Ottobre 1st, 2022 Riccardo Fucile
PAGNONCELLI: “AUMENTO DEL CONSENSO DOPO LE DIMISSIONI (DI 10 PUNTI RISPETTO A FINE GIUGNO) E LA TRASVERSALITÀ DELL’APPREZZAMENTO”… TERZO POLO (INDICE GRADIMENTO DRAGHI 94%) E DEL PD (93%), SEGUITI DA LEGA (75%) FORZA ITALIA (73%) FDI (66%) M5S (60%)
Nell’analizzare il voto alcuni commentatori hanno messo l’accento sul rapporto tra le singole forze politiche e il governo Draghi, che avrebbe favorito gli oppositori e penalizzato i sostenitori, sottolineando sia la vittoria del principale partito d’opposizione e il buon risultato del M5S che negli ultimi mesi aveva mostrato posizioni critiche nei confronti dell’esecutivo, sia il risultato inferiore alle attese del Pd, considerato il più convinto sostenitore del governo, e del Terzo polo, il cui programma faceva esplicito riferimento alla cosiddetta agenda Draghi.
Si tratta di un’analisi del tutto legittima ma non condivisibile, alla luce dei dati di popolarità di cui ha goduto il governo uscente fin dal suo insediamento. N
e è una dimostrazione il sondaggio odierno che fa registrare un ulteriore aumento del consenso sia per il governo che per il premier: il 59% degli italiani esprime un giudizio positivo sull’esecutivo e il 63% su Draghi; l’indice di gradimento calcolato mettendo in rapporto i giudizi positivi e quelli negativi, escludendo coloro che non si esprimono, si attesta rispettivamente a 65 e a 69, in entrambi i casi in crescita di 2 punti rispetto a fine agosto.
Come si può osservare dalla serie storica, i sostenitori sono sempre stati superiori ai detrattori in larga misura e ciò rappresenta un elemento di discontinuità rispetto ai governi precedenti che, dopo l’iniziale supporto dei cittadini (la cosiddetta «luna di miele»), hanno tutti fatto registrare un forte calo di popolarità ottenendo più dissenso che consenso, con l’eccezione del Conte II.
Ma vi sono altri due elementi di differenziazione: l’inusuale aumento del consenso dopo le dimissioni (di 7 punti e addirittura di 10 rispetto a fine giugno) e la trasversalità dell’apprezzamento, basti pensare che gli elettori di tutte le forze politiche (con l’eccezione di quelle minori connotate come «anti-sistema») esprimono in maggioranza una valutazione positiva per Draghi con punte più elevate tra quelli del Terzo polo (indice 94) e del Pd (93), seguiti da Lega (75) e Forza Italia (73). Interessante osservare che il consenso è elevato anche tra gli elettori di FdI, il principale partito di opposizione (66), che risulta superiore rispetto a quello espresso dai pentastellati (60); e anche tra gli astensionisti prevalgono i giudizi positivi (60)La trasversalità riguarda anche le caratteristiche demografiche, dato che il gradimento prevale in tutti i segmenti sociali, in particolare tra i maschi, le persone meno giovani, quelle più istruite, di condizione economica medio elevata.
Le ragioni dell’apprezzamento del premier sono riconducibili ad una pluralità di fattori a partire dal contesto caratterizzato dalle crisi da gestire (Covid, guerra, inflazione, crisi energetica) che solitamente inducono la maggioranza dei cittadini ad «affidarsi» a chi ha la responsabilità della guida del Paese; poi i successi ottenuti, in primis la campagna vaccinale con il progressivo ritorno alla normalità, senza dimenticare la crescita del Pil nel 2021 e l’aumentato prestigio dell’Italia su scala internazionale.
E, ancora, i tratti di immagine del presidente Draghi: hanno giocato a suo favore pragmatismo, il profilo istituzionale, la non appartenenza ad un partito e, dunque, la convinzione largamente diffusa che operasse nell’interesse dell’intero Paese, nonché lo sguardo rivolto al futuro.
Alla luce di tutto ciò, come si spiega la contraddizione tra la popolarità del governo e l’esito elettorale che ha premiato l’opposizione? Innanzitutto, con l’opinione largamente diffusa che un governo di larghe intese rappresenti un’eccezione dettata dalle condizioni di emergenza; sebbene le situazioni critiche non siano venute meno, è probabile che i conflitti all’interno della maggioranza abbiano indotto molti elettori a considerare conclusa la stagione della concordia e a ritenere inevitabile il ritorno alla competizione politica.
Ma c’è una seconda ragione, ancora più importante, ed è la domanda di «novità» rappresentata nel 2014 dal Pd di Renzi, nel 2018 dal M5S di Di Maio, nel 2019 dalla Lega di Salvini. All’iniziale entusiasmo ha fatto seguito un forte calo di popolarità che ha contribuito a perpetuare l’alternanza all’«italiana», alla ricerca del nuovo.
Insomma, sotto a chi tocca, avanti un altro ( pardon : un’altra), senza dimenticare gli oltre 16,6 milioni di elettori che hanno disertato le urne, la maggior parte dei quali volontariamente.
Nando Pagnoncelli
(da il “Corriere della Sera”)
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Ottobre 1st, 2022 Riccardo Fucile
ALEC CROSS, L’EX CONSIGLIERE DI HILLARY CLINTON, ASFALTA SALVINI: “NELLA MAGGIORANZA HO VISTO QUALCUNO CON LA MAGLIETTA DI PUTIN, MI SEMBRAVA UN FAN. PERCHÉ SOSTENERLO? I CASI SONO DUE: O È UN UTILE IDIOTA OPPURE È COMPROMESSO”
Alec Ross, le democrazie sono a rischio? Il consigliere di Hillary Clinton ai tempi della presidenza Obama, che da saggista ha raccontato “I furiosi Anni Venti”, guarda la foto di Joe Biden sulla prima pagina della Stampa e risponde quasi senza pensarci: «Sì, dal punto di vista mondiale sì. Ci sono Paesi che stanno molestando i processi democratici» dice, seduto dietro il palco dell’Italian Tech Week di Torino.
A che Paesi si riferisce?
«Alla Russia, alla Cina. Le ricerche ci dicono che hanno finanziati i partiti. L’Italia è un caso diverso. Il brand di Fratelli inizialmente era fascista e basta. Ora è diverso. Gli amici in questi giorni mi hanno chiesto se ci fosse al governo una Mussolini donna, ho risposto “no, vediamo”. Secondo me Meloni assomiglia più a una repubblicana americana».
In stile Trump o Bush?
«Per ora non lo sappiamo».
E’ spaventato da possibili ingerenze russe?
«Guardi, parlo senza censura. C’è stata una amnesia collettiva: all’inizio della Seconda guerra mondiale l’Italia ha sostenuto i nazisti. Stare al fianco della Russia nel 2022 è come averlo fatto con la Germania nel 1939. Basta guardare a quello che sta succedendo in Ucraina, con l’emigrazione forzata e i bimbi uccisi. Putin è una bestia, e sostenerlo è come sostenere Hitler».
Pensa che nella nuova maggioranza ci siano dei suoi sostenitori?
