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INTERCETTAZIONE SCARPELLINI INGUAIA MARRA: “LA CASA REGALATA PER TENERLO BUONO”

Gennaio 5th, 2017 Riccardo Fucile

COSI IL COSTRUTTORE DICEVA ALLA SEGRETARIA

Sergio Scarpellini pagava Raffaele Marra. A dimostrarlo una telefonata del 2013, intercettata dai carabinieri del nucleo investigativo di Roma, tra il costruttore e la sua segretaria, Ginevra Lavarello. Scarpellini a domanda precisa della Lavarello, che chiede conto della casa data a Marra, risponde: «Bisogna tenerlo buono, altrimenti poi in Comune si blocca tutto». Su questa intercettazione telefonica si fondano in buona parte le accuse del procuratore aggiunto Paolo Ielo e del pm Barbara Zuin che hanno chiesto al tribunale del riesame di respingere la richiesta della difesa di scarcerare l’ex braccio destra della Raggi che dal costruttore ricevette 367.000 euro nel 2013 per l’acquisto del’appartamento in via dei Prati Fiscali.
Nonon solo. Nei nuovi atti depositati dalla procura ci sono anche messaggi   Wath-sapp tra l’ex capo del personale e l’inquilino dell’immobile acquistato dallo stesso Marra nel 2009 dall’Enasarco a un prezzo troppo conveniente (780.000 euro invece che 1.200.000 euro) grazie ai buoni uffici di Scarpellini, e poi messo a reddito a 2.100 euro al mese. L’episodio non è penalmete rilevante, ma mette in evidenza il òegame molto forte tra Marra e Scarpellini.
Marra non era però l’unico dirigente comunale a lobro paga di Scarpellini, ci sarebbero altre dieci persone, tra cui 4 politici e 6 funzuinari comunali, pagati per avere via ibera alle pratiche.

(da “La Stampa”)

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“COSI’ MARRA SUGGERIVA LE MOSSE A VIRGINIA RAGGI”

Gennaio 5th, 2017 Riccardo Fucile

ALCUNE DELLE DISCUSSIONI VIA WHATSAPP RIVELANO IL RUOLO DI “CAPO” DI MARRA NELLE NOMINE IN CAMPIDOGLIO

Repubblica Roma oggi parla delle conversazioni tra i quattro amici al bar, ovvero Raffaele Marra, Salvatore Romeo, Daniele Frongia e Virginia Raggi.
Nell’articolo di Scarpa e Vincenzi si riportano alcune delle discussioni via Whatsapp tra l’ex capo di Gabinetto della Giunta e il dipendente comunale che si è ritrovato con lo stipendio triplicato dopo la promozione a capo della segreteria politica della sindaca e si è successivamente dimesso.
La procura è convinta che Marra fosse uno che sul colle più alto della città  aveva un grande potere. Gli accertamenti dei carabinieri di via in Selci depositati ieri dalla procura al tribunale del Riesame (che entro l’8 gennaio dovrà  decidere sulla richiesta di scarcerazione avanzata dalla difesa dell’ex capo del personale), dimostrano esattamente questo. Cosa della quale, sostiene l’accusa, era al corrente anche il costruttore Sergio Scarpellini che quel potere voleva sfruttare in tutti i modi.
Le indagini dell’Arma hanno, infatti, dimostrato non solo che il capo della segreteria politica della Raggi Salvatore Romeo si rivolgeva a Marra chiamandolo “capo”, ma anche che lui si era fatto da tramite, durante la campagna elettorale per far arrivare alla candidata pentastellata una serie di consigli.
Sulle strategie per vincere le elezioni e anche, durante il ballottaggio, su come rispondere a Roberto Giachetti, suo avversario nella corsa a sindaco.
Insomma, secondo il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Barbara Zuin, Marra era uomo di fiducia della prima cittadina.
Tanto che, nel suo cellulare sequestrato il 16 dicembre scorso, giorno dell’arresto per corruzione dell’ex vicecapo di gabinetto, Raggi è memorizzata in rubrica con il nome “mio sindaco”.
Come a rivendicare il merito di averla forgiata. Un contributo, il suo, che Virginia Raggi apprezza parecchio: è Romeo stesso a dire a Marra, dopo la vittoria, che la sindaca gli ha riferito che «tutti gli assessori se lo litigano per averlo come capo di gabinetto».
Nell’articolo si racconta che hli scambi via Whatsapp tra Marra e Romeo sono piuttosto frequenti. E coinvolgono anche dossier su cui la magistratura ha già  acceso un faro, come le nomine in Campidoglio:
Nella chat tra i due, i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale hanno trovato uno schema con una nuova ripartizione dei dipartimenti comunali, che l’ex capo del personale chiama “macrostruttura”.
Effettivamente, la Raggi, a inizio novembre, ha firmato le delibere che danno il via alla rotazione dei dirigenti e ridefiniscono la riorganizzazione della macchina amministrativa del Campidoglio. Si chiama proprio “macrostruttura”.
Ed è proprio su questo che Virginia Raggi si gioca la possibile conte stazione di falso: a metà  dicembre la sindaca ha consegnato all’Anac una memoria difensiva in cui spiegava che le nomine (a partire dal quella di Renato Marra, fratello dell’ex capo delle risorse umane capitoline) erano state tutte decise da lei.
E che il contributo dell’ufficio del personale, e in particolare di Raffaele Marra, era stato «meramente tecnico».

