Ottobre 4th, 2022 Riccardo Fucile
HA UN CONTRATTO COME OSPITE FISSO A “MEZZ’ORA IN PIÙ” E SARÀ NEL CAST FISSO DEL NUOVO PROGRAMMA DELLA D’AMICO… E SUA SORELLA E’ PORTAVOCE DEL COGNATO DELLA MELONI
È cambiato il vento a Viale Mazzini? In realtà per Alessandro Giuli le condizioni sono favorevoli da tempo. Ha condotto diversi programmi su Rai2 senza portare a casa nulla di share. Ha incassato tanti soldi in cambio bassi ascolti.
Dopo la chiusura di “Anni 20 Notte”, voluta da Mario Orfeo, Giuli e Parisella erano rimasti a mani vuote. La giornalista, stimata da Giampaolo Rossi, è apparsa all’improvviso alla conduzione di ‘’Elisir’’ mentre Giuli si è riciclato in altri spazi sulle reti Rai.
Ha un contratto come ospite fisso a “Mezz’ora in più” di Lucia Annunziata (ben felice di accreditarsi con Giorgia Meloni) e salvo colpi di scena sarà nel cast fisso anche del nuovo programma di Ilaria D’Amico in onda su Rai2 da giovedì 27 ottobre. Contratto ancora non chiuso ma spifferi Rai sussurrano una cifra: circa 1.500 euro a puntata.
Tutti vogliono Giuli (per accreditarsi con la Meloni?). Il giornalista ha un contratto di ospitate anche con La7 (da ‘’Otto e Mezzo’’ a ‘’DiMartedì’’). E come svelato da Dagospia sarebbe anche in corsa per il ruolo di “portavoce istituzionale” a Palazzo Chigi.
Un ruolo conosciuto bene in famiglia: sua sorella Antonella è infatti la portavoce dell’onorevole Francesco Lollobrigida, cognato di Giorgia Meloni.
(da Dagoreport)
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Ottobre 4th, 2022 Riccardo Fucile
QUEL FORMIDABILE SEGUGIO DI SALVINI HA FIUTATO UN’ALTRA NOTIZIA DELLE SUE, E L’HA DIFFUSA CON CORREDO DI INDIGNAZIONE: UN IMMIGRATO MAROCCHINO CON SETTE MOGLI PERCEPISCE OTTO REDDITI DI CITTADINANZA. LA NOTIZIA È STATA DATA CON QUALCHE PRUDENZA DA AFFARITALIANI.IT, CHE CITAVA PUGLIAPRESS.TV, DOVE IL SIGNOR ANTONIO PEPE, SOSTENEVA DI AVERLA SENTITA AL BAR”
Quel formidabile segugio di Matteo Salvini ha fiutato un’altra notizia delle sue, e l’ha diffusa con corredo di indignazione a maggior scandalo del bravo cittadino: un immigrato marocchino con sette mogli percepisce otto redditi di cittadinanza, uno per sé e uno per ognuna delle sette mogli.
La notizia lì per lì mi è sembrata credibile per una ragione precisa: soltanto il trio Salvini-Conte-Di Maio, che la varò, poteva varare una legge capace di dare otto redditi di cittadinanza a un marocchino e alle sue sette mogli (la tendenza ad approvare leggi che si disapprovano, ecco una grande sfida per la psichiatria contemporanea).
Ho cominciato a dubitare dopo una lunga riflessione, circa quattro secondi, sul presupposto che la poligamia in Italia non è consentita, e doveva essere complicato per le sette spose allegare una documentazione al di sopra di ogni sospetto. Però, siccome si sa mai, mi sono fatto la mia brava e breve indagine: la notizia è stata data con qualche prudenza da Affaritaliani.it, che citava Pugliapress.tv, dove il signor Antonio Pepe, coordinatore dell’Associazione autonomi e partite Iva, sosteneva di averla sentita al bar.
Mistero risolto: il bar è da sempre la principale fonte d’informazione di Matteo Salvini, e quanto esca da un aperitivo ha per lui la portata della sentenza di Cassazione. Tutto comprensibile.
E comprensibile è anche che un leader di tale calibro ambisca al ministero dell’Interno e trasecoli alle resistenze di Giorgia Meloni.
Sarà bello riavere al governo uno capace di sovvertire non soltanto le leggi della politica, ma anche della fisica, secondo cui il vuoto non esiste.
