Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
E’ STATO ANCHE PARLAMENTARE NAZIONALE E REGIONALE… EX LOMBARDIANO IN SICILIA AD AGOSTO AVEVA ADERITO ALLA LEGA
Il sindaco di Priolo Gargallo (in provincia di Siracusa), Pippo Gianni è stato arrestato dalla polizia con l’accusa di concussione.
Il 77enne primo cittadino, posto agli arresti domiciliari, sarebbe coinvolto in un’inchiesta della Procura di Siracusa per “una serie di concussioni”.
Gli agenti della Squadra mobile di Siracusa e del commissariato di Priolo, insieme con il Nucleo Pef della Guardia di finanza, hanno anche effettuato perquisizioni nell’abitazione del sindaco e negli uffici comunali.
Secondo la Procura di Siracusa Pippo Gianni si sarebbe reso responsabile di istigazione alla corruzione, tentata concussione, concussione, falsità materiale e ideologica in atti pubblici.
Per alcuni dei reati contestati, avrebbe agito in concorso con complici, sia privati sia pubblici ufficiali, per i quali si è proceduto alla denuncia in stato di libertà.
Gianni, ex parlamentare nazionale e regionale, ed ex assessore regionale all’Industria con il governatore Raffaele Lombardo, è stato rieletto sindaco della città della zona industriale nel 2018, dopo aver ricoperto l’incarico di primo cittadino di Priolo dal 1984 al 1991.
Gianni aveva aderito ad agosto a “Lega Sicilia – Prima l’Italia”, la costola isolana del partito di Matteo Salvini.
Secondo gli investigatori, Gianni “avrebbe intimato a imprenditori locali, abusando delle propria posizione di vertice dell’amministrazione comunale, la dazione di ingenti somme di denaro a società da lui indicate al fine di favorire imprese compiacenti nell’ambito delle gare di appalto, secondo la formula del partenariato pubblico-privato, garantendo alle stesse un diritto di prelazione rispetto alle altre società concorrenti”. Pressioni che sarebbero state fatte, sempre secondo l’accusa, anche “per agevolare l’assunzione di persone presso aziende leader del polo industriale siracusano”.
Dalle intercettazioni, per i magistrati è emerso che “il sindaco, nel corso di colloqui con alcuni dirigenti dell’area industriale, minacciava l’effettuazione di penetranti controlli e verifiche, nell’esercizio delle competenze attribuite al Comune nel settore ambientale, nonché l’irrogazione di sanzioni pecuniarie alle aziende che gli stessi rappresentavano, qualora non avessero assecondato le sue richieste”, proseguono gli inquirenti.
Inoltre, il sindaco avrebbe “imposto al dirigente di settore l’accoglimento di un’istanza per ottenere il patrocinio di una manifestazione pubblica nonché un contributo economico per l’organizzazione della stessa, incidendo sulla sfera decisionale del funzionario. Analoga condotta sarebbe stata posta in essere nei confronti di un altro dirigente comunale, al fine di imporgli la revoca in autotutela di un provvedimento con effetti sfavorevoli rispetto alla pratica relativa ad un lido balneare sul litorale priolese”, continua l’accusa.
E ancora, “avrebbe disposto l’annullamento di sanzioni al codice della strada, elevate a privati che hanno richiesto un suo intervento, alterando il contenuto dei verbali, in concorso con personale del Comando della Polizia municipale di Priolo”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
BUSTE PAGA SEMPRE PIU’ POVERE, NEL 2022 PERSO ALMENO IL 5,3%
Nonostante l’inflazione vicina al 10%, le retribuzioni restano al palo (quindi di fatto scendono) e un primo recupero del potere d’acquisto avverrà solo “a partire dal 2024”.
È quanto viene sottolineato in un approfondimento della Nota di aggiornamento al Def approvata questa settimana dal Consiglio dei ministri.
La Nadef prevede per il settore privato retribuzioni in aumento dell’1,8% quest’anno, del 2,9% nel 2023 e del 2,5% nel 2024 (quando l’inflazione è prevista al di sotto di questo valore) .
L’indice di misura dell’inflazione utilizzato come base per i rinnovi contrattuali, pubblicato dall’Istat a giugno e che potrebbe essere rivisto al rialzo, è invece fissato al 4,7% quest’anno, al 2,6% per il 2023 e all’1,7% per il 2024.
Di fatto significa che le buste paga degli italiana perderanno in media e in valore effettivo di almeno il 5,3% considerando l’inflazione acquisita per l’intero 2022 che è già al 7,1%.
Un’altra mazzata per salari già fortemente compressi da decenni e al di sotto di quelli di gran parte dei paesi europei, Spagna inclusa.
Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico paese membro in cui gli stipendi sono oggi inferiori a quelli di 30 anni fa.
(da agenzie)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
L’ANALISI DI CONFCOOPERATIVE: “IL DISAGIO SOCIALE SUPERA ORMAI I CONFINI DELLA POVERTA'”
“Il disagio sociale supera i confini della povertà conquistando nuovi spazi, inghiottendo 3 milioni di famiglie per un totale di 10 milioni di persone, mietendo nuove vittime tra coloro che fino a oggi pensavano di esserne al riparo”.
È quanto afferma il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini, commentando quanto emerge dal focus Censis-Confcooperative Un paese da ricucire.
Undici famiglie su cento, secondo lo stesso focus, hanno una spesa per consumi sotto la soglia di povertà.
Almeno 300mila imprese rischiano di crollare sotto il peso di oltre 300 miliardi di debiti, rischiando di far ingrossare le file della povertà con pesanti contraccolpi per l’occupazione di circa 3 milioni di persone. Si preannuncia un autunno caldo a cui dare risposte”.