«Ho visto qualcuno con la maglietta di Putin. A me sembra un fan».
E’ chiaro che si riferisca a Matteo Salvini. Ma perché qualcuno dovrebbe sostenere Putin? Per motivi economici? Politici?
«I casi sono due: o è un utile idiota oppure è compromesso».
Ieri è uscito un altro dato devastante per l’economia: l’inflazione europea ha superato il 10 per cento.
«Abbiamo seicento anni di storia che ci dimostrano come l’inflazione abbia grandi effetti politici, perché è sentita soprattutto dagli operai e dalla middle class. La corsa dei prezzi ha un effetto dirompente. Vedremo come resisteranno i sentimenti europei dopo questa la crescita brusca che ci sarà in autunno. L’inflazione, molto spesso, è alla base delle radicalizzazioni, penso alla Germania nel 1929. E’ una dinamica storica, un fil rouge pericoloso».
Come ne esce?
«Innanzitutto, fermando Putin, da solo non lo farà mai. Bisogna continuare ad armare l’Ucraina e dare ai cittadini europei risposte di tipo economico».
Di quale tipo?
«C’è un modello da non seguire, la Gran Bretagna. Il lavoro di Mario Draghi, che è andato in Algeria per garantirsi le forniture di gas, invece, è stato intelligente».
Che strada ha di fronte a sé Giorgia Meloni?
«Sul breve termine di continuare il lavoro di Draghi. Poi però serviranno nuove risorse energetiche. Stiamo pagando la pigrizia della politica che non ha saputo accedere alle risorse sostenibili. L’interno della Sicilia brucia a 40 gradi, va rivestita di pannelli solari. Le soluzioni ci sono: serve il coraggio per fare scelte difficili».
Nel suo ultimo libro racconta la “guerra fra Stati, aziende e persone per un nuovo contratto sociale”. Tra i protagonisti delle grandi battaglie ci sono i social network, colossi con poche regole e molto denaro…
«Ho conosciuto molto bene quei ragazzi della Silicon Valley e posso dire questo: c’è una grande differenza tra l’intelligenza e la saggezza. Loro sono intelligenti, ma non saggi. Sono diventati ricchi quando erano troppo giovani, vivono in una bolla».
Eppure, su quelle pagine possono nascere i nazisti 4.0. Che cosa possono fare gli Stati?
«Le regole dell’Europa sono uno scherzo, una burla. Ormai è troppo tardi per regolamentare internet ma dobbiamo pensare al futuro: prima di tutto, eliminiamo i tentativi di regolamentazione basati sulle scartoffie. Seconda cosa, gli europei devono scendere in campo, troppo spesso ci sono soltanto due squadre: gli americani e i cinesi. Gli europei hanno il ruolo dell’arbitro, ma non giocano. E l’arbitro non vince mai».
(da La Stampa)
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Ottobre 1st, 2022 Riccardo Fucile
CITARE PREZZOLINI FA RIVOLTARE NELLA TOMBA VISTO CHE SOSTENEVA L’OPPOSTO, I VERI CONSERVATORI DOVREBBERO CITARE LA MELONI PER DANNI ALL’IMMAGINE
È in corso a Roma il convegno internazionale Italian Conservatorism organizzato da Nazione Futura e Fondazione Tatarella. Il tentativo di costruire un nuovo pantheon politico e ideologico lontano dal postfascismo e in grado di affrancarsi dalla povertà teorica della destra missina.
Obiettivo? Una nuova egemonia culturale per una destra ossessionata dal marxismo culturale, la difesa della famiglia tradizionale, dell’identità nazionale e la difesa dello status quo.
Rafforzare una solida rete internazionale europea e atlantica, costruire una nuova egemonia culturale nel mondo dello spettacolo e dell’informazione e fornire alla destra italiana di Giorgia Meloni nuove coordinate ideologiche che gli permettano di dimenticare l’appellativo di “post fascisti”.
Questi sono i tre obiettivi di Italian Conservatorism, la tre giorni promossa dalla Fondazione Tatarella e Nazione Futura, che vogliono rappresentare rispettivamente il think tank e l’associazione di riferimento della destra italiana uscita vittoriosa dalle urne.
Prima di tutto il piano internazionale dicevamo. Giorgia Meloni è presidente dell’Ecr Party, la casa europea dei conservatori.
Al gruppo partecipano tra gli altri i nazionalisti post (?) franchisti di Vox, il partito di governo polacco Diritto e Giustizia (Pis), i Democratici Svedesi, reduci da un successo che ha scosso i tradizionali equilibri della socialdemocrazia scandinava, gli ultranazionalisti del Partito Nazionale Bulgaro e molti altri movimenti politici.
La composizione del gruppo è molto spostata sul blocco di Visegrad e i paesi baltici, e molti di loro si trovano proprio a Roma in questi giorni. Oltre agli amici dell’Ecr, parteciperà anche Balázs Hidveghi, europarlamentare del partito di Viktor Orban, assieme a Balázs Orbán, direttore politico del primo ministro ungherese e uno dei suoi principali consiglieri.
Partner della tre giorni è la rivista The European Conservative, spazio di approfondimento politico e teorico internazionale, che è intervenuta con il suo direttore Alvino Mario Fantini. Sono poi presenti altri think tank del mondo conservatore come Fundación Civismo e il Danube Institute, rappresentato da John O’Sullivan, già consigliere di Margaret Tatcher oggi anche lui fan della democrazia illiberale di Orbán
Il grande deus ex machina del successo europeo di Giorgia Meloni è Raffaele Fitto, intervenuto ieri all’Hotel Quirinale.
È lui che ha tessuto la rete di relazioni che ha portato Fratelli d’Italia al vertice del gruppo conservatore, lontano dal gruppo dell’estrema destra guidato dal Rassemblement National di Marine Le Pen e dalla Lega (Identità e Democrazia), in una posizione di dialogo con la presidente Roberta Metsola e pienamente inserito nei giochi della compatibilità europea.
A salutare i colleghi di Bruxelles si è visto in sala anche Roberto Fidanza, l’europarlamentare milanese di Fratelli d’Italia al centro dell’inchiesta lobby nera, esponente della Generazione Atreju vicinissimo a Meloni, come un altro eurodeputato, Nicola Procaccini.
Non c’è solo il piano internazionale però, come si capisce dal titolo l’obiettivo del convegno è quello di costruire un’identità al conservatorismo italiano.
Per far capire di cosa si parla gli organizzatori amano citare (a sproposito) Giuseppe Prezzolini: “Prima di tutto il Vero Conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici; perché il Vero Conservatore intende «continuare mantenendo», e non tornare indietro e rifare esperienze fallite. Il Vero Conservatore sa che a problemi nuovi occorrono risposte nuove, ispirate a principii permanenti”.
In pratica l’opposto quindi di Fdi.
Julius Evola addio, ora la destra italiana recupera Longanesi e Prezzolini per superare il post fascismo, per collegarsi a una storia minore della politica nazionale.
