Ottobre 24th, 2022 Riccardo Fucile
IL REPORTAGE DALLA POLONIA E DALL’UCRAINA
La fila interminabile di persone in attesa di varcare la frontiera alla stazione ferroviaria di Przemysl, lungo il confine tra Polonia e Ucraina, è ancora lì. I banchetti organizzati dai volontari polacchi che indossano le pettorine fluo e regalano carte sim prepagate per chiamare in Ucraina sono ancora lì. I due sportelli alla destra dell’ingresso della stazione distribuiscono ancora un pasto caldo ai bisognosi e ogni tanto il sindaco continua a farsi vedere nei paraggi.
Eppure, a sette mesi dall’inizio della guerra, è cambiato praticamente tutto. Il flusso migratorio si è invertito: anche se la guerra non accenna a fermarsi, sono sempre di più gli ucraini che decidono di tornare a casa.
In direzione contraria
Vladislav ha 24 anni, una figura esile che non supera il metro e settanta e fitti capelli biondi a spazzola. Regge due buste – una per mano – che gli arrivano fin sopra le anche e sulle sue spalle svetta uno zaino imponente. Non poggia mai il carico a terra per riposarsi e non si scompone neanche quando comincia a piovere e si ritrova ad attendere lì dove la tettoia della stazione non può offrirgli riparo.
Da quando Putin ha lanciato la sua “Operazione Speciale”, Przemysl, una cittadina di 60mila abitanti sul versante polacco del confine con l’Ucraina, è stata inondata da un flusso incessante di persone in fuga dalla guerra. Tanto da diventare la città simbolo della solidarietà europea: soltanto nelle prime tre settimane del conflitto oltre mezzo milione di persone è passato da qui, la prima stazione ferroviaria in territorio Ue per chi proviene dall’Ucraina.Ma l’andamento della guerra, la mancata conquista di Kiev da parte dei russi e la sorprendente controffensiva ucraina nell’est del Paese stanno spingendo sempre più persone a intraprendere il viaggio di ritorno – anche al netto dei rinnovati attacchi nel cuore della capitale. La cittadina polacca simbolo dell’accoglienza si ritrova nuovamente a ospitare folti gruppi di rifugiati. Questa volta, in uscita.Vladislav rimane impassibile per tutta la fila che, a differenza dello scorso inverno, scorre a vista d’occhio: laddove gli ufficiali di frontiera polacchi impiegavano ore a registrare meticolosamente ogni richiedente asilo in arrivo, ora si accontentano di sbirciare rapidamente i passaporti prima di lasciar passare i viaggiatori.
Quando arriva nei pressi del binario, però, Vladislav comincia a disfarsi dei bagagli, affidandoli a una donna che ha superato i sessant’anni. «Ho accompagnato mia madre in stazione, farà ritorno a Kiev», ci racconta il ragazzo senza riuscire a nascondere imbarazzo e tenerezza: «Ora lì è abbastanza sicuro», aggiunge, nonostante le bombe continuino a cadere anche nei quartieri più centrali della capitale.Vladislav non ha intenzione di salire sul treno e il perché è evidente: rientrare in Ucraina, per lui, significherebbe correre il rischio di ricevere la chiamata alle armi. Mentre accompagna con lo sguardo la madre, ricorda: «Abbiamo passato insieme gli ultimi sei mesi a Rzeszow», una città polacca a meno di cento chilometri a ovest da Przemysl, dove la Nato ha stanziato un corposo contingente di uomini e mezzi militari. «I polacchi sono stati gentili con noi», spiega il ragazzo, «ma non potrà durare per sempre. Ogni ucraino vuole tornare a casa».
Verso la meta
Nonostante il folto numero di passeggeri e le trafile burocratiche da smaltire, il treno parte con solo mezz’ora di ritardo. Non è una sorpresa: anche nei momenti più intensi del conflitto le ferrovie ucraine non hanno mai interrotto i servizi per più di due ore consecutive. Tra gli spazi aerei che rimangono chiusi e il razionamento della benzina ancora in vigore, il treno che fa la spola tra Przemysl e Kiev rimane il mezzo di trasporto più affidabile per lasciarsi alle spalle i mesi passati come rifugiati in ogni angolo d’Europa.
