Ottobre 7th, 2022 Riccardo Fucile
FABRIZIO MARRAZZO, SEGRETARIO DEL PARTITO DEI GAY, LANCIA LA BOMBA A “LA ZANZARA”… E POI VOTANO CONTRO LE LEGGI CONTRO L’OMOFOBIA
Ci sono dei gay tra gli eletti di Fratelli d’Italia? “Ci sono molti gay eletti nel centrodestra e anche in Fratelli d’Italia. Li conosco, alcuni li ho frequentati e non si dichiarano per scelta personale, forse non si accettano. Sia uomini che lesbiche, noi ne abbiamo individuati almeno cinque di Fratelli d’Italia”.
Così Fabrizio Marrazzo, ex presidente dell’Arcigay e fondatore dello partito dei Gay, a La Zanzara su Radio 24.
“Il problema – prosegue – non è il fatto che non si dichiarano ma che le stesse persone poi fanno azioni contro le persone Lgbt, per esempio votano contro le leggi sull’omofobia”.
“Spero – dice ancora – che un parlamentare importante di Fdi, di cui conosco bene il fidanzato faccia coming out. I due vivono questa storia di nascosto. L’ho conosciuto e gli ho chiesto perchè si opponeva alla legge Zan e perchè non si dichiarasse pubblicamente. Lui mi ha risposto: io non ho mai fatto outing in pubblico e dunque non sono mai stato discriminato”.
Dice ancora Marrazzo: “Questo è un governo pericoloso per i gay, da quando ha vinto la destra è aumentata l’aggressività e la violenza nei confronti degli omosessuali. Io sono preoccupato a girare per strada. Le persone, gli omofobi, si sentono più liberi di discriminare e si sentono più legittimati dalla Meloni e da uno come Mollicone che ha detto che le coppie gay sono illegali. Noi abbiamo ricevuto molte più minacce di morte da quando ha vinto Fratelli d’Italia”
(da agenzie)
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Ottobre 7th, 2022 Riccardo Fucile
PARTNER EUROPEI PREOCCUPATI DAL FUTURO GOVERNO DI CENTRODESTRA: IL DOPO-DRAGHI STA FACENDO RISUONARE L’ALLARME IN BUONA PARTE DELL’UE
«Ma quindi adesso che succede in Italia?». Praga, Consiglio europeo. Anzi, prima riunione della Comunità politica europea. Membri dell’Ue, candidati all’adesione e alleati di ogni tipo. Quarantaquattro capi di Stato e di Governo riuniti nel castello della capitale Ceca. Pronti a discutere delle emergenze del Vecchio Continente: la guerra in Ucraina, la crisi energetica.
E invece… E invece tutti quelli che si avvicinano a Mario Draghi vogliono parlare di altro. Non lo consultano in virtù della sua esperienza alla Bce. La loro allarmata curiosità si chiama Giorgia Meloni. E quindi il destino dell’Italia nel prossimo futuro. È una specie di ritornello orchestrato: «Ma quindi adesso che succede in Italia?».
La prima a chiederglielo è stata Kaja Kallas, primo ministro estone. Mentre l’intero gruppo dei presenti si stava piazzando davanti al fotografo per la consueta “foto di famiglia”, Kallas che in questi 20 mesi ha costantemente mantenuto un dialogo con il premier italiano, gli si avvicina per esprimere tutti i suoi dubbi: «Com’ è Giorgia Meloni? Cosa può succedere in Italia?».
Da quel momento il presidente del consiglio sembra quasi catapultato virtualmente in Italia. Il vertice praghese, almeno durante i suoi colloqui sia quelli informali e sia quelli formali, si trasforma in una platea di spettatori intenti a osservare il “caso Italia”. E anche, quindi, a giudicarlo con estrema attenzione.
Non si trattava di semplice interessamento neutrale o di cortesia istituzionale. Ogni parola è accompagnata da un tono di preoccupazione. Gli accenti della campagna elettorale del centrodestra italiano non sono stati affatto rassicuranti per la struttura che ruota intorno a Bruxelles.