Il quadro emergenziale è fotografato dalla povertà delle famiglie, dal lavoro povero e dal lavoro nero, dalle difficoltà crescenti delle imprese con contraccolpi sull’occupazione e sul credito. Tra assoluta e relativa la povertà nel nostro Paese colpisce circa 3 milioni di famiglie, pari a circa 10 milioni di persone. Il numero di famiglie in povertà assoluta sono 1.960.000, l’equivalente di 5.571.000 di persone.
Quasi 2 milioni le famiglie in povertà assoluta
Mentre sono 2.895.000 le famiglie, 8.775.000 di persone, che vivono in condizioni di povertà relativa.
Percepire un reddito da lavoro dipendente non è più sufficiente a mettersi al riparo dal rischio di cadere in povetà e da condizioni di disagio dalle quali può diventare difficile affrancarsi. Sul totale degli occupati 22.500.000, il 21,7%, pari a 4.900.000 svolge lavori non standard (dipendenti a termine, part time, part time involontario, collaboratori).
I più colpiti da queste condizione di precarietà economica e sociale, sottolinea lo studio di Censis-Confcooperative, sono i giovani (38,7% nella classe d’età 15-34 anni), basso livello di istruzione (il 24,9% ha la licenza media), di risiedere nelle regioni meridionali (28,1%).
Sono invece 4 milioni i dipendenti “a bassa retribuzione” nel settore privato (retribuzione annua inferiore ai 12 mila euro); di questi 412 mila hanno un lavoro a tempo indeterminato e full time.
Sono 3,2 milioni gli occupati irregolari. Di questi 2,5 mln nei servizi; 500 mila i “falsi autonomi” e 50 mila i lavoratori delle piattaforme. Sul futuro della tenuta sociale nel lungo periodo pesa la condizione dei pensionati: il 40%, 6,2 milioni di persone, percepisce un reddito pensionistico complessivo è uguale o inferiore a 12.000 euro.
Quelli “poveri”, che percepiscono cioè un reddito pensionistico nell’anno uguale o inferiore ai 12 mila euro sono 6,2 milioni, pari al 40%. Il 60% delle pensioni di anzianità o vecchiaia non raggiunge i 10 mila euro all’anno. La pensione di cittadinanza – con un importo medio mensile di 248 euro – è percepita da 126mila pensionati, di cui circa un terzo costituito da persone in condizioni di disabilità. Torna ad aumentare il rischio default per le imprese italiane negli anni 2019-2022.
Le imprese a rischio erano il 12,6% nel 2019 salgono al 16,1%
Le imprese a rischio erano il 12,6% nel 2019 salgono al 16,1%. Le imprese vulnerabili crescono da 29,4% al 32,6%. Le imprese solvibili scendono dal 40,5% al 36,1%%. Le imprese solide calano dal 17,5% al 15,2%. Le più colpite sono le microimprese più esposte all’impatto di questa “tripla crisi”. Le micro imprese (meno di 10 addetti) sono a rischio default il 16,7%, vulnerabili il 35,2%. Tra le piccole (10-50 addetti) a rischio default il 9,9% e il 26% sono vulnerabili. Le medie (50-250 addetti) a rischio default il 6%, vulnerabili il 19,9%. Tra le grandi (oltre 250 addetti) a rischio default il 4,4%, vulnerabili il 15,6%.
L’impatto su imprese, addetti e debiti finanziari potrebbe avere un epilogo drammatico. A rischio default 100.000 imprese, mentre 200.000 rimarrebbero estremamente vulnerabili con 832.000 persone occupate a rischio e 2,1 milioni vulnerabili. Con 107 miliardi di debiti finanziari a rischio e 196 vulnerabili. La distribuzione geo territoriale della crisi evidenzia una maggiore fragilità delle imprese del Sud e delle isole, ma sono interessate tutte le regioni italiane, anzi in termini assoluti e non relativi morde di più nel Nord Est e nel Nord Ovest.
(da agenzie)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
VIAGGIO E TESTIMONIANZE NEI CIRCOLI PD DI ROMA
Riccardo Pagani ha 25 anni e studia ingegneria civile. Domenica scorsa ha fatto l’alba ai seggi elettorali per assistere allo spoglio delle schede. E il mattino seguente, alle 9 in punto, era già in piedi davanti alla nuova sede del suo circolo Pd per aprire all’elettricista che doveva attaccare la corrente.
Quasi che – dopo la batosta alle urne – il Partito democratico avesse urgente bisogno di qualcuno che riaccendesse la luce anche in senso materiale, non solo metaforico.
Riccardo è un giovane militante dem della Balduina, quartiere della classe media di Roma Nord. Quando lo sento al telefono, martedì pomeriggio, è ancora alle prese con i lavori per la nuova sede del circolo: ha affittato un furgone e comprato delle assi di legno per costruire un soppalco all’interno della sezione. «Insieme con i compagni abbiamo finito di dipingere l’altro giorno», racconta.
«Per chi come me è nato nel 1997 e si sente di centrosinistra, il Pd rappresenta una scelta naturale: quando ero bambino l’alternativa era tra Berlusconi e il Pd…». «Ma adesso – prosegue – serve un cambiamento nel partito. La classe dirigente che ha determinato la sconfitta alle elezioni dovrebbe farsi da parte. E anche Letta… Non basta quello che ha detto: dal segretario mi sarei aspettato una più chiara assunzione di responsabilità».
