fila di baracche c’è il quartiere a luci rosse di una città che è venuta fuori in queste settimane: duemila persone, otto macellai, vari negozietti, due ciclofficine. Per l’ennesima volta, la raccolta delle arance è diventata catastrofe umanitaria.
La baraccopoli si è espansa intorno alle tende del Ministero dell’Interno.
Le donne
Al mattino la pioggia battente concede una tregua. Le ragazze puliscono i corridoi, rifanno i letti. “Siamo da sei mesi in Italia”, dicono. “Veniamo da Edo State”, regione meridionale della Nigeria. Un sorriso mesto e si torna a pulire. “Sì, siamo passate per Lampedusa”, dicono.
Sono gli indizi della tratta, quel meccanismo ormai rodato da anni che procura ragazze in Africa e – in tempi record – le avvia alla prostituzione.
“Questa di Rosarno è una pericolosa novità ”, ci dice Alberto Mossino, direttore di PIAM, un’associazione piemontese riconosciuta a livello internazionale per la sua attività contro la tratta.
“Si sta creando un distretto parallelo dello sfruttamento sessuale. La frontiera si è alzata, si riproducono le connection house tipiche della Libia. Città spontanee che offrono ogni tipo di servizio — legale e illegale — agli africani di passaggio. È lo sfruttamento intorno allo sfruttamento”.
Come è possibile che una ragazza appena arrivata in Italia finisca qui?
“Non ci sono strutture adeguate nei pressi dei luoghi di sbarco. I soggetti più vulnerabili dovrebbero essere indirizzati, evitando che vengano presi dai trafficanti”, conclude. “Se non sono inserite in un programma di protezione, le più deboli finiscono in posti come questo”.
Le carte
Se le donne vittime di tratta hanno la speranza di un permesso di soggiorno, tutti gli altri rischiano di essere risucchiati nell’irregolarità , diventando sempre più ricattabili.
Oggi due migranti su tre hanno un regolare permesso di soggiorno.
Molti, però, hanno fatto ricorso contro il diniego della Commissione territoriale per il diritto d’asilo e rischiano l’irregolarità .
Altri hanno difficoltà a rinnovare i permessi umanitari perchè viene richiesta la residenza, impossibile per chi vive vite così precarie. La maggior parte viene da Senegal, Mali, Ghana e Burkina Faso. Sono mediamente presenti in Italia da meno di tre anni.
“Questi numeri sono gestibili senza sperperare fondi pubblici. Basterebbe creare politiche abitative per tutti, italiani e stranieri, mappare le case sfitte, recuperare gli innumerevoli stabili vuoti o quelli confiscati alla ‘ndrangheta”, ci dice Giulia Bari di Medu, l’ong presente sul territorio da alcuni anni.
Arriviamo alla tendopoli in piena allerta meteo. Si attende la neve.
Tutto intorno è pieno dei relitti della “zona industriale”, una specie di cimitero del sogno dello sviluppo. Il cielo color piombo rende ancora più spettrali i capannoni abbandonati.
Dentro, un delirio di vecchi faldoni ammucchiati, vetri rotti, ferro arrugginito. E spazzatura. Cumuli di rifiuti ci accompagnano fino al ghetto.
La città è cresciuta da sola come un organismo vivente. Nei pressi dell’ingresso, i furgoni scaricano i braccianti. Un veicolo è targato Foggia, altro luogo di concentrazione dei caporali.
Dai pezzi di capra appesi nella macelleria, il sangue sgocciola lentamente nel fango. Piccoli ristoranti servono riso e verdura. Casupole fatte con un triplo strato (cartone, canne, plastica) resistono miracolosamente alla pioggia battente.
Nonostante il freddo, i braccianti camminano con le infradito. Vanno nei piccoli negozi dove si trova di tutto, dalla presa elettrica per caricare il cellulare ai cavetti usb.
Un macellaio del Burkina Faso ci offre un caffè che bolle nel termos. Un altro ripara bici nella sua officina. Tutti aspettano il miracolo di una giornata di lavoro.