La situazione economica del nostro Paese, il pesantissimo debito pubblico, gli obiettivi ambiziosi del Pnrr sono tutti fattori che hanno fatto scattare una sorta di meccanismo di autoprotezione tra i partner europei e forse anche il sospetto di un ritorno al passato da “pecora nera”. Il passaggio dall’ex presidente della Bce alla leader di Fratelli d’Italia è vissuto infatti come uno “strappo” tra la maggior parte dei componenti il Consiglio europeo.
Draghi ha provato a rassicurare. Con tutti ha spiegato che l’Italia se la caverà comunque. Che l’Unione troverà il modo di collaborare anche con il nuovo esecutivo. «Del resto – sottolinea il sottosegretario agli Affari europei, Enzo Amendola, allargando le braccia in un angolo del castello di Praga – all’estero non si parla mai male del nostro Paese. Anche io sto rispondendo così ai tanti che mi stanno fermando. Anzi, mi sono allontanato dalla sala proprio perché non ce la facevo più a replicare alle domande di tutti».
Il punto è che l’esecutivo di centrodestra non rassicura nessuna delle Cancellerie più influenti. L’unico che non ha mosso un ciglio è stato solo il premier ungherese Viktor Orban. E così anche nel bilaterale ufficiale che la presidente della Commissione, Ursula von Der Leyen, ha voluto con il capo del governo italiano, alla fine è stato inevitabile parlare del prossimo futuro. La sua attenzione era concentrata sulla tempistica. Fino a quando la squadra di Draghi rimarrà in carica.
Se sarà ancora lui a partecipare al prossimo summit del 20 ottobre a Bruxelles. E poi soprattutto cosa l’Europa si deve aspettare da Giorgia Meloni. Più o meno gli interrogativi che anche l’olandese Mark Rutte ha posto in un rapidissimo scambio di saluti. «Il punto – ha poi chiarito uno dei portavoce del governo olandese – è che noi vogliamo capire chi è Giorgia Meloni. È la leader di destra che parlava contro l’Europa o è quella più moderata che adesso sembra pronta ad accettare le regole della comunità europea? Nel secondo caso non ci saranno problemi, nel primo».
Lo stesso rituale viene affrontato nel pomeriggio a margine del tavolo di discussione sull’energia cui hanno preso parte anche il Cancelliere tedesco Scholz, il capo del governo del Belgio, del Portogallo e dell’Irlanda. Non solo. Per far capire quanto l’Italia stia diventando nuovamente e rapidamente una “osservata speciale”, anche al summit nella Repubblica Ceca è arrivata l’eco di quel che sta capitando nel Ppe, il Partito Popolare europeo di cui fa parte Forza Italia.
Il presidente dei popolari, il tedesco Manfred Weber, sta contattando tutti i partiti alleati. E ha sondato anche due dei premier popolari presenti a Praga: l’austriaco Karl Nehammer e il greco Kyriakos Mitsotakis. Ponendo una domanda tanto semplice quanto dirompente: «Che cosa bisogna fare dopo le elezioni italiane? ».
Insomma, il dopo-Draghi sta facendo risuonare l’allarme in buona parte dell’Ue. E la paura di quel che sarà prende le forme persino di una festa. Quella che i “colleghi” stanno organizzando a Draghi in occasione dell’ultimo Consiglio europeo, il prossimo 20 ottobre a Bruxelles. La fecero, proprio un anno fa, anche per Angela Merkel. Ma lo spirito era davvero diverso.
(da La Repubblica)
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Ottobre 7th, 2022 Riccardo Fucile
QUANDO BERLUSCONI PROMETTEVA: “DALLA FOGNA LI HO FATTI USCIRE E NELLA FOGNA LI FACCIO TORNARE” … LA CAMERA ARDENTE DI ALMIRANTE IN VIA DELLA SCROFA CON PAJETTA E JOTTI
Il segno del nuovo è dato dalla Fiat 500 di Giorgia Meloni che fatica a farsi largo in via della Scrofa. È mercoledì mattina e la donna più potente del Paese ha riunito lo stato maggiore di Fratelli d’Italia nella sede del partito, al civico 39. “Siamo in via della Scrofa”, ripetono gli inviati nei loro collegamenti televisivi.