(da “NextQuotidiano”)

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SOLDI AI POVERI? IL PIANO DEL GOVERNO E’ LA SOLITA MANCETTA CHE NON RISOLVE IL PROBLEMA

Gennaio 5th, 2017 Riccardo Fucile

SERVONO SETTE MILIARDI DI RISORSE PER IL REDDITO DI INCLUSIONE, STANZIARE SOLO IL 30% E’ PRENDERE IN GIRO IL PROSSIMO

Un reddito di inclusione che dia soldi ai poveri. Il primo a parlarne è stato il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina in un’intervista a Repubblica: «Dobbiamo concretizzare in tempi rapidi il reddito di inclusione per svoltare con gli strumenti di contrasto alla povertà , in sostegno di famiglie e persone in grave difficoltà  economiche. Un gran lavoro è stato fatto dal governo Renzi: con la legge di stabilità  2016 abbiamo definito un fondo da 1 miliardo 150 milioni. Adesso quel lavoro deve dare i suoi frutti».
Gli fa eco oggi sulla Stampa Tommaso Nannicini, che ha lasciato Palazzo Chigi per tornare all’Università  Bocconi ma è coordinatore del programma della segreteria del Partito Democratico: «Sono d’accordo con Martina che la politica debba dare una risposta al grido d’allarme dell’Alleanza contro la povertà , perchè il costo dell’instabilità  politica non sia pagato dai poveri. Ma ci sarebbe un modo semplice per farlo. La delega non è arenata, manca solo l’ultimo miglio: il Senato potrebbe approvare il testo della Camera così com’è e il governo impegnarsi a varare il decreto attuativo sul reddito d’inclusione in un mese».
Secondo Nannicini «ci sono a disposizione un miliardo e ottocento milioni di euro con i quali possiamo dare sostegno monetario all’85 per cento delle famiglie con redditi al di sotto dei tremila euro l’anno. Poi, con altri 300 milioni possiamo arrivare al 100 per cento di quelle 500 mila famiglie. Un passo fondamentale verso quella misura unica di contrasto alla povertà  di cui si parlava da anni».
Anche per decreto, se necessario. Favorevole anche Carlo Calenda.
Ma c’è un problema: il reddito di inclusione di cui i ministri stanno parlando servirà , sì, ma soltanto a talune delle famiglie in povertà : «Si tratterà  di un sostegno finanziario non assistenziale, che dovrà  rispettare determinati criteri e che coinvolgerà  nella prima fase famiglie con minori. — ha spiegato Martina — Per ampliare poi il bacino con l’aumento delle risorse. In questi anni la sperimentazione del Sia (Sostegno per l’inclusione attiva) è stato un passo importante in alcune città ».
Un provvedimento che un po’ puzza di mancetta elettorale, visto che ci si aspetta di andare al voto a breve.
Ma in questi anni la povertà  in Italia è cresciuta.
Nel 2007 erano 1,8 milioni le persone sotto la soglia di indigenza assoluta calcolata dall’ISTAT, adesso siamo a 4 milioni e 598mila cittadini, il 7,6% della popolazione, pari a 1,8 milioni di famiglie.
Qualche giorno fa Repubblica ha pubblicato una infografica a corredo di un articolo di Filippo Santelli che visualizza l’incidenza della povertà  assoluta tra le famiglie per classe di età  del capofamiglia.
L’istituto fissa la soglia della povertà  assoluta calcolando il valore a prezzi correnti di un paniere di beni e servizi considerati essenziali per un nucleo familiare, valutando numero ed età  dei componenti e capoluogo di residenza.
Per una famiglia di due figli in una città  del Nord è 1534 euro, al Sud scende a 1184 euro. Per un single la soglia è fissata a 787 euro.
Insomma, lo stanziamento del governo va a toccare soltanto una piccola parte di chi ne avrebbe la necessità .
Prima, la povertà  toccava solo alcune parti della nostra società , ora le raggiunge tutte. Ha risparmiato solo i più anziani, i nuclei con capofamiglia sopra i 65 anni.
Ma ha travolto le nuove generazioni: lì dove il capofamiglia ha meno di 44 anni è salita in otto anni dal 3,2 all’8,1%; dove ha meno di 34 anni si è impennata dall’1,9 al 10,2%.
In quelle case vivono oltre un milione di minorenni per cui ogni mese è a rischio l’accesso ai beni di prima necessità . Il reddito di inclusione attiva che il governo vuole utilizzare per sostenere questi nuclei familiari non basterà .