(da La Stampa)
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Ottobre 4th, 2022 Riccardo Fucile
L’EX MINISTRO CHE HA FONDATO L’ASSOCIAZIONE NORDISTA “AUTONOMIA E LIBERTÀ”: “I VERTICI DEL CARROCCIO SONO SPAVENTATI E LA BASE È IN SUBBUGLIO”
L’ex ministro delle Infrastrutture Roberto Castelli, professione ingegnere, ha fondato l’associazione nordista Autonomia e Libertà. “Facciamo un lavoro culturale, nessuno può impedircelo”, dice. È in mezzo al guado: ha la tessera della Lega per Salvini premier in tasca, ma a nessuno è ancora chiaro se cambiare la rotta del partito sia possibile.
Intanto: cosa ne pensa del comitato nord di Umberto Bossi?
“Per una risposta la devo prendere da lontano”.
E sia.
“Salvini prende in mano il partito e con una sua strategia legittima lo cambia da difensore dei diritti del nord, alla bavarese, radicato sul territorio e rappresentante di una precisa area del Paese, ne cambia i connotati. Cambia colore, dal verde si passa al blu; la parola Padania non si può più dire: è un’operazione meta-politica di cancellazione. Non è stata una cosa indolore. Pontida è il luogo dei simboli: tutto blu il palco e i militanti con le camicie verdi sotto, dimostrando la distanza tra chi stava sotto e chi stava sopra”.
Quindi concorda con Bossi.
“Serve vedere come lui, Ciocca e Grimoldi metteranno a terra questo progetto. Rimettersi i fazzoletti verdi è sicuramente bello, ma la controprova sarà vedere che fine farà l’autonomia ora che il centrodestra tornerà al governo. Per un po’ di anni siamo stati a guardare, io compreso mi ero praticamente ritirato. Salvini era intoccabile, del resto chi mai poteva pensare di criticarlo visti i risultati? Però i voti a cosa servono? Chi se ne importa se hai il 34 per cento e poi voti Roma regione in commissione. Meglio allora il 4 e però lavorare per degli obiettivi concreti e con una precisa “ragione sociale””.
Ma secondo lei Salvini è veramente messo in discussione all’interno della nuova Lega?
“Penso che il partito non sia scalabile, il nuovo gruppo parlamentare è stato scelto da lui e dai commissari scelti da lui. Ma i vertici sono spaventati, io vivo di fronte al pratone di Pontida: è tutto un subbuglio, i militanti sono tornati in auge, fanno assemblee, organizzano iniziative. Dopo il voto è successo il finimondo. Sarà interessante capire come replicherà Salvini alle sollecitazioni”.
Zaia è un’alternativa valida alla guida della Lega?
“Ma guardi, le ripeto, non vedo Salvini realmente messo in discussione. Certo, adesso arrivano le regionali in Lombardia. Perderle sarebbe la fine per lui”.
Intanto però Autonomia e Libertà starà a guardare?
“Noi per ora abbiamo 500 iscritti, la maggior parte di loro sono leghisti scontenti. La discesa elettorale di questa Lega non si sta fermando. Fuori c’è la rete 22 ottobre che ha federato 27 sigle autonomiste diverse, non è poco. Quindi il 15 ottobre quindi saremo anche all’altra iniziativa”.
Però è un mondo che non ha ben chiaro come procedere, tra chi sta dentro e chi resta fuori.
“Un risultato intanto lo abbiamo raggiunto: dopo anni che il federalismo era caduto nel dimenticatoio, in questi giorni si torna a parlarne con forza. È un tema cogente: ho clienti che sono passati da 200 mila euro l’anno di bollette ad un milione, con gli utili che sono stati mangiati dai costi dell’energia. Poi sa, la politica dovrebbe guardare avanti: qui in Padania la filiera dell’automotive verrà spazzato via dall’elettrico, rischiamo la desertificazione. Chi se ne occupa?”.
(da agenzie)
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Ottobre 4th, 2022 Riccardo Fucile
ASPETTATIVE NEGATIVE PER IL 45%, POSITIVE SOLO PER IL 39%… IL 70% DEGLI ELETTORI DELLA LEGA VUOLE CHE SALVINI RESTI SEGRETARIO: CONCORDIAMO, SOLO LUI PUO’ PORTARE LA LEGA AL 4%. LASCIAMO CHE RAGGIUNGA L’OBIETTIVO
Considerato l’esito delle elezioni è ormai che il prossimo Governo sarà formato dal centrodestra e che sarà guidato da Giorgia Meloni.
Rispetto a questo a questo quadro ha aspettative “abbastanza negative” il 20%, “molto negative” il 25%”. “Molto positive” per il 13% e “abbastanza positive per il 26%”.
I temi su cui si concentrano le aspettative negative sono uno stop alle riforme sui diritti civili 45%, politiche estremiste 37%, minor peso all’interno dell’Unione Europea 26%.