«La campagna elettorale – si sfoga ancora Riccardo – è stata molto debole, il partito ha investito poco, intendo proprio a livello economico. Ho quasi avuto la sensazione che ci si considerasse perdenti già in partenza».
E ora che la sconfitta si è materializzata «abbiamo bisogno di fare un congresso sui temi». «Il Pd – argomenta il giovane militante – deve sviluppare una propria identità chiara: spesso in questi anni ha avuto grandi difficoltà nel comprendere da che parte stare. Un partito deve stare da una parte ben precisa. Invece noi troppo spesso siamo stati al governo, anche quando governare ha richiesto compromessi troppo distanti dalle nostre idee».
Il leader del futuro? Riccardo conclude amaro: «Sinceramente oggi nel Pd non vedo nessuno che mi emozioni, che mi rappresenti, che mi dia la sensazione di potermi fidare». Bocciatura netta. Ma l’insoddisfazione e la rabbia verso il proprio partito sono stati d’animo più che mai diffusi, fra gli attivisti dem, all’indomani del trionfo elettorale di Giorgia Meloni.
Il malcontento è palpabile, parlando con chi fa politica “dal basso”, nei circoli Pd di Roma.
Tra i compagni di Riccardo alla sezione Balduina c’è Stefano Gasperini, 74 anni: «Da giovane votavo per il Partito Socialista di Nenni, poi sono passato al Pci di Berlinguer, ma la prima tessera l’ho fatta con il Pds nel 1998, quando Bertinotti fece cadere il governo Prodi. Ero incazzato nero».
«Quindici anni fa ho partecipato alla confluenza dei Ds nel Pd con un certo travaglio. Mi rendevo conto che poteva essere la strada giusta, ma l’operazione fu condotta male, è stata una fusione a freddo. Dovremmo imparare dalla destra: quelli si odiano ma poi vanno tutti insieme…».
I Cinque Stelle? «Non li ho mai sopportati, ma forse l’alleanza andava fatta. Però la colpa della débâcle non è solo di Letta. No, la colpa è di tutta la dirigenza del partito, che non ha capito una beneamata mazza di questa campagna elettorale, come ci hanno chiaramente detto i cittadini».
Stefano qui si infervora: «Non possiamo essere soltanto il partito dei diritti. Se alla gente non glie se dà da magnà, è inutile! Abbiamo perso completamente il contatto con le fasce deboli. Ma questo viene da lontano, eh: dalla segreteria Renzi, anzi anche da prima, altrimenti Renzi non sarebbe diventato segretario…».
«Siamo noi, sul territorio, che abbiamo il polso della situazione, siamo noi che facciamo i banchetti, che ci prendiamo gli sputi o gli abbracci. Ma nel Pd la base non è per niente ascoltata dai vertici».
A pochi chilometri dalla Balduina c’è il circolo Pd Mazzini-Trionfale. Qui Gloria Monaco, 52 anni, impiegata in una società partecipata della Regione Lazio e attivista politica dal 1994, è ancora imbufalita per certi meccanismi distorti della legge elettorale: «Da militante – mi dice – ho avuto serie difficoltà a spiegare all’esterno il fatto che non si potesse scegliere il proprio candidato. E fra parentesi – aggiunge – non ho condiviso la scelta di alcune candidature nel mio partito».
Secondo Gloria, «il Pd va rifondato dalla base. Meno correnti, meno personalismi: è questo che allontana le persone dal partito. A pensarci bene, ha allontanato anche me, che prima ero molto più entusiasta. Adesso invece a volte dico tra me e me: “Ma cosa mi impegno a fare? Tanto alla fine decidono sempre loro”. Bisogna ripartire da noi della base, dai nostri valori fondativi, scendere in strada, parlare con il prossimo, ascoltare i problemi della gente». Discorsi già sentiti? «Questa volta è diverso, qua rischiamo l’estinzione del partito».
Quanto alla sconfitta alle elezioni, continua la militante, «non ho capito il perché di una chiusura così netta al M5S da parte di Letta. Io avrei fatto un grande cartello elettorale, tutti uniti contro il centrodestra».
E ora? «Mi piace Elly Schlein, ha le idee chiare».
Schlein è la preferita anche di Giulia Cretoni, 32 anni, laureanda in Medicina, anche lei militante del circolo Pd al quartiere Trionfale. «Elly non ha paura di far vedere che è di sinistra, timore che invece ho notato troppo spesso in questi anni nel partito. Il Pd si è spostato troppo al centro».
Giulia è iscritta ai dem dal 2009: «Quello del Partito democratico era un progetto ambizioso e che secondo me aveva un senso. Però poi nei fatti il partito unitario non si è mai concretizzato: hanno prevalso le singole istanze delle varie anime interne».
Ed è così che «alle ultime elezioni per la prima volta ho avuto un po’ di titubanza al momento del voto. La linea del segretario non mi ha, diciamo, entusiasmato. Troppo pacato, lo avrei voluto vedere più deciso nel portare avanti i nostri temi». Ma adesso «sono felice che siamo all’opposizione: finalmente il Pd potrà interrogarsi su se stesso e ritrovare i suoi valori fondativi, che ultimamente aveva perso perché doveva pensare solo a governare». «Ma – avverte la militate – la tessera quest’anno non l’ho ancora rinnovata: voglio vedere come andrà il congresso».
