Gennaio 6th, 2017 Riccardo Fucile
MA SE NON AVEVA NULLA DA NASCONDERE, PERCHE’ E’ ANDATA SUL TETTO 15 VOLTE CON ROMEO PER PAURA DELLE CIMICI?
Seguire le gaffes quotidiane di Virginia Raggi è ormai una impresa impegnativa, un diluvio di superficialità mista ad arroganza che lascia allibiti anche i cronisti più navigati, quelli che pensavano ormai “di averle viste tutte” nella vita.
Orbene stamani l’ex capo della sua segreteria politica Salvatore Romeo in una intervista afferma: “Io e Virginia Raggi sapevamo delle cimici in Comune dal secondo giorno di governo della città … Sul tetto ci saremo andati quindici volte, quel giorno mangiavamo un panino, come sempre, poi è uscita fuori quella foto ed ecco che è scoppiato un caso”.
Già si potrebbe osservaree che essere a conoscenza di un’indagine, per disvelamento del “capo” Marra, e cercare di ostacolarla, finendo sui tetti, è un comportamento curioso per degli alfieri dell’onestà .
Ma il peggio doveva ancora venire: interpellata dai giornalisti, prima di entrare nella chiesa dell’Aracoeli per partecipare alla messa per l’Epifania, la Raggi cosi’ commenta l’intervista a Romeo: “Cimici in Campidoglio? Magari le mettessero, così saprebbero che non abbiamo nulla da nascondere”.
Ma se non aveva nulla da nascondere per quale motivo una si inerpica 15 volte sui tetti proprio per sfuggire alle cimici?
Avete mai visto altri sindaci che discutono gli affari del proprio Comune sui tetti del Municipio?
Che poi pare pure che le cimici non ci fossero, ma avendolo detto Marra, tutti pensavano fosse vero.
Auguri a Mata Hari per la sua prossima missione segreta.
Nel frattempo una vacanza a Malindi le farebbe bene, si rivolga a Beppe: lì è più difficile intercettare.
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Gennaio 6th, 2017 Riccardo Fucile
QUALCUNO AVVISI DI MAIO CHE CON QUEL SISTEMA “CHE DERUBA I CITTADINI DELLA POSSIBILITA’ DI SCEGLIERE I CONSIGLIERI” IL M5S NE HA ELETTI DECINE
Luigi Di Maio ha pubblicato un messaggio sulle province sulla sua pagina Facebook prendendo spunto da un articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera che oggi ricordava il ritorno al voto degli enti la cui abolizione sembra come l’Araba Fenice. Nell’articolo del Corriere però si spiegava che il ritorno al voto dipendeva dal No al referendum del 4 dicembre:
La Provincia è un ente locale territoriale dove l’area è, per estensione, inferiore a quella delle Regioni e superiore a quella dei Comuni. Dopo una serie di norme che hanno rivisto le funzioni delle Province, erano rimaste, tra le altre, quella su risparmio energetico, autoscuole e protezione civile. Con la riforma Delrio, ovvero la legge 56 del 7 aprile 2014, le Province sono state trasformate in enti amministrativi di secondo livello e 10 di loro sono diventate Città metropolitane.
Tra le funzioni rimaste figurano quelle su pianificazione dei servizi di trasporto, rete scolastica, costruzione delle strade provinciali. La definitiva cancellazione delle Province sarebbe stata certificata con la riforma costituzionale, bocciata però dal No al referendum del 4 dicembre
Rizzo nel testo dell’articolo ricordava anche che “con la prospettiva di un’affermazione del Sì al referendum costituzionale del 4 dicembre, avrebbero anche dovuto perdere l’identità costituzionale («La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni») che, invece, con la vittoria del No, continua ad essere scolpita nell’articolo 114 della Carta”.
Di Maio però aggiunge un ragionamento e segnala che «Nella riforma costituzionale avrebbero cambiato il nome da provincia ad area vasta, ma nella sostanza nulla sarebbe cambiato, mentre in Sicilia gli hanno cambiato il nome in “liberi consorzi di comuni” un modo elegante per prenderci per il culo. Ma non contenti di questo sono riusciti perfino a peggiorarle derubando i cittadini della possibilità di scegliere i propri consiglieri provinciali che sono autoproclamati dai consiglieri comunali e dai sindaci di tutti i comuni della provincia».