È il quartier generale della destra da quarant’anni, Giorgio Almirante vi impiantò la sede del Msi nel 1983; ora è il bastione del potere che avanza. Come lo furono Piazza del Gesù ai tempi della Dc, via del Corso durante il craxismo, Botteghe Oscure quando c’era il Pci.
Ebbe naturalmente una sua importanza ai tempi di Gianfranco Fini, ma sempre oscurata da “via del Plebiscito”, la magione di Silvio Berlusconi: lì stazionavano, giorno e notte, giornalisti, curiosi, turisti desiderosi di incontrare lui. Quelli di via della Scrofa erano i parenti poveri, mai del resto un esponente della destra poté pensare di aspirare a guidare palazzo Chigi. Adesso quel momento è arrivato.
È una strada tra via della Stelletta e via delle Coppelle, all’incirca tra la Camera e il Senato. Ora è sera, la riunione dei colonnelli meloniani è finita da un pezzo, il portone è sbarrato, è quasi buio, ma ci sono ancora delle troupe televisive che trasmettono in diretta. Una camionetta dell’esercito vigila. I commercianti non sembrano molto contenti del viavai. La sede è tra una boutique di abbigliamento femminile e un barber shop, all’angolo spicca l’insegna di un forno.
Dal portone esce Italo Bocchino, l’ex braccio destro di Fini al momento della scissione dal Cavaliere, quando Berlusconi furibondo per il divorzio prometteva: “Dalla fogna li ho fatti uscire e nella fogna li faccio tornare”. Bocchino era così potente da regalarsi un’autobiografia.
È il direttore editoriale del Secolo, lo storico giornale dei missini, anche se non è proprio l’organo ufficiale di Fratelli d’Italia, perché in realtà appartiene alla Fondazione di Alleanza nazionale, gestita dagli ex e che ha i suoi uffici al secondo piano.
Dalla vetrina al civico 43 campeggia lo schermo con gli aggiornamenti dell’homepage del Secolo, che, si limita a dire Bocchino, “va benissimo, è tra i venti siti d’informazione più letti”.
Passa qualche minuto ed ecco spuntare Gianni Alemanno. “Anche lei qui?” “Ho il mio ufficio nella sede della Fondazione, ma come sa ho preso le distanze da FdI dopo la guerra in Ucraina”. Alemanno era dato come candidato di Italexit, il movimento di Gianluigi Paragone. “Ha votato Meloni?”. “Il voto è segreto”, risponde sornione. Anche lui sguscia via di fretta.
La destra dà l’impressione di essere come una grande famiglia allargata dove però bisogna muoversi con molta cautela, specie ora che il potere sfodera le sue lusinghe.
A pianterreno c’è la redazione del Secolo, esce solo online, ma i locali sono stati requisiti temporaneamente dalla comunicazione del partito, e i redattori sono stati costretti a lavorare in smart working.
La stanza di Giorgia Meloni è al secondo piano, in fondo al corridoio a sinistra. È la stessa che occupava Giorgio Almirante, il fondatore del Msi, che disegnò di suo pugno il simbolo, la fiamma tricolore, che ancora arde nel simbolo di FdI. Prima di lei la occuparono Fini e Pino Rauti, detto “il Gramsci nero”. Il Msi di Almirante era fuori dall’arco costituzionale, veleggiò per una vita intorno al cinque per cento.
Un elettorato di colonnelli in pensione, nobildonne, nostalgici del fascismo, l’Italia benpensante e perbenista che aveva nel Tempo, diretto da Gianni Letta, e nel Borghese i suoi organi di riferimento.
“A casa mia Il Secolo lo legge solo il cameriere, che è fascista”, disse una volta Arturo Michelini, il predecessore di Almirante. L’episodio si ritrova in Mal di destra, scritto da Stefano Di Michele e Alessandro Galiani. Insomma, era un mondo ai margini.
La prima sede del Msi, ricorda Filippo Ceccarelli in Invano, era sistemata in un palazzone di corso Vittorio, a pochi passi dalla chiesa del Gesù, “non c’erano mobili né tavoli, l’unica macchina da scrivere era poggiata su una cesta”.
