Gennaio 11th, 2017 Riccardo Fucile
CINQUE ISCRITTI AL M5S, ASSISTITI DALL’AVV. BORRE’, PORTANO GRILLO IN TRIBUNALE: “ANNULLARE REGOLAMENTO, NON STATUTO E CODICE ETICO”
Bruno Bellocchio, Antonio Caracciolo da Seminara, Ernesto Leone, Alessio Marini e Ivan Pastore sono i cinque iscritti al MoVimento 5 Stelle che, assistiti dall’avvocato Lorenzo Borrè, impugneranno Statuto e Regolamento davanti ad un giudice dove sarà chiamato a rispondere Beppe Grillo in qualità di rappresentante legale dell’associazione M5S.
L’atto di citazione ex articolo 23 C.C. con contestuale istanza di emanazione di provvedimenti cautelari consta di 41 pagine e 12 motivi di contestazione che fanno a pezzi il nuovo Regolamento del MoVimento che nelle intenzioni degli estensori serviva a proteggere Beppe Grillo dai rischi di cause ma rischia di essere annullato, costringendo così i grillini a dover ricominciare da capo l’iter di approvazione.
Senza contare il rischio nullità per le prime sanzioni comminate in forza del regolamento, ovvero quelle nei confronti degli eletti siciliani coinvolti nel caso delle firme false.
Nel testo dell’atto si parte dal racconto della sospensione delle espulsioni degli attivisti di Napoli Libera e di quelli romani e dell’iter di approvazione del nuovo regolamento M5S, segnalando anche la vicenda dell’attivista Leone (detto Tinazzi, animatore del meetup 878), uno di quelli che subì un’espulsione “silenziosa” trovandosi con l’account per accedere al voto disabilitato senza alcuna spiegazione. Poi si passa ai motivi di annullabilità o nullità ; il primo argomento è quello del quorum non raggiunto:
le modalità escogitate da Giuseppe Piero Grillo per procedere all’approvazione del regolamento integrativo dello Statuto (e quindi per la modifica degli artt. 5 e 8 dello Statuto denominato “Non Statuto”) non solo non hanno ottenuto l’unanimità dei consensi degli associati, ma hanno comunque violato le chiare prescrizioni dell’art. 21, 2° comma, c.c., in forza del quale per modificare lo Statuto occorre procedere con delibera assembleare, per la quale “occorrono la presenza di almeno tre quarti degli associati e il voto favorevole della maggioranza dei presenti”, mentre nella fattispecie ha partecipato al voto il 67% degli iscritti (alla data del 31.12.2015).
Anche perchè, spiega l’atto, la votazione on line senza possibilità di discussione preventiva e di proporre modifiche vìola l’articolo 21 C.C. che prevede la compresenza degli associati e la discussione prima del voto.
Per la legge, viene ricordato nel testo, “occorrono la presenza di almeno tre quarti degli associati e il voto favorevole della maggioranza dei presenti”, mentre alle votazioni sul blog per dare il via libera a nuovo regolamento e non statuto “ha partecipato il 67% degli iscritti”.
Per i ricorrenti “le modalità imposte da Beppe Grillo rappresentano invece un mero simulacro di partecipazione democratica che oblitera qualsiasi possibilità di effettiva formazione della volontà interattiva degli iscritti e, in primo luogo, quella funzione di indirizzo decisionale che compete agli associati a norma dello Statuto e che rappresenta il cuore dell’idea associativa”.
Ma Borrè, nell’atto di impugnazione delle nuove regole, tira in ballo anche “la distorsione informativa circa le finalità di votazione”, nonchè il fatto che dal voto siano stati “arbitrariamente esclusi gli associati iscritti tra il 1.1.2016 e il 25.9.2016”.
Quindi nell’atto si illustra la posizione dell’”associato Ernesto Leone”, che non ha mai ricevuto la mail che invitava al voto nonostante fosse a tutti gli effetti ancora un iscritto al M5S: «la mancata comunicazione, anche ad uno solo degli associati, dell’avviso di convocazione dell’assemblea (o della votazione), costituisce violazione delle norme che disciplinano il procedimento comportante l’annullabilità della delibera», spiega l’avvocato Borrè nell’atto, e di certo viene un po’ da sorridere a pensare che alla fine il tribunale potrebbe annullare il voto a causa della mancata convocazione di un iscritto irregolarmente espulso.