Un assegno mensile del valore massimo di 400 euro per famiglia che cerca di uscire dalla logica dell’assistenzialismo, chiedendo ai beneficiari di impegnarsi nella formazione e nella ricerca un impiego, e di far rispettare ai figli gli obblighi di frequenza scolastica.
Testato nel 2013 dal governo Letta in dodici grandi città , l’anno scorso la sperimentazione è stata estesa dal governo Renzi sotto l’etichetta di sostegno per l’inclusione attiva, con risorse per 750 milioni.
L’esecutivo ora vuole rendere il reddito di inclusione strutturale dal 2017, accelerando l’iter della delega in Senato o agendo con un decreto. Lo stanziamento già  nero su bianco di oltre un miliardo permetterà  di allargare la platea dei beneficiari.
Nel 2016 l’assegno, 80 euro al mese per ogni componente della famiglia, doveva raggiungere circa 200 mila nuclei con reddito Isee inferiore ai 3mila euro l’anno, e almeno un figlio minorenne. Fanno poco più di 800 mila individui, di cui la metà  under 18. Con le risorse extra quei numeri potrebbero salire della metà . Ma non basterà  ancora per sostenere tutti i minori in povertà . E tanto meno permetterà  di raggiungere l’intera platea delle famiglie in difficoltà .
Secondo i calcoli dell’Alleanza contro la povertà , il gruppo di 35 associazioni che per primo ha proposto il reddito universale di inclusione, presente in quasi tutta Europa tranne Italia e Grecia, anche con 1 miliardo e mezzo si coprirebbe solo il 30% dei nuclei. Per renderlo strutturale ci vorrebbero circa 7 miliardi l’anno, lo 0,4% del Pil. Più o meno la distanza che oggi corre tra la spesa pubblica destinata alla lotta contro la povertà  in Italia (lo 0,1% del Pil) e la media comunitaria (0,4%).
Insomma con il miliardo e ottocento milioni di Nannicini si arriverebbe a toccare il 35% dei nuclei che hanno necessità , mentre lo stanziamento necessario per aiutare tutti ammonta a sette miliardi.
Se il governo conosce questi numeri, scoprirà  facilmente la differenza tra la copertura di una necessità  e l’ennesima mancetta elettorale.

(da “NextQuotidiano”)

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BIRMANIA, LA MORTE DEL PICCOLO MOHAMMED ROMPE IL SILENZIO SULLA TRAGEDIA DEI ROHINGYA

Gennaio 5th, 2017 Riccardo Fucile

E’ ANNEGATO A 16 MESI MENTRE CON LA FAMIGLIA CERCAVA DI FUGGIRE DALLA REPRESSIONE… IN QUESTO CASO I PERSEGUITATI SONO I MUSULMANI E I KILLER I BUDDISTI