Poi il Msi si trasferì in via delle Quattro Fontane, in un palazzo chiamato del Drago, il cui portiere era il papà di Enrico Montesano.
Almirante e l’altro fondatore, Pino Romualdi non si amavano, fu un duello per tutta la vita; di Romualdi i giovani ne imitavano la cadenza romagnola (“il fassismo tornerà!”).
Molto tempo dopo arrivò la stagione del centrodestra, la scoperta del potere – dal 1994 al 1996, e dal 2001 al 2011 con qualche interruzione – di Fini, La Russa, Tatarella. Ora i nuovi potenti si chiamano Ciriani, Donzelli, Lollobrigida, Crosetto. La Russa è sopravvissuto a tutti i rovesci.
Almirante e Romualdi morirono a 24 ore di distanza l’uno dall’altro, nel maggio del 1988. La camera ardente fu allestita a pianterreno di via della Scrofa, vennero Nilde Iotti e Giancarlo Pajetta, i funerali, in piazza Navona, trasmessi dal Tg1.
“La grande stampa scopre il popolo missino” scrive Adalberto Baldoni ne La storia della destra. Giorgia Meloni aveva 11 anni. E adesso “è la madre della nazione”, come titola Die Zeit.
(da agenzie)
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Ottobre 7th, 2022 Riccardo Fucile
SALE LA PRESSIONE SUGLI OSPEDALI E NELLE TERAPIE INTENSIVE, GRAZIE ALLE SCELTE SCONSIDERATE DEL LIBERI TUTTI
Le mascherine sono andate giù quasi ovunque, ma i contagi in Italia riprendono a volare: più 51,9% in una settimana, documenta Gimbe, mentre inizia a salire la pressione sugli ospedali, dove i ricoveri sono andati su del 21,1% nelle terapie intensive e del 31,8% nei reparti di medicina.
Ieri in Piemonte si sono contati altri 4.695 casi che portano l’incidenza settimanale ogni 100 mila abitanti a quota 629, tra le più alte d’Italia. Numeri che preoccupano il governatore, Alberto Cirio, che sembra quasi voler fare un passo indietro sullo stop all’obbligo di mascherina su bus, metro e treni.
«Guardiamo con attenzione al non utilizzo sui mezzi di trasporto, perché questa è una scelta forte. La mancanza di protezione – ha detto – mi preoccupa, perché sono luoghi di assembramento, senza possibilità di avere aerazione». Le sue parole potrebbero anticipare il fai da te regionale, autorizzato da una circolare del ministero della Salute, smentita da Speranza ma già inviata ai tecnici regionali, nella quale si ricorda che l’utilizzo dei dispositivi di protezione «potrà essere una prima opzione per limitare la trasmissione del virus».
La bozza precisa anche che «la ricerca di contatti e la quarantena dovrebbero essere prioritariamente condotte ed applicate in individui a rischio di malattia grave, contesti ad alto rischio e in situazioni di maggiore preoccupazione», come nel caso emergesse una nuova e più temibile variante. Tradotto: il ministero propone il ritorno all’isolamento domiciliare per i contatti stretti nelle situazioni di maggior pericolo.
Contrari al ripristino degli obblighi, pur con sfumature diverse, sono i tecnici che negli ambienti della nuova maggioranza vengono dati per candidabili alla poltrona di ministro della Salute.
Una linea, quella del presidente della Croce Rossa Francesco Rocca, dell’infettivologo del San Martino di Genova Matteo Bassetti e dell’ex dg dell’Ema Guido Rasi, frutto della loro unanime lettura dei numeri del bollettino quotidiano, che anche per i ricoveri non distinguono chi è in ospedale per il Covid e chi invece per altro, pur essendo positivo. Insomma, niente che giustifichi un ritorno alle restrizioni del passato. Anche se per le associazioni dei medici ospedalieri i ricoveri «con» Covid vanno comunque isolati e questo congestionerebbe ancora una volta gli ospedali.