Conte o non Conte
Davide Capasso, 23 anni, studente di giurisprudenza, ha fatto la sua prima tessera – anche lui alla sezione Trionfale – dopo la sconfitta alle politiche del 2018. «In questi giorni – racconta – sono andato su Instagram a scorrere le pagine dei nostri esponenti. Stanno dicendo esattamente le stesse cose che dicevano il giorno dopo la sconfitta di quattro anni e mezzo fa: “Dobbiamo riaprirci, tornare fra la gente, eccetera”. Questo mi fa pensare che a quelle dichiarazioni poi non siano seguiti i fatti».
Eppure, rimugina il giovane, «questa volta sui contenuti ci avevamo preso. Il programma era molto migliore di quello del 2018 e siamo anche stati meno timidi… Ma su certi temi, come il salario minimo, siamo arrivati tardi rispetto ad esempio agli altri partiti della sinistra europea. E poi siamo stati penalizzati dal fatto di essere percepiti nella società come il partito che governa sempre. In effetti, negli ultimi undici anni è quasi sempre stato così. Molte persone ci chiedono: “Ma se siete stati al governo finora, perché queste cose non le avete fatte prima?”».
«Quanto alle alleanze – osserva Davide – secondo me l’idea di una coalizione alla tedesca, con i Verdi e i liberali di Calenda, era buona. Ma poi sappiamo com’è andata… Conte, invece, no: non c’era proprio il tempo materiale per fare un’alleanza pochi giorni dopo la caduta del governo Draghi».
La pensa diversamente Leo Peppe, 74 anni, militante del circolo Pd di Ponte Milvio: «La mancata alleanza con i Cinque Stelle è stato un errore macroscopico», sbuffa. «A costo di turarsi il naso, l’accordo andava fatto. Lo imponeva il meccanismo elettorale!».
Ex professore di Diritto romano, ora pensionato, Leo viene da una vita nel sindacato: «Ho sempre votato Pci, poi Pds, Ds e ora Pd. Ma la tessera l’ho fatta solo quattro anni fa», racconta. Poi riprende il discorso sulla campagna elettorale: «Ci sono stati diversi errori tattico-strategici. Oltre al discorso sulle alleanze, si è sbagliato a insistere più sui diritti civili che su quelli sociali. Poi, resto convinto che l’Italia sia un Paese di centrodestra, per cui l’argomento fascismo e salvaguardia della democrazia in campagna elettorale non avrebbe dovuto essere il primo punto, ma al massimo il secondo, se non il terzo». Ora, dice il professore, «vorrei che si superasse la stagione dei personalismi e dei rancori. Vorrei che si facesse più politica. Che si stesse con i piedi nella realtà, a partire ad esempio dal problema del caro bollette».
Passione
A Testaccio, cuore pulsante della capitale, Matteo, 42 anni, avvocato, parte con un’autocritica: «Alle elezioni potevamo fare meglio tutti. Dare tutta la colpa al segretario è sbagliato. Non siamo stati chiari sul profilo che volevamo come partito e sull’idea di Italia che avevamo in mente». Matteo è tra i fondatori del circolo Pd nel quartiere più simbolico della romanità: «La politica per me è una passione. Sono militante da quando ho 14 anni, era il 1994».
Dopo la sconfitta contro Meloni, racconta, «tra noi iscritti c’è fibrillazione, ci si confronta, ci si sfoga: c’è la consapevolezza che non si può andare avanti così. E non basterà cambiare il segretario, qua si tratta di ripensare le radici che ci tengono insieme».
«Io – riflette il testaccino – forse scioccamente credo che sia possibile mettere insieme quella parte del Paese che soffre con quella più dinamica e che innova. E penso che Letta, e prima di lui Zingaretti, avevano mostrato una strada. Adesso sta al partito, anche a noi militanti, discutere se quella è la strada giusta».
Spostandosi a Roma Sud, Fabrizio Mossino, segretario del circolo Pd Portuense, zona popolare, mi racconta un aneddoto: «Era il 2008, il Partito democratico esisteva da un anno. Con una trentina di segretari dei circoli romani, me compreso, andammo in centro, nella sede del partito a via Sant’Andrea delle Fratte. Al segretario Veltroni, che ci ricevette, dicemmo preoccupati una cosa: “Le correnti interne non permettono il rinnovamento del partito”. Lui ci rispose che avevamo ragione. Subito dopo quella riunione partì con il suo braccio destro Walter Verini per la Sardegna, dove si era in piena campagna elettorale per le regionali. Due mesi dopo il Pd perse quelle elezioni e Veltroni si dimise da segretario, anche lui vittima del correntismo». «Io all’epoca avevo 36 anni – conclude Mossino – e oggi, che ne ho 50, mi trovo a risentire gli stessi discorsi di allora…».
Nel circolo dem di Portuense milita Claudio, 74 anni, «felicemente pensionato» («Ci sono andato prima della Legge Fornero», strizza l’occhio): «Sono iscritto sia al Pd sia ai Radicali Italiani, ma la mia militanza politica è iniziata con i moti del Sessantotto».
Il congresso in vista? «Non basta cambiare il segretario», avverte. «Il Pd oggi ha smarrito le ragioni della sua esistenza politica. Ora che le elezioni sono perse, dovrebbe stabilire una strategia per questa legislatura e portarla avanti con iniziative proprie. Senza stare a pensare già adesso a eventuali alleanze future».
Possibile? Lia Esposito, 74 anni, commerciante, anche lei ex sessantottina, anche lei militante del circolo dem di Portuense, è scettica: «Non si parla più di “noi”, ma di “io”. Non esiste più lo spirito della comunità». «Detto questo, Letta per me è una persona seria: ha fatto sicuramente degli errori, ma non è che quelli prima di lui abbiano fatto meglio…».