Poi l’atto segnala che la contestualità dei quesiti sottoposti a votazione non consentiva di individuare quale fosse il testo del regolamento che avrebbe dovuto integrare lo Statuto:
Orbene, un simile modo di procedere non solo non consentiva oggettivamente di verificare, data la contestualità della votazione per la scelta relativa a due diversi regolamenti, quale dei due avrebbe successivamente integrato lo Statuto al termine della votazione, ma il testo del Non Statuto con le integrazioni sopra richiamate era interattivo e rimandava al testo di un regolamento ancora diverso e cioè di quello di cui l’ordinanza collegiale del Tribunale di Napoli aveva rilevato la nullità .In sintesi, dunque, il pasticcio — ci si perdoni il termine metagiuridico — combinato nella formulazione dei quesiti e nella sottoposizione del testo della versione (modificata) del Non Statuto da approvare non consentiva e non consente di stabilire quale sia stato il testo (rectius: l’integrazione testuale) oggetto di approvazione da parte di ogni singolo votante, di talchè l’indeterminabilità dell’oggetto -e comunque dell’ubi consistam della modifica- comporta l’annullabilità della votazione (e del risultato della votazione ovvero della asserita “delibera”) e quindi delle modifiche statutarie e del Regolamento de quo.
Questa problematica era stata segnalata durante il voto in una serie di articoli di giornali, ai quali i vertici del MoVimento avevano risposto liquidando la questione come “roba da azzeccagarbugli”.
Anche qui, come nel caso di Tinazzi, se alla fine della storia gli “azzeccagarbugli” avessero ragione in tribunale ciò costituirebbe un bello smacco per gli espertoni giuridici dell’ultim’ora.
Ci sono poi le argomentazioni sulla nullità dei commi 6, 7 e 8 dell’articolo 2 del nuovo regolamento, che vìolano, secondo i ricorrenti, il principio paritario dell’”uno vale uno” attribuendo al Capo politico e al Comitato d’appello poteri decisionali superiori a quelli del singolo associato in violazione del principio di pariteticità degli iscritti. I ricorrenti contestano anche l’innalzamento del quorum al 20% degli iscritti quando la legge prevede che sia al 10%.
L’avvocato Borrè segnala anche come sia nullo il secondo comma dell’articolo 3 del regolamento che prevede che l’assemblea sia convocata con 24 ore di anticipo per prendere decisioni: «una simile disposizione comprime gravemente e immotivatamente il diritto di informazione e di partecipazione informata dell’associato (il cosiddetto spatium deliberandi) e, considerate le modalità di invio della convocazione (per posta elettronica ordinaria anzichè via pec, per esempio), non garantisce il diritto di effettiva informazione dell’associato nè consente di verificare, prima dell’avvio delle operazioni di voto, che tutti gli aventi diritto siano stati avvisati».
Uno dei punti più interessanti dell’atto è però quello che riguarda le crepe del regolamento riguardo le sanzioni disciplinari che sono state già comminate ai coinvolti nel caso delle firme false di Palermo: in primo luogo, ragiona l’avvocato, è impossibile sanzionare le “cordate” o gli accordi tra gli iscritti al voto perchè è impossibile definire con certezza cosa sia una cordata; in secondo luogo, la costituzione di “correnti” o gruppi di appoggio a un candidato è comunque tutelata dal principio della tutela delle minoranze delle associazioni; è scorretto, sostiene l’atto, anche immaginare sanzioni per chi vìola gli obblighi assunti all’atto di accettazione della candidatura, visto che gli eletti nelle istituzioni hanno libertà di mandato; ma soprattutto è impossibile sanzionare l’associato “sottoposto a procedimento disciplinare che rilascia dichiarazioni pubbliche relative al procedimento medesimo” perchè purtroppo per Grillo & Co. in Italia vige ancora la libertà di espressione (Alberto Sordi direbbe che la libertà è una bella cosa, peccato che ce ne sia troppa)
Infine l’atto punta il dito su Collegio dei probiviri e Comitato d’Appello, ovvero i due organi che dovrebbero gestire le sanzioni disciplinari e che possono essere composte soltanto da eletti «in quanto viene attribuita una funzione giudicatrice interinale a soggetti che fanno parte di un distinto ente (il gruppo parlamentare M5S) emanazione di una distinta associazione (il Movimento 5 Stelle fondato il 12.12.2012, composto dai soli Enrico Grillo, Beppe Grillo e Enrico Maria Nadasi)».
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 11th, 2017 Riccardo Fucile
ATTO INUTILE E INCOSTITUZIONALE…I PRECEDENTI DELL’IDV….SE POI GRILLO VUOLE DESTINARE 250.000 AI TERREMOTATI PUO’ SEMPRE FARLO DI TASCA SUA, VISTO CHE SE LO PUO’ PERMETTERE
Questa mattina Marco Affronte, eurodeputato del MoVimento Cinque Stelle, ha annunciato che lascerà il gruppo dei grillini per confluire nei Verdi.