Il problema però è che dopo sostiene che il M5S non presenta alcuna candidatura alle elezioni provinciali e propone l’abolizione dell’ente con legge costituzionale.
E qui Di Maio non sembra aver capito che una Città Metropolitana è un ente di Area Vasta (dice qualcosa il nome) che oggi amministra il territorio della provincia di Roma.
Non dovrebbe sfuggire a Di Maio che qualche tempo fa si sono svolte le elezioni per la Città Metropolitana di Roma, l’ente di area vasta che attualmente ha le competenze della ex provincia di Roma (amministrando 4,3 milioni di abitanti).
E non dovrebbe sfuggire a Di Maio che si sono candidati e sono stati eletti non uno, non due ma ben nove consiglieri del MoVimento 5 Stelle, che sono: Giorgio Fregosi, i capitolini Marcello De Vito, Paolo Ferrara, Giuliano Pacetti, Teresa Maria Zotta, Maria Agnese Catini, Gemma Guerrini, insieme al sindaco di Pomezia, Fabio Fucci, quello di Marino, Carlo Colizza e quello di Nettuno, Angelo Casto.
Il sindaco metropolitano, sempre per ricordarlo a Di Maio, è attualmente Virginia Raggi.
I consiglieri del M5S sono stati eletti proprio con quel sistema elettorale che, come diceva Di Maio, «deruba i cittadini della possibilità di scegliere i propri consiglieri provinciali che sono autoproclamati dai consiglieri comunali e dai sindaci di tutti i comuni della provincia».
Che tutto questo sia accaduto all’insaputa di Di Maio?
Di certo il vicepresidente della Camera non ha capito qualcosa delle province: che attualmente negli enti che ne sono eredi siedono anche eletti M5S.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 6th, 2017 Riccardo Fucile
CROLLANO DECINE DI PROGRAMMI, REGGONO SOLO LE VECCHIE FICTION
Crollano anche i «pacchi» a viale Mazzini. Per ora, sono quelli del programma «Affari tuoi» – che in un anno ha perduto un milione secco di telespettatori (dati auditel) – poi chissà che insieme ai pacchi non affondi anche il cavallo di Messina.
E già , perchè al di là delle tensioni che hanno portato alla bocciatura del piano dell’informazione e alla conseguenti dimissioni del direttore editoriale Carlo Verdelli, c’è un altro fiume in piena che rischia di investire la tv pubblica (e i suoi vertici) e concerne il calo degli ascolti e il flop di decine di programmi.
In quest’ultimo anno, infatti, l’azienda radiotelevisiva italiana (nel confronto dicembre 2015 con dicembre 2016) ha perduto nell’intera giornata il 2,04 per cento di share mentre Mediaset negli ascolti ha guadagnato l’1,29 per cento.
Ma non finisce qui, perchè dalla lettura dei dati si evince che in generale l’unico editore televisivo italiano ad avere il segno meno davanti alla performance è solo la Rai.
Tutti gli altri competitors, infatti, chi più chi meno, hanno vinto la loro gara degli ascolti.
Certo il dato che maggiormente colpisce è il costante sorpasso di «Striscia» sul programma di Raiuno (4 milioni 810mila spettatori per il Tg di Ricci contro 3milioni 925mila spettatori per Insinna) ma, nei fatti, nessuna delle tre reti pubbliche presenta dati positivi. Dunque, tutti crescono tranne la Rai.
Un bene per la concorrenza che raccoglie il plauso del pubblico e affonda ancor più i denti sulla torta del mercato pubblicitario un male per viale Mazzini che seppur garantita dagli introiti del canone in bolletta non riesce però a rilanciare sulla centralità e la qualità della programmazione.
Tant’è, che a difendere gli ascolti di viale Mazzini contro gli avversari restano solo i successi della fiction («I Medici» compresi) quasi tutti messi in cantiere prima dell’avvento di Campo Dall’Orto a viale Mazzini (compreso l’accordo Rai-Netflix per la produzione di «Suburra» che a suo tempo fu confezionato dall’ex dg Luigi Gubitosi): da «Don Matteo» a «Montalbano» per finire con «Che Dio ci aiuti» e «Braccialetti rossi».