Su una cosa, però, Lia non è d’accordo con Letta: «Non doveva lasciare. Come non dovevano lasciare gli altri leader che si sono dimessi in passato. Sa una cosa? Il Pd mi sembra un pullman. Sì, un pullman: l’autista sale a bordo e inizia a guidare, poi arrivano le elezioni e, se si perde, l’autista cambia. È un ciclo che si ripete: vai al voto, perdi e cambi segretario. Per noi militanti è questa la cosa più pesante da subire: si perdono le elezioni e i segretari se ne vanno».
(da TPI)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
I REFERENTI DELLA MELONI RICHIAMANO ALL’ORDINE: “GOVERNO IN TEMPI RAPIDI, MINISTRI COMPETENTI, AUTOREVOLI E INAPPUNTABILI”
“Noi non tifiamo nè per uno e nè per l’altro. Proponiamo le misure e giudichiamo cosa viene fatto”. Lo ha detto il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, nel corso dell’assemblea degli industriali di Varese.
“Non possiamo permetterci immaginifiche flat tax e prepensionamenti. Non vogliamo negare ai partiti di perseguire le promesse elettorali ma oggi energia e finanza pubblica sono due fronti emergenza che non possono ammettere follie per evitare l’incontrollata crescita di debito e deficit”.
“Ci auguriamo la formazione di un Governo nei tempi più rapidi possibile. Ci auguriamo un Governo con ministri autorevoli, competenti e inappuntabili”, ha spiegato Bonomi.
“Nessuno oggi può fare previsioni realistiche sulla crescita e sugli effetti del rialzo dei prezzi dopo la scelta scellerata dei russi. Serve da parte del Governo una generale vasta convergenza sulle scelte, anche con le forze di opposizione. C’è bisogno di serietà, unità e responsabilità su energia e finanza pubblica”.
“Sull’energia serve una Europa che condivida gli sforzi. Non si può essere uniti sulle sanzioni e poi sull’energia divisi lasciando che ogni Paese si muova autonomamente. Sull’energia l’Italia non può farcela da sola”, ha detto il presidente di Confindustria.
(da agenzie)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE SONO 700MILA COLORO CHE POTREBBERO LAVORARE DA REMOTO MA ORA 4 SU 5 SONO INDECISI: SENZA UN RIMBORSO PER L’ENERGIA, A COPRIRE PARTE DI COSTI DELLE BOLLETTE, CONVIENE TORNARE IN UFFICIO
Frena il lavoro agile per il caro energia. Gli statali come i dipendenti delle aziende private non vogliono rimetterci economicamente per colpa delle bollette a casa. Nella Pubblica amministrazione i lavoratori ora dicono no allo smart working in assenza di rimborsi per l’energia, segnalano dai ministeri. Allarme pure nelle aziende private, dove gli accordi non sono ancora obbligatori, ma dove spesso non sono previste compensazioni economiche per i rincari dell’energia.
L’adesione al lavoro agile nella sua forma ibrida avviene nelle Pa su base volontaria e passa attraverso un accordo tra dirigente e dipendente. Il problema è che gli statali adesso chiedono (senza ottenerlo) una sorta di bonus per coprire parte delle spese legate alle forniture di luce e gas, a fronte del maggior numero di ore che devono trascorrere a casa per effetto dello smart working.
La questione dei mancati rimborsi spese per luce e gas impatterebbe su circa 700mila statali: tanti sarebbero i remotizzabili nella Pa, secondo alcune stime. Più nel complesso, su 18 milioni di dipendenti potrebbero lavorare in modalità agile tra i 6 e gli 8 milioni di italiani, ha stimato il Politecnico di Milano. L’asticella al momento però si fermerebbe a 4 milioni.
Nelle amministrazioni pubbliche però il cassetto delle risorse è vuoto o quasi e non ci sono tesoretti a cui attingere per venire incontro alle richieste dei dipendenti, chiamati ad una scelta senza sconti. Insomma, lo smart working ai lavoratori non conviene più come un tempo. […] con il caro energia il lavoro agile sta diventando un lusso che in tanti non possono più permettersi se vogliono arrivare a fine mese.
(da il Messaggero)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
CON IL SUO “TFR” DA 100MILA EURO DOPO 9 ANNI DA PARLAMENTARE GIGGINO SI VOREBBE BUTTARE NEL PRIVATO, SFRUTTANDO LA RETE DI CONOSCENZE MATURATA NELLA SUA ESPERIENZA DA MINISTRO
Luigi di Maio si è congedato dalla politica con un lunghissimo post pubblicato sulla sua pagina Facebook. Poi ha ordinato al suo portavoce, Giuseppe Marici, di disattivare tutti i canali social: Facebook, Twitter, TikTok, Instagram.
Il ministro degli Esteri dice addio a quel mondo che l’ha accompagnato negli ultimi dieci anni. Quel mondo che l’ha prima esaltato e poi insultato. Il profilo Facebook privato risulta però ancora attivo: un modo per comunicare la volontà di concentrarsi solo sugli affetti intimi.
Amici, famiglia e lavoro: la seconda vita del più giovane ministro degli Esteri dell’Italia riparte da qui.
. «Nell’imminente futuro non c’è alcun progetto politico», fanno sapere i fedelissimi. Non potrebbe essere diversamente. Il progetto Impegno Civico è naufragato clamorosamente. Percentuali da prefisso telefonico. Una Caporetto.
Lo staff ha smentito l’eventuale nomina come assessore regionale nella giunta De Luca. Certo negli ultimi mesi tra Di Maio e lo sceriffo salernitano è scoppiato l’amore. De Luca potrebbe riservare una poltrona in giunta per un fedelissimo del ministro degli Esteri: Vincenzo Spadafora o Valeria Ciarambino, consigliere regionale di Impegno Civico in Campania, sono i due favoriti.