A bordo, il clima di attesa diventa quasi insostenibile: nessuno parla e nessuno tace. Soltanto una fitta rete di bisbigli, che non sembrano originare da nessun passeggero in particolare, accompagna l’uscita del treno dalla stazione.
Dopo essere stati inquadrati per mesi come rifugiati di guerra, gli ucraini sentono la necessità – sempre più urgente – di tornare a guardare al futuro. Come fa Tania, che non ha ancora compiuto trent’anni e regge in braccio suo figlio Maksim di pochi mesi mentre sorveglia con lo sguardo Alysia, la primogenita di quattro anni. La carrozzina di Maksim è ingombrante e il trolley a rotelle con cui viaggia la donna vaga pericolosamente libero davanti ai bagni. Ciononostante, Tania non riesce a smettere di sorridere. «Sto per rivedere mio marito per la prima volta da marzo», ci racconta la donna, che con i suoi due figli aveva trovato rifugio nei sobborghi di Berlino. «Tornare a casa non è più un’opzione, i russi hanno bombardato tutto», spiega Tania mentre parla della sua città natale, Kharkiv. «Mio marito faceva lo psicologo lì. Ci sono tante persone che avrebbero bisogno di lui a Kharkiv ma adesso è tempo di iniziare qualcosa di diverso. Qualcosa di nuovo». I dati diffusi dalle Nazioni Unite a fine settembre parlano chiaro: se da un lato circa 11 milioni di persone hanno varcato i confini ucraini in uscita per sfuggire al conflitto, oggi la cifra di persone che ha attraversato le frontiere in senso opposto si attesta intorno ai 6 milioni e mezzo. Conti alla mano, più di un rifugiato su due ha scelto di tornare.
Queste cifre tengono conto degli attraversamenti di confine avvenuti in Slovacchia, Ungheria, Moldavia, Romania e Polonia, con quest’ultima che da sola ha fatto registrare il 60 per cento del traffico di rifugiati in fuga dal conflitto e oltre il 70 per cento dei rimpatri.Tania e i suoi due figli scendono a Lviv, in quella stazione che lo scorso marzo era stata presa d’assalto dagli sfollati che aspettavano giorni prima di riuscire a salire a bordo di un treno diretto in Polonia per mettersi in salvo. Oggi la stazione non è più affollata, anzi. L’unico assembramento si registra sulla banchina dove transita il diretto per Kiev.
Resistenza quotidiana
Inevitabilmente all’interno dei vagoni comincia a respirarsi un’aria diversa. Ai rifugiati che stanno tornando a casa per la prima volta si mescolano coppiette di giovani innamorati che hanno passato il weekend a Lviv per svago, famiglie in visita ai propri cari e impiegati al rientro dalle ferie. E poi, ci sono anche le nuove reclute dell’esercito: hanno appena terminato l’addestramento e vengono inviate in luoghi imprecisati lungo il fronte.Tra loro ci sono alcuni ucraini residenti all’estero che hanno scelto di tornare per imbracciare le armi. Come Vladimir, che ha vissuto 12 anni in Spagna e fino a pochi mesi fa lavorava come muratore a Saragozza. «Sono sovrappeso e l’ultima volta che ho fatto il militare ero un ragazzino», ci racconta l’uomo, «ma questo è il mio Paese. Devo lottare».
Lottare: perché il futuro dell’Ucraina è ancora incerto, come sottolinea Anja, che ha 38 anni e proviene da Vinnytsia, città oggetto di pesanti bombardamenti fino a tre mesi fa. «Abbiamo un solo desiderio, la vittoria», racconta Anja mentre controlla i biglietti delle ultime persone salite a bordo. «E non abbiamo intenzione di arrenderci».
Sin dai primi giorni la guerra in Ucraina è stata accompagnata da un caleidoscopio di propaganda in ogni forma: dai comunicati stampa ai tweet, passando per meme e TikTok, senza esclusione di colpi da entrambe le parti. Ci sono truppe intrepide che organizzano coreografie variopinte in trincea, Godzilla che emerge dal Mar Nero per abbattere il ponte di Kerch e, ultimi soltanto in ordine cronologico, sono arrivati i video degli influencer di Mosca che danzano al ritmo delle esplosioni avvenute nel centro di Kiev il 10 ottobre.