Per il resto: poco o niente. Come peraltro in più circostanze ha fatto notare l’attento deputato del Pd Michele Anzaldi che nel rivendicare «siamo stati noi a nominare questi vertici» non ha mancato di elencare gli insuccessi inanellati dalla Rai anche sul fronte dell’informazione: dal flop di «Politics» e di «Politics tribuna» alla cancellazione di «Ballarò».
Il tutto a vantaggio di emittenti «come La7 e il Tg di Mentana».
In poco più di un anno, insomma, (il nuovo vertice di viale Mazzini si è insediato lo scorso agosto) alla Rai è accaduto di tutto di più: molti esponenti politici, magari anche strumentalmente, sostengono in peggio ma non è un mistero, che il sottosegretario Giacomelli proprio a un anno di distanza dall’insediamento di Campo dall’Orto sentenziò che «alla Rai manca ancora un progetto».
Un progetto che ancora non c’è, così come ancora non c’è un piano editoriale forte e il rinnovo della convenzione del servizio pubblico.
Ovvero il fondamento per affidare i soldi del canone alla Rai. E stavolta – osserva un’acuto osservare dei fatti di viale Mazzini – per rispondere alle accuse che si fa una brutta televisione non basterà dire che è colpa dell’evasione che non consente investimenti…Stavolta tutti i cittadini che pagano il canone in bolletta pretendono di essere ripagati con la qualità , l’efficienza e il prodotto».
Tre elementi che potrebbero pesare sul futuro di Campo Dall’Orto molto più delle dimissioni di Carlo Verdelli.
Paolo Festuccia
(da “La Stampa”)
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Gennaio 6th, 2017 Riccardo Fucile
LIBERATA LA CAMERA L’ITER PUO’ PARTIRE TRA QUATTRO GIORNI
Durante le feste natalizie, senza dare nell’occhio, la “pista” di Montecitorio è stata completamente sgombrata ed ora è pronta ad accogliere un blitz sulla legge parlamentare preparato a sorpresa da Matteo Renzi.
Per provare ad andare ad elezioni anticipate a fine aprile. Un’operazione complessa, non facile, ma studiata nei suoi snodi più delicati e che, se dovesse realizzarsi, cambierebbe di nuovo gli scenari della politica nazionale.
L’operazione è partita sotto traccia qualche giorno fa.
Con azione felpata, il governo aveva chiesto che il primo esame del delicatissimo decreto sulle banche fosse affidato al Senato, anzichè alla Camera.
Aver indirizzato quel provvedimento verso palazzo Madama, implicitamente lasciava intendere che l’altro “decretone” approvato dal governo Gentiloni, il “Milleproroghe”, fosse indirizzato verso Montecitorio.
E invece, ieri a mezzogiorno, i capigruppo hanno ricevuto comunicazione che l’esecutivo aveva deciso di avviare anche il decreto-omnibus verso il Senato.
Morale della storia: l’aula di Montecitorio è stata liberata da due decreti “pesanti” ed è pronta ad accogliere provvedimenti sui quali il Parlamento dovesse decidere un’accelerazione.
A cominciare dalla nuova legge elettorale, che però sembrava in “sonno”, in attesa che il 24 gennaio la Corte Costituzionale si pronunci sulla costituzionalità dell”Italicum.
E invece ecco le due sorprese: la prima riguarda lo sgombero della “pista” di Montecitorio, la seconda è in arrivo fra quattro giorni: all’Ufficio di presidenza della Commissione Affari costituzionali, il Pd – assieme alla Lega e forse anche ai Cinque Stelle – chiederanno di non aspettare la sentenza della Consulta per avviare da subito le rituali audizioni degli esperti e dei costituzionalisti, passaggio propedeutico per poter passare alla scrittura della legge.
Con un timing, immaginato da Matteo Renzi, che prevede l’approvazione del testo della riforma nei due rami del Parlamento entro metà marzo ed elezioni anticipate entro aprile. Con due problemi non irrilevanti: il timing renziano è credibile?
E soprattutto con quale maggioranza il Pd immagina di portare a casa una nuova legge elettorale?