Chi ha aspettative positive pensa invece che ci potrebbe essere un maggiore controllo sull’immigrazione (37%), una maggiore rapidità decisionale (35%) e una donna alla guida del governo (33%).
Il 70% degli elettori della Lega pensa che Matteo Salvini non dovrebbe dimettersi da segretario federale, pur avendo subito una pesante sconfitta alle ultime elezioni politiche del 25 settembre. Solo il 17 % pensa che invece debba lasciare e il 13% risponde “non saprei”.
Sono i dati raccolti dall’ultimo sondaggio Swg, realizzato dopo il voto, dal 28 settembre al 3 ottobre.
(da agenzie)
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Ottobre 4th, 2022 Riccardo Fucile
COSTITUZIONE, GIUSTIZIA, DIRITTI, INFORMAZIONE: COSA ACCADE DOVE SONO AL POTERE GLI AMICI DELLA MELONI
Governano da anni, spesso sono accusati di limitare i diritti civili e per questo sono entrati in rotta di collisione con l’Unione europea. Il premier ungherese Viktor Orbán e il suo omologo polacco Mateusz Morawiecki sono stati tra i primi (e tra i più entusiasti) a congratularsi per la vittoria di Giorgia Meloni e ora a Bruxelles si teme che il prossimo governo italiano possa prendere la strada di Budapest e Varsavia.
Emergono infatti alcuni paralleli con le proposte di Fratelli d’Italia.
Dopo aver sottolineato che la Costituzione «è bella ma ha 70 anni» e quindi va cambiata, Francesco Lollobrigida, cognato di Meloni, ha annunciato che «la sovranità del diritto comunitario su quello nazionale va rivista».
Ovviamente a tutela dell’interesse nazionale, proprio quanto affermano da anni Orbán e Morawiecki.
Ma anche altre promesse elettorali avvicinano la destra italiana ai governi dell’Est: la castrazione chimica per determinati reati, già legale in Ungheria e Polonia; la lotta alla presunta lobby Lgbt; nonché la promozione del diritto delle donne a non interrompere la gravidanza, con le proposte emerse dall’inchiesta “Feti d’Italia” pubblicata da TPI che ricordano le norme promosse da Budapest e Varsavia. Insomma, a vedere com’è andata a finire, le premesse non paiono rassicuranti
Carta straccia
La modifica della Costituzione è stato uno dei primi passi del governo Orbán, che ha emendato la Carta ungherese dieci volte dal 2010, sollevando preoccupazioni negli Usa e nell’Ue.
Le riforme volute dal “Viktator”, secondo una ricerca pubblicata ad aprile dalla House of Commons Library del Parlamento britannico, «hanno limitato i poteri della Corte costituzionale e ribaltato le sentenze da questa emanate in precedenza.
Hanno anche posto restrizioni alla campagna elettorale sui media ed enfatizzato i “valori cristiani”, dando la precedenza ai tradizionali rapporti familiari (eterosessuali)».
Inoltre, con il nuovo sistema elettorale introdotto nel 2012, il partito al governo e i suoi alleati «si sono assicurati la maggioranza dei due terzi nell’Assemblea nazionale sia alle elezioni del 2014 che del 2018, consentendo al governo ulteriori modifiche costituzionali».
Tali interventi hanno messo a rischio anche l’indipendenza della magistratura, con nomine di ispirazione politica spesso contestate dall’equivalente del nostro Csm.
Una questione che preoccupa anche a Varsavia. Le contestate riforme in materia giudiziaria volute dal Partito Diritto e Giustizia (PiS) rischiano addirittura di ritardare l’erogazione alla Polonia dei fondi del Recovery. In particolare, preoccupa l’istituzione di una sezione disciplinare della Corte suprema con il potere di sanzionare i giudici, considerata uno strumento di inaudita ingerenza dell’esecutivo nei confronti della magistratura e che la Corte di giustizia europea ritiene incompatibile con il diritto comunitario.
Disparità di genere
Tra i temi più scottanti poi, c’è la tutela dei diritti civili, in particolare delle donne e della comunità Lgbtiq+. A partire dal 15 settembre, con un decreto del ministero dell’Interno, l’Ungheria (dove l’aborto è legale dal 1953) “esorta” ginecologi, ostetriche e altri operatori sanitari coinvolti a presentare alle donne in gravidanza le funzioni vitali del feto in “modo chiaramente identificabile”.
Tradotto: prima di abortire le donne dovranno ascoltare il battito cardiaco del feto e il medico dovrà presentare un rapporto che lo confermi. Un’imposizione fortemente criticata da Amnesty International. D’altronde, Budapest è da tempo oggetto di biasimo in tema di disuguaglianza di genere.