Lontano dalla bolla dei social media, a bordo del treno, tra le persone in carne ed ossa, l’atmosfera è decisamente più moderata. Vige un cauto ottimismo, attutito dalla consapevolezza che anche se il fronte si è spostato più a est e il morale delle truppe continua a migliorare, i combattimenti sono ancora intensi e il prezzo pagato dalla popolazione è altissimo. Il destino dell’Ucraina, checché ne vogliano i leader dell’una o dell’altra fazione, rimane ancora avvolto da una coltre di incertezza e i passeggeri ne sono ben coscienti.
«Tante persone sono fuggite perché dovevano trovare rifugio. Ognuno ha il diritto di fare le sue scelte», ci dice Anja in un raro momento di pausa in cui non corre avanti e indietro per i vagoni. «Io ho scelto di rimanere al mio posto e continuare a lavorare», prosegue la donna: «Mi capita abbastanza spesso di ritrovare amici fuggiti all’estero qui sul treno, mentre si apprestano a tornare a casa. È normale». Anche se indossa un’uniforme da impiegata delle ferrovie e non una mimetica dell’esercito, Anja è consapevole di svolgere un ruolo di rilievo all’interno della guerra.
Durante il conflitto le ferrovie ucraine si sono ritagliate un ruolo da protagoniste sia per il contributo logistico all’esercito che per la partecipazione degli stessi impiegati ai combattimenti lungo il fronte.Secondo quanto riferisce Ukrzaliznytsia, l’ente pubblico che gestisce il trasporto ferroviario di merci e persone in Ucraina, sarebbero circa ottomila i dipendenti dell’azienda impegnati nei combattimenti. Di questi, 244 sono caduti in battaglia e 475 sono rimasti feriti.«Sappiamo quanto sia importante per la nostra nazione garantire il funzionamento delle ferrovie», ha affermato il direttore di Ukrzaliznytsia, Oleksandr Kamyshin, durante un convegno a Berlino lo scorso settembre. «Non importa quanti bombardamenti dovremo subire: noi continueremo a fare il nostro lavoro».
Dove comincia il fronte
E infatti, il treno continua a viaggiare. A velocità spesso ridotta, ma senza alcun intoppo. Ormai mancano poco più di cento chilometri prima di arrivare a Kiev e il treno sosta per un’ultima volta, nella città di Korosten’. Le nuove reclute scendono qui: non sanno – o non vogliono rivelare – dove andranno a combattere.«Il nostro è un lavoro importante, ma la priorità è chi combatte al fronte», racconta Anja appena il treno riprende a viaggiare. «La nostra vita è in bilico: mio marito è un ingegnere e per ora non è stato chiamato a servire la patria. Ma tutto quanto potrebbe cambiare da un momento all’altro».
Fuori dai finestrini l’oscurità inghiottisce gradualmente il panorama piatto e monotono che si è susseguito dalla Polonia fino ai sobborghi di Kiev. L’Ucraina è composta prevalentemente da pianure, con rilievi montuosi che si innalzano soltanto nelle regioni dei Carpazi e in Crimea. Con una percentuale di terreni coltivabili che oscilla tra il 54 e il 57 per cento, non è difficile comprendere come si sia guadagnata il soprannome di “granaio d’Europa”.
Rimangono da attraversare soltanto Irpin e Bucha, nomi tetri entrati nell’immaginario collettivo a causa dei terribili crimini di guerra commessi dai russi contro la popolazione locale. Ma la distanza da Kiev è talmente ridotta che non c’è tempo per pensarci oltre.
Sono ormai le dieci di sera e il treno ha raggiunto il binario cinque di Kiev-Pasazhyrskyi, la stazione centrale della capitale. Alcuni soldati aiutano una donna a scaricare i bagagli dal treno: viaggia con una decina di buste bianche che vengono via via accatastate sulla banchina. Basta proseguire qualche metro per accorgersi che non è l’unica: la stessa scena si ripete in continuazione lungo la piattaforma, così come si ripetono gli abbracci di famiglie riunite per la prima volta dopo mesi.
E anche se i missili russi sono tornati a colpire la capitale, non ci sono file per salire sui treni che portano in Polonia. Non ci sono code di macchine in attesa di rifornirsi ai benzinai, la rete telefonica è ancora attiva e i bancomat continuano a erogare denaro.