Affronte sarà così il primo europarlamentare eletto col M5S a lasciare la delegazione grillina a Bruxelles dopo il tentativo fallito di aderire al gruppo ALDE e la successivo decisione di restare nella formazione euroscettica guidata da Nigel Farage.
Oggi pomeriggio il Capo Politico del MoVimento, Beppe Grillo, ha pubblicato un post sul blog per annunciare l’intenzione di rivalersi nei confronti di Affronte sulla base del contratto firmato dagli europarlamentari che prevede il pagamento di una penale da 250mila prevista per i deputati che non rispettano il Codice di Comportamento.
Come venne fatto anche per i candidati del MoVimento che si sono presentati alle amministrative di Roma e hanno dovuto sottoscrivere una specie di contratto che prevede il pagamento di una penale da 150mila euro anche gli eurodeputati avevano sottoscritto un simile accordo che, nelle intenzioni di Grillo e Casaleggio, avrebbe dovuto che gli eletti una volta arrivati all’Europarlamento decidessero di cambiare partito proprio come accade da sempre nella politica italiana.
Anche Affronte ha firmato il Codice di Comportamento e quindi ora che se ne vuole andare Grillo passa all’attacco chiedendo il pagamento della sanzione da 250mila euro che — fa sapere — verranno poi utilizzati per aiutare i terremotati di Marche e Umbria.
Più facile a dirsi che a farsi visto che la penale per i “traditori” viene considerata addirittura incostituzionale da Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte Costituzionale.
Ma soprattutto si tratta di una misura, già sperimentata dall’Italia dei Valori diversi anni fa che una volta in tribunale si è rivelata essere completamente inutile.
In pratica l’IdV non è mai riuscita ad ottenere un euro dai loro eletti che — pur avendo firmato il patto — avevevano successivamente deciso di cambiare casacca.
Sulla questione di un’eventuale battaglia legale nei confronti di Affronte o di altri europarlamentari che decidessero di lasciare il M5S dopo il fallimento delle trattative con ALDE e il ritorno nel gruppo EFDD assieme a Nigel Farage si è espresso anche Lorenzo Borrè, l’avvocato che patrocinando la causa degli espulsi a Napoli ha costretto il MoVimento a dotarsi di un nuovo statuto e di un nuovo regolamento. Secondo Borrè l’idea della multa non è «nient’altro che uno spauracchio, nei fatti inapplicabile poichè vige la piena indipendenza degli eletti in Parlamento, in Italia come a Bruxelles la clausola penale inserita nel codice di comportamento degli europarlamentari grillini è incompatibile col principio di indipendenza e autonomia degli eletti, ed è in contrasto con l’assenza di vincolo di mandato prevista nel Parlamento Europeo così come dalla nostra Costituzione».
Del resto è assai probabile che prima di decidere di entrare nei Verdi Affronte abbia valutato l’eventualità di essere portato in tribunale per il pagamento della penale. Affronte ha infatti dichiarato alle agenzie di stampa che “il foglio” (così chiama il Codice di Comportamento) vale meno della carta straccia.€
Ad ogni modo anche se sarà difficile riscuotere, se Beppe però vorrà dare lo stesso 250mila euro ai terremotati mettendoli di tasca sua nessuno si offenderebbe.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 11th, 2017 Riccardo Fucile
TANTI CHIEDONO LA TESTA DI BORRELLI, MA I VERTICI DICONO NO
Riunioni di dodici ore al giorno. Permanenti. Come mai era successo prima d’ora. Nelle stanze del Movimento 5 Stelle di Bruxelles si fa di tutto per risanare la crepa che ormai si è aperta nel gruppo degli europarlamentari. Ma sarà difficile.
Per la prima volta, il mondo pentastellato che siede al Parlamento europeo ha fatto i conti con faide interne, riunioni infuocate e addii.
Ad abbandonare, per adesso, sono stati in due: Marco Affronte, che ha aderito al gruppo dei Verdi, e Marco Zanni, il quale dovrebbe avvicinarsi alla Lega Nord. Quanto è successo però potrebbe essere solo l’inizio della slavina, al momento contenuta rispetto a ciò che sarebbe potuto succedere dopo che domenica scorsa Beppe Grillo, a sorpresa, ha messo ai voti l’uscita dal gruppo Efdd per aderire all’Alde, la compagine più europeista che c’è in Ue. Su diciassette eurodeputati altri due questa mattina erano intenzionati a lasciare il Movimento, salvo poi ripensarci in extremis.
Al di là di chi andrà via e di chi resterà , nel gruppo pentastellato c’è una rivolta in atto.