Perché il post fascismo è stato anche questo: un grande vuoto culturale, solo parzialmente colmato dalla meta politica della Nuova Destra, che più che modificare lo stabile pantheon di riferimento ideale proveniente direttamente dalla stagione del fascismo storico, ha condotto una serie di operazioni di appropriazione culturali (vedi la passione di Giorgia Meloni per Il Signore degli Anelli di Tolkien).
Per non parlare degli effetti del berlusconismo che ha contaminato profondamente il mondo di Alleanza Nazionale. Ora l’obiettivo è costruire delle salde coordinate culturali e ideologiche.
E poco importante se per farlo è necessario trovare dei presentabili padri nobili tutto sommato estranei alla propria storia. Un progetto messo nero su bianco dal front man del convegno, il giovane giornalista de Il Giornale Francesco Giubilei, presidente della Fondazione Tatarella e autore del libro manifesto Giorgia Meloni. La rivoluzione dei conservatori.
L’obiettivo di una nuova egemonia culturale
Eppure le radici di Giorgia Meloni e del gruppo dirigente di Fratelli d’Italia sono tutte lì. Non si può scappare.
Il risultato è un pastiche confuso che funziona però quando si deve parlare del Che Fare di leninista memoria.
Il conservatorismo all’italiana, molto più che una dottrina economica e sociale, si configura così come una postura culturale, una crociata contro gli effetti della società globale sull’identità nazionale, la lotta per la difesa della famiglia tradizionale e, ovviamente, contro la cancel culture e l’ideologia woke.
E ora che la vittoria è arrivata in una dimensione insperata, l’obiettivo è chiaro: scardinare il marxismo culturale che secondo la destra terrebbe in ostaggio la cultura nazionale a ogni livello.
È l’ossessione di “Una nuova egemonia culturale”, come titola uno dei panel, che si tradurrà nell’occupazione di alcune caselle fondamentali da parte della destra di Meloni: il ministero della cultura, un annunciato feroce spoil system in Rai, un avvicendamento ai vertici di molte istituzioni nazionali, ma soprattutto la costruzione di un nuovo corso conservatore per un futuro modellato su “alcuni principi permanenti” che, va da sé, non prevedono niente di diverso dalla famiglia naturale come mattone fondamentale e il rispetto per la struttura sociale e le sue istituzioni, ovvero la difesa delle disuguaglianze (interpretate come naturali e connaturate al libero sviluppo individuale) e dello status quo.
(da agenzie)
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Ottobre 1st, 2022 Riccardo Fucile
ESERCITO RUSSO IN TRAPPOLA E IN FUGA… IL DONETSK “ANNESSO” IERI, OGGI HA GIA’ PERSO UN’ALTRA CITTA’
Le truppe ucraine hanno ripreso Lyman, città orientale nella regione del Donetsk. Lo ha riferito su Telegram il capo dell’amministrazione militare ucraina del Lugasnk, Sergiy Gaidai: «Le truppe della Federazione russa, oltre 5mila militari, sono circondate dall’esercito ucraino. Hanno tre opzioni: fuggire, morire tutti insieme o arrendersi”
Le truppe ucraine avrebbero interrotto le comunicazioni di terra a supporto dei russi nell’area e avrebbero preso il controllo delle strade
La cattura di Lyman è una vittoria fondamentale per Kiev, dal momento che costituisce uno snodo ferroviario importante nella regione.
Secondo il consigliere del sindaco in esilio di Mariupol, Petro Andriushchenko, sarebbe vicina anche la riconquista della città costiera: «Ieri i cittadini hanno assistito a una battaglia aerea sul villaggio di Urzuf, nel distretto di Mariupol, un aereo da guerra russo ha preso fuoco e ha cercato di raggiungere l’aeroporto di Prymorsko-Akhtarskyi, seguito da una densa scia di fumo. Il ritorno a Mariupol si sta avvicinando. Non si tratta solo della sacca di Lyman», ha detto Anriushchenko, ripreso da Ukrinform.
(da agenzie)
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Ottobre 1st, 2022 Riccardo Fucile
“ABBIAMO ABBANDONATO CASA, AMICI E FAMIGLIE. TORNEREMO CON UN PAESE NUOVO”
Ivan non ha mai servito nell’esercito russo, ma visto che dopo l’annuncio della mobilitazione ordinata da Vladimir Putin hanno iniziato a reclutare indiscriminatamente, con la compagna Alina ha pensato di lasciare la Russia.
Ivan lavora in un’istituzione statale, dove prima o poi gli sarebbe stata sicuramente consegnata una convocazione, ma i ragazzi hanno deciso di attendere prima di prendere la decisione di lasciare tutto: entrambi a Mosca hanno famiglia, amici, lavoro. Avevano appena comprato un appartamento e stavano finendo i lavori di ristrutturazione. pochi giorni fa avevano ricevuto la cucina che ora rimarrà imballata in un appartamento vuoto: il 27 settembre, entrambi hanno fatto i bagagli in una sera e sono volati via dalla Russia.
Alina è andata in Armenia: dopo l’annuncio della mobilitazione, la sua azienda ha trasferito tutti in smart working portando fuori dal Paese tutti i dipendenti che lo desideravano. Ora Alina si trova a Yerevan, dove è stata accolta dagli amici, emigrati qui subito dopo l’inizio della guerra. La ragazza ora deve pensare a come ricominciare la propria vita in un nuovo Paese e prevede già grandi spese: “Pensavo di mettere da parte soldi per una casa, invece l’ho fatto per far fronte a una guerra”.
Qui Alina aspetta Ivan che è riuscito a trovare un biglietto solo per il Kirghizistan, quelli per l’Armenia costavano molto di più. “Io e il mio capo non abbiamo mai discusso di politica, ma mi ha sostenuto. Ha detto ‘bravo, vattene, questi bastardi inonderanno di sangue l’intero Paese‘”,
È partito per l’aeroporto nella speranza di non essere ancora nelle liste per la mobilitazione. “Dal momento in cui ho chiuso la porta di casa con la chiave, fino all’atterraggio all’aeroporto in Kirghizistan, ho pensato solo a una cosa: ‘sono fottuto’”. Ma il volo non ha avuto alcun problema e in Kirghizistan il giovane è stato ospitato da conoscenti.
Per adesso, non può volare dalla sua ragazza a Yerevan perché non può permettersi voli diretti e altri fanno scalo in Russia. “Il tizio che mi ha accolto qui ha un piccolo negozio di computer. So anche io come assemblarli, quindi mi terrò impegnato – spiega – Ho solo un problema che per ora non riesco a risolvere, non ho ancora detto niente a mia madre“.
“Inizialmente, non volevamo andare da nessuna parte“, racconta invece Dmitry. Formalmente appartiene alla categoria dei riservisti che non avrebbero dovuto essere convocati durante una mobilitazione “parziale”. Il problema era che suo fratello Pavel era un tenente di riserva e sarebbe stato chiamato di sicuro. Inoltre, in rete è iniziata a circolare una “lista di reclute” proveniente da un server hackerato del ministero della Difesa, anche se probabilmente si trattava di un fake. I fratelli hanno trovato i loro nomi e dati nella lista e così hanno deciso di non perdere tempo.
