Ottobre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
MONDO DELLA SCUOLA GIA’ IN RIVOLTA… PREPARIAMOCI A SCIOPERI ED OCCUPAZIONI: PEGGIORE SCELTA NON POTEVANO FARE (UN SOGGETTO CHE HA GIRATO 4 PARTITI)
Un volumetto distribuito nel 2016 con Il Giornale per la collana “Fuori dal coro” dal titolo: “L’impero romano distrutto dagli immigrati” (sottotitolo “Così i flussi migratori hanno fatto collassare lo stato più imponente dell’antichità”). La firma? Giuseppe Valditara, neoministro all’Istruzione e, per aggiunta del governo Meloni, al Merito.
E il web si scatena: “Il merito. Consigli bibliografici” twitta lo scrittore Christian Raimo che già il giorno della nomina aveva scritto: “Ministro dell’istruzione e del merito, da ora in poi sappi che io a scuola insegno solo storia militare per formare le truppe scelte che domani vi verranno a assediare”.
Rilancia, con la copertina del volume dal titolo decisamente inequivocabile affiancata all’altro libro di Valditara sul “Sovranismo: una speranza per la democrazia”, Mila Spicola, insegnante, scrittrice (suo “La scuola s’è rotta”, Einaudi): “Un conservatore di ideologia rigorosamente gentiliana. Perché la Scuola la vogliono passatista “come ai nostri tempi”. È anche l’autore dei libri nelle foto. Il nuovo ministro dell’Istruzione e del Merito. Sì, lui, proprio lui. Per capire cosa ci aspetta. Tanti auguri a tutti noi”.
Ed è un diluvio di commenti. In poche ore diventa virale quel libretto scritto da Valditara, docente di diritto romano che già ad aprile 2015 aveva dato alle stampe per Rubettino editore: L’immigrazione nell’antica Roma: una questione attuale”. La tesi sul ruolo delle invasioni barbariche, pure arginate e integrate per secoli dai romani, sono da affidare agli storici.
Ma quel titolo, in linea con il pensiero del giurista salviniano, allievo dell’ideologo della Lega Nord Gianfranco Miglio, sta scatenando reazioni indignate, scuote il mondo della scuola già in rivolta col ministro sovranista sull’intitolazione del ministero “Istruzione e merito”. “Un governo in tutto e per tutto ideologico”, “ecco quello che ci aspetta”. Sino a chi twitta con ironia: “Barbero lo seppellirà”.
Insomma, ancora prima di enunciare le sue priorità da ministro, il mondo della scuola reagisce, si agita, si preoccupa.
Raimo contesta nel merito il sovranismo di Valditara: “E’ vero che non esiste un soggetto politico forte di opposizione a sinistra, ma esiste una comunità di docenti, studiosi e accademici che sa bene che il sapere universitario o è internazionale o non è. L’idea stessa di sovranismo nel sapere è una contraddizione in termini. Tra l’altro quel titolo sulla caduta dell’impero romano è facilmente confutabile, il mondo è sempre stato multicentrico e multietnico, pensare a categorie di dentro e fuori rispetto a un periodo complesso come il tardo antico, che negli ultimi anni ha avuto enorme sviluppo nella ricerca storica, è strumentalizzare la storia a fini propagandistici”.
Mila Spicola spiega il malessere che monta nei social nella comunità dei docenti: “Siamo tutti scatenati perché già conosciamo il neoministro. Valditara significa un tipo di impostazione più gentiliana se parliamo di didattica, in politica significa esponente sovranista, reazionario dichiarato. Persona colta, certo, ma quel titolo sulla caduta dell’impero romano che parla di immigrati fa un certo effetto soprattutto riferito a un ministro all’istruzione in un contesto scolastico che negli anni è diventato modello di inclusione. Come docente della scuola democratica dico che stona”.
(da agenzie)
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Ottobre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
NELLA LEGA PARTE LA FAIDA: I VENETI SONO INCAZZATI PERCHE’ I CINQUE MINISTRI ESPRESSI DAL CARROCCIO SONO TUTTI LOMBARDI
LORENZO FONTANA NON HA BUONI RAPPORTI CON LUCA E VIENE CONSIDERATO PIÙ UOMO DI FIDUCIA DI SALVINI CHE RAPPRESENTANTE DEL VENETO
Cinque ministri e tutti lombardi. «Altro che Lega Nord o Lega per Salvini premier, qui siamo tornati alla Lega lombarda di Umberto Bossi». Lo sfogo di un leghista veneto è la fotografia degli umori che si colgono se ci si allontana dagli ambienti più vicini al segretario e neo ministro alle Infrastrutture, che ieri ha cenato con i quattro colleghi, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e la compagna Francesca Verdini nel cuore di Roma.
Il leader che si dice soddisfatto per il ruolo e il peso conquistato nel nuovo esecutivo deve scontare il rilievo di chi gli fa osservare che non è stato capace di valorizzare le diverse espressioni territoriali del suo partito. I più arrabbiati sono i veneti. Nel governo ci sono tre corregionali (Carlo Nordio, Elisabetta Casellati e Adolfo Urso) ma nessun esponente della Lega.
Un doppio affronto che per sfortunata coincidenza abbina il giuramento dell’esecutivo con il quinto anniversario dei referendum per l’Autonomia che si tennero proprio in Veneto e in Lombardia. Un lustro è passato invano, nonostante la Lega sia stata al governo sia con Conte che con Draghi.
L’insofferenza è forte, soprattutto nella Regione governata da Luca Zaia. Non è un caso che un uomo di sua fiducia, l’assessore Roberto Marcato, ieri sia stato protagonista di un flashmob a Bassano del Grappa per «gridare il diritto per il popolo veneto di avere ciò che chiediamo da anni».
I toni sono ultimativi, e poco importa che il neo ministro per le Autonomie sia un leghista come Roberto Calderoli. «Questo governo non ha più alibi – scrive su Facebook Marcato – noi siamo stanchi di aspettare. Se non ci sarà l’autonomia non ci sarà motivo di stare al governo».
Non avere uomini del territorio dentro l’esecutivo accentua il disagio. E a nulla è valso far eleggere alla presidenza della Camera un veronese come Lorenzo Fontana perché i suoi rapporti con Zaia non sono idilliaci e, soprattutto, viene considerato più uomo di fiducia di Salvini che rappresentante del Veneto. Ai vertici del partito, comunque, sono consapevoli che bisogna intervenire per un riequilibrio.
Il modo più immediato e diretto per aggiustare il tiro è sfruttare la nomina dei sottosegretari per dare spazio a leghisti veneti ma anche di altre Regioni, non fosse altro che per tenere fede alla vocazione nazionale su cui Salvini ha investito negli ultimi anni.
Qualche nome affiora. Per esempio, quello del siciliano Nino Minardo, entrato nella Lega nel 2019 dopo una lunga militanza in FI. O quello di Michele Marone, assessore regionale in Molise, non eletto alle Politiche. Per il Veneto tra i candidati l’identikit giusto potrebbe corrispondere alla figura di Alberto Stefani, 29 anni, commissario regionale. Che proprio ieri sui social ricordava che sull’Autonomia «ora servono i fatti».
(da il Corriere della Sera)
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Ottobre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
DECISIVA SARA’ LA NOMINA DEI VICEMINISTRI AL MEF E ALLE INFRASTRUTTURE PER “CONTROLLARE” L’ATTIVITA’ DEI DUE LEGHISTI, GIORGETTI E SALVINI
Placare, risarcire, compensare. Ora che Giorgia Meloni e la sua squadra hanno giurato, può iniziare il grande risiko dei posti di sottogoverno. In totale i componenti dell’esecutivo sono per legge massimo 65, compresi ministri senza portafoglio, viceministri e sottosegretari di Stato.