Molti eurodeputati, con il sostegno anche dei parlamentari nazionali, hanno chiesto a Beppe Grillo e a Davide Casaleggio la cacciata dal gruppo di David Borrelli, colui che ha curato la trattativa con Alde.
Trattativa che alla fine si è rivelata disastrosa in quanto la compagine guidata da Guy Verhofstadt si è tirata indietro dando il benservito al Movimento nonostante quest’ultimo avesse già chiesto il voto alla Rete.
Per esempio il riferimento a Borrelli, nelle parole di Tamburrano, è chiaro: “Hanno preparato un accordo schifoso sulla testa della maggioranza di noi Portavoce (di chi?) Europei facendo piombare una domenica mattina una votazione farlocca prendendo per i fondelli noi, decine di migliaia di iscritti, milioni di elettori e lo stesso Beppe Grillo. Chi crede ad altro, è o in cattiva fede o semplicemente un ‘webeta’”.
Tra le righe non c’è solo Borrelli, ma anche l’advisor Francesco Calazzo, che insieme a lui ha curato la trattativa con Alde e che nel pre-accordo ha fatto mettere per iscritto che una parte dello staff pentastellato sarebbe andato a lavorare con il nuovo gruppo.
Nei fatti il malumore è evidente e nel corso delle riunioni senza fine in tanti hanno attaccato Borrelli, da sempre considerato uomo vicino alla Casaleggio associati ed è per questo che nel mirino è finito anche Davide Casaleggio.
Tuttavia da Milano è arrivato lo stop alla cacciata del regista dell’accordo fallito ed è per questo che Tamburrano e Daniela Aiuto hanno meditato di lasciare il Movimento. Infatti il dato che Borrelli non sarà più copresidente del gruppo Efdd non è bastato a calmare i grillini in rivolta.
Alla fine però, i colleghi del gruppo hanno invitato i due a desistere, ma di certo Aiuto era a un passo dall’addio. Tanto che aveva già chiesto ai Verdi di aderire al loro gruppo, che si è riunito votando a favore del suo ingresso.
Insomma, l’ennesimo pasticcio grillino dal momento che pochi minuti dopo il voto Aiuto ci ha ripensato: “Io sto bene qui. Si sta facendo molta confusione”.
Anche Tamburrano ha smorzato i toni: “Crisi finalmente verso risoluzione. Grazie per avermi sostenuto in queste lunghissime e durissime giornate”, ha scritto su Facebook aggiungendo che “abbiamo avuto morti e feriti, perdite importanti che rattristano e fanno male, e speriamo di risanare e tornare finalmente a lavorare”.
Nel gruppo malmesso si aprono a questo punto diverse questioni giuridiche. A cominciare dalla multa di 250mila euro che, secondo Beppe Grillo, Affronte — e non solo lui – dovrebbe pagare per “gravi inadempienze” rispetto al codice di comportamento del Movimento firmato da tutti gli eurodeputati.
Soldi che, per il garante dei Cinquestelle, andrebbero ai terremotati. Ma proprio questo contratto potrebbe essere nullo in quanto, con una scrittura privata, viola un caposaldo del diritto italiano ed europeo quale il divieto di vincolo di mandato.
Lo stesso vale per il contratto siglato dalla sindaca Virginia Raggi, su cui ha presentato ricorso l’avvocato iscritto al Pd Venerando Monello per accertare l’eleggibilità della candidata 5Stelle.
La sentenza del tribunale di Roma è attesa a giorni. Da Bruxelles alla Capitale le spaccature sono tante.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 11th, 2017 Riccardo Fucile
GLI EURODEPUTATI VOTANO COME VERDI E SINISTRA EUROPEA MA GRILLO SI ALLEA UN UKIP E CERCA I LIBERALI
Il passo falso — per non dire la figuraccia — fatto in occasione del mancato accordo con il gruppo dei Liberali al Parlamento europeo, mette in rilievo un totale scollamento tra chi in Europa lavora — gli eurodeputati M5S — e chi in Italia prende le decisioni — Beppe Grillo
Basta guardare i dati.
Da VoteWatch — il sito Internet che monitora le votazioni del 751 eurodeputati — emerge come i 17 eurodeputati del M5S abbiano votato in questi primi due anni e mezzo di legislatura nel 74,2 per cento dei casi come la Sinistra europea (Gue) e al 72,9 per cento come i verdi, mentre solo al 27,1 per cento come gli alleati della prima ora dell’Ukip di Nigel Farage.
Paradossalmente le posizioni dei pentastellati si avvicinano molto di più a quelle dei liberali Alde (50,3 per cento).