Su un sito d’annunci hanno trovato subito un autista che ha accettato di dar loro un passaggio “verso sud”, hanno fatto immediatamente le valigie e sono partiti verso il confine con la Georgia all’alba del 25 settembre.
Hanno percorso la maggior parte della strada senza problemi, ma all’ingresso dell’Ossezia del Nord hanno iniziato a incontrare dei blocchi stradali: la polizia aveva bloccato tutte le deviazioni e stava incanalando tutte le auto sull’autostrada federale dove si era già accumulato un ingorgo per diversi chilometri. I residenti locali hanno aiutato i fratelli ad aggirare l’ingorgo, ma si sono rifiutati di portarli illegalmente in Georgia passando per strade secondarie. “Il nostro autista ha avuto il numero di un guardaboschi dell’Ossezia del Nord, ma lui ha subito detto che non sarebbe stato in grado di portarci al di là della frontiera nemmeno a cavallo, perché su ogni sentiero c’erano pattuglie della polizia”, dice Pavel.
Entro la notte, i fratelli hanno raggiunto il villaggio di confinen di Verkhny Lars, ma la strada era bloccata dalla polizia. Hanno lasciato l’autista, che non dormiva da più di un giorno, e sono partiti a piedi verso il confine. “Molte persone camminavano insieme a noi. L’immagine era piuttosto triste, simile alla scena di un film apocalittico“, ricorda Dmitry. I ragazzi hanno camminato per 4 ore e hanno percorso circa 20 chilometri. “Siamo stati fortunati, la gente in macchina ha aspettato in coda per diversi giorni. Lì, in questo ingorgo, tutti si sono rivelati uguali nelle loro capacità e prospettive: non era importante se guidavi una Lada o una Maybach. Abbiamo incontrato persone da tutte le regioni della Russia, soprattutto ragazzi giovani. Lì eravamo tutti sulla stessa barca“.
Era vietato attraversare il confine a piedi e le persone in fila non permettevano quasi mai di salire sulle loro auto. I fratelli hanno dovuto contrattare con i tassisti locali che per 10mila rubli a persona (circa 180 euro) li hanno trasportati oltre il checkpoint. I due giovani hanno superato entrambi i confini senza problemi e sono così usciti dalla parte georgiana. “Ci siamo resi conto che tutto era finito solo all’alba, sorgeva il sole – ricorda Pavel – Siamo andati a Tbilisi con un tassista che ci aveva preannunciato che stavamo per percorrere una strada panoramica: montagne, cime innevate che scintillavano alle prime luci dell’alba. Ma noi ci siamo addormentati e ci siamo persi tutto”.
“Nessun sollievo – chiarisce però Dmitry – In Russia sono rimasti i nostri parenti, gli animali domestici e, soprattutto, abbiamo perso la sensazione di essere a casa”. “La cosa peggiore per me è che ho dovuto lasciare la mia abitazione – gli fa eco Pavel – Ho sempre voluto, e voglio ancora ora, migliorare il mio Paese. Ma mi hanno semplicemente cacciato”.
A Tbilisi ci sono molti russi nello stesso stato di confusione. “È chiaro che nessuno è in vacanza – afferma Dmitry – La paura e l’impossibilità di avere delle prospettive si respirano nell’aria. Da febbraio tutte le gioie del mondo sono svanite e si vive come in un perenne stato di stordimento”.
I ragazzi hanno paura per chi è rimasto in Russia e per chi sta ancora attraversando il confine perché ora le condizioni sono molto più dure. “In realtà, penso che tutto questo sia un atto eroico delle donne. Sono state le donne a trovare la forza di mandare fuori sia noi che i nostri conoscenti che sono fuggiti. Perché hanno capito subito il pericolo in arrivo”.
“Probabilmente, non ho vissuto una giornata più nera di quella”, ricorda invece Nastya parlando del giorno in cui è stata annunciata la mobilitazione. “All’inizio dell’anno, io e Sasha abbiamo deciso che volevamo vivere in Russia, comprare un appartamento e avere dei figli qui. In quel momento, la nostra decisione sembrava quasi fuori moda, perché in Russia c’era da tempo la tendenza a lasciare il Paese. Ma avevamo un lavoro stabile, un buono stipendio, un appartamento tutto nostro. Negli ultimi due anni facevamo parte della normale classe media, abbiamo vissuto una vita felice e tranquilla“. Il 24 febbraio tutto è cambiato radicalmente, e i ragazzi hanno capito chiaramente che dovevano andarsene.
Come molti giovani ragazzi, dopo l’inizio della guerra, Nastya e Sasha si sono sposati per avere accesso legale l’uno all’altro in prigione o in ospedale e anche per rendere più facile emigrare insieme. Hanno iniziato a preparare attivamente la loro partenza per il Canada: studiavano inglese, preparavano i documenti e aspettavano l’approvazione dal servizio di immigrazione canadese. “Abbiamo definito per noi stessi una linea rossa: siamo pronti a partire se nel Paese verrà istituita nuovamente la pena di morte (con il timore che potesse diventare uno strumento contro gli oppositori politici) o se verrà annunciata la mobilitazione. Cioè, se ci sarà una minaccia per le nostre vite”. Il 21 settembre, Sasha ha acquistato il biglietto prima che Putin finisse il suo discorso. La sua azienda, per evitare la consegna di convocazioni, ha immediatamente trasferito i dipendenti uomini al lavoro a distanza. Sasha se ne è andato la mattina dopo.
Nastya ha deciso di rimanere a Mosca e fare almeno le valigie. “Andavo all’aeroporto ogni giorno per salutare amici o aiutare conoscenti con la loro partenza. C’erano così tante persone che piangevano”, ricorda Nastya. Ha subito comprato i biglietti anche per sé, voleva volare via prima della fine dei referendum, anche se ammette che ora l’orizzonte di pianificazione è di circa mezz’ora. “Anche a me è stato permesso di lavorare dall’estero. Per il trasferimento bisognava compilare dei documenti, mi è stato chiesto l’indirizzo dove avrei vissuto, ma non lo sapevo. Allora mi hanno chiesto la città o il Paese, non sapevo nemmeno quelli”.
Nastya ha seguito suo marito il 28 settembre. “È molto difficile salutare le persone. A qualcuno non devi spiegare niente, a qualcuno deve raccontare a lungo perché hai preso questa decisione “, dicono i ragazzi. “Volevamo avere figli, ma il 25 febbraio ho detto, probabilmente la cosa più dura da accettare, che non voglio partorire in questo Paese, ho paura. Ora abbiamo il timore anche di camminare per strada e discutere di qualcosa”, dice Nastya.
I ragazzi sono molto commossi dal modo in cui sono stati trattati in Uzbekistan, dove alla fine sono arrivati. “Gli uzbeki mi dicono ‘non ci interessa la politica di Putin, tu sei russo, vuol dire che sei nostro amico. Siete stati ospitali con noi, ora tocca a noi’”, dice Sasha.
E aggiunge: “Ricordo quando sono salito sull’aereo e dalle casse la voce diceva ‘Buon pomeriggio, questa è la Uzbekistan Airways, oggi garantiamo la vostra sicurezza’. Ho pensato ‘non avete idea di quanto sia vero’”.