Il corpo di un bambino di pochi mesi annegato quando la sua famiglia cercava la salvezza fuggendo dall’oppressione e dalla repressione. Lo avevamo già  visto.
Allora, nel settembre 2015, si chiamava Alan Kurdi, oggi Mohammed Shohayet. Come allora, il mondo presta attenzione, si commuove. Sinceramente, di certo, ma è anche legittimo chiedersi come mai questi due piccoli siano riusciti a rompere quel muro di sostanziale indifferenza che caratterizza questo nostro tempo – il tempo di una protratta, atroce strage di innocenti dalla Siria allo Yemen.
Si ripropone qui per chi fa un giornale un problema di etica professionale, nel senso che non è facile giustificare quella che può sembrare la concessione a una commozione che sappiamo troppo episodica e troppo poco coerente rispetto a una sistematica sordità  morale fatta di ignoranza ed egoismo.
È giusto resistere alle tentazioni del conformismo patetico, ma è anche vero che la solidarietà  umana può scattare solo se l’astratto si trasforma in concreto, solo se i bambini morti, i tanti bambini morti per noi senza volto e senza nome, diventano Alan e Mohammed.
La commozione però dovrebbe diventare la premessa di una presa di coscienza sia morale che politica.
Certo, la responsabilità  è direttamente proporzionale al potere di cui si dispone per incidere sulla realtà , e oggi più che mai la sensazione degli individui – in questo mondo sempre più ingovernabile – è quella dell’impossibilità  di contare e di agire. Ma siamo davvero così irrimediabilmente impotenti?
Quanto meno in quella ristretta parte del mondo in cui esiste ancora la figura del cittadino ed è possibile pronunciarsi sulle scelte politiche, solidarietà  o chiusura sono due strade ugualmente praticabili, costituiscono anzi una componente sempre più importante del dibattito politico.
Lo spostamento attraverso le frontiere di grandi masse umane, sia rifugiati che migranti, ci chiama in causa soprattutto alla luce della drammatica contraddizione che sta alla radice del presente disordine mondiale: quella fra la realtà  globale dei grandi fenomeni – dalla sicurezza all’ambiente, dalla finanza alle pandemie – e il persistere di una struttura non solo politica, ma anche etico-culturale, che ancora riconosce solo istituzioni e appartenenze identitarie di tipo parziale, nazionale quando non tribale. Quei bambini a faccia in giù su una spiaggia o sulla riva di un fiume (o quelli dilaniati dai bombardamenti in Siria o in Yemen) sono nostri, ci appartengono, così come appartengono a tutti gli italiani le vittime del terremoto in Umbria.
Ma la presa di coscienza di tipo morale non può avvenire senza la conoscenza.
Qui la responsabilità  di chi fa informazione è primaria e indiscutibile. Così come si è cercato di spiegare perchè Alan è annegato vicino alla costa turca oggi è doveroso raccontare le vicende che hanno portato Mohammed a morire in un fiume che divide la Birmania dal Bangladesh.
Posti lontani, ma dove le tragedie umane non sono poi così diverse da quelle che vediamo sulle coste del Mediterraneo.
Sono tragedie che sempre rientrano nella categoria della violazione di diritti umani, in particolare nella negazione dei diritti delle minoranze.
In Myanmar, un paese a maggioranza buddista che un tempo si chiamava Birmania, vivono oltre un milione di musulmani, i Rohingya. Ci vivono da lungo tempo, ma non vengono riconosciuti come cittadini e li si considera immigrati privi di diritti. Vengono discriminati e sono oggetto di una repressione dura e indiscriminata.
Certo, la Birmania è stata retta a lungo – e tuttora lo è nonostante alcune limitate riforme politiche – da un duro regime militare, ma attribuire esclusivamente il problema a un regime dittatoriale sarebbe troppo ottimista e falsamente consolatorio. Purtroppo l’esclusione e la discriminazione nei confronti di chi è diverso non è monopolio di una sola cultura o di una sola religione.
Condanniamo giustamente l’intolleranza del radicalismo islamico nei confronti dei cristiani, ma in questo caso i musulmani sono gli oppressi, mentre gli oppressori appartengono alla religione che più viene associata alla pace e alla comprensione universale: il buddismo.
Tutte le religioni hanno avuto storicamente una versione intollerante e il buddismo evidentemente non fa eccezione.
Nel caso della Birmania, poi, risulta particolarmente scoraggiante constatare che anche una vera eroina del dissenso, Aung San Suu Kyi, nel 1991 Premio Nobel per la pace, non è capace di sottrarsi a una visione sostanzialmente settaria.
Ha lottato con coraggio, pagandolo con lunghi anni di reclusione a domicilio coatto, per la libertà  del proprio popolo, ma evidentemente per lei i musulmani non fanno parte del suo popolo e il perimetro della sua solidarietà  e del suo impegno politico e morale non si estende oltre a quelli che lei considera affini per cultura e religione.
Lo stesso limite e lo stesso problema, ovunque.
Se non sapremo affrontarlo con intelligenza e coraggio politico il disordine e la violenza continueranno, e non basterà  certo a salvarci la commozione di fronte all’immagine di bambini morti.

(da “La Repubblica”)

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IL PIANO DEL GOVERNO SUI CIE: “GARANTE DEI MIGRANTI E STRUTTURE DA 100 POSTI”

Gennaio 5th, 2017 Riccardo Fucile

“TRATTENUTI SOLO I SOGGETTI PERICOLOSI”… MA RESTA IL PROBLEMA DEI REIMPATRI VERSO I PAESI DOVE NON VI SONO ACCORDI DI RIAMMISSIONE… E NESSUNO CHIEDE PIU’ ALL’EUROPA DI MANTENERE GLI IMPEGNI DI SUDDIVISIONE DEI PROFUGHI