Per cercare di evitare il peggio e preparare i cittadini al lungo inverno in arrivo, il governo ha varato un piano che prevede la riduzione drastica del consumo di elettricità durante le ore serali. Per questo nel cuore di Kiev ci sono più ombre che luci. E ci tornano in mente le parole di Vladislav: «Ora lì è abbastanza sicuro».
(da TPI)
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Ottobre 24th, 2022 Riccardo Fucile
IL GOVERNO DRAGHI HA DATO 3 MILIARDI ALLE AZIENDE PER IMMAGAZZINARE METANO PER L’INVERNO… ORA LE COMPAGNIE ESPORTANO MACINANDO PROFITTI
Vi stupirebbe se l’Avis rivendesse il sangue donatole? O se vedeste il clochard che fa la fila alla Caritas che piazza sul cosiddetto mercato libero le pagnotte della mensa dei poveri?
Molto probabilmente, oltre allo stupore, ci sarebbe anche un po’ di indignazione.
Tuttavia i signori dell’energia pretendono che si ritenga giusto, forse doveroso, che le aziende italiane possano vendere a scopo di lucro il gas comprato con i soldi delle tasse. Questo è il primo scandalo.
Il secondo è che quei denari italiani, cioè pagati con le tasse da noi tutti, vanno dritti dritti nelle tasche di Gazprom. Cioè di Putin.
Cioè di quel signore il cui nemico, l’Ucraina, noi stiamo finanziando con armi, denaro e solidarietà. Sempre con le tasse italiane.
Sono gli stessi dati forniti dal Ministero dello Sviluppo economico che confermano che, da gennaio ad agosto 2022, l’export di gas del nostro Paese è cresciuto del 238,3%.
Abbiamo esportato 2,33 miliardi di metri cubi di gas, contro i 689 milioni dello stesso arco temporale del 2021.
Davide Tabarelli, presidente e fondatore di Nomisma Energia, insegna all’ Università di Bologna e al Politecnico di Milano, non si stupisce. «Sono vent’anni che parliamo di definire l’Italia come un hub del gas. Quest’anno cominciamo a vendere un po’ di gas. Non è un male. Noi abbiamo sognato per tanti anni che l’Italia fosse un mercato molto liquido con tante negoziazioni a causa dei transiti».
Dunque, se le imprese italiane che operano nel campo dell’energia vendono all’estero, dove è lo scandalo? Eccolo qui, nel meccanismo perverso e difficile che cerchiamo di spiegare.
Le aziende energetiche comprano gas dai produttori di metano durante l’estate. Lo fanno perché nella stagione calda il fabbisogno è, ovviamente, molto basso, circa 100 milioni di metri cubi al giorno. In inverno, quando fa freddo e bisogna riscaldare case, scuole, attività, ospedali, il fabbisogno aumenta di tre volte.
Se fa molto freddo anche di quattro, arrivando serenamente a punte di 400 milioni di metri cubi al giorno di gas combusto.
Le aziende vendono il gas seguendo la più elementare delle leggi di mercato: aumenta la domanda a offerta invariata, cresce il prezzo. Nella differenza di prezzo tra le scorte accumulate in estate ed i relativi contratti e la vendita “al dettaglio” in inverno, c’è la plusvalenza delle imprese. Il loro guadagno.
Nell’estate che ci siamo appena lasciati alle spalle, però, si è verificato un fenomeno mai visto: il prezzo del gas è arrivato a punte di 350 euro per megawattora. Il prezzo medio del 2019/2020 è stato di 10,7 euro per MWh. Nessuna azienda privata avrebbe mai comprato gas in estate per stivarlo e rivenderlo, perché avrebbe, semplicemente, perso denaro anziché guadagnarlo.
Il governo Draghi, però, era terrorizzato dall’idea che le riserve strategiche nazionali rimanessero vuote e ha promesso alle aziende energetiche che la differenza tra il sovrapprezzo pagato in estate e il prezzo atteso in inverno sarebbe stata a carico dell’Erario pubblico.
E le aziende hanno comprato e riempito gli stivaggi al 100% delle capacità. Addirittura un miliardo di metri cubi in più dello stivato nel 2021.
Michele Governatori è uno studioso italiano che segue da sempre il settore dell’energia e del gas ed è il responsabile scientifico sull’argomento del think tank italiano per il clima Ecco: «L’Italia esporta quantità crescenti di gas, ma resta di gran lunga un importatore netto. Produce una minima parte del suo fabbisogno». Infatti tutta la nostra ricchezza di metano viene dall’estero. Fisicamente, il gas entra in Italia attraverso un sistema di gasdotti molto ben congegnato.