(da agenzie)
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Ottobre 7th, 2022 Riccardo Fucile
DA SOVRANISTA A NEOLIBERALE, ELETTA DAGLI SCONTENTI CONTRO I “POTERI FORTI” CHE ORA ANCHE I FESSI CAPISCONO CHE SONO LORO A TIRARE LE FILA DELLA MARIONETTA
La formazione del presumibile governo Meloni durerà quanto i funerali della Regina Elisabetta e sarà presto chiaro a tutti, e a Giorgia Meloni per prima, che un conto è andare nei mercati rionali e nelle piazze dell’ultradestra spagnola a strillare “io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana” per prendere voti, un conto è costruire un governo con ministri che sappiano qualcosa di economia, lavoro, politica estera, sicurezza, sanità pubblica, istruzione e ricerca.
Chi credeva che votando Meloni avrebbe dato la delega a un governo politico, concreto e popolare, di destra sociale, attento ai bisogni delle classi subalterne (raccontate da Meloni come vessate dall’egemonia culturale della sinistra, figuriamoci) contro un centrosinistra di cariatidi corrose dal potere, dall’eloquio gassoso e parolaio, emotivamente distaccato dal popolo, che dopo aver servito al tavolo dei banchieri passerà i prossimi mesi a far finta di disquisire sulla propria identità, sarà presto deluso.
A dispetto di quel che vogliono far credere i media padronali avvelenati contro il Reddito di cittadinanza, infatti, il partito più votato tra le persone in difficoltà economica non è stato il M5S, ma Fratelli d’Italia: Meloni sa che chi l’ha votata le presenterà il conto se agirà in continuità a ciò a cui si opponeva.
Infatti ci tiene a puntualizzare: “Non sono mai stata draghiana, semmai collaboro alla transizione con il governo”, come Totò davanti a Aldo Fabrizi maresciallo antifascista della Tributaria: “Sempre stato anti, mi sarà scappato un pro”.
La barricadera di destra che si era dipinta come lontanissima dal governo dei banchieri ha chiesto aiuto a Draghi (col quale, per il solluchero dei giornali padronali, fa “asse” tutti i giorni su ogni dossier), non disdegnerebbe di infarcire il governo di tecnici e pare abbia chiesto a Fabio Panetta, ex Bankitalia e membro della Bce, di fare il ministro dell’Economia, ricevendone un rifiuto.
Intanto, dallo stesso account Twitter su cui giorni fa il suo staff pubblicava il video di uno stupro (ad opera di un africano richiedente asilo), oggi partono elogi alla Von Der Leyen per gli sforzi che sta facendo “per aiutare famiglie e imprese” a far fronte alla crisi energetica (promette di discutere di introdurre un tetto massimo al prezzo del gas per la produzione di energia elettrica, alla buonora).
“Ereditiamo una situazione difficile”, ha detto Meloni: ci fosse stato qualcuno, mentre lei “ingranava la prima con la sua Mini, sguardo duro, guida decisa” (Repubblica), che le togliesse le castagne dal fuoco sulla crisi energetica, il Pnrr, la guerra e l’invio di armi (su cui è allineatissima a Draghi), la pandemia e la possibile carestia, così da lasciarle continuare la campagna elettorale basata sulla costruzione del suo personaggio schietto, ruvido, estraneo e anzi inviso alle cricche di potere!
Sono passati dieci giorni dalle elezioni e già parla come Calenda: “Si parte dalla competenza e se quella migliore dovesse essere trovata al di fuori degli eletti, a partire da FdI, questo non sarà certo un limite”.
Ma come, l’unica oppositrice al governo dei Migliori, che non vedeva l’ora di andare a elezioni per “restituire la parola al popolo”, deve rivolgersi ai tecnici perché non ha nessuno di competente dentro al suo partito e tra gli alleati?