Nel post pubblicato sul blog di Beppe Grillo dove veniva presentata all’elettore grillino la possibilità di un’alleanza con i liberali — poi vittoriosa ma rifiutata dai liberali stessi — si legge che i Verdi hanno chiuso la porta al Movimento.
Ma i due copresidenti del gruppo dei Verdi al Parlamento europeo — il belga Philippe Lamberts e la tedesca Ska Keleller — dicono a chiare lettere che il problema non sono gli eurodeputati M5S, con i quali “la collaborazione è eccellente”, bensì Beppe Grillo stesso.
Con la Sinistra europea, invece, il M5S non ha provato neanche a parlare, nonostante tre volte su quattro le posizioni politiche siano le stesse.
Comprensibilmente, i Liberali hanno detto No all’ingresso dei Cinque Stelle sia per la presenza ingombrante di Beppe Grillo — che a livello internazionale non gode di buona reputazione — che per le forti differenze politiche.
La francese liberale Sylvie Goulard parla di “matrimonio d’interesse senza amore”.
A questo punto la domanda che sorge spontanea è una: quanto contano gli eurodeputati pentastellati nelle scelte che li riguardano direttamente e che influenzano le condizioni in cui loro devono lavorare?
Alessio Pisanò
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Gennaio 11th, 2017 Riccardo Fucile
IN SEGRETERIA TENSIONI E ACCUSE INCROCIATE, DUE ESPOSTI AI PM… LE ISPEZIONI AVREBBERO RILEVATO IRREGOLARITA’ NEL TESSERAMENTO
Riunione fiume della segreteria nazionale della Cisl con al centro due temi scottanti: 1) il caso di «dossieraggio e spionaggio» con intercettazioni audio e video illecite ai danni dell’ex segretaria della Cisl Campania, Lina Lucci, denunciato con una lettera da uno dei membri della segreteria, Maurizio Bernava, di cui ha dato notizia ieri il Corriere; 2) il commissariamento della Funzione pubblica, forse la categoria storicamente più importante della Cisl.
Entrambe le questioni testimoniano della tormentatissima fase di lotte interne, senza esclusione di colpi, che il sindacato guidato da Annamaria Furlan sta attraversando, in vista del congresso di giugno dove la stessa Furlan si presenterà per essere rieletta.
Su tutte e due le questioni la segreteria, composta di 8 persone compresa la Furlan, anche ieri si è divisa.
Bernava, che insieme con altri due segretari confederali (Giuseppe Farina e Giovanni Luciano) aveva duramente censurato che nella precedente riunione della segreteria (il 20 dicembre) si fosse discusso del commissariamento della Cisl Campania anche sulla base di intercettazioni secondo lui illecite, è stato attaccato in segreteria da chi ritiene la sua lettera come minimo «inopportuna».
Bernava ha respinto le accuse. «La mia lettera – dice – è un manifesto di argomenti politici di cui si deve discutere al prossimo congresso. La Cisl deve liberarsi di queste pratiche di dossieraggio che, anche se portate avanti da minoranze, danneggiano tutta l’organizzazione. Furlan doveva stare più attenta e prevenire che questo avvenisse. Quanto alla mia lettera, se la denuncia alla procura, come chiedevo il 20 dicembre, è stata presentata il 27, almeno potevano informarmi».
Bernava dice quindi di aver chiesto assicurazioni a Piero Ragazzini, membro della segreteria e commissario in Campania, che alla procura di Napoli abbia consegnato «tutto ciò che è stato mostrato in segreteria, comprese le intercettazioni audio e video, dichiarando anche da chi eventualmente gli siano state fornite». Ragazzini, prosegue Bernava, «mi ha detto che così ha fatto e quindi va bene».
Adesso la parola passa alla magistratura.
Sia sul merito dell’esposto, che ipotizza l’appropriazione indebita di risorse della Cisl Campania da parte della Lucci, sia sulla liceità delle intercettazioni.
Alla procura di Napoli si è rivolta anche l’ex segretaria della Cisl Campania. «Ho chiesto – dice Lucci – il sequestro dei documenti e dei video per conoscere l’identità di chi ha formato il dossier e ha fatto riprese abusive. Tutta la segreteria, Furlan compresa, dovrà testimoniare su quanto accaduto il 20 dicembre in segreteria. Quanto a contestazioni su presunte appropriazioni indebite, ci rido sopra. Non mi sono mai occupata di amministrazione, lo facevano due segretari con delega e un funzionario».
La proposta di un nuovo commissariamento, ancora più importante perchè riguarda la Funzione pubblica, è stata fatta da Furlan sulla base delle ispezioni mandate alla categoria, che avrebbero documentato irregolarità nel tesseramento: si parla di 50 mila iscritti in meno rispetto ai 309 mila dichiarati.