Di Maio ha deciso: niente politica per i prossimi due anni. Il partito dei sindaci? «Un progetto morto già in partenza con la fuga di Beppe Sala che si prepara a correre per la guida del Pd» spiegano dall’entourage del ministro.
La base di partenza per la nuova vita di Di Maio è l’assegno di fine mandato: 100mila euro per 9 anni in Parlamento. Niente male. Un bel gruzzoletto. L’idea sarebbe quella di avviare una start up di consulenza per le relazioni internazionali. In parole semplici: Di Maio si prepara a fare il lobbista per gli Stati stranieri.
Nei tre anni alla guida della Farnesina l’ex capo dei Cinquestelle ha stretto rapporti con ambasciate e governi stranieri. In questi anni il compito è stato quello di difendere e tutelare gli interessi dell’Italia. Di Maio vuole continuare questa attività. Ma d’ora in avanti per conto dei governi stranieri che intendono ampliare i propri interessi in Italia. Insomma, Di Maio si candida a seguire le orme di un altro ministro degli Esteri: Massimo D’Alema che ha offerto le proprie competenze (e la mediazione) per i governi della Colombia e Cina.
La rete c’è. Fatta di relazioni consolidate nel tempo. C’è anche un’altra opzione nel futuro di Di Maio: Leonardo-Finmeccanica.
Nel colosso il ministro ha coltivato parecchie amicizie. Che potrebbero ritornargli ora utili. Il trasloco dalla Farnesina a Leonardo sarebbe una forzatura. Anche se un altro ex ministro, Marco Minniti, si è accasato alla fondazione Med-Or.
Una volta completato il passaggio di consegne con il nuovo ministro degli Esteri, Di Maio si concederà qualche giorno di vacanza. L’unica certezza: non ritornerà (per ora) all’impegno politico. Un destino comune a tanti ex grillini.
Angelo Tofalo, ex sottosegretario alla Difesa, ha fondato con la sorella, Antonia Tofalo, una società di consulenza At Agency, nel settore della sicurezza. Tofalo ha sempre avuto il pallino per l’intelligence. Nelle due esperienze al governo è stato dirottato alla Difesa. Finalmente ora potrà coltivare la sua passione.
(da il Giornale)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
PER GARANTIRE MAGGIORE SICUREZZA SUI POSTI DI LAVORO IN 8 ANNI L’INAIL HA STANZIATO OLTRE 2 MILIARDI. MA IL 40% DI QUESTI SOLDI (887 MILIONI) RESTA FERMO NELLE SEDI LOCALI PER “MOTIVI CONTABILI”
In Italia si muore di lavoro, e sempre di più: nei primi sette mesi del 2022 gli infortuni professionali sono aumentati del 41% (441.451 denunce) rispetto allo stesso periodo del 2021. Il numero dei decessi a fine agosto è di 677, appare in calo del 12% ma è solo per l’enorme diminuzione dei decessi per Covid che nel 2021 erano il 68% e oggi sono fermi al 3% del totale.
Crescono invece le morti da infortunio, soprattutto nella fascia di età più elevata e tra i giovanissimi (15-24 anni), con i drammi di chi resta ucciso durante uno stage o in alternanza scuola-lavoro (dove non dovrebbe proprio essere esposto a rischi).
Il 21 gennaio un 18enne muore schiacciato a Udine nell’ultimo giorno di stage. Il 16 settembre a Noventa di Piave un altro 18enne è travolto da una lastra di ferro mentre è in stage di lavoro. Il 26 settembre un ragazzo è deceduto cadendo da un’impalcatura edile a Rossano Calabro, il giorno dopo a Manerbio, Brescia, un operaio di 60 anni è morto schiacciato da un rullo trasportatore, il 28 un addetto allo smaltimento dell’amianto precipitando dal tetto di una fabbrica a Teramo, un agricoltore schiacciato da un trattore nel cosentino, uno ucciso da una pressa a Torino.
Il 30 settembre, dopo quindici giorni di agonia, è morto un operaio che era rimasto schiacciato da un pantografo mentre rimuoveva dei pannelli in un’azienda di Milano dove era impiegato in subappalto. E raddoppiano le morti tra i lavoratori stranieri. A fine anno avremo un’analisi più indicativa della situazione infortunistica 2022, ma ad oggi, ogni otto ore un lavoratore perde la vita.
I rimborsi per investire in sicurezza
Vigilare su fabbriche e cantieri è compito dell’Ispettorato del Lavoro, tocca invece all’Inail risarcire gli infortunati e i disabili e le famiglie che hanno perso un congiunto.
Dal 2010 l’Istituto eroga un finanziamento annuale a fondo perduto (Bando Isi) per rimborsare dal 50 al 65% delle spese le aziende che investono in sicurezza, ad esempio sostituendo attrezzature vecchie e pericolose, eliminando l’amianto dalle strutture o migliorando i sistemi di protezione per le cadute o, ancora, mettendo in sicurezza le macchine agricole.
Insomma, tramite il bando lo stato vuole prevenire oltre che curare, e questo è un bene. Ricevendo un massimo di 130 mila euro (ma la cifra media è 38 mila) tu imprenditore hai un contributo importante per migliorare la sicurezza di un ponteggio, sostituire il tuo vecchio trattore o una macchina da taglio non più sicura.