“Ora se ne vanno anche i miei conoscenti che a febbraio hanno detto che sarebbero rimasti qui fino all’ultimo”, ammette Nastya. “Avevano così tanta voglia di creare la ‘bella Russia del futuro’ che anche l’inizio della guerra non è diventato un argomento sufficiente per partire. ‘Sì, va tutto molto male, ma se ce ne andiamo, chi combatterà?’, si sono detti. La mobilitazione ha convinto anche questi ragazzi che era impossibile rimanere più a lungo nel Paese. A quanto pare, dovremo tornare qui un po’ più tardi, quando verrà il momento di restaurare la Russia”.
(da il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 1st, 2022 Riccardo Fucile
IL LEVADA ZENTR RILEVA CHE IL NUMERO DEI SOSTENITORI DELLA PACE HA SUPERATO QUELLO DEI FAN DELLA GUERRA
«Siamo pronti al dialogo con la Russia, ma soltanto con il suo prossimo presidente»: mentre firma la richiesta di adesione accelerata alla Nato, Volodymyr Zelensky lancia un messaggio a chi ha appena finito di ascoltare il lungo e confuso discorso di Vladimir Putin dedicato alla annessione dei territori occupati dell’Ucraina.
Nel giorno in cui a Kiev come a Mosca molti si aspettavano l’inizio della escalation nucleare il leader russo ha presentato quella che ritiene essere una proposta di negoziato: la Russia si tiene quello che ha conquistato in sette mesi, e si dichiara disposta a trattare sul resto, come il Cremlino ribadisce in un ulteriore comunicato la sera.
«Un segno di debolezza e non di forza», commenta il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg, e la situazione al fronte gli dà ragione: dopo l’annessione – più sulla carta che sul terreno – l’esercito di Mosca viene battuto in quello che considera il proprio territorio.
Putin, sfoggiando il suo piumino Brioni da dieci mila euro, ha cercato di strappare un triplo «hurrà» a studenti e dipendenti pubblici convocati al concerto al Cremlino, proprio mentre 5 mila truppe russe venivano accerchiate a Liman.
Nulla da festeggiare, nulla da mettere sul tavolo delle trattative, e Zelensky risponde chiudendo la porta in faccia e non menzionando nemmeno l’annessione di Kherson, Zaporizhzhia, Donetsk e Luhansk nel suo videomessaggio serale.
La consacrazione da grande leader che doveva risollevare la popolarità di Putin, come era successo dopo l’annessione della Crimea nel 2014, non è avvenuta, e non soltanto perché Mosca dichiara suoi territori che non controlla, con la linea del fronte che continua a cambiare, prevalentemente non a favore dei russi.
Perfino secondo i sondaggisti governativi, il livello di angoscia dei cittadini è raddoppiato in una settimana, dal 35 al 69%, e le rilevazioni demoscopiche dell’indipendente Levada Zentr danno numeri ancora più elevati.
Metà della Russia è in fuga dalle lettere di arruolamento, in coda al valico di frontiera più vicino, oppure in viaggio verso le trincee del Donbass, senza addestramento, e spesso senza armi, uniformi e medicinali.
Ma Putin non menziona nemmeno la mobilitazione, preferendo dilungarsi in invettive contro l’Occidente come «nemico storico» della Russia. Un testo pieno di cliché ideologici, alcuni dei quali rispolverati dall’armamentario della propaganda sovietica e altri più vicini alle teorie cospirazioniste dei sovranisti: gli occidentali vengono incriminati di «colonialismo», «apartheid», «avidità» e «sfruttamento», di aver «spinto alla droga interi popoli», «depredato le ricchezze naturali» e «sradicato valori tradizionali» grazie al «dominio del dollaro e delle tecnologie».
Un’accusa curiosa di fronte a una platea arricchita grazie alla vendita di petrolio e gas in Europa.
Ma Putin non sembra rendersi conto delle contraddizioni, anche quando accusa dei non meglio precisati «anglosassoni» di aver sabotato i gasdotti North Stream, rivelazione smentita clamorosamente poche ore dopo da Nikolay Patrushev, il potente segretario del Consiglio di sicurezza.
Un altro di tanti piccoli segnali di disagio del regime.
Il patto del consenso putiniano si è rotto due volte: quello dei militaristi imperialisti è stato perso nella fuga precipitosa dell’esercito da Kharkiv, quello dei russi comuni della maggioranza silenziosa nella mobilitazione, «parziale» soltanto nelle promesse del governo.
Ora, il Levada Zentr rileva che il numero dei sostenitori della pace ha superato quello dei fan della guerra, e un presidente che promette una vittoria mentre sta perdendo delude i primi come i secondi.
Il ricorso alla minaccia nucleare – «non è un bluff», aveva giurato Putin nel suo discorso in tv la settimana scorsa – sembra aver terrorizzato più i russi che gli ucraini, e il giornale di opposizione Meduza cita alti funzionari del Cremlino che parlano della prospettiva di una apocalisse nucleare come di qualcosa di inesorabile.
Che Putin non sa usare il freno è noto, e la sua propagandista Margarita Simonyan spiegava che «se non mettiamo la retromarcia resta la speranza che la mettano i nostri avversari». L’ex presidente Dmitry Medvedev invece aveva esposto la teoria strategica: l’Occidente vile e avido non si sarebbe schierato a difesa dell’Ucraina, «lasciandoci usare qualunque arma». È il «chicken game», il gioco a chi si spaventa per primo, e Kiev insieme alle capitali occidentali ha deciso saggiamente di non scommettere sul bluff, per togliere a Putin la tentazione di dimostrare che non stava scherzando.
Invece, Zelensky ha mostrato di prendere la minaccia nucleare molto sul serio, bussando alla porta della Nato e revocando la sua proposta di un negoziato sulla sicurezza di un’Ucraina neutrale. E soprattutto, lanciando un segnale a una classe dirigente russa già profondamente turbata dal disastro militare ed economico prodotto da un presidente che cita Goebbels e rimprovera gli Usa di aver bombardato Dresda e occupato la Germania, mentre 5 mila suoi soldati vengono accerchiati a Liman.
È evidente che i vip invitati al Cremlino ieri stanno pensando a come sopravvivere a Putin, e l’articolo uscito ieri sul Washington Post a firma di Alexey Navalny – che dalla sua prigione propone la fondazione di una repubblica parlamentare, per distruggere l’«autotoritarismo imperale aggressivo che continua a riprodursi» in Russia – ne è un ulteriore segnale.
(da agenzie)
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Ottobre 1st, 2022 Riccardo Fucile
SBUGIARDATI I DUE LEADER DEL SEDICENTE CENTRODESTRA
“Adesso pensiamo al governo, le elezioni per la Lombardia sono dopo, c’è anche il Lazio”. Il coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani, arrivando sabato mattina al Villaggio Coldiretti a Milano ha provato a togliere dal tavolo la grana più grossa che deve affrontare il centrodestra dopo la vittoria alle elezioni politiche: il prossimo candidato al Pirellone e lo scontro aperto tra Letizia Moratti e Attilio Fontana.