«Dal punto di vista dei tempi l’operazione è fattibile – dice Rocco Palese, capogruppo dei Conservatori e riformisti e indiscussa “autorità ” sui provvedimenti parlamentari – Se i due “decretoni” complessi come Banche e “Milleproroghe” fossero stati esaminati prima dalla Camera, sarebbero restati da noi fino a metà febbraio. Ma questa inversione consentirà di iniziare l’esame della legge elettorale ai primi di febbraio. I tempi ci sono, molto più complicato il discorso sulla fattibilità ».
Gli alleati di Renzi per l’accelerazione – Cinque Stelle e Lega, ansiosi di andare ad elezioni – non condividono lo stesso modello elettorale e d’altra parte il “Mattarellum” è osteggiato anche dentro al Pd.
Intervenendo all’ultimo “parlamentino” democratico il ministro Dario Franceschini ha fatto balenare un accordo con Forza Italia per tagliare fuori la Lega.
Ma nel suo disegno di accelerazione, Renzi conta di far leva anche sull’insofferenza per un “sistema”, che ha ripreso a procedere al “ralenti”.
A cominciare dalla Corte Costituzionale: pronta ad andare a sentenza già ai primi di ottobre, ha fatto slittare la decisione a fine gennaio.
Un mese e mezzo dopo il risultato del referendum.
Fabio Martini
(da “La Stampa”)
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Gennaio 6th, 2017 Riccardo Fucile
CONSIDERATI COME UNA MINA SUL PERCORSO CHE DOVREBBE PORTARE AL VOTO… SE DICHIARATI AMMISSIMIBILI SI DOVREBBE VOTARLI ENTRO GIUGNO
Gli “artificieri” sono a già all’opera, nel campo di battaglia della Corte Costituzionale, per disinnescare la prima mina, il referendum promosso dalla Cgil sull’articolo 18.
Mina che rischia di far saltare tutto, a partire dal percorso “ordinato” immaginato dal capo dello Stato Sergio Mattarella: prima la modifica della legge elettorale, poi il voto.
I referendum sul jobs act sono sempre stati vissuti, nelle stanze del potere renziano, in un tutta la loro portata politica.
Perchè ogni voto, nell’epoca moderna, come insegna la Grecia o l’Inghilterra, è ad alta intensità politica, figuriamoci una consultazione che ha come titolo “referendum sul lavoro” con i tassi di povertà e disoccupazione del nostro paese.
E il jobs act è la riforma simbolo dell’era Renzi, la più divisiva di tutte, nel paese e nella sinistra: da un lato Marchionne e Confindustria, dall’altro la Cgil.
Insomma un potenziale, nuovo 4 dicembre: “C’è un solo modo per evitare il referendum — disse il ministro Giuliano Poletti nella famosa dichiarazione — sciogliere le Camere e andare al voto anticipato”.
Ecco la mina, o meglio, le mine. Su “come finisce” la legislatura.
Tutto in cento passi, tanti separano il Quirinale dal palazzo della Consulta. E tutto in un mese.
L’11 gennaio la Corte si riunisce per l’ammissibilità dei quesiti sul jobs act. Il 24 sull’Italicum.
In caso di ammissibilità il referendum, per legge, si deve svolgere nella “finestra” tra il 15 aprile e il 15 giugno: “È difficile — dice quella vecchia volpe di Gaetano Quagliariello – immaginare la durata della legislatura senza considerare quello che deciderà la Corte in questo mese”.
Proprio attorno alle decisioni della Corte, le grandi manovre sono iniziate.
Più di un costituzionalista che ha consuetudine con il Quirinale spiega: “È chiaro che ammettere il referendum destabilizza la linea di Mattarella, perchè Renzi a quel punto dice ‘basta, si vota’, anche con leggi diverse. Per Amato e altri giudici che hanno più sensibilità istituzionale si stanno ponendo il problema di non introdurre un elemento di drammatizzazione”.
Il che tradotto dal compassato linguaggio dei frequentatori dei Palazzi significa che, nella Corte, la tensione è già alta.
Gli spifferi raccontano di orientamenti discordanti tra i giudici, con i “magistrati” più favorevoli ai quesiti della Cgil.
E dei primi attriti tra Giuliano Amato, nei panni del grande artificiere, e la relatrice, Silvana Sciarra, allieva di Gino Giugni, giuslavorista, scelta da Renzi e votata dal Parlamento nel 2014.
Non sul quesito sui voucher — tema su cui è prevedibile un intervento del governo — o sulle responsabilità in materia di appalti, ma sull’articolo 18.