Quindi, tolti i 24 dicasteri già assegnati e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, le carte vincenti rimaste sul tavolo di Via della Scrofa sono una quarantina. Forse meno, se la prima donna presidente del Consiglio volesse riservarsi qualche tessera per future deleghe.
L’incarico che Meloni ha fretta di assegnare è il sottosegretario alla presidenza con delega all’attuazione del programma, destinato a Giovanbattista Fazzolari. Rimasto fuori dalla squadra di governo, il senatore di Fratelli d’Italia entrerà a Palazzo Chigi col compito di sovrintendere al rispetto, da parte di ogni ministro, della linea politica tracciata dalla premier. Dai calcoli di chi lavora al dossier dei numeri due, al partito che ha vinto le elezioni spetta il doppio dei posti rispetto alla somma di Lega e Forza Italia.
Il neo deputato Maurizio Leo sarà in Via XX Settembre con una delega (pesante) alle Finanze. Altra materia delicatissima è la sicurezza della Repubblica. Per Franco Gabrielli, al quale Mario Draghi affidò i Servizi segreti due settimane dopo la nascita del governo, Meloni ha tutto il tempo per decidere. «Dovrebbe individuare una persona di sua fiducia che abbia anche una conoscenza di questo mondo», ha detto l’ex capo della polizia alla festa del Foglio . Ma la premier può anche tenere per sé la delega.
Un altro nome di FdI evidenziato in giallo è quello del ligure Gianni Berrino, in corsa per lavorare al ministero del Turismo con Daniela Santanchè.
Paola Frassinetti, altra meloniana, punta all’Istruzione e al Merito, ma il ministero dove si è insediato ieri il leghista milanese e docente di Diritto romano Giuseppe Valditara piace (molto) anche alla ex presidente della commissione Cultura della Camera Valentina Aprea, già deputata di Forza Italia che il 25 settembre non è stata rieletta.
Silvio Berlusconi è pronto a dare battaglia. Deluso dal numero dei seggi parlamentari e dai ministeri conquistati, preme per ottenere compensazioni. La prima richiesta del Cavaliere, che ha perso il braccio di ferro con Meloni sulla Giustizia, è far avere a Francesco Paolo Sisto una scrivania in Via Arenula come vice di Carlo Nordio.
La seconda richiesta è avere l’ex capogruppo Paolo Barelli come numero due di Matteo Piantedosi al Viminale e la terza riguarda Valentino Valentini: quest’ ultimo, che ha difeso Berlusconi in tv dopo le esternazioni sulla ritrovata amicizia con Putin, sembra destinato alla Farnesina, dove ieri il vicepremier Antonio Tajani ha fatto il passaggio di consegne con Luigi Di Maio. Berlusconi dovrà anche risolvere il problema del Sud, rimasto a corto di ministri.
Francesco Battistoni resterà sottosegretario all’Agricoltura e FI dovrebbe mantenere la delega all’Editoria, o con la riconferma di Giuseppe Moles o, più probabilmente, con il senatore Alberto Barachini, presidente uscente della Vigilanza Rai.
Qualche speranza di entrare in squadra la nutrono anche il brianzolo Andrea Mandelli, ex vicepresidente di Montecitorio e i due coordinatori regionali di Calabria e Friuli-Venezia Giulia, Giuseppe Mangialavori e Sandra Savino.
Deborah Bergamini, che era ai Rapporti con il Parlamento nel governo Draghi, potrebbe restare al suo posto con il nuovo ministro Luca Ciriani. Un ruolo non secondario avrà Maurizio Lupi, il leader di Noi con l’Italia che è rimasto fuori dal governo. Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture, non potrà puntare i piedi più di tanto, avendo ottenuto già molto.
Per il leader della Lega la priorità è avere come vice o sottosegretario il fedelissimo Edoardo Rixi, che ha già svolto entrambi gli incarichi nel primo e nel secondo governo di Giuseppe Conte.
Tra i desiderata di Salvini ci sono i coordinatori della Lega in Calabria (Giacomo Saccomanno), in Abruzzo (Luigi D’Eramo), in Molise (Michele Marone) e in Sicilia (Nino Minardo).
(da agenzie)
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Ottobre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
MOSCA SI SERVE DI 240 IMBARCAZIONI SFRUTTANDO PRESTANOMI IN ASIA E MEDIO ORIENTE
In previsione dell’entrata in vigore dell’embargo al petrolio russo da parte dell’Unione Europea, il prossimo 5 dicembre, nel mondo si sta formando una flotta «ombra» – così la definisce Bloomberg che ne dà notizia – di petroliere pronte a trasportare il greggio che l’Ue smetterà di acquistare verso altre destinazioni.
Le navi acquistate, riferisce la testata statunitense, sono già 240, e molte di queste sono state vendute a compratori la cui identità non è stata rivelata.
Nonostante le importazioni europee siano calate, con la quota sulle esportazioni russe che è passata da oltre metà del totale il 28 giugno scorso a circa un terzo a inizio ottobre, la quantità di greggio che lascia la Russia nello stesso periodo è aumentata, attestandosi a oltre 3 miliardi di barili al giorno, addirittura più che a febbraio. Bloomberg evidenzia come la quota di acquisti dei Paesi asiatici sia cresciuta considerevolmente, così come quella dei compratori sconosciuti.
Le destinazioni? Dubai, Cipro, Hong Kong e Singapore
Il commerciante di navi Braemar afferma che per mantenere livelli di export simili, molte navi verranno aggiunte alla flotta di 240 petroliere che finora hanno trasportato petrolio iraniano e venezuelano ma che ora pare facciano parte della flotta fantasma. Il commercio di queste navi è aumentato sensibilmente a partire dall’inizio della guerra. Gli acquisti sono stati effettuati per lo più da entità non rivelate site in Paesi come gli Emirati Arabi Uniti, Hong Kong, Singapore e Cipro. «Se si guarda a quante navi sono state vendute negli ultimi sei mesi ad acquirenti sconosciuti, è chiaro che si sta formando una flotta», ha dichiarato Christian Ingerslev, amministratore delegato di Maersk Tankers a Copenaghen, che gestisce una flotta di 170 navi.
Trasferimenti da una nave all’altra in mare aperto per aggirare il blocco
Inoltre, Bloomberg scrive che Mosca si starebbe organizzando per trasferire il greggio da una petroliera all’altra – da navi relativamente piccole e vere e proprie superpetroliere – direttamente in mare, in modo da aggirare le sanzioni che impediscono alle navi di rifornirsi presso i porti russi.
(da Open)
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Ottobre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
“ADRIATICI NON CI HA MAI CHIESTO SCUSA”
“Vogliamo giustizia”, a gridarlo sono le decine di cittadini presenti al comitato pacifico fuori dal tribunale di Pavia che chiedono che la legge sia uguale per tutti sostenendo che invece per la Procura di Pavia “purtroppo non lo è”.
Il motivo? Il capo di imputazione deciso dagli inquirenti che, alla chiusura delle indagini, che hanno deciso di accusarlo di eccesso colposo di legittima difesa e non di omicidio volontario, come invece richiesto dalla famiglia e i suoi avvocati.
“L’amico dei magistrati di questo palazzo, Massimo Adriatici, ha sparato a mio fratello che era pure malato”, dice la sorella di Youns.