Le trattative sulla squadra di governo a Roma e quelle sul futuro della Lombardia a Milano però finiscono inevitabilmente per intrecciarsi. Certamente ne avranno discusso direttamente Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi, durante il faccia a faccia tra i due leader di sabato mattina, che ufficialmente si è svolto “in un clima di grande collaborazione e unità di intenti“.
Unità di intenti che però non sembra esserci sul Pirellone: Moratti ha parlato di “un accordo” per una staffetta tra lei e l’attuale governatore, che invece Fontana ha negato.
Chi ha promesso il passaggio di testimone all’attuale vicepresidente e assessora al Welfare? E cosa è cambiato dopo?
Per Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano, c’è la “certezza che quando Letizia Moratti è stata chiamata per sostituire Giulio Gallera, le venne assicurato che dopo Fontana ci sarebbe stata lei al vertice della Lombardia”.
Intervistato da La Stampa, Albertini spinge per Moratti e lascia presagire un suo ruolo nella futura lista civica in appoggio alla candidatura. Ma soprattutto fa i nomi di chi avrebbe fatto la promessa: “Chiaro che non credo ci sia stato un contratto o un’obbligazione. Ma penso che, soprattutto da parte di Berlusconi, questo impegno ci sia stato, avvalorato anche da Salvini e Fontana“.
Più o meno è la stessa versione che viene riportata da Il Domani, citando fonti interne al centrodestra milanese. In questo racconto i rapporti sono invertiti: a dare la sua parola per un passaggio di consegne tra Fontana e Moratti era stato Salvini, con il via libera da parte di Berlusconi.
Nel frattempo però tante cose sono cambiate, soprattutto nei rapporti di forza interni al centrodestra: “Quando Moratti venne chiamata in Lombardia la Lega aveva il 26 per cento in Lombardia e Fratelli d’Italia il 13, ora i rapporti si sono ribaltati e bisognerà vedere anche cosa dirà FdI”, ragiona Albertini.
Dopo la débâcle alle urne, è stato proprio Salvini ad aprire il fronte, dicendo in conferenza stampa che il candidato della Lega in Lombardia sarebbe stato ancora Fontana.
Letizia Moratti a quel punto ha deciso di rendere pubblico lo scontro, proprio con l’obiettivo – spiegano le stesse fonti a Il Domani – di far sì che il via libera arrivi da Roma, tramite il puzzle di poltrone che riguardano i vari ministeri.
Meloni aveva subito provato a disinnescare tutto, offrendo proprio a Moratti la Sanità. Ma l’assessora ha rifiutato, vuole il Pirellone. Per la leader di FdI, quindi, questa è la prima vera prova per la tenuta del centrodestra a sua guida: quando fu siglato il patto con Moratti, Meloni non era al tavolo, ma ora avrà l’onere di trovare una soluzione.
(da agenzie)
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Ottobre 1st, 2022 Riccardo Fucile
LA GRANDE FUGA DAGLI OSPEDALI E IL BUSINESS DELLE COOPERATIVE… “CON 3 O 4 TURNI PRENDONO PIU’ DI UN ASSUNTO IN OSPEDALE”
Lo scorso marzo, in un ospedale del Bresciano, una giovane donna muore poche ore dopo aver dato alla luce il terzo figlio.
Uno dei medici che l’ha in cura, secondo un’autorevole testimonianza raccolta dal Corriere , è al lavoro da 36 ore. Al momento non si può dire se la circostanza ha giocato un ruolo diretto sul decesso; a stabilirlo dovrà essere la Procura, che sul caso ha aperto un’inchiesta (7 i sanitari indagati).
Una cosa è certa: quel medico poteva stare lì dov’era anche dopo tutto quel tempo, perché a differenza dei colleghi dipendenti dell’ospedale — e quindi vincolati al rispetto degli orari — lui era lì come gettonista. Ovvero, come uno delle migliaia di professionisti che ogni giorno entrano negli ospedali italiani, ingaggiati da cooperative esterne su affidamento delle aziende sanitarie, per coprire i sempre più numerosi buchi d’organico.
Chiamati a gettone, che vuol dire pagati per un singolo turno (di solito 12 ore), in un campo sostanzialmente senza regole. Risultato: oggi è possibile, magari spinti da necessità economiche, cumulare anche più gettoni uno di seguito all’altro. Senza che nessuno controlli. Come è successo in questo caso. Ma chi di noi si farebbe visitare da un medico in piedi da 36 ore?
Questa è solo una delle criticità emerse dalla nostra inchiesta sul fenomeno dei gettonisti. Fenomeno ormai sempre più diffuso e che sta cambiando radicalmente la fisionomia degli ospedali italiani alle prese con organici ridotti all’osso. E che rappresenta, oltre a tutto ciò che vedremo, innanzitutto un dispendio per le casse dello Stato: per un gettone si arrivano a offrire fino a 1.200 euro a turno per singolo medico, in sostanza più della metà della paga che uno specializzando prende in un mese intero.
Ma perché si è arrivati a questa situazione? Chi c’è dietro alle cooperative che fanno da intermediarie? E chi sono e come vengono scelti i medici che finiscono in ospedale? Sono le domande a cui abbiamo cercato di dare risposta per capire in definitiva, oggi, chi ci cura.
I buchi negli organici
Si deve partire dai numeri (impressionanti) che riguardano la carenza di medici. Un fenomeno che si deve essenzialmente a tre ragioni.
Uno: il turnover in Sanità bloccato per 14 anni (dal 2005 con il governo Berlusconi 2 al 2019, con il Conte 1, che ha portato le assunzioni a un +10%).
Due: una programmazione miope, se non proprio del tutto errata, con contratti di specialità al ribasso per anni e mai tarati per sostituire chi va in pensione, tanto che dal 2015 al 2020 i pensionabili sono stati 37.800, a fronte di 24.752 specializzati pronti per entrare nel servizio sanitario.
Tre: una clamorosa accelerata delle dimissioni volontarie da parte dei medici ospedalieri, specie dopo il Covid, dovuta a un peggioramento generale delle condizioni di lavoro, con turni sempre più massacranti e un’aumentata conflittualità con i pazienti.
Nel 2021 si sono registrati 2.886 licenziamenti volontari: +39% rispetto al 2020. È un trend che, se confermato, porterà a una perdita complessiva tra pensionamenti e licenziamenti di 40 mila specialisti entro il 2024 (stima del sindacato dei medici Anaao).
Il meccanismo
Qualcuno, però, in ospedale ci deve pure essere. Le aziende sanitarie, con le spalle al muro, si affidano alle cooperative: sono loro a garantire i medici pagati a gettone. Il problema riguarda soprattutto i Pronto soccorso, che sono i reparti più in crisi. Secondo un’indagine svolta per il Corriere dalla Società italiana di medicina di emergenza e urgenza, guidata da Fabio De Iaco, su un campione di 31 ospedali, oggi un paziente ha una possibilità su 4 di essere assistito in Pronto soccorso da un medico di una cooperativa. Ma nelle notti o nei weekend la proporzione può arrivare a una su due.