Le domande presentate ogni anno superano le 20.000 Accede chi è più veloce Per scegliere chi finanziare, l’Inail ha adottato il sistema «cieco e selettivo» (sono parole del nuovo direttore generale Andrea Tardiola) del click day. Se vuoi ricevere il denaro, devi caricare su una piattaforma informatica un progetto di messa in sicurezza così articolato e complesso che la maggior parte delle aziende è costretta a farlo redigere (pagando) ad agenzie specializzate.
Poi nel giorno e all’ora stabiliti, le 22-24 mila aziende inseriscono le credenziali sulla piattaforma e incrociano le dita: solo le prime seimila in ordine cronologico entrano nella lista, quelle più veloci, e poi hanno 30 giorni di tempo per perfezionare la domanda; le altre vengono messe in posizione di attesa. In media 500 delle seimila aziende non fanno in tempo o non sono in grado di completare la pratica, e quindi vengono escluse e sostituite dalle prime 500 in attesa. Le altre 16 mila devono attendere l’anno dopo e riprovare la lotteria del click day.
Rigettata 1 domanda su 4
Il criterio con il quale il consiglio di amministrazione dell’Inail eroga il denaro alle sue 22 sedi periferiche è in base al numero di aziende e addetti presenti sul territorio, e al peso delle attività nei vari settori. Nel 2021 ammontava a 273 milioni di euro. Però prima di distribuire i soldi stanziati alle singole aziende, le pratiche devono superare l’istruttoria delle sedi Inail competenti. Una su quattro viene rigettata dalle commissioni tecniche regionali giudicanti perché incompleta o ininfluente sulla sicurezza.
Ci sono commissioni severissime (Veneto e Piemonte, per esempio) che bocciano progetti accettati da altre e che sarebbero perfettamente in regola secondo gli esperti che li hanno redatti. «Purtroppo succede che non ci sia uniformità di valutazione – ammette il direttore dell’Inail Tardiola – anche per una diversa sensibilità sul riconoscimento degli infortuni. Gli ingegneri valutatori di Bari, ad esempio, hanno un’attenzione differente da quelli di Torino e sono magari più preparati sulla manifattura che sull’agricoltura o viceversa». Succede ma non dovrebbe, perché un vecchio trattore senza rollbar che si capovolge uccide in Sardegna come in Piemonte, e una pressa senza protezione amputa una mano o un braccio senza preoccuparsi di dove si trova.
887 milioni congelati
Dunque le 1.200 aziende bocciate in fase istruttoria non possono essere rimpiazzate da quelle in lista di attesa? No, spiegano all’Inail, perché rallenterebbe il processo di erogazione dei rimborsi che loro vogliono dare alle aziende (in media passano 18 mesi fra la domanda e l’incasso) affinché possano al più presto rendere il lavoro più sicuro.
Principio sacrosanto. Colpisce però un fatto: su 2 miliardi e 179 milioni di euro stanziati dal 2010 al 2018, ben 887 (il 40%) non sono mai stati distribuiti e quindi investiti in sicurezza. E questo in un Paese che si piazza al 14° posto in Europa per tasso di infortuni mortali. Infatti il denaro, come abbiamo detto, viene bonificato dall’Inail alle sedi regionali prima della verifica che taglia il 25% delle aziende in lista, e i soldi avanzati rimangono quindi fermi nelle loro casse, da Aosta a Milano, da Bari, a Palermo.
Perché? Risposta dell’Inail: «È una regola di contabilità generale, sono risorse di investimento che entrano in bilancio e vanno nel ciclo successivo». In altre parole: quello che avanza quest’ anno viene recuperato due anni dopo. La Lombardia incassa mediamente 43 milioni l’anno, il Lazio 33, la Campania 25, mentre in coda ci sono Molise e Valle d’Aosta. La Sicilia è la regione che riceve più contributi per la sicurezza nel settore agricolo davanti a Campania e Puglia. Nessuna però rende nota la percentuale di promossi e bocciati, cioè quanto resta in cassa. Qualche informazione in più c’è sulla Toscana: nel 2021 (su bando del 2020) incassa 18 milioni, ne spende 11, e gli altri 7 restano in tesoreria. Che diventano 14 nel 2022 (poiché gli andamenti sono abbastanza costanti). E solo nel 2023 si potranno utilizzare i 7 del 2021.
L’Inail ha sempre ragione
Ma perché il sistema trattiene risorse già pronte? Il direttore dell’Inail spiega che – per evitare truffe come quelle dei bonus sull’edilizia – i controlli e il filtraggio devono essere rigorosi fino alla fine. Ovvero prima di incassare il rimborso l’azienda deve aver effettuato l’acquisto approvato in sede istruttoria. Giusto.
Inoltre, sempre secondo Inail, gli intermediari spingono le aziende a redigere progetti «deboli» per incassare le provvigioni. Gli intermediari smentiscono: quando un progetto è bocciato loro non intascano un soldo. Anzi, ne spendono per ricorrere al Tar che molto spesso dà loro ragione. Quando si arriva al Consiglio di Stato, però, l’Inail vince quattro volte su cinque. All’Istituto dicono che il contenzioso è bassissimo (meno di 40 sconfitte negli ultimi anni).
Insomma i soldi si tengono fermi per capire come va a finire, e non è contemplato lo scorrimento di chi è in lista d’attesa. Tra i progetti di miglioramento del sistema c’è invece quello di un filtro iniziale che vada a premiare le aziende con più storia alle spalle e quelle che investono di più di tasca propria in sicurezza, per scremare il numero delle domande prima del click day. In sostanza chi ha più risorse ha una via preferenziale per averne ancora di più, e chi fatica ad andare avanti con macchinari obsoleti resta in coda e in condizioni di insicurezza. Intanto quest’ anno la somma disponibile, ma non utilizzabile, toccherà il miliardo di euro.