“Noi ci aspettavamo almeno, con tutte le prove che ci sono, l’inseguimento, la provocazione, le telecamere almeno che cambiassero il capo d’imputazione perché non c’è alcuna legittima difesa – racconta ancora Bahija – o eccesso colposo. Invece no, non succederà mai. In questa Procura purtroppo non cambierà mai niente perché lavora, non per la giustizia, ma per coprire l’assassino Massimo Adriatici e mi prendo le responsabilità di quello che dico”.
La richiesta di trasferire il processo
I familiari hanno chiesto inoltre di spostare il processo in un’altra città dopo che hanno scoperto alcuni scambi di messaggi tra Adriatici e gli ex vertici della Procura di Pavia, in cui emergerebbero alcuni rapporti amichevoli tra alcuni magistrati e l’ex assessore.
“Questi messaggi sono la conferma che in questo palazzo della Giustizia non esiste un pubblico ministero, non esistono magistrati, ma sono solo amici, parenti, cari dell’assassino perché questa – continua la sorella – è la conferma che non hanno lavorato, non hanno indagato e la conferma che lo stanno coprendo”.
Intanto la sorella fa sapere che Adriatici non ha mai contattato la famiglia di Youns: “No, mai avuto alcun contatto. Anche quando si parla di eccesso colposo di legittima difesa, normalmente ci sono condoglianze, delle scuse. Niente né da lui né dal sindaco di Voghera”.
(da Fanpage)
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Ottobre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
INTERVISTA A ZAKIA SEDDIKI, VEDOVA DELL’AMBASCIATORE ITALIANO UCCISO IN CONGO: “I NOSTRI PROGETTI NEL NOME DI LUCA”
“Il ricordo che ho di Luca e che porterò sempre con me è quello di un uomo generoso e di grandi valori”. Sono le parole di Zakia Seddiki, vedova di Luca Attanasio, diplomatico italiano e ambasciatore in Congo ucciso il 22 febbraio del 2021 in un agguato nel villaggio di Kibumba, vicino Goma.
A Fanpage.it ha raccontato com’era: “Luca aveva molte passioni, era un sognatore, un adulto con il cuore di un bambino. Sono marocchina e tra le nostre culture c’era un continuo scambio: mi diceva che voleva imparare l’Arabo e adorava l’arte africana. Ci siamo amati molto”.
Ha raccontato quali erano i loro progetti insieme e com’è cambiata la sua vita dopo la scomparsa del marito, con il quale ha tre figlie. “Era un padre affettuoso e premuroso, continuerò a crescere le nostre principesse come ci eravamo promessi, con onestà e attenzione verso il prossimo, trasmettendogli tutto quello che era il loro papà”.
Per Zakia ogni volta parlare di Luca è come una ferita che si riapre: “Luca era una persona con pregi e difetti, voglio ricordarlo e raccontarlo alle persone, specialmente ai giovani, perché possano prendere esempio da lui e dalla sua vita”.
Luca Attanasio continua a vivere nel ricordo dei suoi cari, di tutte le persone che ha conosciuto durante i suoi viaggi, di chi gli voleva bene, dei colleghi e delle istituzioni, ma anche nei progetti umanitari della moglie.
“Quando siamo arrivati in Congo nel 2017 ho visto i bambini di strada, una realtà che esiste in vari Paesi dell’Africa, ma che in Congo è particolarmente complessa e non ci si può voltare dall’altra parte. Ho proposto l’idea a mio marito e lui mi ha sostenuta entusiasta fin dal primo momento. Così è nata l’associazione umanitaria Mama Sofia, in sostegno dei bambini e delle donne, in particolare delle ragazze madri”.
L’associazione Mama Sofia che opera in Africa ma non solo, recentemente ha fatto una donazione per sostenere le spese scolastiche dei bambini del Libano.
Per questo il giornalista libanese Talal Khrais responsabile Esteri dell’associazione italo-araba Assadakah Onlus per l’informazione e la gestione dei rapporti culturali e politici, gli ha conferito un’onorificenza, alla presenza dell’ambasciatrice del Libano Mira Daher, del procuratore Generale dell’Ordine Mariano della Comunità Maronita presso la Santa Sede Majed Maroun e del presidente della Stampa Estera Esma Cakir. L’ambasciatore Luca Attanasio è stato ucciso a 43 anni mentre era insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo. “Dopo la tragedia non ho avuto dubbi: il progetto doveva andare avanti e oggi è dedicato a mio marito Luca, che ne è stato il primo sostenitore, per ricordare com’era: un uomo meraviglioso e un diplomatico che con il suo impegno e dedizione ha ben rappresentato l’Italia”.
(da Fanpage)
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Ottobre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
L’ANALISI DI TUTTE LE FORZE IN GIOCO E DI TUTTI I FRONTI APERTI
A quasi otto mesi dall’inizio di una guerra che avrebbe dovuto finire in pochi giorni con la vittoria russa, è l’Ucraina che continua a detenere l’iniziativa sul campo, dopo aver ottenuto le sue principali vittorie sul campo all’inizio dell’autunno.
Anche per questo motivo, secondo un recente sondaggio pubblicato dalla stimata compagnia americana Gallup, la netta maggioranza — il 70% di tutti gli ucraini intervistati all’inizio di settembre — sostiene ora che il proprio Paese debba continuare a combattere fino a quando non vincerà la guerra con la Russia.
Solo poco più di uno su quattro (26%) è favorevole adesso a negoziare per porre fine alla guerra il prima possibile.
Come ci si potrebbe attendere, però, il sostegno alla continuazione della guerra è più forte nelle regioni più lontane dalla guerra di terra e più debole nelle parti dell’Ucraina più vicine al fronte e più russofone.
Il sostegno allo sforzo bellico è perciò più alto in luoghi come la capitale, Kyiv (83%), e nelle regioni occidentali (82%), centrali (78%) e settentrionali (75%) del Paese. Maggioranze decisamente più ridotte a favore del proseguimento della guerra sono riportate invece tra gli intervistati nell’Est del Paese (56%) e nel Sud (58%).
Ma la parte interessante di questo sondaggio viene subito dopo: alla domanda su cosa significhi la vittoria in guerra, circa nove su dieci degli intervistati a favore della continuazione dello sforzo bellico (91%) hanno risposto che la vittoria ucraina significa la riconquista da parte delle forze ucraine di tutti i territori conquistati dalla Russia dal 2014, compresa la Crimea.
Solo il 5% ritiene vittoria la riconquista di tutti i territori persi dal febbraio 2022, ovvero dall’inizio della guerra su larga scala intrapresa dai russi, ed il restante 4% ritiene che la vittoria sia la riconquista di tutti i territori persi dal 2014 ad oggi (incluso quindi le due “repubbliche separatiste” del Donbass), ma senza la Crimea.
Insomma, dopo il successo della controffensiva ucraina iniziata a fine agosto, l’opinione pubblica ucraina è fortemente ottimista sulla possibilità di continuare a combattere la guerra fino al raggiungimento della vittoria totale
Ma la verità è che sebbene gli ucraini abbiano assaporato la vittoria sul campo di battaglia, la guerra è tutt’altro che finita. Nonostante gli ultimi passi falsi di Mosca, l’opinione comune tra gli analisti militari occidentali è che la Russia non ha ancora perso la guerra, ed è fondamentale non sottovalutare mai un avversario di questa portata.
L’esercito russo, anche se malconcio, è ancora in grado di condurre operazioni di artiglieria su larga scala e possiede ancora due assi nella manica: un’infusione di nuove truppe (per quanto male addestrate e male armate possano essere) grazie alla “mobilitazione parziale” ed una ancora buona capacità di assorbire grandi perdite sul campo di battaglia.
Proviamo, dunque, ad analizzare assieme la situazione sui vari fronti al momento attivi in Ucraina e comprendere quanto siano realistiche le aspettative dell’opinione pubblica ucraina.