Il segretario della Funzione pubblica, Giovanni Faverin, respinge le accuse, rivendica l’operazione di pulizia degli archivi e chiede si faccia altrettanto nelle altre categorie della Cisl. La richiesta di commissariamento sarà portata nel consiglio esecutivo convocato d’urgenza per domani pomeriggio.
Anche su questa proposta la segreteria si sarebbe divisa, con Farina e Luciano contrari e Bernava astenuto. Resta da capire se il gruppo di dissidenti nella segreteria punti a costringere Furlan a scendere a patti in vista del congresso o a un cambio di leadership.
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 11th, 2017 Riccardo Fucile
IL 12% HA PRESENTATO UN CERTIFICATO DI INIDONEITA’… NIENTE REGOLAMENTAZIONE DEL TRAFFICO, SOLO LAVORO D’UFFICIO
Non solo i netturbini di Palermo, il personale sanitario della Calabria, gli operai del Comune di Como o gli infermieri di Pescara.
Nell’Italia degli imboscati ci sono anche i vigili urbani di Roma.
Sono 700 su 5.800 gli uomini e le donne della polizia Locale che hanno presentato al comando un regolare certificato di “inabilità “. Pari al 12%. Uno ogni sette.
Tutto personale spostato dalle strade della capitale perennemente ingolfate di traffico, agli uffici e nei settori amministrativi.
Perchè con il “via” del medico, non sono ritenuti idonei a svolgere il servizio di pattuglia, ai posti di blocco o agli incroci.
Risultato? Strade sguarnite di agenti e uffici per la compilazione di moduli e certificazioni al completo.
Anche in questo caso, non c’è nessuna anomalia: le norme prevedono la dichiarazione di inabilità e quindi il trasferimento di mansione.
Ma il fenomeno solleva più di un interrogativo, anche se per i sindacati di settore è tutto regolare.
“L’età media del corpo della polizia Municipale è di 53 anni” spiega Stefano Giannini del Sulpl “per questo molti certificati sono richiesti per ernie del disco e malattie cardio-circolatorie. I controlli medici sono disposti dallo stesso Comune e solo attraverso il personale competente. Non c’è possibilità nè di eluderli nè di alterarli in alcun modo. Rispetto alla media nazionale il numero è comunque contenuto”.
In effetti Roma, tra le altre grandi città italiane, non è in cima alla classifica dei pizzardoni dichiarati inabili al servizio in strada.
Ma una spiegazione c’è: il Campidoglio non accorda straordinari agli agenti in servizio negli uffici. Vengono riconosciuti solo al personale di pattuglia: in pratica, senza paletta e fischietto, lo stipendio resta quello base.
Eppure il dato capitolino resta significativo. Soprattutto guardando indietro a un passato neanche troppo lontano, alla notte di Capodanno del 2014.
Quel giorno, presentando certificati medici più o meno veritieri e inviando giustificazioni last minute all’amministrazione capitolina, l’83,5 per cento dei caschi bianchi si autocongedò dal servizio: 767 vigili si diedero malati. Ne erano previsti 900 quella notte. Così la macchina dei festeggiamenti allestita dal Campidoglio andò in tillt: i caschi bianchi avrebbero dovuto sorvegliare i Fori Imperiali, cinturare la maxi-arena del concertone al Circo Massimo e gestire il traffico della notte più congestionata dell’anno. Nulla di tutto ciò.
Il caso dei pizzardoni fantasma sollevò una feroce polemica. E poi arrivò l’inchiesta: secondo le carte, il 97% di quei certificati erano regolari.
Così vennero rintracciati pure i 22 medici che firmarono quei permessi. Tutti rinviati a giudizio e accusati di aver compilato certificati irregolari, consentendo ai caschi bianchi di saltare il turno di lavoro a San Silvestro.
L’inchiesta è ancora aperta ma, a oggi, soltanto un vigile urbano è finito a processo con le accuse di falso e di violazione dell’articolo 55 della legge Brunetta: per non prestare servizio la notte di San Silvestro aveva deciso di donare il sangue.
Tutti regolari invece risultano quelli rilasciati per l’inabilità a Roma nel 2016: “Non c’è da scandalizzarsi – conclude Giannini – il numero delle richieste anzi è destinato a crescere perchè, senza un nuovo organico, non ci sarà ricambio. Noi chiediamo sempre controlli maggiori. Perchè c’è sempre il rischio che qualcuno possa approfittarne”
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 11th, 2017 Riccardo Fucile
L’ESPONENTE DI NCD NON SARA’ PROCESSATO PER CALUNNIA, MEZZO PD E’ ARRIVATO IN SUO SOCCORSO
Il Senato “salva” il senatore Ap-Ncd Gabriele Albertini dal processo a suo carico per calunnia aggravata, nonostante le accuse rivolte al pm di Milano Alfredo Robledo che gli sono costate la querela, siano state pronunciate da Albertini quando ancora era parlamentare europeo.