Giuliano Amato la pensa come l’Avvocatura dello Stato, ovvero che il quesito è di fatto propositivo e quindi “manipolativo”. La Sciarra, secondo i ben informati, sarebbe intenzionata a dichiararlo ammissibile.
Ognuno, con diplomazia, cerca consensi alla posizione.
Partita aperta, tutta politica. Previsioni impossibili: “L’ambiente della Corte — prosegue la fonte — è molto particolare. C’entra la politica, ma ogni testa è un tribunale e l’attivismo non sempre produce i risultati sperati”.
Certo è che la pressione è destinata ad aumentare. La camera di consiglio è l’11 gennaio. Il 10 Giuliano Poletti, il ministro del jobs act sarà a palazzo Madama per una “informativa”, trascinato dalle opposizione dopo le sue gaffe sui giovani italiani all’estero che “è meglio non avere tra i piedi”.
Il giorno dopo, i titoloni dei giornali, con le opposizioni alla carica: una bocciatura dei quesiti sarebbe letta come un mossa dell’establishment per negare che si esprima la volontà popolare.
Comunque vada la mina rischia di esplodere.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 6th, 2017 Riccardo Fucile
IL CELEBRE TRIO NON SI ESIBIRA’ ALLA CERIMONIA DI INVESTITURA DEL 20 GENNAIO
Quante volte può capitare a un artista di essere chiamato dal presidente degli Stati Uniti per esibirsi alla cerimonia del suo insediamento?
Così, quando qualche settimana fa la proposta di Donald Trump è arrivata a Il Volo, Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone, dopo la sorpresa iniziale, si sono confrontati, ci hanno riflettuto e alla fine sono arrivati alla conclusione di dire grazie no, Mr. President.
«Abbiamo rifiutato il suo invito perchè non siamo mai stati d’accordo con le sue idee: non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti».
Insomma, non ci girano attorno. E, al contrario di quello che magari ci si potrebbe aspettare, non giocano la prudente carta – cara a tanti loro colleghi – del: «La musica non c’entra con la politica».
Anzi, sono tutti e tre ben consapevoli del fatto che «come artisti abbiamo una grande eco. Non potevamo cantare per una persona con cui non condividiamo quasi niente».
E come loro devono averla pensata anche tutti gli altri artisti che hanno declinato il presidenziale invito. «Ma la democrazia è importante. Non va criminalizzato chi si esibirà quel giorno, così come non va fatto con chi la pensa diversamente da noi. Per quanto ci riguarda ci rendiamo conto di essere un esempio per molti, soprattutto giovani, ed è per questo che raccontiamo la nostra idea».
Negli Stati Uniti Il Volo è adorato. Il concerto del prossimo 4 marzo alla Radio City Music Hall è già «sold out» tanto che ora si prevede una nuova data.
Dire no a Trump ad altri avrebbe fatto venire il dubbio di vedersi chiudere qualche porta a stelle e strisce.
«Ma pensiamo che il nostro futuro non dipenda da questo. Chi ci ama ci seguirà ugualmente. Nei nostri concerti poi non parliamo di politica. E non siamo stati i soli a dirgli no, sappiamo anche che il nostro amico Andrea Bocelli ha rifiutato…».
Anche se non lo ha mai confermato: non si sa se sia stato davvero invitato da Trump… «Ah. Beh noi sappiamo che è andata così. Con lui non ne abbiamo parlato perchè quando ci vediamo preferiamo discutere di altro, tipo di musica».
La loro decisione di prendere posizione e raccontare perchè hanno detto no a Trump dipende invece dal fatto che «se anche la politica americana può apparire lontanissima da noi, il risvolto sociale di quello che succede lì ci interessa e ci riguarda».
Se vi avesse chiamati Obama sareste andati? Qualche attimo di lieve, divertito, imbarazzo. Poi se la cavano così: «Comunque non ci ha chiamati».
Non sanno se seguiranno la cerimonia di insediamento, il 20 gennaio: «Se gioca Roma-Inter guarderò la partita», commenta Gianluca, ma, facendosi di nuovo seri, sono tutti e tre certi che se anche la guarderanno, non avranno «nessun rammarico. Non diremo: cosa ci siamo persi, perchè la nostra è stata una decisione presa con calma. E perchè tutti e tre viviamo senza rimpianti. Davanti a noi poi abbiamo un tour bellissimo, gireremo l’Italia, canteremo in posti fantastici…».