Il ritiro russo da Kherson
Iniziamo con la regione dove è più probabile una nuova vittoria ucraina nel breve periodo, quella di Kherson. Secondo le valutazioni dell’intelligence americana, così come riportate dal New York Times, l’esercito ucraino ha una finestra di opportunità nelle prossime sei settimane per continuare la propria offensiva.
Data la dinamica del campo di battaglia, i funzionari dell’intelligence non distengono che con l’arrivo dell’inverno ci sarà una lunga pausa nei combattimenti.
La neve invernale quasi certamente non rallenterà i combattimenti, ma il Grande Fango del tardo autunno, quello che i russi chiamano “Rasputitsa” e che ha rallentato fatalmente anche l’avanzata nazista verso Mosca nell’autunno 1941, avrà certamente un impatto sulle operazioni sul fronte anche questa volta.
Solo una volta che il terreno si sarà indurito a gennaio, ovvero intorno al primo anniversario dell’invasione, gli eserciti potranno tornare a muoversi più rapidamente e riprendere ad avanzare.
Secondo l’intelligence americana ci sono poche possibilità di un crollo generalizzato delle forze russe nelle poche prossime settimane prima dell’arrivo del Grande Fango, tale da poter consentire all’Ucraina di conquistare un’altra enorme fetta di territorio, simile a quella rivendicata il mese scorso nella regione di Kharkiv.
Ma alcune divisioni russe potrebbero comunque cedere di fronte alla pressione sostenuta dell’Ucraina, in particolare permettendo all’esercito di Kyiv di prendere il controllo della città di Kherson, uno dei principali obiettivi della guerra.
Va detto che dal punto di vista strettamente militare, per i russi mantenere a tutti i costi la testa di ponte attualmente esistente sulla riva occidentale del fiume Dnjepr dove si trova una parte importante della regione “annessa” di Kherson, incluso il capoluogo regionale, la città di Kherson, ha poco senso.
Un corrispondente di guerra russo ha ammesso candidamente alla televisione di Stato russa il 19 ottobre che le forze ucraine superano in questa regione le forze russe di quattro a uno e che “gravi perdite territoriali sono probabili in questi due mesi, ma la sconfitta in una battaglia non significa perdere la guerra”.
Il problema è più che altro politico: la città di Kherson rappresenta l’unico capoluogo regionale occupato dai russi da inizio guerra e perderne il controllo rappresenterebbe un altro pesante colpo per la strategia del Cremlino, tra l’altro giusto poche settimane dopo aver celebrato al Cremlino “l’annessione” di questa regione.
Ma soprattutto occorre considerare questo: il ritiro russo dalla regione di Kherson rappresenta il chiodo sulla bara, per il futuro prevedibile, di qualsiasi avanzata russa verso Odesa, il gioiello del Mar Nero, la cui conquista era uno degli obiettivi dichiarati dal Cremlino ad inizio guerra.
Ciò nonostante, questa settimana il generale Sergey Surovikin, il nuovo comandante della “operazione militare speciale”, come il Cremlino definisce ancora oggi la guerra contro l’Ucraina, ha rilasciato la prima dichiarazione politica per la televisione russa, in cui ha descritto in termini molto espliciti la difficile posizione russa nella regione di Kherson.
L’approvvigionamento delle truppe russe attraverso i ponti sul Dnjepr è stato quasi del tutto interrotto a causa degli attacchi missilistici ucraini, ha ammesso Surovikin, e sta continuando solo grazie a ponti di chiatte civili che comunque non sono in grado di garantire la capacità necessaria per continuare a rifornire il gruppo russo avanzato sul lato destro del fiume Dnjepr e che vengono costantemente colpiti dall’artiglieria ucraina.
“Le decisioni difficili non possono più essere escluse”, ha quindi affermato il generale, lasciando intravedere la possibilità di ordinare il ritiro dalla zona occidentale della regione annessa. E secondo una analisi dell’Istituto per lo Studio della Guerra (ISW) pubblicata il 22 ottobre 2022, il ritiro russo vero e proprio dalla zona occidentale della regione di Kherson è già iniziato.
L’intento del comando russo sarebbe quello, per una volta, di procedere con una ritirata ordinata, evitando una rotta come avvenuto ad inizio autunno nella regione di Kharkiv, quando enormi quantità di armi e mezzi sono finite catturate dagli ucraini.
È probabile che le forze russe intendano continuare il ritiro nelle prossime settimane, ma potrebbero avere difficoltà a farlo se le forze ucraine decidessero di attaccare nel frattempo. Il ritiro ordinato da Kherson richiede perciò che un distaccamento russo resti in prima linea pronto a fermare gli attacchi ucraini, coprendo le altre forze russe mentre si ritirano.
Tale distaccamento deve essere necessariamente ben addestrato, professionale e pronto a morire per i suoi compatrioti per svolgere efficacemente questo compito. È molto improbabile, infatti, che le nuove riserve russe, poco addestrate ed appena mobilitate, siano in grado di resistere a un contrattacco ucraino se le forze di Kyiv decidessero di attaccarli e di inseguire le forze in ritirata.
Una possibile catastrofe in arrivo?
Una ulteriore indicazione di un ritiro imminente da parte russa dalla zona occidentale della regione di Kherson è arrivata sempre il 22 ottobre, quando l’amministrazione della regione “annessa” di Kherson ha chiesto a tutti i residenti della città di Kherson di abbandonarla e di attraversare il Dnjepr verso la riva sinistra.
Come hanno detto diversi residenti di Kherson all’edizione ucraina di Strana, molti non intendono andare da nessuna parte, poiché si attendono che i russi lascino presto la città “senza combattere” ed il ritorno delle Forze Armate ucraine.
Ma altri, che pure non sono filorussi, hanno deciso lo stesso di andarsene perché temono invece la possibilità della distruzione della diga di Nova Kakhovka ed il conseguente allagamento della città.
Secondo molti analisti, incluso l’ISW, è probabile infatti che un ritiro russo dalla zona occidentale della regione di Kherson possa essere accompagnato da una catastrofe senza precedenti: le forze russe potrebbero tentare di far saltare in aria la diga della centrale idroelettrica di Kakhovka per coprire la loro ritirata e impedire alle forze ucraine di inseguire le forze russe più in profondità.
La distruzione della diga causerebbe quasi certamente inondazioni catastrofiche in parecchie città ucraine (inclusa una buona parte di Kherson) con conseguenze drammatiche come lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone, che obbligherebbe il governo ucraino a prendere una pausa dall’attacco per aiutare la popolazione civile a rischio e danneggerebbe al contempo la già tenue fornitura di elettricità dell’Ucraina.
È stato inoltre lo stesso Zelensky ad avvertire il 21 ottobre che la distruzione della diga potrebbe inoltre anche interrompere le forniture d’acqua a gran parte dell’Ucraina meridionale e soprattutto costituire un grave rischio per il funzionamento della centrale nucleare di Zaporizhzya (ZNPP), che si trova a monte della diga.
Essa, infatti, dipende proprio dall’acqua del bacino di Kakhovka per raffreddare i suoi impianti, il che significa che uno svuotamento del bacino dovuto alla distruzione della diga potrebbe causare potenzialmente anche un disastro nucleare.
Il risultato di tutto questo sarebbe, in sintesi, una catastrofe umanitaria senza precedenti che finirebbe per aumentare drammaticamente il costo, in termini di vite umane e risorse, della vittoria al sud da parte ucraina.