Un garante dei diritti degli immigrati in ogni Cie. Una commissione permanente nazionale che ne controlli gli standard umanitari interni.
Piccoli centri d’espulsione in ogni regione, eccetto Valle d’Aosta e Molise, da 80-100 posti al massimo. Trattenimento dei soli immigrati irregolari che siano anche pericolosi socialmente.
Condivisione del piano del Viminale con tutti gli enti locali, a partire dalla conferenza Stato-Regioni del prossimo 18 gennaio.
Dopo le proteste di alcuni governatori, si definisce meglio la road map della nuova macchina delle espulsioni al quale lavora il ministro dell’Interno Marco Minniti.
Un passo indietro. A fine anno, il Viminale ha annunciato il piano di riapertura dei Centri d’identificazione ed espulsione (oggi in gran parte chiusi), al fine di raddoppiare il rimpatrio di irregolari. Un ritorno alla “stagione dei Cie”, criticato da sindaci, governatori e associazioni impegnate nell’accoglienza. Ieri anche il Movimento 5 Stelle ha attaccato il piano che alimenterebbe “sprechi, illegalità  e mafie”.
Ora il pacchetto si profila meglio e non mancherebbero correttivi che, nelle intenzioni del Viminale, escludano il “pericolo lager” nella reclusione degli immigrati.
Innanzitutto i nuovi Cie saranno piccoli, con massimo 100 posti. “Evitiamo così pericolose concentrazioni come a Cona – spiegano i tecnici del Viminale – ma anche costosi trasferimenti di irregolari rintracciati in una regione senza Cie ad altra che ospita un centro”. Non solo.
“Dentro i Cie vedremo solo immigrati senza documenti che presentino un profilo di pericolosità  sociale, come spacciatori o ladri. Non troveremo, per capirci, la badante irregolare”.
Il piano, per evitare barriere locali, verrà  condiviso con i governatori a partire dalla conferenza Stato-Regioni del 18 gennaio.
E ancora: per andare incontro alle preoccupazioni delle associazioni, si prevede di istituire una commissione permanente centrale e un garante per ogni Cie a tutela delle condizioni di trattenimento.
Ma perchè il piano non si riveli una scatola vuota, il ministro dell’Interno sa che deve lavorare ad accordi di rimpatrio con i principali Paesi d’origine dei flussi altrimenti i nuovi centri serviranno a poco.
I due principali “buchi neri”, confidano al Viminale, sono Afghanistan e Pakistan: con gli immigrati di queste nazionalità  si proverà  a incentivare i rimpatri volontari per i quali non serve accordo col Paese di riammissione (si paga il viaggio al migrante e gli si dà  una “dote” di 3mila euro).
E chi ha diritto all’asilo? Il ministro dell’Interno sta lavorando a un provvedimento che professionalizzi le commissioni territoriali d’asilo e velocizzi così l’iter delle pratiche e permetta a chi è in attesa di ottenere lo status di rifugiato di impegnarsi in lavori socialmente utili.
Accanto all’espulsione degli irregolari, la macchina del Viminale ha intanto un’altra emergenza da gestire: l’accoglienza di quei 181.283 migranti sbarcati nel 2016.
Per questo, già  è fissato un calendario di incontri coi sindaci per convincere tutti, o imporre a tutti il rispetto dell’accordo siglato tra Viminale e Anci: ogni comune dovrà  accogliere 2,5 migranti ogni mille abitanti, evitando così che pochi facciano troppo e tanti non facciano nulla (oggi solo 2.600 comuni su 8mila accolgono).

(da “La Repubblica”)

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PROFUGHI, IN 450 NELL’EX CIE DI MILANO: STUDIANO, LAVORANO, SEGUONO CORSI, NON DANNO PROBLEMI, MA C’E’ SEMPRE QUALCUNO CHE SI LAMENTA PER “L’IMMAGINE”

Gennaio 5th, 2017 Riccardo Fucile

A DISPETTO DI ALLARMI MEDIATICI E PRESIDI RAZZISTI, NESSUNA TENSIONE CON I RESIDENTI ANCHE NELL’EX CASERMA DI VIA CORELLI