Non solo America quindi. E anche se non sanno cosa guarderanno in tv il giorno dell’insediamento, pare già certo che Sanremo non se lo perderanno…
«Ehhh, il Festival certo che lo seguiremo, non possiamo non farlo»
Chiara Maffioletti
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 6th, 2017 Riccardo Fucile
PERCHE’ FAR FUORI IL GIORNALISMO: VERSO IL SONNO DELLA RAGIONE
La proposta di Grillo, di creare dei Tribunali del popolo per giudicare la veridicità¡ delle notizie, ha navigato bene, nella Rete naturalmente, ma anche e soprattutto nei media tradizionali.
Paginate intere, attenzione seria e argomentata, dichiarazioni, interviste a esperti, commentatori accademici, perfino la Tv con Mentana ci ha costruito su un caso (Mentana ha annunciato querela, e Grillo — Cuor di coniglio, che abbaia a polmoni spiegati ma scappa appena lo guardi in faccia — ha fatto subito marcia indietro).
Il gran circo della comunicazione, insomma, ha reagito come di dovere.
Ma — pur denunciando la violenza strumentale della proposta e comunque la sua evidente impraticabilità¡ — ha mancato in qualche misura dall’analizzarne i contenuti politici e ideologici.
Negli studi delle teorie della comunicazione, uno dei punti che l’analisi del “messaggio” focalizza con attenzione riguarda la presenza del “segnale forte”, cioè l’imprinting identitario che uno degli elementi costitutivi del “messaggio” impone alla complessità¡ del contenuto, riducendo la valenza semantica di tutti gli altri elementi. Quello che conta è il “segnale forte”, il resto perde – o comunque riduce – la propria capacità¡ comunicativa.
Cià³ che il “messaggio” di Grillo intendeva comunicare è la credibilità¡ nulla del giornalismo (suo vecchio cavallo di battaglia), strumento di asservimento al potere, e percià³ la restituzione alla “gente”, al “popolo”, del diritto di decidere autonomamente, “liberamente, cià³ che è giusto, cià³ che è vero.
Non il giornalismo, non i giornalisti, ma l’”io”diffuso, indifferenziato, il pensiero comune, l’”io” dell’”uno” che vale uno.
L’operazione è certamente legittima, ma anche politicamente perversa.
Punta, infatti, a cancellare le strutture della intermediazione nella costruzione della conoscenza, e dunque della definizione della realtà¡, strutture delegate invece a elaborare secondo competenza e capacità¡ articolata le emozioni, i sentimenti, lo stesso desiderio di sapere per poter poi giudicare.
Se le emozioni e i sentimenti — che sono la prima reazione istintuale al rapporto con la realtà¡ — prevalgono, e cosà definiscono l’identità¡ della realtà¡, c’è un rischio molto elevato che la sua conoscenza resti limitata alla “estetica dell’apparenza”, e che gli orpelli e gli addobbi emozionali trascinino il giudizio a scapito della complessità¡ della realtà¡.
Il procedimento è perverso perchè introduce — piຠo meno surrettiziamente — il principio della egenonia dell’”io” diffuso ma singolare, della unicità¡ orgogliosa del singolo, in contrapposizione al noi sociale, cioè alla articolazione della società¡ nelle sue varie strutture compositive, quelle che portano poi alla definizione del discorso pubblico (e, quindi, denegare il giornalismo ma anche, allo stesso modo, la scuola, la professionalità¡, il sapere organico, i partiti, i sindacati, le istituzioni etc.).
Ma perchè è concepibile — e perfino convincente — una operazione simile? Per via della “ideologia del clic”.
La Rete, lo straordinario archivio del sapere che è il tesoro posseduto da Internet, offre all’”io” diffuso — l’”uno”- la certezza di poter accedere autonomamente alla costruzione della conoscenza: basta un “clic”, e la porta del sapere si spalanca senza aver bisogno di professori, giornalisti, tecnici, scienziati, ricercatori — tutte figure asservite a denegare al desiderio del’”io”, di sapere, l’autonomia della proprie scelte.
A giudicare dallo stato delle cose, l’illusione è molto efficace.