Da parte sua, Mosca sta già mettendo le mani davanti accusando preventivamente l’Ucraina di voler distruggere questa diga, sebbene come visto sopra siano i russi ad avere tutte le ragioni per procedere in questa direzione.
Le giustificazioni di Mosca secondo cui le forze russe non farebbero mai saltare la diga a causa delle preoccupazioni per l’approvvigionamento idrico della Crimea sembrano infatti assurde, come afferma ISW.
La Crimea è infatti sopravvissuta per anni senza accesso al canale che scorre dal Dnjepr da quando la Russia l’ha illegalmente invasa e annessa nel 2014, fino al ripristino dell’accesso dopo l’invasione della Russia nel febbraio 2022.
I russi hanno quindi ampiamente dimostrato la loro capacità di rifornire indefinitamente la Crimea di acqua senza l’accesso al canale, e non si vede perché non debbano riuscirci anche in questo caso. Il rischio che accada quindi è molto alto.
Donbass e Zaporizhzhya
Mentre la situazione resta estremamente calda nella regione di Kherson, in Donbass, dopo la fine della controffensiva ucraina nel nord-est il fronte si è sostanzialmente stabilizzato.
A nord, le forze russe e ucraine continuano a combattere battaglie localizzate sul fronte di Svatove-Kreminna.
Il territorio vicino a Svatove resta la linea più attiva del fronte, dove nel corso degli ultimi giorni le forze ucraine hanno respinto diversi tentativi da parte delle forze russe di cercare di riconquistare le posizioni perdute. Lo Stato Maggiore ucraino ha inoltre riferito che le forze ucraine hanno respinto un altro assalto russo a Lyman.
Fonti russe hanno affermato a loro volta che le forze ucraine hanno tentato senza successo di attaccare nelle vicinanze di Terny (circa 16 km a nord-est di Lyman) e di raggiungere l’autostrada R66 Kreminna-Svatove, ma che il fuoco dell’artiglieria russa ha impedito alle forze ucraine di attraversare il fiume Zherebets vicino a Novovodyane (circa 18 km a sud-ovest di Svatove) e Torske (circa 13 km a est di Lyman).
Più a sud, le forze ucraine avrebbero respinto diversi assalti russi ad ovest di Lysychansk, così come a Bilohorivka e Zolotarivka, dove i russi hanno cercato, anche in questo caso senza alcun successo, di riconquistare le posizioni sulla riva meridionale del fiume Seversky Donets.
Situazione più difficile per gli ucraini, come ha ammesso di recente lo stesso presidente ucraino Zelensky, è quella che si sta sviluppando più a sud dove opera il Gruppo PMC Wagner, l’organizzazione di mercenari fondata da Yevgeny Prigozyn, che sta cercando da settimane di avanzare verso le città di Bakhmut e Soledar.
Nonostante migliaia di uomini vengano letteralmente inviati allo sbaraglio con ondate su ondate e vengano costantemente falciati dalle posizioni difensive ucraine con un enorme costo di vite umane, i guadagni finora ottenuti dai russi sono pochi e localizzati.
Fonti russe affermano che a furia di attaccare in questo modo i combattenti di Wagner si siano avvicinati verso il centro di Bakhmut, ma lo Stato Maggiore ucraino contesta queste affermazioni dicendo invece che le forze ucraine stanno continuando a respingere tutti gli attacchi di terra russi vicino a Bakhmut, così come a nord-est di Bakhmut vicino a Soledar e a sud di Bakhmut vicino a Ozaryanivka, Optyne e Odradivka.
Lo Stato Maggiore ucraino ha anche riferito che le forze ucraine hanno respinto gli attacchi di terra russi a est di Avdiivka, così come vicino a Pervomaiske, e a sud-ovest della città di Donetsk, vicino a Mariinka e Pobied, altra zona calda del Donbass.
Sintetizzando, si può dire che gli ucraini sembrano essere in grado di mantenere saldamente il controllo della testa di ponte conquistata sulla riva sinistra del fiume Seversky Donets nella zona di Lyman dopo l’offensiva di inizio autunno, ma non sembrano altresì in grado di sfondare più in profondità al momento ed anzi negli ultimi giorni sono rimaste sempre più sulla difensiva.
È possibile che le forze ucraine possano riprendere l’iniziativa nel nord della regione di Luhansk nei prossimi giorni ed avanzare ulteriormente verso Lysychansk e Svatove. Ma in generale, questa situazione di sostanziale stallo non lascia intravedere la possibilità concreta di una svolta su larga scala a favore ucraino in Donbass nel poco tempo che resta prima dell’arrivo del Grande Fango.
Ciò rende allo stesso tempo meno probabile anche l’apertura a breve di un terzo fronte nella regione di Zaporizhzhya con l’obiettivo ambizioso di arrivare sul Mar Nero (a Berdyansk e Mariupol) per tagliare in due il fronte russo ed isolare via terra la Crimea.
Di tale ipotesi si era parlato, in particolare, nei momenti più caldi dell’offensiva ucraina ad inizio autunno, come di quella del colpo del ko da parte di Kyiv per le prospettive russe in Ucraina.
Finora però non sembra essersi trasformata in nulla di concreto, e non ci sono al momento evidenze concrete di un assembramento di truppe in zona tale da poter indicare l’inizio di una offensiva su larga scala in questa zona nei prossimi giorni.
La nuova tattica russa
Lontano dal campo di battaglia, sono invece i russi ad aver ottenuto un primo risultato concreto. Dopo l’attacco al ponte di Crimea, l’immediata reazione di Mosca è stata quella di cambiare tattica, decidendo di impegnare i suoi missili, così come i droni kamikaze forniti dall’Iran, per un obiettivo ben specifico: la distruzione delle infrastrutture energetiche ucraine.
Dal 10 ottobre in poi le grandi città di tutta l’Ucraina sono state sottoposte a dure campagne di bombardamenti che hanno messo fuori uso almeno il 30% dell’intera rete energetica ucraina, come ha ammesso lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky, e costretto l’ente ucraino Ukrenergo ad alcuni blackout per cercare di riattivare l’energia elettrica nelle zone colpite.
Tutto ciò ha causato, inoltre, anche l’interruzione in molte zone della fornitura di acqua corrente (le pompe idrauliche, infatti, sono generalmente alimentate dall’energia elettrica prodotte dalle centrali elettriche colpite).
Un altro grande attacco di questo genere è avvenuto sabato 22 ottobre, e secondo Ukrenergo, i danni di questo secondo attacco sono paragonabili o persino “possono superare” le conseguenze dei bombardamenti avvenuti nei primi giorni in risposta all’esplosione sul ponte di Crimea.
“Altri attacchi missilistici da parte di terroristi che distruggono le infrastrutture e combattono contro i civili. Ma non serve a nulla, sopravviveremo. I sogni dei russi sui problemi nelle retrovie e sul fermare della liberazione dei territori dell’Ucraina sono infantili. Ci arrabbiamo solo di più, ogni giorno. E questo significa che daremo una risposta ancora più forte”, ha commentato il capo di staff dell’ufficio del presidente dell’Ucraina Andriy Yermak.
Ma nonostante le parole dei leader ucraini, la verità è che con l’arrivo dell’inverno e del freddo (temperatura media minima attorno ai -5/-10 gradi con picchi di -20 in Ucraina), è facile immaginare come una campagna di questo tipo possa causare non poche difficoltà alla popolazione civile.
È in particolare l’uso dei droni kamikaze di provenienza iraniana a rendere complicati i piani di difesa ucraini da questo tipo di attacco. Va detto che, fino ad ora, le Forze Armate ucraine hanno avuto un buon grado di successo nell’abbattere i droni Shahed-136, ribattezzati Geran-2 dalla Russia.