L’Aula di Palazzo Madama, con 185 sì, 65 no e 2 astenuti, ha approvato la decisione della Giunta per le Immunità presieduta da Dario Stefano (Misto) che il 25 ottobre scorso si era pronunciata a favore dell’insindacabilità .
La maggioranza, ma soprattutto il Pd, si divide. Dei 94 Dem presenti, più di un terzo non “salva” Albertini: 17 votano contro e uno si astiene, mentre 18 non partecipano alla votazione.
Albertini nel 2012 presentò un esposto al ministero della Giustizia, perchè secondo lui Robledo non aveva gestito correttamente tre fascicoli tra cui quello sull’acquisto di quote della società Autostrada Serravalle da parte della Provincia di Milano, allora guidata da Filippo Penati.
Robledo si sentì calunniato e querelò l’ex sindaco. L’ex sindaco di Milano, allora eurodeputato, si rivolse al Parlamento europeo per ottenere l’immunità , ma gli fu negata. Per invitare il Senato a fare lo stesso, visto che Albertini non era senatore all’epoca dei fatti, venne presentata una petizione con centinaia di firme promossa da Paolo Pollice, ordinario di Diritto Civile all’Università di Napoli Federico II.
“L’immunità retroattiva — spiegò — significa una totale impunità anche per reati commessi prima di entrare in Parlamento”.
Il senatore di Ap-Ncd aveva chiarito che senza l’insindacabilità avrebbe tolto il suo appoggio alla maggioranza.
Alla prova del voto però il Partito democratico è risultato diviso sulla questione.
E la divisione ci fu già in Giunta, dove il primo relatore designato Guido Pagliari decise alla fine di rinunciare all’incarico. Felice Casson votò contro, esattamente come oggi in Aula, e definisce la relazione della Giunta una “incredibile arrampicata sugli specchi”.
La decisione del Senato rischia ora di diventare un “pericoloso precedente“, si spiega tra i contrari all’insindacabilità , visto che su Albertini si era già pronunciato il Parlamento europeo che aveva negato l’immunità in sede penale e in quella civile.
Da ottobre ad oggi il “caso Albertini” era stato fatto slittare più volte.
Poi, si osserva nell’opposizione, “una volta passato il referendum e ora che si è alla vigilia della sentenza si è deciso di votare. E senza che sia stato messo in calendario un altro “fascicolo caldo” della Giunta, deciso prima del “caso Albertini”: quello che riguarda la decadenza dal mandato di senatore di Augusto Minzolini, a cui nessun gruppo però fa più cenno.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 11th, 2017 Riccardo Fucile
LA RAGGI PAGA LA MARCHETTA AL SINDACATO DI BASE CHE AVEVA VOTATO CINQUESTELLE
Nulla di nuovo sotto il cielo di Roma.
Passano gli anni, le giunte cambiano, ma l’Ama – la principale azienda di servizio pubblico insieme ad Atac – si conferma la mucca da mungere per una certa politica, che a dispetto di una città sempre più sporca continua a ingrassare le buste paga di dipendenti e manager pur di ingraziarsene il favore, a prescindere dai risultati.
Accade così che, dal primo gennaio, i netturbini della capitale guadagneranno di più – come da nuovo contratto nazionale di lavoro – ma senza dover spazzare neppure un minuto oltre le attuali 36 ore settimanali previste dal vecchio accordo.
Mentre i manager da 100mila euro in su, che due anni fa avevano subito una decurtazione media del 7%, sono già tornati a stipendio pieno perchè il taglio stabilito nel 2014 dall’ex presidente Daniele Fortini non è stato rinnovato.
Risultato? Nel primo caso Ama sborserà circa mezzo milione in più a produttività invariata; nel secondo caso, intorno ai 200mila euro.
Una cuccagna per l’esercito dell’Ama, mentre Roma annega tra i rifiuti.
Ma partiamo dall’inizio. Tutto avviene tra Natale e Capodanno, quando l’amministratore unico Antonella Giglio firma un ordine di servizio (il n.186) per informare i dipendenti che “la tempistica per l’applicazione” dell’aumento dell’orario di lavoro a 38 ore settimanali previsto “nel quadro del rinnovo del Ccnl Servizi Ambientali” è “stata oggetto di valutazione da parte del Comune di Roma”.