Anche la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic ha accusato il governo Orbán di arretratezza in materia di parità. E in Polonia non va meglio. Nell’ottobre 2020, la Corte costituzionale ha vietato praticamente ogni possibilità di aborto, con due sole eccezioni: nel caso in cui la gravidanza fosse il risultato di stupro o incesto o se la vita della donna fosse a rischio.
La norma, entrata in vigore solo lo scorso anno, tutela ben poco la vita: come nel caso di Izabela, una giovane della Slesia morta a 30 anni, quand’era incinta di 22 settimane. Soltanto l’interruzione di gravidanza avrebbe potuto salvarla ma i medici hanno atteso che il feto morisse spontaneamente così, nel settembre 2021, è morta lei, di sepsi. Il caso, che ha fatto scalpore in tutta Europa, non ha intaccato la norma incriminata. Ma la questione della tutela dei diritti riguarda anche la comunità Lgbtiq+.
Dal giugno 2021, una legge ungherese – condannata dall’Ue – vieta la pubblicazione di “qualsiasi contenuto che ritrae e/o promuove l’omosessualità e il cambiamento di genere tra i minori”.
Una norma che, secondo Human Rights Watch, «confonde omosessualità e pedofilia». Anche in Polonia la comunità deve affrontare da anni molti ostacoli. Nel 2019, numerose città e regioni del Paese si sono impegnate a opporsi alla presunta “ideologia Lgbt”, che minerebbe i “tradizionali valori cristiani”. Un’altra mossa fortemente criticata dall’Ue. Eppure il consenso dei partiti al potere in Ungheria e Polonia non accenna a diminuire.
Il controllo sui media
Com’è stato possibile arrivare a tanto? La risposta potrebbe risiedere nel sistema di informazione. Dal ritorno al potere nel 2015, il PiS polacco ha preso il controllo della principale emittente televisiva statale del Paese e ha promesso di “ri-polonizzare” i media nazionali.
A inizio 2021, il colosso petrolifero statale Pkn Orlen ha acquisito la società privata Polska Press, precedentemente di proprietà di un editore tedesco, prendendo il controllo di 20 dei 24 quotidiani regionali polacchi e 50 tra settimanali e portali web.
Inoltre, nel dicembre scorso, la Camera bassa del Parlamento ha approvato una legge che impone agli editori non appartenenti allo Spazio economico europeo di vendere le proprie quote di maggioranza nei media polacchi e vieta di detenere oltre il 49 per cento delle azioni in tali aziende.
Una norma pensata apposta, secondo il quotidiano indipendente Gazeta Wyborcza, per l’emittente privata TVN, di proprietà del colosso statunitense Discovery, che secondo i sostenitori del PiS promuove valori contrari alla tradizione.
Intanto in Ungheria, Orbán ha dato vita – grazie a un imprenditore a lui vicino – a un impero editoriale in cui più di 500 organi di informazione regionali e locali fanno eco ai messaggi del partito Fidesz. Tanto che, nel 2019, un rapporto di Reporter senza frontiere, ha riscontrato nel Paese «un grado di controllo sui media senza precedenti in uno Stato membro dell’Ue».
Nulla di tutto questo però sembra scalfire l’amicizia di Meloni con le leadership ungheresi e polacche.
Quando alle elezioni mancavano meno di dieci giorni e l’Europarlamento aveva appena condannato (a maggioranza) il governo dell’Ungheria, considerato un “regime ibrido” una sorta di “autocrazia elettorale”, la leader di Fratelli d’Italia difendeva Orbán. «Ha vinto democraticamente più volte le elezioni, anche con un ampio margine di consenso e con tutto il resto dell’arco costituzionale schierato contro di lui», ricordò a Radio anch’io, denunciando la risoluzione votata a metà settembre a Strasburgo e il dibattito su Budapest come «entrambi viziati da un eccesso di ideologia».
Parole al miele anche per il suo alleato polacco Mateusz Morawiecki: «Attaccare l’Ungheria, così come la Polonia, non è una scelta intelligente. Di fronte al conflitto odierno, bisogna avvicinare le nazioni europee piuttosto che allontanarle».
Un intento sacrosanto, purché non se ne prenda a esempio le politiche illiberali. «I modelli dei Paesi dell’Est sono diversi dal nostro», ammise Meloni, ma solo «perché fino agli anni Novanta li abbiamo abbandonati al giogo sovietico».
«Ora più che mai – aggiunse – dobbiamo sforzarci di dar loro una mano». A persistere nel contrarre i diritti o ad aprirsi al rispetto delle minoranze? Al momento, non è dato sapere.