I dati di Molfar, una ONG che si occupa di analisi militare, suggeriscono che fino all’80% dei 208 Shahed-136 lanciati fino al 17 ottobre sono stati abbattuti. Questo non è bastato però per impedire danni su larga scala da parte dei droni che non è stato possibile abbattere.
Il secondo problema è che il costo per l’Ucraina dell’abbattimento dei droni kamikaze lanciata contro le sue città supera di gran lunga le somme pagate dalla Russia per procurarsi e lanciare la tecnologia a basso costo di fabbricazione iraniana.
Con un prezzo degli Shahed-136 di fabbricazione iraniana compreso tra i 20.000 e i 50.000 euro per ciascun veicolo, il costo totale per la Russia dei falliti attacchi con droni scatenati contro l’Ucraina nelle ultime settimane è stimato dagli analisti militari dell’ONG Molfar si aggira tra gli 11,66 milioni di dollari e i 17,9 milioni di dollari.
L’Ucraina ha invece schierato una serie di armi per abbattere i droni, tra cui jet MiG-29, missili cruise S-300, e vari altri sistemi di difesa antiaerea. Il costo stimato per l’Ucraina è di oltre 28,14 milioni di dollari, secondo l’analisi, che riguarda i droni lanciati tra il 13 settembre e il 17 ottobre.
L’analisi evidenzia perciò il basso costo finanziario per la Russia degli attacchi dei droni, che continuano a scatenare il terrore in Ucraina, uccidendo civili e colpendo le infrastrutture energetiche del Paese.
Anche il portavoce del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, Pat Ryder, ha dichiarato questa settimana che i droni iraniani forniti alle forze russe stanno creando pesanti danni nonostante la capacità dell’Ucraina di abbatterne una buona parte.
“In termini di efficacia e di capacità degli ucraini di affrontarli, la nostra valutazione è che gli ucraini siano stati piuttosto efficaci nell’abbattere molti di questi droni”, ha detto Ryder durante un briefing con la stampa. “Detto questo, è chiaro che hanno creato scompiglio… restano una minaccia seria”.
Sta diventando infatti sempre più chiaro che di fronte ad attacchi di questo tipo l’Ucraina si trovi sempre più in difficoltà e che gli attuali sistemi antimissilistici non bastino per proteggere le città ucraine.
Per questo motivo Zelensky ha chiesto aiuto ai suoi partner europei ed americani che hanno promesso in risposta di inviare il prima possibile in Ucraina moderni sistemi di difesa antiaerea come i NASAMS americani, gli stessi che proteggono il cielo americano a Washington D.C..
Inoltre, anche un primo sistema di difesa aerea avanzata IRIS-T promesso a Kyiv dalla Germania è appena arrivato in Ucraina, ed altri tre di questi sistemi saranno forniti l’anno prossimo, ha dichiarato il 12 ottobre il ministro della Difesa tedesco Christine Lambrecht.
La NATO, da parte sua, ha deciso di inviare all’Ucraina dei disturbatori di segnale per contrastare i micidiali droni suicidi di fabbricazione iraniana che le forze russe hanno utilizzato per terrorizzare le città ucraine.
Parlando virtualmente al Forum di politica estera di Berlino, il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg ha detto che l’alleanza militare consegnerà all’Ucraina “centinaia” di disturbatori di segnale contro i droni nei “prossimi giorni”.
Questi sistemi aiuteranno l’Ucraina ad affrontare la “minaccia specifica dei droni, compresi, ovviamente, i droni di fabbricazione iraniana che ora stanno causando molta sofferenza in Ucraina”, ha detto Stoltenberg.
Se tutto questo basterà per porre fine alla nuova ondata di attacchi e rendere nuovamente sicure le città ucraine, resta ancora da vedere.
Quel che è certo al momento è che l’Ucraina e l’Occidente stanno ancora cercando di trovare una soluzione per contrastare la nuova tattica russa che finora ha dimostrato di avere un discreto successo, e che Mosca ha ancora assi nelle maniche da utilizzare prima di darla per spacciata.
Un nuovo attacco russo dalla Bielorussia?
Il 17 ottobre, il Ministero della Difesa della Bielorussia ha annunciato che si è riunito per la prima volta il raggruppamento regionale di truppe di Russia e Bielorussia, che era stato in precedenza annunciato dal presidente bielorusso Alexander Lukashenko.
Il gruppo, che comprende forze bielorusse, oltre a circa 9.000 militari russi, è stato creato “in connessione con l’aggravamento ai confini occidentali dello Stato dell’Unione”, ovvero al confine con l’Ucraina, come ha affermato Lukashenko.
In dettaglio: nella base aerea militare di Zyabrovka, situata vicino a Gomel in Bielorussia al confine con l’Ucraina, negli ultimi giorni stanno affluendo sempre di più truppe e mezzi militari russi.
Lo dimostrano, secondo il servizio bielorusso di Radio Svoboda, le immagini satellitari fornite dalla compagnia americana Planet Labs. Nelle immagini sono visibili i sistemi missilistici antiaerei S-300 e S-400, nonché un treno con carburante.
Un residente della regione di Gomel, parlando in condizione di anonimato, ha detto a Radio Svovoda che le truppe russe sono arrivate in massa all’aeroporto all’inizio di ottobre.
Il canale Telegram bielorusso Gayun, che monitora il movimento di equipaggiamento militare in Bielorussia, ha riferito almeno sette volte dall’inizio di ottobre che camion delle forze armate russe e bielorusse sono stati visti vicino a Zyabrovka.
Inoltre, secondo gli autori del progetto Gayun, nelle vicinanze dell’aeroporto, nella foresta dietro la pista aerea, ci sono carri armati e veicoli da combattimento della fanteria.
Inoltre, la pubblicazione bielorussa Nasha Niva ha riferito il 17 ottobre che stava “ricevendo segnali da tutta la Bielorussia che gli uomini stavano ricevendo convocazioni all’ufficio di registrazione e arruolamento militare”, come parte di una “mobilitazione ombra” la cui esistenza viene costantemente smentita dalle autorità bielorusse.
Anche lo Stato Maggiore delle Forze Armate ucraine ha dichiarato il 18 ottobre che in Bielorussia “sotto le spoglie di campi di addestramento si tengono eventi di mobilitazione ombra” ed è in corso l’addestramento degli operatori dei sistemi missilistici antiaerei e degli equipaggi dei carri armati.
Per paura di una nuova offensiva dal territorio bielorusso verso l’Ucraina, Volodymyr Zelensky ha proposto di recente ai Paesi del G7 di inviare osservatori internazionali al confine tra Ucraina e Bielorussia.
Il Presidente ucraino ha espresso l’opinione che la Russia stia cercando di trascinare la Bielorussia in guerra e, come pretesto, potrebbe essere organizzata una sorta di provocazione con un presunto attacco dell’Ucraina al Paese vicino.
Zelensky ha assicurato che il Paese “non ha pianificato e non ha intenzione” di attaccare la Bielorussia, poiché “è interessato solo a difendere la sua sovranità territoriale”: “offriamo perciò la nostra soluzione: una missione di osservatori internazionali da schierare al confine tra Ucraina e Bielorussia”, ha affermato a questo proposito.
Anche lo Stato Maggiore dell’esercito ucraino, pur specificando di essere pronto a qualsiasi evenienza, ha dichiarato di essere preoccupato per la “crescente minaccia” di una nuova offensiva russa dalla Bielorussia.
“La retorica aggressiva dei leader militari e politici di Russia e Bielorussia si sta intensificando”, ha dichiarato ai giornalisti Oleksiy Gromov, ufficiale militare ucraino, “La minaccia di una ripresa dell’offensiva sul fronte settentrionale da parte delle Forze Armate russe sta crescendo”.