“I bagni sono delle latrine scavate nella terra. Si cucina in fuochi improvvisati o con fornelli a gas in tende e baracche”, denuncia Medu.
“Ci si lava con acqua riscaldata in bidoni di lamiera e si dorme sul pavimento”. Dopo i controlli avviati dalla Prefettura di Reggio Calabria, sono aumentati i contratti. Si è passati dal lavoro nero al lavoro grigio. Ma la sostanza non cambia.
Alessia Mancuso Prizzitano lavora per Emergency. Dall’ambulatorio di Polistena, passano tutto l’anno centinaia di lavoratori. Le malattie più frequenti? “Dolori muscolari, traumi per cadute dalla bicicletta o sul lavoro. E poi sindromi gastro-intestinali, per una non corretta alimentazione e per le scarse condizioni igieniche”.
Al dolore fisico si aggiunge quello psicologico. Non era questa la vita che sognavano lasciando l’Africa. “Le patologie legate al disagio psichico sono sempre più frequenti, specie per il fallimento del progetto migratorio. Per questo, abbiamo attivato un servizio di ascolto”, spiega.
Il fango
Appena fuori Rosarno, incontriamo H. Adesso ne è uscito, ma per anni è stato vittima del caporalato. “Lavoravo come buttafuori vicino Pavia, poi ho perso il lavoro e quindi i documenti. Un mio amico senegalese mi ha detto che al Sud si poteva lavorare anche senza. Così sono arrivato a Rosarno. C’era un mio connazionale che formava le squadre. Ci portava nei campi di un signore che si presentava con un nome straniero. Possedeva molti ettari sparsi tra il paese e l’autostrada. Aveva venduto le arance ‘sull’albero’ a un commerciante, di cui non ci dicevano il nome. Eravamo squadre di 14, sempre gli stessi. Abbiamo fatto tutta la stagione a 25 euro al giorno”.
“Nei campi ci facevano un contratto fittizio per proteggersi dai controlli”, conclude. “Per noi non cambiava niente, per esempio non avevamo diritto alla disoccupazione dell’Inps. Però ci obbligavano a tenere in tasca i documenti di qualcuno in regola. Io li chiedevo a un mio connazionale. Tra noi siamo abituati ad aiutarci”.
I soldi
La povertà degli africani è un destino senza uscita? La risposta è nel percorso delle arance dai campi ai banconi dei supermercati.
Le produzioni locali sono il biondo da succo e le clementine da bancone.
Pietro Molinaro di Coldiretti Calabria ci fa da guida nel labirinto della filiera: “Le arance da succo sono acquistate da poche grandi multinazionali. Coca Cola comprava in passato, ma è andata via dopo che una fabbrica locale ha chiuso. Purtroppo non abbiamo certezza che nelle aranciate ci sia succo italiano: al porto di Gioia Tauro continua ad arrivare succo dal Brasile”, protesta.
Poi c’è il fresco. Qui c’è un’economia a più livelli. Finita l’epoca d’oro delle truffe, c’è chi sopravvive con i contributi dell’Unione Europea.
Oppure c’è chi riesce a vendere alla grande distribuzione, strappando contratti sempre meno remunerativi. Infine, alcuni provano ad esportare: ai supermercati dell’Est Europa (ma dopo l’embargo russo è diventato più difficile), oppure in Medio Oriente e Stati Uniti.
“Nei passaggi della filiera c’è il margine per una quota remunerativa”, spiega Molinaro. l prezzi pagati ai produttori dovrebbero raddoppiare. Non sarebbe generosità , ma un obbligo di legge.
Un decreto del 2012 vieta la vendita di prodotti agricoli sottocosto. Ma è una regola ancora inapplicata. L’ultimo anello della catena rimangono comunque i braccianti, che non possono rivalersi su nessuno.
E vivono nel fango.
Antonello Mangano
(da “L’Espresso”)
argomento: denuncia | Commenta »