(da TPI)
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Ottobre 4th, 2022 Riccardo Fucile
RIGUARDA LA NOMINA DI DUE DIRIGENTI CHE NON AVEVANO TITOLI ADEGUATI
Il processo inizierà il prossimo 15 dicembre e nelle aule giudiziarie il Presidente della Regione Sardegna dovrà rispondere dell’accusa di abuso d’ufficio.
La decisione è stata presa nella tarda serata di lunedì dal gup di Cagliari in merito all’inchiesta che vedrebbe coinvolto Christian Solinas sulle nomine di due dirigenti all’interno del sistema amministrativo sardo. Contestualmente all’annuncio del processo, la stessa giudice dell’udienza preliminare ha condannato a 2 anni e 8 mesi Maria Grazia Vivarelli, capo di gabinetto della Presidenza della Regione, che aveva chiesto e ottenuto il rito abbreviato.
Una nuova grana, dunque, per la Lega e per il centrodestra. Christian Solinas, infatti, è stato eletto nel 2019 alla guida della Regione Sardegna. Nei mesi successivi, secondo le indagini oggetto dell’inchiesta, lo stesso Presidente avrebbe avuto un ruolo attivo nella nomina di due dirigenti: Silvia Curto alla direzione generale della Presidenza e Pasquale Belloi a capo della Protezione civile regionale.
Lo scorso 30 maggio, nel giorno della sua prima udienza, il governatore leghista si era difeso sostenendo che non fosse suo compito valutare i “curricula” delle persone poi scelte, ma degli uffici regionali predisposti a queste funzioni.
Perché la norma regionale che regolamenta questo aspetto, la legge numero 31 del 1998, prevede che gli incarichi dirigenziali possano essere affidati solamente a personalità che abbiano già ricoperto ruoli analoghi – in strutture private o pubbliche – per almeno 5 anni.
Insomma, si dovevano valutare curricula ed esperienze pregresse di gestione. Aspetti che né Silvia Curto né Pasquale Belloi avevano maturato nel corso della loro carriera.
Per questo motivo Solinas dovrà rispondere dell’accusa di “abuso di ufficio”, per aver agito – sempre secondo l’accusa che lo vedrà imputato in tribunale il prossimo 15 dicembre – al di là delle norme, dei regolamenti e della legge sulle nomine dei dirigenti nella Regione che amministra.
(da NextQuotidiano)
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Ottobre 4th, 2022 Riccardo Fucile
ANDREBBE RIDOTTO L’ORARIO DI LAVORO E INTRODOTTO L’ORARIO MINIMO EUROPEO
Gran Bretagna la premier ha fatto marcia indietro rispetto alla promessa di tagliare le tasse ai più ricchi. Domenico De Masi, sociologo del lavoro tra i più accreditati in Italia, crede che da noi con il centrodestra al governo verranno messe a terra politiche a favore di chi ha di più a svantaggio dei più fragili?
“Rispetto all’Inghilterra siamo un poco meno sguarniti nei confronti del neoliberismo. Mentre la destra inglese è composta infatti in toto da neoliberisti, quella italiana è divisa in due blocchi. Quello di Berlusconi e Salvini è caratterizzato da una visione neoliberista, quella rappresentata da Meloni e da Fratelli d’Italia, che per tradizione ha avuto come ascendente il fascismo, è al contrario una destra molto statalista. E queste due visioni entreranno sicuramente in conflitto. Sulla flat tax per esempio mentre Meloni ha una visione correlata ai redditi, Salvini e Berlusconi parlano di flat tax pura che è una tassa piatta che tratta tutti come se avessero lo stesso patrimonio. Se è fedele al blocco ideologico dal quale proviene, Meloni si distinguerà da Lega e Forza Italia e credo che vincerà lei”.
Quindi dobbiamo sperare nella Meloni per arginare il neoliberismo?
“Dobbiamo sperare soprattutto nella resistenza che farà la sinistra. Meloni in Parlamento è forte ma nel Paese è debole, se si considerano quelli che non sono andati a votare e quelli che hanno votato contro”.
Ma il pericolo di avere con le destre politiche a vantaggio dei più ricchi esiste?
“Certo, quello c’è sempre. Anche il fascismo ha fatto politiche a vantaggio dei più ricchi. In nessun paese al mondo i ricchi sono stati svantaggiati. Gli unici due paesi che nel recente passato hanno visto aumentare il livello retributivo delle classi basse sono stati il Brasile di Lula e la Cina. Tutti gli altri hanno visto aumentare le differenze tra ricchi e poveri. L’avversione che c’è stata soprattutto dai tre partiti di destra verso il Reddito di cittadinanza – che è stato ritenuto un errore, qualcosa da abolire, modificare e attenuare – ci dice che i poveri non interessano a molti. Il Reddito di cittadinanza ha incontrato solo critiche e oppositori da – fatta eccezione per il M5S – tutti i partiti e tutti i media. C’è stata una gara a parlarne male senza magari aver mai letto la legge istitutiva”.