Sembra un paradosso, ma trovare un medico per le cooperative non è difficile. Le aziende ospedaliere alle strette concedono bandi remunerativi, con requisiti di accesso spesso bassi (e in ogni caso ben lontani da quelli che vengono richiesti per un medico interno, che dev’essere quanto meno specializzato).
Esempio: l’ospedale Papa Giovanni XXIII, con uno dei Pronto soccorso più importanti della Lombardia, e il cui nome ha fatto il giro del mondo come uno dei primi avamposti della lotta contro il Covid, riesce a risolvere la situazione affidandosi a una cooperativa. La determina è la numero 233 del 4 maggio 2022 dal titolo: «Affidamento del servizio di Guardia medica presso il Pronto soccorso della sede dell’Asst Papa Giovanni XXIII. Durata 7 mesi dal 01.05.2022 al 30.11.2022. Spesa complessiva presunta euro 183.382,50 Iva 5% compresa». La necessità è di coprire 175 turni, durata 12 ore ciascuno, compenso 998 euro a turno. Il criterio di scelta, come è possibile leggere testualmente, è «il minor prezzo». Punto.
In questo contesto è facile per chi vuole sottrarsi a qualsiasi tipo di vincolo di qualità espandersi a scapito delle cooperative che invece investono in sicurezza, esperienza dei medici e legalità. È anche semplice, per chi non sostiene questi costi, poter applicare prezzi inferiori e così aggiudicarsi molti bandi di gara: si possono affidare magari a neolaureati, cosa facile tra l’altro visto che negli ultimi dieci anni sono rimasti esclusi dalle scuole di specialità 11.652 neolaureati, oppure a medici stranieri. A scapito naturalmente della sicurezza dei pazienti.
Le offerte sui social
Incrociare la domanda con l’offerta è facile. Le cooperative mettono gli annunci sui loro siti, ma soprattutto sui social, come Telegram. Ci sono canali ad hoc, dove se si è medico ci si iscrive con un clic e si resta in attesa del gettone giusto.
Il Corriere è riuscito ad avere accesso ad uno di questi canali, dove per qualche settimana ha potuto osservare i messaggi in arrivo. Come questi: «Qualcuno sarebbe interessato a coprire dei turni notturni codici minori in provincia di Vicenza? Compenso 65 euro l’ora». E si specifica, per chi non avesse inteso: «Facendo un semplice calcolo sono 4.680 euro per sei gettoni».
I messaggi sono decine al giorno. Gli orari dei turni non sembrano un problema. Una società inserisce l’annuncio per un posto di guardia diurna e notturna in una clinica riabilitativa di Arezzo: «Compenso 420 euro a turno, possibilità di fare 24 ore o 48 ore consecutive (consentito dalla clinica) e turni accorpati». Un altro ancora: «Cercasi medico da inserire in organico per la copertura di turni diurni e notturni e per la gestione dei codici minori del Pronto soccorso di Nuoro. Compenso 600 euro a turno di 12 ore più alloggio. Possibilità di accorpare turni per chi viene da fuori Regione».
L’accorpamento dei turni è considerato un benefit: «Ci sono medici trasfertisti che si organizzano in pullman, prendono 3 o 4 gettoni consecutivi lavorando fino allo stremo e poi tornano a casa con un bottino di 4-5.000 euro che basta per tutto il mese», ci riferisce un primario lombardo che chiede di parlare coperto dall’anonimato.
Il quadro è talmente stravolto che ormai si registrano casi paradossali: l’ex direttore del Policlinico di Monza e poi viceprimario a Paderno, Riccardo Stracka, 44 anni, si è licenziato, lasciando il posto fisso, e si è messo a fare il gettonista per una cooperativa che si muove tra Lombardia, Piemonte e Veneto. Dice di guadagnare il 60-70% in più rispetto a prima; mentre la qualità di vita gli è radicalmente cambiata: possibilità di organizzarsi. E i gettoni consecutivi sono solo uno dei problemi. Un altro riguarda la continuità dell’assistenza: «Mi trovo in reparto ogni sera un medico diverso», confida un altro direttore di unità complessa della Lombardia. Senza parlare dei titoli: poche sere fa, uno dei principali Pronto soccorso di Milano era gestito da un medico dei trasporti (che certifica il rinnovo delle patenti). Finito il lavoro in azienda, è andato a prendersi il gettone da 1.200 euro.
Chi arriva in corsia?
A presidiare sulla qualità dei medici mandati in corsia sono le cooperative stesse, alla serietà delle quali è affidata la valutazione dei curricula. Ed è una giungla.
Nessuna norma del ministero della Salute impone ai direttori generali degli ospedali le regole da seguire per stilare i bandi di gara per esternalizzare alle cooperative, per cui ciascuno può fare praticamente quel che vuole. Basta spulciare i bandi degli ultimi mesi per accorgersi che le cooperative operano in un mercato assolutamente fuori controllo. Promessi professionisti d’eccellenza, nessuna certezza su chi davvero arriva in corsia.
Un altro aspetto rilevante è quello delle garanzie fideiussorie (bancarie o assicurative) che quasi nessuna Asl si prende la briga di controllare. «Conosco ditte che hanno presentato fideiussioni di sconosciuti enti stranieri e di Asl che, dopo aver revocato gli appalti, hanno grossi problemi a incassare le garanzie», ci dice il dirigente di una delle più importanti cooperative che operano nel Nord Italia. «E molte Asl non si prendono neanche la briga di consultare il casellario Anac sull’Anticorruzione per verificare che le ditte non abbiano avuto problemi».
Salute e affari
A spulciare tra le varie cooperative le sorprese non mancano. Una delle più attive, con appalti in decine di ospedali tra la Lombardia e l’Alto Adige (e un giro di un centinaio di medici) è per esempio la Medical Service Sudtirol. Dietro al gruppo costituto nel 2018 «con l’obiettivo — come si legge sulla modesta pagina web — di fornire professionisti della Sanità idonei a colmare il fabbisogno di personale», c’è una persona sola, il dottor Jamil Abbas, origini libanesi, da anni trapiantato a Bolzano dove lavora come libero professionista in Pronto soccorso. Le due società che operano dietro alla Medical Service sono intestate una alla moglie, l’altra al figlio 23enne (attiva dal 2021). Addetti: uno.
Stranezze, come quella che riguarda la Venice Medical Assistance, gestita da marito e moglie, Carla Pirone e dal medico Pietro Piovesan. I messaggi con i loro annunci appaiono nelle chat dei medici: lo scorso maggio a un gettonista venivano offerti 90 euro all’ora per un posto al Pronto soccorso dell’ospedale Santorso di Vicenza. Peccato però che l’ospedale avesse l’appalto con il colosso Anthesys di Treviso (cooperativa da 390 dipendenti). Chi controlla, quindi, a chi viene affidato che cosa? «È stata un’ingenuità, avevamo semplicemente rilanciato un messaggio per conto di una persona — ci ha detto al telefono Pirone —. Noi ci occupiamo di altro». In realtà, sulle chat dei medici, nel periodo da noi osservato, ci sono altri annunci della Venice Medical Assistance. Vedi quello del 6 agosto per «turni presso il Pronto soccorso di Conegliano». Gettone: 59 euro all’ora.