Le porte d’ingresso al nostro Paese sono cinque, oltre le navi metaniere. Nel 2021 circa il 40% del fabbisogno è arrivato dalla Russia, attraverso il gasdotto Tag che passa da Tarvisio, in provincia di Udine, attraversando l’Ucraina, la Slovacchia e l’Austria.
Quindi la siciliana Mazara del Vallo, dove arriva il metano algerino con il gasdotto Transmed, più conosciuto come “gasdotto Enrico Mattei”. Questa struttura, per metà italiana di Eni e per l’altra metà algerina, ha coperto il 30% del fabbisogno del 2021.
Un ulteriore 10% arriva nello stivale via mare, con il nuovissimo Tap, Trans Adriatic Pipeline, che ha cominciato ad operare il 30 dicembre del 2020 ed è parte del Corridoio Meridionale del Gas, che conduce nel vecchio continente il gas naturale del giacimento di Shah Deniz II, in Azerbaijan. Dal Mar Caspio a Lecce.
La restante quota di fabbisogno arrivava dalla Libia con il gasdotto Green Stream, a sud. Mentre da nord, valicando le alpi pennine a Passo Gries in Val Formazza, il Tenp, Trans Europa Naturgas Pipeline, porta al Bel Paese il gas dei giacimenti olandesi. Poi ci sono le navi metaniere, che completano l’offerta di gas statunitense e qatarino, sbarcando in Italia il gas naturale liquido che al terminal di rigassificazione di Rovigo viene portato alla sua condizione di origine e immesso nella rete nazionale.
Last but not least, i gassificatori di Livorno (di Snam e del fondo nippo-australiano Fsi) e Panigaglia (tutta di Snam), vicino la Spezia.
«Ecco perché – spiega a TPI Michele Governatori – l’Italia è diventata quello che progettava di diventare anni fa. Siamo molto interconnessi, sia da sud che da nord, che da est, con il gas che arriva anche dall’Azerbaijan. Per questo motivo il prezzo del gas in Italia è leggermente più competitivo di quello nord-europeo della famosa borsa olandese Ttf e lo sarà ancora, stando ai futures, anche per i prossimi mesi. Questo vuol dire che al di là del fatto che noi importiamo i nostri consumi, un po’ di quello che passa in Italia lo riesportiamo, fisicamente. Ad esempio succede che nel gasdotto che passa in Val Formazza, e che va verso il Mare del Nord, il flusso si inverte. Cioè letteralmente il gas cambia senso di marcia e va verso nord. Le aziende che hanno quei contratti di gas di importazione, hanno deciso di venderlo alla frontiera. Non era mai successo che l’Italia fosse strutturalmente più economica del nord Europa».
Prosegue Michele Governatori: «Questo non è imbarazzante: il mercato è come un circuito elettrico. L’energia elettrica va dove la differenza di potenziale la manda. Così una risorsa scambiabile e omogenea va dove costa di più: i mercati funzionano così».
Ciò che è perlomeno discutibile, invece, è il fatto che oggi tutto il gas che abbiamo comprato a carissimo prezzo d’estate sia rivenduto a prezzi ribassati a spese dello Stato. Il governo Draghi ha voluto un secondo Whatever it takes, questa volta per il gas, per riempire gli stoccaggi a qualunque prezzo, aiutando economicamente gli operatori.
Un intervento costato almeno 3 miliardi di soldi pubblici, in un contesto di scarsa trasparenza. Di certo c’è che il prezzo del gas ora sta calando. Di sicuro, quando rivenderanno il gas ai privati durante la stagione fredda, le aziende ci perderanno. Quanto? Questo lo si saprà solo quest’inverno, perché si fisserà il prezzo. Ma è certo che quelle perdite le coprirà integralmente lo Stato».
La cosa incomprensibile è che quelle aziende, oggi, rivendano il gas italiano sul mercato a prezzi che sono competitivi perché sono stati i soldi pubblici a coprire il differenziale. Anche perché nel mercato dell’energia nulla è pubblico. È tutto di aziende di diritto privato, anche quando il capitale è totalmente dello Stato.