Da gennaio 2021 a maggio 2022 sono stati scoperti illeciti sul Reddito di cittadinanza per 288 milioni. Non sembrano grandi numeri considerando che la spesa annuale del reddito viaggia sui 7,5-8 miliardi l’anno.
“Ma certamente. E si consideri pure che l’Italia è stato l’ultimo Paese dell’Ocse ad averlo introdotto e dà il sussidio più basso in assoluto. Chi truffa lo fa su un importo minimo. E comunque le truffe legate al Reddito di cittadinanza sono meno dell’1% di quelle totali ai danni dello Stato. Ci sono molti più furbi tra quanti evadono il fisco”.
Eppure il centrodestra continua a parlare di pace fiscale.
“Che significa tante cose. Come i condoni per esempio. Che sono sempre in favore di chi dovrebbe pagare il fisco e non lo fa”.
Giuseppe Conte ha detto che togliere il Reddito di cittadinanza rischia di scatenare una guerra civile.
“Il welfare – vale a dire gli aiuti ai poveri, ai lavoratori infortunati, alle vedove, agli orfani – l’ha inventato la destra. Bismarck ha inventato il welfare. Proprio per impedire la guerra civile, in una fase in cui il socialismo era molto forte. Quando Conte evoca il rischio di una guerra civile si rifà ai motivi per cui il welfare è stato adottato anche dai governi di destra. Noi abbiamo 3 milioni e 700 mila persone che mangiano grazie al Reddito di cittadinanza. Non ha senso dire che bisogna dare il lavoro e non il sussidio. Perché intanto su 5 milioni di poveri tre milioni hanno diritto al sussidio perché minorenni, disabili, vecchi. Per quelli che potrebbero lavorare, invece, mentre si trova loro un’occupazione – e questa non si trova – il sussidio è l’unica fonte di sopravvivenza. Non si può toglierlo, sarebbe una follia. Ma sono sicuro che non accadrà. Meloni gli cambierà nome, farà qualche ritocco e poi lo lascerà. Lo stesso Draghi ha detto che è necessario”.
Oltre al Reddito di cittadinanza si vuole mettere mano anche ai bonus edilizi, come il Superbonus che ha trainato la ripresa.
“Anche lì, vedrà, cambieranno nome ai bonus ma li lasceranno. Del resto li chiedono tutti. La politica dei bonus è l’unica valida nei periodi di grande crisi. Non solo i poveri, anche i ricchi hanno in continuazione ristori, bonus. Tutti invocano dallo Stato aiuti e lo faranno ancora con la crisi energetica in atto”.
Che rapporto c’è tra la precarietà e la compressione dei salari?
“Sono due fenomeni che spesso vanno insieme e spesso no. Noi siamo il Paese che ha avuto meno aumenti salariali da 30 anni a questa parte. Ma anche nei Paesi in cui il salario è aumentato è aumentata anche la precarietà. Anche chi guadagna molto può essere licenziato da un giorno all’altro. La precarietà dipende da tecnologie che sostituiscono i lavoratori, dalla globalizzazione, dall’economia neoliberista che è basata sulla concorrenza. Il dna del neoliberismo è l’incremento delle disuguaglianze a causa della precarietà. Siamo tutti precari e lo si è visto con l’abolizione dell’articolo 18 che era una barriera contro la licenziabilità. Che, ricordiamo, è stato abolito dal governo Renzi e non da un governo di destra. Alleati e complici della precarizzazione sono state le sinistre”.
Serve una politica del lavoro globale?
“Se uno ha 10 dipendenti e un computer che ne sostituisce due si hanno due soluzioni: o si licenziano due dipendenti o si riduce il lavoro del 20% a tutti. La Germania ha fatto così. In Italia abbiamo 40 ore, in Germania, man mano che aumentava la automazione del lavoro, riducevano l’orario. I metallurgici sono arrivati a 28 ore. La conseguenza è che in Germania l’occupazione è l’80%, in Italia al 60%, 3,8% il tasso di disoccupati da loro, l’8% da noi. L’unico modo per contrastare la disoccupazione tecnologica è ridurre l’orario di lavoro e, poi, per combattere il fenomeno del lavoro povero, introdurre il salario minimo”.
Il centrodestra potrebbe farlo?
“Il problema è avere una destra intelligente o ottusa. Ma, prima ancora, le politiche del lavoro dipendono dagli imprenditori e i nostri sono tra i più ottusi d’Europa. Vedi come hanno accolto a malincuore lo smart working”.