Così gli affari per le cooperative, che di solito su ogni turno trattengono una percentuale che va dal 7 al 15%, vanno a gonfie vele. La stessa Anthesys ha indicato nel 2021 ricavi quasi raddoppiati: 14 milioni di euro contro gli 8,8 del 2020. Utile 234 mila euro contro i 92 mila dell’anno precedente.
«Il continuo ampliamento dei servizi — si legge sul bilancio — ha portato un incremento dell’attività di oltre il 64% con punte di 90 rispetto all’anno precedente». E lo stesso vale per la Medical Service Sudtirol: nel 2021 i ricavi hanno toccato 1,4 milioni di euro (+30%) con un utile di 178 mila euro. «L’esercizio è stato caratterizzato da un incremento di ricavi di prestazioni di servizi, addirittura sorpassando notevolmente i risultati degli anni precedenti».
(da il Corriere della Sera)
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Ottobre 1st, 2022 Riccardo Fucile
TRA VIOLENZA CRESCENTE E SPETTRO DEI BROGLI,,, I SONDAGGI DANNO LULA VICINO AL 50%
Domani, 2 ottobre, avranno luogo le elezioni in Brasile. Un appuntamento che giunge nel mezzo di un clima di tensione crescente, dentro e fuori il Paese e di quotidiana violenza politica, culminata pochi giorni fa con un omicidio.
Ad essere ucciso, uno dei sostenitori dell’ex capo di stato Luis Inacio Lula da Silva, candidato del Partito dei lavoratori (Pt). L’omicida è un supporter del leader di estrema destra uscente Jair Bolsonaro.
Un episodio non certo isolato. Secondo un sondaggio dell’Osservatorio sulla violenza politica ed elettorale dell’Università di Rio de Janeiro, il 70% dei brasiliani ha affermato di temere violenze nell’esprimere le proprie opinioni politiche. Il rischio è concreto: per prevenire incidenti, la Corte suprema brasiliana ha approvato la restrizione della vendita di armi da fuoco.
Cosa dicono i sondaggi
Sul clima di «crescente violenza politica, intimidazioni di giornalisti e tentativi di minare la fiducia nel sistema elettorale» denunciato da Human Rights Watch hanno probabilmente inciso i risultati dei sondaggi di di Exame/Ideia.
Le proiezioni vedono un netto vantaggio di Lula, al 47%, mentre Bolsonaro si posizionerebbe al di sotto di almeno dieci punti percentuali. Il “Donald Trump dei tropici” sarebbe in vantaggio in 7 Stati su 27. Lula dovrebbe uscire vincitore in 14, compresi i due con il più grande collegio elettorale, San Paolo e Minas Gerais.
Un distacco così netto che potrebbe consentire all’ex presidente di sinistra di essere eletto senza passare per il ballottaggio. Eventualità nei confronti della quale il suo rivale sembra prepararsi.
Il Partito liberale ha infatti diffuso una nota in cui viene paventato il rischio di brogli su vasta scala. I dipendenti del governo, si legge infatti nel messaggio, avrebbero «l’assoluto potere di manipolare i risultati delle elezioni senza lasciare nessuna traccia».
Qualche giorno prima, Bolsonaro aveva già denunciato – senza prove – i suoi dubbi sull’affidabilità delle urne elettroniche. Sostenendo inoltre di essere vittima di persecuzione da parte del Tribunale superiore elettorale (Tse). Lo stesso tribunale che ha chiamato una delegazione dell’Organizzazione degli stati americani (Oas), composta da esperti di 17 Paesi e da enti non governativi europei e americani, per certificare la regolarità del voto.
Osservatori e analisti temono infatti che il presidente uscente possa cercare di invalidare l’esito del voto o renderlo dubbio. Domenica gli elettori voteranno dunque con urne elettroniche: una volta convalidata la propria scelta, la preferenza verrà trasmessa direttamente al Tse. Il voto è obbligatorio per tutti i cittadini tra 18 e 70 anni.
I programmi a confronto
Per Bolsonaro si tratterebbe del secondo e ultimo mandato consecutivo. Lula, 76 anni, è invece reduce da anni di carcere scontati per colpa di false accuse.
Un ex capitano dell’esercito contro un ex sindacalista: i due candidati hanno dovuto per legge nominare anche due futuri vicepresidenti. Se Bolsonaro ha puntato sull’ex generale Braga Netto, Lula ha deciso di tendere una mano verso l’ex avversario Geraldo Alckmin. Nella speranza di creare così un fronte repubblicano che sia d’intralcio all’estrema destra.
Se il programma di Bolsonaro è imperniato sull’aumento della sicurezza, tradotto in più budget per esercito e polizia e l’allentamento delle misure di accesso alle armi da fuoco, Lula promette una tregua dalla «guerra» iniziata nel suo Paese dopo l’elezione del rivale.
L’operato di Bolsonaro è preso di mira sotto diversi punti. Dalla gestione disastrosa della pandemia alla deforestazione massiccia dell’Amazzonia, che ora potrebbe rivelarsi decisiva per la vittoria di Lula. Oltre ad essere un oppositore dell’aborto e del matrimonio omosessuale, Bolsonaro si è dichiarato più volte scettico sul cambiamento climatico. Esprimendosi a favore del ritiro del Brasile dall’accordo di Parigi.
Il programma di Lula promette al contrario di battersi contro la deforestazione e l’estrazione illegale di oro. Impedendo che gli alberi vengano abbattuti per fare spazio a pascoli e piantagioni di soia. E non solo. Credito per le imprese, adeguamento del salario minimo, ripristino di agevolazioni per l’acquisto della prima casa e sistemi per portare l’elettricità da fonti rinnovabili alle aree rurali: sono alcune delle misure ipotizzate per combattere la povertà. Un obiettivo in continuità con il suo precedente governo.
Le tensioni non sono dovute soltanto ai profili diametralmente opposti dei due principali candidati. Il Brasile sta attraversando da mesi una crisi profonda sotto diversi profili. L’inflazione galoppante, che solo ad agosto ha iniziato una flessione al di sotto del 10%, ha conseguenze sulla vita di milioni di brasiliani. La fame colpisce 33 milioni di cittadini, ma oltre la metà della popolazione (125 milioni di persone) soffre per problemi alimentari.
Il voto di domani chiamerà gli elettori a esprimersi anche sull’organo legislativo brasiliano, il Congresso nazionale. Con 513 seggi, la Camara dos Deputados ha un numero di membri proporzionale a quello della popolazione e verrà completamente rinnovata.
Il Senato invece ha tre seggi per ciascuno degli Stati federati: quelli in palio il 2 ottobre sono 27 su 81. A questi si aggiungeranno governatori, deputati locali per ogni Stato.
Secondo gli ultimi dati diffusi dal Tse, i registri aggiornati indicano un record di iscritti. 156 milioni e 454 011 aventi diritto, attesi alle urne nei 496.856 seggi collocati ai quattro angoli dell’immenso territorio nazionale. Cifre monstre che rischiano di complicare ulteriormente l’intera macchina organizzativa e logistica. Prestando il fianco alle polemiche sulla regolarità del risultato.
(da Open)
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