Ma una nuova imminente offensiva su larga scala dal territorio della Bielorussia, dopo quella fallita in primavera, resta ancora la versione meno probabile per diversi motivi.
Anzitutto, l’offensiva è limitata dalla geografia del confine ucraino-bielorusso: a febbraio e marzo le truppe russe non sono state in grado di organizzare efficacemente l’approvvigionamento del gruppo a nord e ad ovest di Kiev attraverso la “regione di Pripyat”, un’area paludosa con un piccolo numero di strade e un gran numero di barriere d’acqua.
Più promettente potrebbe essere un’offensiva dalla regione di Brest lungo il confine occidentale dell’Ucraina per tagliarla fuori dai rifornimenti dall’Europa. Ma un’operazione del genere richiederebbe l’uso di enormi forze al momento inaccessibili al Cremlino anche dopo la mobilitazione, e non basteranno certo i pochi soldati attualmente schierati in Bielorussia.
Infine, l’esercito della Bielorussia quasi certamente non aiuterà il Cremlino in una tale offensiva. Anzi, sembra che il comando russo stia indebolendo piuttosto che rafforzando il proprio alleato: armi e munizioni bielorusse vengono infatti trasferite sempre più in Russia e Crimea, cosa che avrebbe poco senso in caso di un attacco congiunto delle due armate contro l’Ucraina.
Piuttosto è probabile che il dispiegamento di queste truppe russe in Bielorussia abbia un doppio scopo diverso da questo: anzitutto quello di permettere la riorganizzazione delle truppe restanti del distretto militare occidentale che hanno abbandonato di fretta a furia la regione di Kharkiv subendo pesantissime perdite in battaglia dopo la recente offensiva ucraina, creando un nuovo raggruppamento assieme ai soldati già inviati in Bielorussia.
In secondo luogo, quello di tenere impegnate le forze ucraine con la minaccia di una nuova offensiva dal territorio bielorusso, per obbligare Kyiv a dirottare truppe e riserve da altre fronti dove potrebbero invece essere usate per ulteriori azioni offensive contro le forze russe prima dell’arrivo del Grande Fango autunnale.
La guerra durerà ancora a lungo
Una cosa a questo punto è sicura: la guerra durerà ancora a lungo. Sebbene al momento possa sembrare che Kyiv abbia già vinto la guerra almeno strategicamente parlando — impedendo alla Russia di raggiungere i suoi obiettivi principali di rovesciare il governo di Kiev e costringere il Paese ad allontanarsi dall’Europa e dall’Occidente — ciò non significa in alcun modo che Putin si stia preparando a smettere di combattere.
Anzi il 21 ottobre il Presidente russo ha firmato un nuovo decreto che istituisce un “consiglio di coordinamento” del governo russo per “rafforzare il coordinamento degli organi esecutivi federali e degli organi esecutivi dei soggetti federali” durante la guerra in Ucraina.
Si tratta di un passo che Putin quasi certamente non avrebbe fatto se intendesse concludere la guerra in tempi brevi o fosse alla ricerca di una sorta di via di uscita o di una pausa operativa che prevedesse la fine delle principali operazioni di combattimento.
La creazione di questo nuovo organismo di coordinamento pone invece le condizioni per un sempre più alto livello di mobilitazione dello Stato, dell’economia e della società russa per il proseguimento di operazioni militari convenzionali ad alta intensità anche nel prossimo futuro.
Pure le condizioni poste dal Cremlino per consentire il ritiro di Kherson, i presunti preparativi per far saltare in aria la diga di Nova Khakovka e per un’ulteriore mobilitazione dimostrano che Putin non sta attivamente cercando una via d’uscita a breve termine.
In questa situazione, l’esercito russo sul campo si trova però ancora ad affrontare problemi simili a quelli che ha affrontato dall’inizio della guerra: la comunicazione tra le unità russe rimane difficile, costringendole a schierare gli ufficiali superiori vicino alle linee del fronte e ostacolando i movimenti coordinati.
Ed i riservisti che ora sono costretti a scendere sui campi di battaglia dopo la mobilitazione parziale, sono generalmente poco addestrati e male equipaggiati.
Eppure, l’esercito russo ha già subito una perdita di equipaggiamento e di soldati che avrebbe distrutto la maggior parte degli eserciti europei, e continua invece a combattere.
Un punto di forza fondamentale dell’esercito russo, che attraversa le varie generazioni, è la capacità di recuperare più equipaggiamento e più soldati anche nei momenti più disperati. Nonostante le perdite, la Russia e Putin sembrano pronti a continuare a combattere.
La Russia potrebbe utilizzare i prossimi quattro o cinque mesi per riorganizzarsi, eventualmente impartendo qualche addestramento ai soldati appena mobilitati. Ma quello che succederà dopo è una questione aperta.
La Russia potrebbe cercare di riguadagnare il terreno perso da settembre con una ripresa del suo sbarramento di artiglieria. Ma per fare questo il comando russo dovrebbe risolvere i problemi logistici creati dall’arrivo sul campo di battaglia degli HIMARS americani in estate, e finora non sembra essere stato in grado di trovare una soluzione valida.
In alternativa, Putin potrebbe ordinare un’escalation — potenzialmente fino all’uso di un’arma nucleare — per cambiare le sorti della guerra, come già accennato in un mio precedente articolo.
Oppure semplicemente, Putin continuerà a creare le condizioni per continuare a combattere durante l’inverno e durante il corso del 2023, nella speranza che nel frattempo la crisi energetica ed economica, l’alta inflazione ed il malessere delle opinioni pubbliche occidentali facciano muovere la situazione a suo favore.
Ma da questo punto di vista potrebbe essere già troppo tardi: quasi tutte le armi che l’Occidente poteva inviare all’Ucraina usando gli stock attualmente a disposizione è già stato inviato.
Gli Stati Uniti e gli altri partner occidentali si stanno invece sempre più muovendo per garantire un supporto all’Ucraina a lungo termine, con una serie di pacchetti di aiuti annunciati nelle scorse settimane e mesi dedicati proprio a questo scopo.
Nonostante le minacce del probabile futuro Speaker repubblicano della Camera dei Rappresentanti, il deputato della California Kevin McCarthy, di porre un freno a nuovi aiuti militari americani all’Ucraina, si parla inoltre già di un altro mega pacchetto di aiuti da 50 miliardi di dollari almeno da approvare prima dell’entrata in vigore del nuovo Congresso a gennaio.
Un tale ammontare basterebbe per garantire nuovi aiuti all’Ucraina almeno per tutto il prossimo anno.
Inoltre, anche le recenti decisioni dell’Unione Europea che, pur se tra molte difficoltà, si sta muovendo verso un “price cap” dei prezzi dell’energia con possibile emissione anche di debito comune, non lasciano intravedere al momento nel breve termine molto spazio per la strategia russa di voler dividere gli alleati occidentali.
Tutto questo è molto importante, considerando anche il fatto che nel mese di dicembre diventerà operativo l’embargo sul petrolio russo ed il “price cap” imposto dal G7, e che per la Russia nel 2023 la situazione finanziaria rischia di degenerare velocemente vista la perdita di una parte cospicua delle entrate derivanti dalla vendita di petrolio.
Il punto è che l’unica strada per una concreta prospettiva di pace passa proprio da questo: solo se l’Occidente resterà unito dietro le legittime aspirazioni ucraine, come ha fatto sinora, e non si farà intimorire dalle minacce dell’Orso russo messo sempre più alle corde, il popolo ucraino potrà finalmente raggiungere quella pace giusta che merita dopo aver subito tutta questa sofferenza.