La classe dirigente che Meloni porta in dote, oltre a sé stessa (diplomata, ex capo di un ministero simbolico senza portafoglio, un ghiribizzo di Berlusconi) e a suo cognato Lollobrigida, di cui si sa solo che è di Tivoli e che vuole cambiare la Costituzione, non è in effetti di gran prestigio. C’è La Russa, co-fondatore di FdI, in Parlamento dal 1992, per il quale “siamo tutti eredi del Duce”; Rampelli, ex Fronte della Gioventù, deputato dal 2005; Santanché, ex berlusconiana contundente, proprietaria con Briatore del Twiga, lo stabilimento balneare dei vip, e per ciò probabile ministro del Turismo; l’altro co-fondatore Crosetto, che si è dimesso dalla politica e fa il lobbista di armi, solo per caso uno dei più solerti nel perorare in Tv e sui social la causa dell’invio di armi all’Ucraina e all’Arabia Saudita.
C’è poi la riserva di personalità da attingere da Forza Italia: Licia Ronzulli (forse alla Sanità: gli eredi di Rita Levi Montalcini erano indisponibili), Gasparri, Marta Fascina… Purtroppo inutilizzabili i ministri del governo dei Migliori: Brunetta, auto-eliso, e Gelmini e Carfagna, rapite dal carisma di Calenda, perdenti nei collegi uninominali, perciò presto in Parlamento grazie al Rosatellum.
Quanto ai leghisti, come si muove, sbaglia: sceglierà di collocare il bollito Salvini o l’ala draghiana? (In psichiatria si chiama “dilemma del prigioniero”).
Perciò, dacché si è accorta di essere finita in qualcosa di spaventosamente più grande di lei e del suo partito cresciuto solo grazie alla cannibalizzazione del cadavere di Salvini, non le resta che dare la colpa a Draghi.
Metabolizzato il pericolo fascismo, ai media dei padroni interessa in quali mani finiranno i soldi.
Renzi, abilissimo a trovare i punti deboli delle persone (anche in ciò ricorda i bulli delle classi elementari), ha twittato: “Cara Giorgia, basta alibi. Non perder tempo: avuto l’incarico fai il Governo in 24h anziché discutere con Salvini del totoministri e vai tu a Bruxelles al Consiglio UE. Hai fatto cadere Draghi, ora governa tu. Se ti riesce”
Del resto, la sedicente anti-sistema Meloni non è poi così anti, se lei e l’establishment politico-editoriale-industriale vanno d’accordissimo su quasi tutto: sono tutti per il presidenzialismo; sono tutti contro il Reddito di cittadinanza; sono indifferenti al cambiamento climatico o ecologisti di facciata; se ne infischiano del lavoro precario e sottopagato; sono per le privatizzazioni in tutti gli ambiti sociali, compresa la Sanità; sulla pandemia, sono tutti lassisti, darwinisti sociali e confindustrialisti; sull’immigrazione, lei, Salvini e Minniti sono tre facce della stessa feroce inettitudine. Meloni si dice conservatrice, ma è neoliberale: bisogna vedere cosa conserverà e con chi, nell’inverno del nostro scontento.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 7th, 2022 Riccardo Fucile
UN PARANOICO AL POTERE CHE IN UCRAINA NON NE HA AZZECCATA UNA
Sedici anni fa, un killer rimasto impunito come il suo mandante pensò di far cosa gradita a Vladimir Putin assassinando Anna Politkovskaja nel giorno del suo compleanno.
La morte violenta fermò per sempre la penna e il brillante cervello di una giornalista coraggiosa che aveva avvertito per tempo tutto noi di quale sarebbe stata la deriva della «Russia di Putin», titolo di un suo profetico libro-denuncia.
Non si fermò invece, negli anni successivi, l’inquietante sequenza di omicidi di oppositori e avversari politici del presidente autocrate, sempre più chiaramente riconducibili alla volontà dello stesso potente uomo del Cremlino.
Quest’ oggi Putin compie settant’ anni e aveva progettato di farsi un regalo ancor più speciale: celebrare un rito religioso nella cattedrale ortodossa di Kiev, nel frattempo ricondotta sotto sovranità russa.
I suoi consiglieri gli avevano assicurato che la capitale dell’Ucraina gli sarebbe caduta in mano come un frutto maturo già nello scorso febbraio, ma come tutti ormai sappiamo non è andata esattamente così e Putin si trova a celebrare un compleanno molto diverso da come l’aveva immaginato.