Con la forza spregiudicata del paradosso, Umberto Eco s’era spinto a dire che “Internet offre a milioni di imbecilli il diritto di imporre il discorso pubblico”.
Ed è dell’altro ieri la notizia che un virogolo dell’ospedale San Raffaele, Roberto Burioni, stronca di brutto tutti coloro che pretendono di intervenire nel suo blog senza avere competenze specifiche. Li tratta da somari, “e le bugie e i ragli dei somari che affollano la Rete valgono meno di zero”.
Grillo non amerà¡ i Roberto Burioni, li considererà¡ servi del potere costituito perchè credono nella faticosa costruzione della conoscenza e negano la democrazia semplicistica della Rete.
Ma – dice — Burioni “silenzio, il sapere non è democratico”.
Cosa c’è al fondo di questa analisi?
Che in America Latinia i sergenti sono diventati dittatori e si son fatti generaloni. Grillo, che è ancora un sergente, non pare proprio un dittatorello, e perà³ il disegno di una società¡ senza strutture mediali, senza articolazioni compositive, tutta affidata ai risentimenti, al disagio, ai malumori, alla rabbia dell’antipolitica, produce drammaticamente il sonno della ragione.
Mimmo Cà¡ndito
(da “La Stampa”)
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Gennaio 6th, 2017 Riccardo Fucile
L’EX CAPOSEGRETERIA DELLA SINDACA SI DICE PREOCCUPATO PER LA PUBBLICAZIONE DEI MESSAGGI… STRANO, PRIMA IL M5S NON LA PENSAVA COSI’… CHI RICORDA I DOSSIER CONTRO DE VITO?
Una lunga intervista rilasciata da Salvatore Romeo al Messaggero ci dà l’idea di cosa ruota intorno alla faccenda degli omissis di Raffaele Marra.
Per tre anni Romeo è stato molto vicino ai grillini in Campidoglio, aiutandoli nel loro lavoro quotidiano e nelle loro battaglie politiche: tanto vicino da poter essere qualificato come il quinto consigliere grillino in Aula dopo Raggi, Frongia, Stefà no e De Vito.
Poi dopo l’arresto di Marra lui e Frongia hanno deciso per dimissioni “spintanee“, anche se non si è ancora compresa l’accusa a carico di entrambi, se non quella di essere amici di Marra.
Oggi Romeo è caduto in disgrazia ma al Messaggero non tira fuori un’espressione di risentimento che sia una nei confronti della sindaca.
Ma, lo si vede ad occhio nudo, sembra piuttosto preoccupato della possibilità che cadano gli omissis sulle chat che si scambiava con Marra e con gli altri quando era diventato capo della segreteria della sindaca con stipendio triplicato “perchè ad agosto faceva caldo, ci siamo sbagliati“, come dichiarò con tipica trasparenza grillina quando fu costretto a tagliarselo.
Perchè Romeo? Cosa teme
«Se ci sono gli omissis nelle carte dell’inchiesta tali devono rimanere perchè non hanno rilevanza penale».
Ma magari politicamente sì.
«Faccio un esempio: se io le scrivo in una chat che sono innamorato di lei, e poi viene pubblicato, la gente penserà che io e lei siamo amanti anche se non è vero. E se avrò detto, faccio un altro esempio, che mi piaceva una segretaria, non penso che sia interessante la pubblicazione di questo dialogo».
Si parla di un’imminente indagine nei confronti della sindaca proprio per l’inchiesta sulla sua nominaa capo della segreteria politica, già sconfessata anche dall’Anac. Si sente in colpa?
«No».
L’inchiesta può frenare la giunta grillina a Roma?
«Penso che siano tutti attacchi strumentali, quindi credo proprio di no».
Lei si è immolato sull’altare di Grillo per salvare Raggi?
«Ho pagato, questo è vero. Il mio passo indietro lo considero un atto di responsabilità necessario per consentire alla giunta di andare avanti serenamente. E soprattutto per difendere Virginia dagli attacchi interni
Innanzitutto è molto interessante che un grillino di grande ortodossia come Romeo si dichiari speranzoso che gli omissis non vengano pubblicati perchè non hanno rilevanza penale.
A molti infatti non sfuggirà che per la pubblicazione di notizie senza alcuna rilevanza penale ministri come Lupi e Guidi si sono giustamente dimessi, pagando un prezzo politico per cose magari dette da altri al telefono.