(da La Notizia)
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Ottobre 4th, 2022 Riccardo Fucile
DOPO I FALLIMENTI DELL’ESERCITO RUSSO NELLA REGIONE DI KHARKIV, PUTIN HA NOMINATO UN NUOVO GENERALE NEL DISTRETTO MILITARE OCCIDENTALE. UN MODO PER RIMESCOLARE LE CARTE E INCOLPARE IL NUOVO COMANDANTE (SALVANDO IL CULO AL FEDELISSIMO COLONNELLO LAPIN)
Ancora una volta gli ucraini colgono i russi di sorpresa: sfondano il fronte di Kherson, dove i generali di Putin meno se lo aspettavano, e avanzano veloci ed efficienti minacciando di accerchiare le unità avversarie che ritardano a ritirarsi.
È la logica di Davide contro Golia: un corpo di spedizione leggero e determinato, munito di armi innovative e pronto ad adattarsi al mutare delle circostanze, contro un esercito obsoleto, privo di qualsiasi flessibilità, sulla carta molto più numeroso e potente del nemico, ma in verità ammalato di gigantismo e adesso poco motivato, con gravi segni di disfattismo e crollo del morale tra le truppe.
E a Roma, in armonia con un’iniziativa dell’Ue, l’ambasciatore russo Razov è stato convocato alla Farnesina per comunicargli la posizione italiana: «No a referendum e minacce». Gli storici della guerra e le accademie militari del futuro studieranno a fondo gli elementi che stanno garantendo la vittoria ucraina contro l’invasore russo. Le cronache delle ultime ore ne sono il condensato migliore.
Prima di tutto, il fattore sorpresa. Sebbene fosse attesa da tempo questa controffensiva a Kherson, l’unica regione a est del fiume Dnepr ancora in mano russa, l’attacco avviene soltanto ora. Il motivo è ovvio: il presidente Zelensky ne aveva parlato già a giugno e ciò aveva convinto Mosca a spostare a Kherson parte delle unità migliori trincerate nell’Est, sguarnendo il settore a nord del Donbass verso Kharkiv. Ma, un mese fa, è stato proprio a sud di Kharkiv che i corpi scelti ucraini hanno attaccato, cogliendo i nemici di sorpresa, avanzando rapidamente verso Izyum e, tre giorni fa, liberando Lyman. Adesso le loro unità stanno procedendo verso nord e sud: irrompono nella provincia di Lugansk e mirano al Donetsk settentrionale, minacciando di riprendere Severodonetsk e Lysychansk.
Ieri abbiamo visitato per diverse ore la cittadina di Bakhmut, l’unico settore del fronte dove le fanterie e le unità corazzate russe sono presenti in grande forza e ancora cercano di sfondare. Ma anche qui gli ucraini potrebbero prenderli alle spalle, trasformando gli aggressori in assediati.
Ed è proprio in questo momento di grande difficoltà per i comandi russi nel Donbass, che Kiev rilancia nel Sud-ovest. Soltanto quattro giorni fa avevamo visitato il fronte di Kherson partendo da Mykolaiv, ma soldati e ufficiali erano rimasti abbottonati. «Qui la situazione è molto complicata. I russi sono ben trincerati, occorre tempo, sarà quasi impossibile riprendere l’iniziativa prima della fine dell’inverno», ripetevano. Tutto falso.
Da almeno due giorni le loro colonne marciano lungo la sponda occidentale del Dnepr, scacciano i russi dal settore di Kryvy-Rih, ma soprattutto liberano le cittadine di Zolota Balka, Mykhalivka e Alexandrovka, oltre a decine di piccoli villaggi e fattorie isolate.
Kiev mantiene il silenzio, sono adesso i portavoce del ministero della Difesa a Mosca ad ammettere la «ritirata strategica» per oltre una trentina di chilometri contro «forze nemiche superiori», accoppiata alla rassicurazione di essere ora arroccati su posizioni «meglio difendibili».
Ma c’è un elemento ancora più importante in questa avanzata: se dovesse continuare lungo il fiume, presto le avanguardie ucraine potrebbero raggiungere i tre ponti distrutti che una volta permettevano le comunicazioni tra Kherson e il Donbass. Oggi i russi usano chiatte e pontoni per rifornire oltre 30.000 soldati nella zona: gli assedianti ucraini minacciano di accerchiarli completamente.
Due settimane fa i loro comandanti avevano chiesto l’autorizzazione a ripiegare sulla sponda orientale del fiume. Ma Putin aveva reagito duro con un secco «no», interferendo platealmente nelle decisioni del suo stato maggiore.