Anche la gestione dei siti di stoccaggio è un monopolio regolato. La società Stogit Spa, controllata al 100% da Snam (che è di Cassa Depositi e Prestiti Reti, cioè pubblica) mette annualmente all’asta gli spazi nei siti di stoccaggio. Chi voglia acquisire capacità di stivare metano, affitta la quantità che riesce ad aggiudicarsi e la può riempire, con alcune limitazioni in termini di tempo e utilizzo massimo o minimo. Il gas che va in stoccaggio è quello comprato e pagato da privati a loro rischio.
È sempre Governatori che spiega: «Nella vendita di gas metano, da sempre, la scommessa che fanno le aziende è quanto si riuscirà a guadagnare, ma mai se si guadagnerà. Che l’investimento estivo potesse avere un valore negativo non era mai successo. Quest’anno è stata una rivoluzione. Solo un folle avrebbe comprato con i suoi soldi il gas a 10 volte di più il prezzo pre-Covid. Se quello oggi stoccato fosse gas pagato dai privati e i privati lo avessero voluto esportare, fatti loro. Ma essendo la nostra condizione di mancato bisogno di gas dovuta al fatto che abbiamo già riempito e che abbiamo pagato con le tasse, la possibilità di chi è titolare dei contratti di importazione di esportare gas dipende proprio dallo sforzo fatto con le tasse. Questo non significa che oggi stiamo svuotando gli stoccaggi. Ciò che viene esportato è l’import che abbiamo disponibile, perché noi non possiamo riempire di più. I siti sono pieni. Ma se lo Stato non avesse pagato con le tasse, i siti oggi non sarebbero pieni. Dunque nessuno vorrebbe vendere. Ecco il paradosso».
C’è chi pensa che le aziende facciano solo il loro mestiere, produrre utili per gli azionisti. Il problema è la scarsità dei siti di stoccaggio. Davide Tabarelli, tra i protagonisti del dibattito sull’energia per competenze e brillantezza, non ha dubbi: «C’è un sacco di gas in giro e noi non possiamo stoccarne altro. Quello che non abbiamo sono proprio gli stoccaggi. Io penso che bisognerebbe mettere in galera quelli che hanno impedito in tutti questi anni di realizzare altri siti di stoccaggio in Italia».
I siti per stoccare il gas in Italia sono undici. Otto sono di Stogit-Snam e tre di Edison. Sono quasi tutti nel nord della penisola. Sono delle specie di dispense sotterranee, poste a grande profondità, tra i 1.300 e 2.000 metri nel sottosuolo, insinuate nella roccia e ricoperte generalmente di un terreno impermeabile, come l’argilla.
Non immaginate delle vere e proprie cavità, ma un sistema roccioso poroso che consente al gas di essere conservato e mantenuto disponibile ad essere estratto alla bisogna. Il sistema di stoccaggio italiano ha una capacità complessiva di 14 miliardi di metri cubi. Per avere dei metri di paragone, il fabbisogno nazionale annuo di gas è di circa 76 milioni di metri cubi. I siti di stoccaggio, infatti, si utilizzano per le emergenze, i picchi di freddo stagionale o eventi imprevisti, come una crisi internazionale che blocchi i flussi. Al resto devono bastare le forniture quotidiane, on demand.
Tabarelli preconizza momenti bui per l’industria e le famiglie italiane, da fine gennaio. «Dobbiamo pregare davanti alla statua di San Nicola di Bari, che fu donata da Putin nel 2007 alla cattedrale barese, perché ci conceda un inverno mite e perché la Russia non impazzisca bloccando i flussi di gas. Bisognava pensarci prima. Chi ha condotto politiche che hanno bloccato ogni innovazione per decenni deve assumersene la responsabilità. Che ci sia un mercato italiano del gas è un bene, sono trent’anni che ci lavoriamo e abbiamo un sistema di interconnessioni, a differenza di altri Paesi, che ce lo permette. Bisogna stare attenti a non buttare via il bambino insieme all’acqua sporca.