Marco Bonarrigo e Milena Gabanelli
(da il “Corriere della Sera”)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
TUTTI NELLA VECCHIA LEGA CHIEDONO CONGRESSI E C’E’ CHI AGITA LO SPAURACCHIO DI UNA SCISSIONE
«Fare una politica centralista per raccogliere voti, a me che sono un uomo del Nord, non interessa. Perché dovrei applicare la stessa linea della Meloni? Preferisco il 5% del Nord guadagnato perseguendo politiche precise piuttosto che l’8% su scala nazionale ma senza una linea chiara».
Il giudizio di Roberto Castelli, ex ministro e storico dirigente della Lega, è inequivocabile e punta il dito contro la linea di Matteo Salvini che «ha dimenticato l’autonomia», puntando su questioni nazionali lontani dai territori di provenienza. La “vecchia Lega” e la pancia del Carroccio sono in rivolta: la sensazione è che la scalata alla segreteria del “Capitano” sia cominciata.
Resta cauto Castelli sulla proposta di Umberto Bossi di un Comitato per il Nord: «Voglio capire chi c’è dietro. – commenta – Bossi è una presenza fondamentale, ma bisogna capire come si sviluppa la questione. Ma se il Comitato Nord parte dall’esigenza di portare alla ribalta il dibattito sulla questione settentrionale, ben venga».
Castelli aveva fatto dell’autonomia una bandiera fondando nel giugno del 2021 “Autonomia e libertà”, per rivendicare «la volontà popolare espressa nei referendum per l’Autonomia del 2017», come si legge sull’atto di fondazione.
«Non si tratta di una fronda. Penso che aderirò a Comitato Nord costituito da Bossi. S’inserisce all’interno della Lega per Salvini premier, quindi, che male c’è?». Commenta così Francesco Speroni, storico esponente del Carroccio e tra i fondatori della Lega Nord.
A una settimana dall’esito disastroso del voto che ha visto la Lega fermarsi sotto il 9%, l’iniziativa ha suscitato un certo interesse, soprattutto tra gli esponenti della “vecchia Lega”, da tempo insofferenti a certe posizioni e decisioni di Matteo Salvini. Anche se qualche interno al partito la reputa un’operazione «per recuperare voti», c’è il sospetto che possa trattarsi di una vera e propria “carboneria” anti-salvini.
Castelli, all’indomani del voto aveva detto «Salvini ha ribaltato il partito, ma gli è andata male. Torniamo a occuparci di autonomia, come fa Zaia». E non è il solo a citare o alludere al presidente della Regione Veneto come futuro capo della segreteria. L’ex numero uno lombardo Roberto Maroni, per primo dopo le urne, lo aveva detto ancor più chiaramente: «Serve un cambio di leader. Io saprei chi eleggere ma per ora non faccio nomi. Do solo un indizio: è un governatore». E che sia Zaia o Fedriga poco importa.
Anche Bobo, esponente della vecchia guardia, aveva rimproverato al Capitano un’assenza sui temi settentrionali, rimarcando invece quanto «i governatori del Nord legati a Draghi» vogliano l’autonomia.
«Condivido e apprezzo Bossi da trent’ anni. Sono favorevole a questo comitato che è figlio di un malessere interno che ha determinato la fuoriuscita di alcuni e i malumori di altri», dice Roberto Mura, ex senatore ai tempi di Bossi, consigliere regionale lombardo e del Comune di Pavia. «C’è il rischio che tutto imploda in una miriade di schegge che vanno ognuna per conto proprio», dice ancora Mura.
«Comitato Nord è un’iniziativa che osserviamo con interesse, io come altri colleghi amministratori locali – spiega Andrea Previtali, ex sindaco di Cisano Bergamasco e vice presidente dell’associazione Autonomia e Libertà fondata da Castelli. – Se la segreteria non recepisse le istanze di una parte importante del partito, quella legata ai territori della sua fondazione, non è da escludere una scissione», aggiunge Privitali.
Ma d’altronde, lo dicono in molti, il segnale di qualcosa che non funzionasse nel partito era arrivato alle scorse amministrative. La Lega perse a Milano nell’ottobre scorso, a Monza, Lodi, Como (solo per citarne alcune) a giugno.
«Allora abbiamo un po’ mentito a noi stessi. Qui nessuno vuole la testa di nessuno, ma bisogna invertire la rotta perché la sfida delle regionali in Lombardia del 2023 non è da sottovalutare e se non si cambia qualcosa, rischiamo di perdere», aggiunge l’ex senatore Mura.
Tutti, indistintamente, nella vecchia Lega chiedono congressi: a più livelli, per determinare chi gestisce cosa. «Non si può lasciare che il tema dell’autonomia resti fermo all’esito del referendum del 2017 e poi riparlarne a ridosso delle elezioni», è l’opinione comune.
Anche dal Veneto arrivano i primi segnali che la proposta di Bossi ha fatto breccia: «Il comitato del Nord è la naturale reazione alla mancanza di risposte da parte dei vertici – fanno trapelare fonti venete – che non fa presagire una fase tranquilla nel partito. Dopodiché ritorna il tema del ruolo identitario della Lega, come più volte sottolineato dal governatore Luca Zaia».
Insomma, un periodo piuttosto movimentato attende Matteo Salvini, non solo a Roma. Ma anche nel suo ormai quasi “dimenticato” Nord.
(da la Stampa)
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