Una situazione che ricorda quella delle armate tedesche durante l’assedio di Stalingrado nel febbraio 1943: Hitler negò il permesso del ritiro e fu la catastrofe. Un fatto è comunque certo: delle quattro regioni annesse alla Russia da Putin venerdì scorso (Kherson, Donetsk, Lugansk e Zaporizhzhia) le prime tre sono oggi al cuore dell’offensiva ucraina, la quarta potrebbe presto aggiungersi.
A conferma dello stato di confusione regnante tra i militari russi giunge adesso la scelta di silurare altri generali accusati di non sapere gestire le operazioni in Ucraina. E soprattutto si aggiunge la curiosa vicenda di Ihor Murashov, direttore ucraino della centrale di Zaporizhzhia: rapito dai russi la settimana scorsa, ieri è stato rilasciato senza alcuna spiegazione
(da agenzie)
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Ottobre 4th, 2022 Riccardo Fucile
LA MELONI NON LA VUOLE, MA BERLUSCONI NON CEDE
Ogni futuro presidente del Consiglio ha il diritto di sognare il suo Governo Perfetto sapendo benissimo che dovrà fare concessioni e giungere a compromessi. Fu così che Prodi di malavoglia dovette prendersi Mastella alla Giustizia, così come Draghi, per carità di patria, accettò di tenersi Di Maio agli Esteri. Ma a riprova che certe istintive idiosincrasie sono più che giustificate, ecco che proprio Mastella affondò il secondo governo dell’Ulivo, così come Di Maio, con la sua improvvida scissione, ha dato il via alla crisi dell’esecutivo di salvezza nazionale.
Se non altro in nome di questi infausti precedenti Giorgia Meloni ha una ragione in più per dire no e poi no a Licia Ronzulli.
O meglio, in mancanza di contatti diretti, tutto lascia credere che in queste ore stia cercando disperatamente di convincere il Cavaliere a risparmiarle tale richiesta, che invece da Arcore si fa ogni giorno più pressante e ultimativa.
Nella prosaica quotidianità del totoministri sembra un caso come tanti altri, e in qualche modo c’entra anche il fatto che Ronzulli rappresenta l’ala più filo-Salvini della Lega, il che dopo la caduta di Draghi la portò a reagire a brutto muso nei riguardi della rivale governista lombarda Gelmini: «Vai a piagnucolare da un’altra parte e prenditi uno Xanax»; là dove l’improperio psico-farmacologico rivela un indubbio caratterino.
Nell’universo pedagogico del Cavaliere Ronzulli è esattamente quella che deve essere, vale a dire una donna il cui destino lui stesso ha forgiato secondo le sue generose prerogative e infallibili necessità: abbastanza giovane, graziosa, bel sorriso, svelta, simpatica, visually satisfying e adorante.
In questo senso, come per altre carriere, la scuola quadri della Real Casa coincide con il mondo delle fiabe per cui Licia, provetta fisioterapista, è giunta al cospetto del sovrano in occasione di uno dei diversi “tagliandi”, ossia interventi di chirurgia estetica, e di molto aiuto gli è stata dopo il duro colpo della statuina del Duomo scagliatagli fra guancia e denti nel 2009.
Dopo di che, perseguendo un suo particolare progetto di rinnovamento estetizzante della classe politica al femminile, Silvione l’ha fatta eleggere a Strasburgo: vedi la celebre e astuta foto di lei che votava allattando in aula uscita dopo una singolare testimonianza a proposito di idoletti della fertilità accolti a girotavola durante le cene a villa San Martino. In seguito l’ha richiamata nel ruolo di ciambellana di corte addetta alla sua regale persona, nonché depositaria della magica agenda.
Si trattava in realtà del medesimo ruolo di general manager del berlusconismo svolto per qualche anno dall’onorevole Mariarosaria Rossi in abbinata con la favorita del momento, Francesca Pascale.
Anche in quel caso i giornalisti, con quel filo di mala creanza che pure insaporisce e in fondo riscatta la sbobba del day by day, utilizzavano di norma il titolo di “badante”, trasmesso a Ronzulli che tuttora lo esercita affettuosamente e in armonia con l’onorevole Marta Fascina, per la quale ad esempio si è spesa organizzando le quasi o finte nozze.
Per tornare alla politica, che pure con tali faccende di riffa o di raffa finisce ormai per identificarsi, nei giorni concitati del Quirinale tra Ronzulli e Meloni qualcosa di storto deve essersi verificato, anche se al dunque un impiccio secondario. È sulla scelta e sul potere dei ministri che si mettono alla prova l’alleanza e la convivenza – e un no prima ancora di cominciare è già un no che vale per il futuro.
(da agenzie)
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