(da Fanpage)
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Ottobre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
MENO DONNE CHE NEL GOVERNO DRAGHI
Il governo Meloni è il primo della storia repubblicana ad essere guidato da una donna e questa, a prescindere dai risultati che saprà ottenere, sarà la caratteristica che passerà agli annali.
Nell’esecutivo, tuttavia, il numero di ministre si è leggermente ridotto, passando dalle 7 su 23 del governo Draghi (Gelmini, Carfagna, Dadone, Bonetti, Stefani, Lamorgese, Messa) alle attuali 6 su 24 (Calderone, Bernini, Santanché, Roccella, Casellati, Locatelli).
Sono sempre tre quelle titolari di ministeri con portafoglio, anche se di peso specifico politico minore: oggi sono a guida femminile Lavoro, Università e Turismo; nel precedente esecutivo lo erano Interno, Giustizia e Università.
PROVENIENZA GEOGRAFICA
La premier Meloni è notoriamente romana doc, cresciuta nel quartiere Garbatella. Il suo esecutivo è però sbilanciato verso il Nord: sono infatti 15 i ministri provenienti da regioni settentrionali (cinque lombardi, peraltro tutti leghisti: Salvini, Giorgetti, Locatelli, Calderoli, Valditara; quattro piemontesi: Crosetto, Santanché, Pichetto Fratin e Zangrillo, quest’ultimo rivendicato anche dalla Liguria per le sue origini genovesi; tre veneti: Nordio, Urso, Casellati; due emiliani: Bernini e Roccella; uno friulano, Ciriani).
Dal Centro, e nello specifico solo dal Lazio oltre a Meloni, provengono Tajani, Lollobrigida, Abodi e Schillaci. Sei gli esponenti del governo provenienti dalle regioni meridionali: ovviamente il ministro per il Sud, Nello Musumeci, che è siciliano; i due campani Sangiuliano e Piantedosi; la sarda Calderone e il pugliese Fitto. Dal Salento arriva anche il sottosegretario a Palazzo Chigi, che di fatto ha il rango di un ministro, Alfredo Mantovano.
ETÀ ANAGRAFICA
Con i suoi 45 anni Giorgia Meloni è sul podio nella graduatoria dei presidenti del Consiglio più giovani. È al terzo posto, preceduta da Matteo Renzi, che lo diventò a 39 anni, e da Giovanni Goria, che salì a Palazzo Chigi a 44 anni. Aveva 45 anni anche Amintore Fanfani, quando divenne presidente del consiglio il 18 gennaio 1954, ma quel governo ebbe vita davvero breve perché in realtà non ottenne la fiducia in Parlamento e quindi decadde il 10 febbraio dopo soli 22 giorni.
L’età media dei ministri di Meloni è tuttavia tendenzialmente alta: ci sono 12 over 60, 10 over 50 e solo 3 quarantenni (oltre alla leader ci sono Matteo Salvini che ha 49 anni e Alessandra Locatelli che ne ha 46).
TITOLI DI STUDIO
Quanto al titolo di studio, il governo conta una elevata percentuale di laureati. Solo la premier Meloni, il suo vice Matteo Salvini e Guido Crosetto non lo sono. Salvini e Crosetto avevano iniziato a frequentare l’università (Scienze Politiche il primo, Economia il secondo), ma non erano arrivati alla laurea. Tra le facoltà prevale su tutte Giurisprudenza (10), seguita da Economia e commercio (4), Medicina (2), Sociologia (2), Scienze Politiche (1), Lettere(2), Comunicazione (1).
PARLAMENTARI E TECNICI
Un tema emerso durante la concitata fase di formazione del governo riguarda la tenuta della maggioranza nei lavori parlamentari. Giorgia Meloni ha infatti scelto 9 ministri tra i neo-eletti senatori (Ciriani, Pichetto Fratin, Calderoli, Musumeci, Casellati, Urso, Salvini, Bernini e Santanché) e 7 tra i deputati (Tajani, Nordio, Crosetto, Urso, Lollobrigida, Musumeci, Fitto».
Eventuali problemi potrebbero manifestarsi a Palazzo Madama, dove la maggioranza conta su 115 senatori su 200 — e maggioranza a 104 contando anche i senatori a vita —, per cui le assenze dovute a impegni istituzionali potrebbero farsi sentire, soprattutto in caso di fibrillazioni interne alla coalizione. I ministri non parlamentari sono 8: Abodi, Locatelli, Piantedosi, Crosetto, Calderone, Sangiuliano, Schillaci e Valditara.
Praticamente tutti tecnici tranne Valditara che in passato ha ricoperto diversi incarichi elettivi con An, Pdl e Futuro e Libertà, mentre ora è in quota Lega. Il peso dei ministri politici rispetta il risultato delle elezioni: 9 di Fratelli d’Italia, 5 della Lega e 5 di Forza Italia. Nessun centrista nella prima linea.
I «REDUCI» DI BERLUSCONI
Quello varato oggi è il primo governo politico di centrodestra che entra in carica 11 anni dopo l’ultimo presieduto da Silvio Berlusconi, il quarto guidato dal fondatore di Forza Italia, che giurò l’8 maggio 2011. Sono quattro gli esponenti dell’attuale esecutivo che erano già ministri allora: Raffaele Fitto (Regioni), Roberto Calderoli (Semplificazione amministrativa), Anna Maria Bernini (Politiche Ue, ma subentrò in un secondo tempo a Andrea Ronchi) e la stessa Giorgia Meloni (Politiche giovanili).
Ma di quell’esecutivo facevano parte anche Urso, come viceministro dello Sviluppo economico, e diversi sottosegretari: Santanché, Mantovano, Crosetto, Casellati, Musumeci, Roccella. Insomma, 11 degli attuali ministri sono degli ex di quel governo. Di cui era ministro anche Ignazio La Russa, alla Difesa, diventato nei giorni scorsi presidente del Senato. E ne facevano parte Renato Brunetta, Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna, che fino a poche ore fa erano ministri di Mario Draghi.
(da Il Corriere della Sera)
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Ottobre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
L’EX PARLAMENTARE DI FORZA ITALIA EVIDENZIA L’IPOCRISIA DEI SOVRANISTI
Anni prima di Elio Vito venne Giulio Andreotti con il celebre “aveva uno spiccatissimo senso della famiglia. Era infatti bigamo”.
Tra il dire (di rapporti istituzionali) e il fare, c’è distanza. Pensieri e parole spesso non vanno a nozze, e non in senso figurato.
E così anche Elio Vito nota (dopo anni in FI, è un difensore dei diritti) che in un esecutivo i cui membri hanno polemizzato sulla favola di ‘genitore 1 e genitore 2’ e parlato di famiglia tradizionale, spiccano le famiglie non tradizionali di premier e vicepremier.
Nelle famiglie non tradizionali al giuramento non c’erano mariti, mogli o chi ne fa le veci.
Il vicepremier Matteo Salvini era al Quirinale con il figlio Francesco avuto dalla giornalista Fabrizia Ieluzzi che è stata sua moglie (uno). Con la figlia Mirta avuta dall’avvocata Giulia Martinelli, non sposata. Ci sono compagne che fanno parte del passato. L’attuale era con lui “stiamo bene, non abbiamo intenzione di sposarmi”.
La premier Giorgia Meloni era con la figlia Ginevra, avuta dal non matrimonio con il giornalista Mediaset Andrea Gianbruno. I due stanno insieme da anni, hanno una bambina, lui era in prima fila.
(da agenzie)
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