Una vergogna nazionale a pochi chilometri dal centro di Milano. Abusi, violenze, proteste sedate con manganelli e calci di fucile. Diritti calpestati. Suicidi. Sino a pochi anni fa.
Eppure per alcuni abitanti dello storico quartiere milanese dell’Ortica si stava meglio quando si stava peggio.
Cioè: fuori si stava meglio quando dentro si stava peggio. Ovvero quando l’attuale centro di accoglienza per richiedenti asilo di via Corelli 28, periferia Est della città , faceva parte del circuito dei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione sparsi sul territorio italiano.
Per la maggior parte chiusi, negli anni, dopo una serie di scandali.
Nei Cie nessuno entrava, a parte i militari, i “reclusi” e qualche sparuta delegazione di parlamentari o di rappresentanti di organizzazioni non goverantive. Ma, soprattutto, nessuno usciva.
Oggi invece gli ospiti del centro di accoglienza di via Corelli entrano ed escono liberamente, sebbene entro certi limiti orari.
E sono tantissimi: 450, compresi 30 minorenni non accompagnati. Percorrono la traversa che li separa dalla strada principale, salgono sull’autobus, si spingono fino al centro della città  assieme agli impiegati, ai pendolari, ai coetanei milanesi.
Vanno a frequentare corsi di italiano o a seguire tirocini professionali, a conoscere la città  che li ha accolti. A sottrarsi a un isolamento doloroso.
Moltissimi sono africani. Perciò si notano. C’è sempre qualcuno a cui danno fastidio.
“I miei clienti si lamentano perchè la sera se li ritrovano intorno alle macchine parcheggiate”, dice Massimo Sottili, amministratore delegato e socio del Galeria, una trattoria milanese molto frequentata a poche centinaia di metri dal centro di accoglienza. “Magari non fanno niente, ma i clienti si stressano. E poi è anche una questione d’immagine”.
Già , l’immagine. Per contribuire a migliorare l’immagine dell’ex Cie, il centro di via Corelli ha aperto le porte a 50 volontari.
L’obiettivo è garantire una qualità  di vita dignitosa agli ospiti e provare a immaginare insieme un futuro sgombro dalle minacce di guerre, miseria, fame.
Silvana Strambone è l’ideatrice della prima scuola “aperta” all’interno di un centro di accoglienza emergenziale. “Stiamo facendo un grande lavoro”, spiega Angela Marchisio, una volontaria molto attiva e amatissima dai rifugiati, che collabora con Silvana.
“370 ospiti seguono i nostri corsi di italiano due volte la settimana. Altri 50 stanno frequentando un corso per muratori, 15 per badanti. Abbiamo laboratori di fotografia e atelier artistici, due team di calcio e due squadre di cricket. E Paola Vercelli, un’altra volontaria, si è inventata i ‘turisti del martedì”, un’iniziativa per fare conoscere ai rifugiati il patrimonio artistico di Milano’.
Con le frontiere chiuse, coloro che fino a un paio di anni fa venivano definiti “transitanti” si sono trasformati in ospiti stanziali, quasi tutti richiedenti asilo.
La proposta di attività  all’interno e all’esterno dei centri di accoglienza è funzionale al loro inserimento nel tessuto sociale e nel mercato del lavoro.
“Ma serve anche a dare una forma e un senso alle loro giornate”, precisa Costantina Regazzo, direttore dei servizi di Fondazione Progetto Arca.
“Putroppo i tempi di attesa tra il rilascio del permesso di soggiorno temporaneo e la risposta alla richiesta di asilo sono molto lunghi. Si va da alcuni mesi a un anno. Nel frattempo i rifugiati rimangono in un limbo. Finalmente anche il Comune di Milano ha lanciato attività  strutturate per tenerli occupati, come la pulizia di parchi e l’imbiancatura di scuole. Chi ha già  ottenuto asilo può svolgere attività  retribuite, per gli altri ci sono opportunità  nel volontariato. Mentre con le borse lavoro ottengono un piccolo rimborso di 300-500 euro al mese”.
Assieme alla cooperativa Farsi Prossimo, Arca gestisce lo Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) di via Fortunato Stella, 50 ospiti, tutti uomini.
Siamo dalla parte opposta della città , nel quartiere di Greco, altra area storica di Milano diventata problematica.
A meno di un chilometro dallo Sprar c’è l’Hub di via Sammartini, alle spalle della Stazione Centrale, dove quotidianamente mangiano e dormono oltre 400 profughi, in gran parte sbarcati da poco e ancora traumatizzati dal viaggio.
Di recente il sindaco Beppe Sala ha inviato all’esterno un presidio dell’esercito, operazione poco gradita agli instancabili volontari che giorno e notte accolgono i profughi. Evidentemente un modo per tenere a bada le inquietudini del vicinato.
“In realtà  con gli abitanti di Greco non c’è particolare attrito”, assicura la coordinatrice dello Sprar Stella, Laura Melli.
“Quasi sempre l’arrivo di profughi è accompagnato da mobilitazioni e proteste, come nel caso dell’ex Caserma Montello con i presidi di Lega e Casa Pound, che poi si concludono in un nulla di fatto. Io abito proprio lì, sono mamma di una bambina di 8 anni e ho assistito a manifestazioni di genitori terrorizzati dalla prospettiva che il parco dove giocano i figli venisse “invaso” da orde di migranti. Nel frattempo ne sono arrivati oltre 300 e la vita del quartiere non è minimamente cambiata”.
Ai residenti di via Corelli e dintorni, però, quel via vai di migranti causa parecchi malumori.: “450 persone e nemmeno un cestino per la spazzatura. Una cosa assurda. E già  siamo assediati dai rifiuti della vicina Ricicleria. La gente arriva per disfarsi di un materasso o una tv, trova i cancelli chiusi e li molla nei prati davanti a casa nostra. Il degrado è totale”.
“E’ proprio sbagliata l’accoglienza”, insiste qualcuno. “Non vedo perchè l’Europa debba farsi carico dei problemi di altri Paesi”.
Il fatto è che “la pancia della popolazione”, per usare le parole di un ristoratore, “non è sempre saggia come il cervello”.
Nemmeno quando i profughi sono giovani e istruiti come Sami, 21 anni, eritreo, uno degli ospiti di Corelli.
Sami ha lasciato il suo Paese dopo che suo padre è stato imprigionato e torturato. Parla un inglese quasi perfetto. La sua famiglia ha trovato asilo in Finlandia. In attesa di raggiungerli, Sami studia il violino e spera di finire l’università . Vuole diventare astronauta.
“Mi sento troppo solo in questo mondo”, è il grido disperato di Abbas, pachistano, rifugiato dello Stella. Non chiede molto: soltanto trovare qualche amico italiano.