E questo perché l’uomo di cui i suoi ammiratori amavano esaltare la visione strategica non ne ha azzeccata una. L’apoteosi della sua politica di potenza non c’è stata. Credeva che gli ucraini avrebbero accolto i soldati russi con i mazzi di fiori invece li hanno presi a cannonate, molto più precise e micidiali del previsto, tra l’altro.
Contava che gli americani, guidati dal senescente Joe Biden, avrebbero fatto come a Kabul, abbandonando vergognosamente gli alleati, ma non è andata così: i cannoni che inchiodano i russi sono in buona parte suoi.
Era certo che gli europei avrebbero preferito lasciare scorrazzare l’orso russo nelle pianure ucraine in cambio della garanzia di forniture di gas e di vaghe promesse di fermarsi al confine polacco e invece siamo qui a organizzarci (male, magari) per un inverno col maglione in casa pur di non dargliela vinta.
Quanti errori di valutazione, quante brutte sorprese. Quanti generali sollevati inutilmente dall’incarico, quante incredibili bugie pronunciate invano nel tentativo di recuperare l’irrecuperabile, di vincere una guerra che non aveva nemmeno osato definire tale e che non può più vincere.
Il Putin settantenne di oggi è un uomo costretto a ostentare ottimismo di fronte al disastro incombente: ridotto a festeggiare in un clima surreale a metà tra la solennità e lo stadio l’annessione di territori che non riesce a controllare, a promettere l’imminente riconquista delle loro parti che Kiev si è già ripresa ignorando minacce roboanti, ad agitare addirittura lo spauracchio di una guerra nucleare come ultima disperata ratio.
È soprattutto un uomo paranoico più che mai, che sente alzarsi attorno a sé voci che mai avrebbe creduto di udire. Voci di sodali che gli devono ricchezze e privilegi enormi, ma che cominciano a parlare di errori politici dietro le disfatte militari e a mettere in discussione i suoi stessi organigrammi. Perché adesso sentono che lui potrebbe andare a fondo e vogliono salvarsi, magari disarcionandolo.
E così ci sono quelli che cominciano a pensare che all’Ucraina si potrebbe anche rinunciare, e altri che invece sembrano disposti a fare fuori ministri e generali considerati non abbastanza duri per vincere la battaglia della vita.
In mezzo c’è lui, Vladimir che voleva passare alla Storia come l’erede di Ivan il Terribile, sempre più isolato in patria e all’estero. Magari pronto a gesti terribili e irrazionali, come lo Hitler del 1945 disposto a incenerire la Germania pur di non arrendersi. Certamente «triste, solitario y final». Termine, quest’ ultimo, che in Russia raramente si abbina con un epilogo tranquillo per l’involontario protagonista.
(da il Giornale)
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Ottobre 7th, 2022 Riccardo Fucile
“DA 30 ANNI HA SFIDATO IL REGIME PER LA DEMOCRAZIA NEL SUO PAESE, NONOSTANTE I RIPETUTI TENTATIVI DI METTERLO TACERE”… QUESTI SONO I “PATRIOTI” VERI, ALTRO CHE I FARLOCCHI NOSTRANI
Ales Bialiatski, premio Nobel per la Pace 2022, insieme ai russi di Memorial e agli ucraini del Centro per le libertà civili di Kiev, è uno storico attivista per i diritti umani in Bielorussia, in prigione dal 2020 quando ha preso parte, con migliaia di cittadini, alle manifestazioni contro le elezioni truccate dal governo autoritario di Lukashenko.
Bialitski, 60 anni, è il fondatore del Centro per i diritti umani Viasna (“Primavera”), che nacque nel 1996 in risposta alla brutale repressione delle proteste di piazza da parte di Lukashenko.
“Ha dedicato la sua vita a promuovere la democrazia e lo sviluppo pacifico nel suo Paese. Nonostante le enormi difficoltà personali, Bialiatski non ha ceduto di un centimetro nella sua lotta per i diritti umani e la democrazia in Bielorussia”, ha affermato il comitato del Premio Nobel.