Quando questi fatti erano d’attualità non si levarono voci dal M5S per contestare la pubblicazione di quegli atti.
Oggi un grillino si rende conto che se non c’è rilevanza penale non è il caso di pubblicare segreti. È finita l’epoca dell’#intercettatecitutti insomma, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, simm’ e’ Napule paisà .
Sembra però francamente curioso che Romeo sia terrorizzato dalla pubblicazione di quegli omissis se è vero che ci sono solo complimenti alle segretarie.
Così come è curioso che oggi Romeo dica tranquillamente che saliva con la sindaca sui tetti perchè «Diciamola tutta: sapevamo delle cimici in Comune dal secondo giorno di governo della città . Sul tetto ci saremo andati quindici volte, quel giorno mangiavamo un panino, come sempre, poi è uscita fuori quella foto ed ecco che è scoppiato un caso». Essere a conoscenza di un’indagine, per disvelamento dello stesso Marra, e cercare di ostacolarla finendo sui tetti è un comportamento curioso per un alfiere dell’onestà .
Anche perchè nel frattempo la procura ha smentito tutto: nessuna attività di intercettazione ha riguardato gli uffici del Comune di Roma dopo l’insediamento della giunta guidata da Virginia Raggi, hanno precisato fonti di piazzale Clodio in riferimento all’intervista rilasciata da Romeo.
Il sospetto è che invece in quegli omissis ci sia altro.
Ovvero qualche traccia della guerra interna al MoVimento 5 Stelle che alla vigilia delle Comunarie ha portato poi al consolidamento della candidatura di Virginia Raggi e al ritiro di quella di Frongia.
Ovvero che si parli del rapporto guastato tra molti degli attivisti 5 Stelle e la sindaca, soprattutto dopo la guerra scatenata dai dossier contro De Vito.
Qualcosa insomma che rischi di allargare le crepe che si trovano alla base del MoVimento 5 Stelle Roma e che hanno portato anche alle polemiche nei confronti di Virginia Raggi da parte della sorella della senatrice Paola Taverna, Annalisa.
La sensazione è che il bubbone stia per scoppiare.
E non basteranno gli omissis a frenarlo.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 6th, 2017 Riccardo Fucile
PER PARLARE CON ROMEO ERA ANDATA 15 VOLTE SUL TETTO: DI COSA AVEVA PAURA?… TEMEVANO LE CIMICI, MA LA PROCURA CONFERMA: “NON CI SONO MAI STATE”
Gli uffici del Comune dopo l’insediamento della giunta guidata dalla sindaca Virginia Raggi non sono stati oggetto di alcuna attività di intercettazione da parte della magistratura.
Lo precisano fonti della Procura di Roma in replica al contenuto di una intervista che Salvatore Romeo, ex capo della segreteria del primo cittadino, ha rilasciato al Messaggero e in cui parla, tra l’altro, di una conoscenza di ‘cimici’ in Campidoglio sin dal secondo giorno di governo della Capitale.
“Io e la sindaca Raggi – aveva rivelato Romeo – sapevamo delle cimici in Campidoglio dal secondo giorno. Adesso mi auguro che gli omissis nella chat non vengano svelati perche’ non rilevanti penalmente”.
“Sul tetto ci saremo andati quindici volte, quel giorno mangiavamo un panino, come sempre, poi e’ uscita fuori quella foto ed ecco che e’ scoppiato il caso”, racconta Romeo a proposito dello scatto che lo ritrae con la sindaca di Roma sul tetto del Campidoglio, intento in una conversazione.
“La mia conoscenza con Raffaele Marra – afferma ancora Romeo – è iniziata nel 2013 quando lui era il mio capo dipartimento, la ragione per cui in chat lo chiamavo ‘capo’ abbreviando. Parliamo di un professionista, plurilaureato, sicuramente ci sara’ stato un errore di valutazione evidente da parte mia. Ma i fatti che gli vengono addebitati sono precedenti il suo rapporto con il M5S che nessuno di noi conosceva”.
“Romeo dice che lui e la Raggi sapevano delle cimici in Campidoglio. E come facevano a saperlo?”. Commenta su Twitter il presidente del Pd Matteo Orfini
(da “Huffingtonpost”)
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