Anna Vullo
(da “il Fatto Quotidiano“)

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INTERVISTA A SAVIANO: “AMBULANTI E PIZZO, LA LORO RIBELLIONE E’ SEGNO DI SPERANZA, MA NAPOLI NON E’ CAMBIATA”

Gennaio 5th, 2017 Riccardo Fucile

“GLI ARRESTI NON FERMANO LA CAMORRA, CI SONO SEMPRE NUOVI AFFILIATI”

“Questa città  non è cambiata. Illudersi di risolvere problemi strutturali urlando al turismo o alle feste di piazza è da ingenui. Nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore diventa connivenza”.
Si torna a sparare, nelle strade raccontate nella “Paranza dei bambini” e la voce di Roberto Saviano appare, ancora una volta, carica di affilata amarezza.
Lo scrittore è severo con il sindaco Luigi de Magistris, “in carica da sei anni, ma parla come se si fosse appena insediato”, bacchetta la sinistra radical napoletana “che ragiona da ultrà : se critichi stai tifando contro”, riserva una stilettata all’ex ministro degli Interni Angelino Alfano che ha inviato l’esercito “per ragioni di facciata politica”.
E avverte: “Chi invita a distogliere lo sguardo da questa realtà  mi fa paura quasi quanto le paranze che sparano”.
Finirà  mai questo incubo, Saviano?
“Arrestato un affiliato ce n’è sempre un altro pronto a prendere il suo posto. L’affiliazione è un meccanismo sistemico, economico. Non c’è niente a Napoli che faccia pensare alle vittime come a un incidente di percorso. Tutt’altro. Questa sparatoria, come le altre, è parte del disagio che va oltre Napoli, attraversa tutto il Mezzogiorno e l’Europa del Sud, di cui si tende a parlare poco e male”.
Eppure la città  sembra in ripresa anche grazie ai turisti. Questa sparatoria non rischia di offuscarne il volto migliore?
“La città  è sempre stata meta di turisti, tanto più ora che il terrorismo ha precluso Medio Oriente, Sharm e la Francia come luoghi turistici portando i visitatori a prediligere l’Italia come meta. Nessuno mette in dubbio che Napoli sia meravigliosa. Nessuno nega che le associazioni siano in prima linea, nessuno nasconde il lavoro straordinario dei maestri di strada, del Gridas, dei teatri della Sanità  o dei preti di frontiera. Ma quelli ci sono sempre stati e se aumenta l’impegno è un bene prezioso. Quello che è sbagliato è scappare in un immaginario falso di una città  rinata, di risorse rinnovate che invece sono inesistenti”.
Si spieghi meglio.
“A un certo punto si preferisce invitare le persone a parlare solo delle cose belle. Che ci sono sempre state anche nei periodi più bui. Ma chiederci di non guardare le ferite, per puntare gli occhi al cielo, è omertà “.
Ce l’ha con il sindaco de Magistris?
“È la sintesi dei deliri che sento arrivare da alcuni ambienti della città . Questa isteria sul turismo come panacea di tutti i mali mi ricorda vecchi discorsi del centrodestra, che pensava di risolvere così il disagio di una metropoli come Napoli. Ora anche la sinistra napoletana più radical si lascia andare a discorsi neoborbonici ed è pronta a confluire nel partito personale di de Magistris. E il sindaco, che ha messo in cantiere una candidatura nazionale appena ha sentito parlare di proporzionale, si lascia andare a questo ritorno al passato. Parla come se fosse all’opposizione, invece è al potere. Le bellezze della città  sono merito suo, il potere criminale, disoccupazione, controllo del territorio sono demeriti dello Stato. Se non è populismo questo…”.
Non è troppo severo con l’ex pm, Saviano?
“Potrà  sembrare retorico, ma in questo momento chi invita a distogliere lo sguardo dalla realtà  direi quasi che mi fa paura quanto chi scende in strada per una “stesa””.
A Forcella c’è l’esercito. Il sindaco ha chiesto rinforzi per la sicurezza e maggiore impegno del governo.
“I militari erano stati inviati solo perchè il ministro dell’Interno dell’epoca, Angelino Alfano, potesse dire di averlo fatto. È stata un’operazione di facciata politica. Ma il controllo dovrebbe partire dalla polizia municipale, che dipende dal sindaco. Gli ambulanti abusivi a chi dovevano dare conto, alla camorra o alla polizia municipale? Alla camorra, naturalmente”.
Gli ambulanti immigrati si sono opposti al racket.
“Hanno rischiato la vita per arrivare in Italia. Si oppongono perchè non possono permettere che venga tolta loro quel po’ di speranza che si sono conquistati. È accaduto a Castel Volturno, a Rosarno. Sono dinamiche che si inseriscono in un contesto di illegalità : immigrati irregolari, lavoro nero o merce contraffatta. Oggi ne discutiamo solo perchè è stata ferita una bambina”.
Ma come si conciliano queste estorsioni da pochi euro con i grandi affari della camorra?
“Non è solo questione di denaro, ma di controllo del territorio. Con la paranza siamo dentro a un meccanismo di nuove generazioni che racimolano danaro ovunque possono. Non hanno fatto ancora il grande salto imprenditoriale perchè non hanno progetti a lungo termine, vogliono tutto e subito. Questo li rende ancora più violenti”

(da “La Repubblica”)

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DISABILI SEMPRE PIU’ SVANTAGGIATI: L’ASSISTENZA E’ ORMAI UN OPTIONAL