Bialitski è stato arrestato e incarcerato per la prima volta nel 2011. È stato nuovamente arrestato nel 2020 a seguito di massicce proteste per quelle che secondo l’opposizione erano elezioni truccate in Bielorussia che hanno mantenuto Lukashenko al potere.
Detenuto senza processo
Dalla metà degli anni ’80, Bialiatski è stato uno degli animatori del movimento per i diritti umani e politici in Bielorussia, ha condotto diverse campagne non violente e apartitiche per sostenere le libertà di una vivace società civile, da sempre impegnato contro la pena di morte e per la liberazione dei prigionieri politici.
In risposta, “le autorità governative hanno ripetutamente cercato di mettere a tacere”, scrive il Comitato. “È stato incarcerato dal 2011 al 2014. A seguito di manifestazioni su larga scala contro il regime nel 2020, è stato nuovamente arrestato. È ancora detenuto senza processo”.
Il Comitato ha chiesto la sua immediata liberazione.
(da agenzie)
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Ottobre 7th, 2022 Riccardo Fucile
L’UOMO POSSEDEVA DIVERSE PROPRIETA’ E USAVA CONTI CORRENTI INTESTATI A PARENTI… MA ALLORA ESISTONO ANCHE IMPRENDITORI TRUFFATORI? MA CHE STRANO…
Un imprenditore salentino operante nel settore marittimo è stato denunciato per aver percepito dal 2020 il reddito di cittadinanza, pur non avendo i requisiti necessari per richiederlo, intascando circa 13.000 euro che adesso dovrà restituire allo Stato.
Grazie alle indagini condotte dalla Guardia Costiera di Otranto e avviata nell’inverno 2021 sotto il coordinamento del pubblico ministero Simona Rizzo del Tribunale di Lecce, è stato accertato infatti che l’uomo era in possesso di beni e proprietà che avrebbero impedito di presentare domanda per il reddito di cittadinanza.
Ma per risultare idoneo, l’uomo avrebbe utilizzato i conti di alcuni parenti per far pagare i suoi servizi imprenditoriali, in modo da aggirare la tracciabilità del denaro e dei beni da lui posseduti.
Dopo la scoperta l’uomo è stato denunciato, mentre l’autorità giudiziaria ha sospeso l’erogazione del contributo e disposto la restituzione delle somme percepite dal 2020 a oggi.
(da agenzie)
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Ottobre 7th, 2022 Riccardo Fucile
GRAZIE A UN LEGGE ASSURDA HA FINORA DOVUTO RINUNCIARE ALLE GARE INTERNAZIONALI
Per poter registrare i suoi record sotto la bandiera italiana, la Federazione di atletica leggera (Fidal) è stata costretta ad aggiornare il proprio regolamento.
Perché Great Nnachi, nonostante sia nata in Italia e gareggi nelle competizioni nazionali, fino a poche settimane fa agli occhi della legge non era altro che un’atleta straniera residente in Piemonte.
Dal 15 settembre, però, Great è ufficialmente cittadina italiana: ieri il Comune di Beinasco, nel sud-ovest di Torino, le ha inviato il certificato e adesso da 18enne può cercare un gruppo sportivo per puntare alle Olimpiadi. «E voglio farlo indossando la maglia azzurra», diceva Great. Grande velocista, è un talento cristallino del salto con l’asta.
A 14 anni ha vinto il torneo nazionale giovanile, superando i 3,70 metri e stabilendo un nuovo record italiano. Negli anni ne ha battuti tanti di record, conquistando 10 titoli italiani e arrivando persino a ottenere l’onorificenza di Alfiere della Repubblica dal presidente Sergio Mattarella in persona.
Nonostante tutto questo, Great non era italiana. Per questo motivo «ha dovuto saltare un sacco di gare», ha spiegato il suo allenatore Luciano Gemello. Aveva raggiunto il risultato minimo sia per i campionati europei che per quelli mondiali, «ma non ci sono potuta andare», spiegava Great: «Non posso fare nient’altro che non siano i campionati nazionali». Nata a Torino da genitori nigeriani, dopo 18 anni Great ha la cittadinanza italiana che le permetterà di confrontarsi con gli atleti di tutto il mondo.
(da agenzie)
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