Il quale, insieme ad Ama, ha “ritenuto opportuno e necessario che l’avvio del nuovo orario venisse preceduto da una più approfondita fase di confronto che tenga conto di una riorganizzazione dei servizi “.
Si tratta, in sostanza, della traduzione dell’intesa siglata dalla Giglio con i sindacati il 23 dicembre. Giorno in cui l’avvocata, dopo aver estromesso il direttore generale Stefano Bina, decide di congelare fino al 28 febbraio – con una procedura del tutto inedita e a forte rischio di danno erariale – l’accordo nazionale firmato il 10 luglio scorso.
Accordo che prevede di allungare di due ore l’orario di lavoro settimanale (per un totale di 8 ore mensili in più) a fronte di un incremento salariale di 25 euro al mese, più una “una tantum” di 200 euro: 100 già corrisposti in estate, altri 100 a gennaio.
Il fatto è che a Roma, a differenza che nelle altre città , la produttività non è aumentata, ma gli stipendi sì.
Per un costo che, moltiplicando i 50 euro di gennaio e febbraio per i 7.900 lavoratori di Ama, fanno quasi 400mila euro: tanto vale il bimestre di stop.
Senza considerare gli 800mila euro della seconda tranche di “una tantum” che verrà pagata questo mese a titolo di arretrati.
Una mossa parecchio azzardata. Che regala un grande potere ai sindacati, i quali potranno ora trattare sui nuovi orari e sulla riorganizzazione aziendale da una posizione di forza, avendo già incassato lo scatto di stipendio. Frutto, anche, della guerra per bande che da mesi tiene in ostaggio la municipalizzata di Via Calderon della Barca.
Da una parte il dg Bina, esponente della cordata dei milanesi, che aveva iniziato la concertazione, proponendo di aggiungere 16 minuti alla fine di ogni turno di servizio; dall’altra, la cordata romana guidata dalla amministratrice Giglio (in squadra con l’ex assessora Paola Muraro e gli studi legali vicini alla sindaca Virginia Raggi) che ha deciso di prendere in mano la partita e di piegarsi al volere dei sindacati: in particolare la Usb, che tirò la volata al M5S in campagna elettorale, contribuendo all’elezione di un paio di consiglieri comunali.
È soprattutto con loro che la Giglio si è consultata per portare al termine il blitz sul blocco della produttività .
Un altro dazio pagato alla vittoria grillina in Campidoglio.
Ma non finisce qui.
Al danno si aggiunge infatti la beffa sull’aumento della retribuzione dei 15 superdirigenti dell’Ama. I quali, per due anni, hanno dovuto subire una sensibile riduzione degli stipendi: del 5% quelli superiori ai 100mila euro; del 10% quelli sopra i 150mila.
Un taglio deciso a giugno del 2014 dall’ex presidente Daniele Fortini, che valeva più di 100mila euro l’anno. Una volta scaduto l’accordo, Fortini stava lavorando per ripristinarlo. Ma poi la situazione è precipitata e lui, a settembre, è stato cacciato.
Con somma gioia dei manager Ama, la cui busta paga è tornata ai massimi. Scatenando la rivolta del segretario della Fp Cgil Natale Di Cola, che a novembre, in una lettera alla Giglio, ha chiesto “di intervenire in maniera marcata sui compensi dei dirigenti, spesso abnormi rispetto ai reali obiettivi raggiunti”.
Risposta? Nessuna.
Tanto Ama paga. E i romani pure.
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 11th, 2017 Riccardo Fucile
BASTAVA LIMITARSI A CHIEDERE L’ABROGAZIONE DELLA NORMA SENZA RENDERLO PROPOSITIVO CON LA RIASSUNZIONE NELLE AZIENDE CON PIU’ DI CINQUE DIPENDENTI
Il referendum sull’articolo 18 non si farà : la parte bocciata non si limitava ad abrogare la norma introdotta dal governo Renzi, ma aggiungeva – con un eccesso di zelo che oggi la Corte ha punito – di estendere la possibilità di essere riassunti anche nelle aziende con più di cinque dipendenti, trasformando così il quesito da abrogativo a propositivo.
Un errore che si poteva benissimo evitare.
Ma anche uno schiaffo morale ai 3,3 milioni di italiani che si erano affidati fiduciosi alla Cgil.
Questa era l’occasione, per il più grande sindacato, di riconciliarsi, nel fuoco di una grande battaglia referendaria, con buona parte dei lavoratori che gli hanno voltato le spalle in questi anni.
Sarebbe bastato poco in fondo: telefonare a un bravo giurista.
Concetto Vecchio
(da “La Repubblica”)
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