Gennaio 5th, 2017 Riccardo Fucile

WELFARE DEBOLE, LA FAMIGLIA UNICO SOSTEGNO PER OLTRE 3 MILIONI DI PERSONE

Poco si parla di disabilità  nonostante il disagio riguardi non solo le tante persone che ne soffrono, ma anche le loro famiglie.
Poco se ne parla, di questa popolazione così vulnerabile, ma invisibile, lontana dai riflettori. Fa più notizia la scoperta dei «furbetti» che si spacciano per invalidi.
Numeri della disabilità 
Sono 3 milioni 200 mila le persone con limitazioni funzionali stimate dall’Istat nel 2013, in piena crisi economica, in gran parte anziani, 700 mila hanno meno di 65 anni.
Le donne sono più svantaggiate, con un tasso doppio rispetto agli uomini.
Il tipo di limitazioni varia e si sovrappone nella maggior parte dei casi, evidenziando così la necessità  di una forte personalizzazione della cura, di risposte multidimensionali a cui spesso i servizi sanitari e non, non sono preparati.
Quasi 2 milioni sono le persone con limitazioni nelle attività  quotidiane, difficoltà  nel vestirsi o spogliarsi, lavarsi mani, viso, o corpo, tagliare il cibo e mangiare.
1 milione 500 mila ha limitazioni di tipo motorio, 900 mila difficoltà  nella sfera della comunicazione, nel vedere, sentire o parlare.
La situazione peggiore riguarda però, 1 milione 400 mila persone costrette a stare a letto, su una sedia o a rimanere confinate nella propria abitazione, specie tra gli ultraottantenni e le donne.
Il peso della famiglia
Inutile dire che le differenze territoriali penalizzano molto, ancora una volta il Mezzogiorno.
Inutile dire che le differenze sociali sono molto accentuate ed in crescita rispetto al 2005. Nella metà  dei casi i disabili hanno risorse scarse o insufficienti.
Inoltre un terzo dei laureati disabili è confinato nella propria abitazione, contro la metà  delle persone disabili con al massimo la licenza media.
Non c’è da meravigliarsi, i disabili sono particolarmente svantaggiati da un punto di vista economico, per due motivi fondamentali: da un lato perchè le loro condizioni di salute rendono difficile disporre di un reddito, o di un reddito adeguato, dall’altro perchè necessitano di più reddito dei non disabili, per soddisfare i loro bisogni basilari o comunque per raggiungere una analoga situazione di benessere.
Il welfare, i servizi di assistenza pubblica, dovrebbero contribuire a colmare questo gap tra disabili e non disabili, ma generalmente è la famiglia la principale, se non l’unica, risorsa sulla quale i disabili possono contare.
Non sono poche le famiglie in cui vive almeno un disabile, l’11,4% in maggioranza con persone che possono farsi carico almeno in parte della cura. Ma nel 40% il disabile vive solo e nel 6% con altre persone con limitazioni funzionali. In questi casi, purtroppo, i servizi non riescono a sopperire.
Servizi a domicilio
Meno del 20% di queste famiglie ha usufruito di servizi pubblici a domicilio. La carenza assistenziale non è colmata neppure dai servizi domiciliari a pagamento.
E così il 70% delle famiglie con disabili non usufruisce di alcun tipo di assistenza domiciliare, nè privata nè pubblica.
Per di più una parte non piccola ha dovuto rinunciare all’assistenza domiciliare non sanitaria o per motivi economici o perchè i servizi pubblici non l’avevano ancora concessa: il 15% circa di quelli che vivono soli o in cui tutti i componenti hanno difficoltà  funzionali.
Se a ciò aggiungiamo che due strutture sanitarie su tre sono impreparate ad accogliere persone con disabilità , come si evince dall’indagine condotta dalla Onlus Spes contra spem insieme all’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni, non possiamo che affermare che abbiamo a che fare con un sistema che ancora non riesce a puntare sulla centralità  della persona. Passi in avanti sono stati fatti con i maggiori stanziamenti previsti dal Governo Renzi, ma molta strada abbiamo da fare.
Differenze regionali
La spesa dei Comuni per la disabilità  è fortemente disuguale ed è più bassa laddove i bisogni sono maggiori.
Si passa da 16.912 euro per disabile investiti in Trentino Alto Adige ai 469 euro in Calabria. Bisogna ridare centralità  alla cura, prevedendo percorsi personalizzati e rendendo i servizi inclusivi, sostenibili, di qualità , come chiede la comunità  dei disabili. Investire nella cura significa creare nuovi posti di lavoro per il benessere dei disabili. Devono esserci diritti certi ed esigibili in ogni parte del Paese.
Le famiglie, non più quelle di una volta, ma quelle di oggi, con pochi figli e le donne sovraccariche di lavoro, e il volontariato, da soli, non possono farcela. Non è una questione di carità , ma di mera civiltà  e di rispetto dei diritti dei cittadini, nonchè delle Convenzioni dell’Onu.

Linda Laura Sabbadini
(da “La Stampa“)

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