Lo ha detto anche il ministro Cingolani: se non facciamo subito un altro rigassificatore, l’anno prossimo saremo messi malissimo. E medio tempore non c’è altra soluzione che il carbone. Fiumesanto e Portovesme, in Sardegna, hanno scorte piene al colmo, ma la capacità di assorbimento di quel carbone da trasformare in elettroni per la rete è scarsa. Bisogna avere altri siti di stoccaggio. Mi chiedo perché il maxi deposito per lo stoccaggio di gas naturale sotterraneo di Rivara, a San Felice sul Panaro, sia stato così osteggiato, fino a farlo fallire. La democrazia è sacra, ma è altrettanto vitale prendere decisioni. I comitati del No devono affrontare la realtà, non i sogni. La Germania si salverà perché ha rimesso in funzione tutte le sue centrali a carbone. Lo dobbiamo fare anche noi, per qualche anno, finche non si ponga mano a una politica energetica lungimirante. Se falliremo gli obiettivi del 2050 sulle emissioni, pazienza. Bisogna tirare fuori dai cassetti progetti di nuove condotte, come il Galsi, il gasdotto Algeria Sardegna Italia, che ci aiuta a far arrivare maggiori quantità di metano dal Nord Africa e oggi varrebbe come l’oro. Io spero che questa crisi sia una lezione per i prossimi anni: dobbiamo avere capacità d stoccaggio, abbondanza. Avere altre reti. Non possiamo dipendere solo dal gas: tutto il gas libero al mondo viene in Europa perché paghiamo prezzi stratosferici, fino a 200 euro al megawattora, ma i costi non arrivano a 5 euro, per i produttori. Certo, dobbiamo incrementare le rinnovabili. Quest’anno la capacità da queste fonti verrà aumentata di circa 5 miliardi di kilowattora in più. Cioè di circa 1 miliardo di metri cubi equivalenti. Una gran cifra, certo. Ma è da confrontare coi 29 miliardi di metri cubi che venivano dalla Russia».
Insomma, per il patron di Nomisma il mercato e le sue distorsioni non sono il problema. «Non mi piace parlare di speculazione: è vero, c’è molta finanza, ci sono sempre alchimie sui meccanismi di mercato. Ora è facile tirare fuori il capro espiatorio della speculazione. Certamente c’è instabilità, ma non è che i mercati ci hanno dato il segnale di prezzo a 350 euro al megawattora perché c’è stata una manipolazione. Il prezzo è alto perché c’è un problema di carenza di materia e di panico. Ma quello che conta è il fisico: c’è un eccesso di domanda, una carenza di offerta. Bisogna aggiustare queste proporzioni: penso ai giacimenti di gas in Sardegna, a quelli dell’Adriatico, a quelli nella pianura padana. Tirarlo fuori costerà un po’, ma sempre meno della cifra che gli italiani trovano in bolletta. Serve equilibrare domanda e offerta: se non lo facciamo noi lo farà la recessione, che sta arrivando».
Un allarmismo che Michele Governatori non condivide: «A ottobre siamo ancora al mare. Spero in un inverno mite. Ma faccio anche notare che, checché ne dica l’opinione comune, la Russia non ha mai chiuso i rubinetti. Ha solo venduto il meno possibile per tenerci sulle spine, ma noi continuiamo a ragionare come se da Mosca non arrivasse più un solo metro cubo di metano. Gazprom non ha mai violato i contratti in essere, se non invocando cause di forza maggiore. E neanche gli importatori. Ai russi i soldi arrivano solo dal gas, unico settore economico in cui non ci sono sanzioni. Se la guerra dovesse inasprirsi, a loro servirebbero anche maggiori risorse. Non credo gli convenga chiudere i rubinetti».
E così si consuma lo strano paradosso tutto nostrano: per riempire le scorte paghiamo coi soldi pubblici le aziende, che rivendono a terzi, ma realizzando guadagni esclusivamente privati. Compriamo il gas dalla Russia, sostenendo di fatto la guerra contro l’Ucraina, ma mandiamo denaro all’Ucraina perché resista alla guerra che noi finanziamo. Arlecchino, servitore di due padroni. Un capolavoro italiano.
(da TPI)
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Ottobre 24th, 2022 Riccardo Fucile
ALLORA DISSE CHE NON AVREBBE POTUTO RICOPRIRE L’INCARICO PER RAGIONI DI OPPORTUNITA’ LEGATE AL SUO LAVORO
Guido Crosetto è il nuovo ministro della Difesa del governo Meloni: eppure, circa due mesi fa, affermò a TPI che non avrebbe ricoperto l’incarico per ragioni di opportunità legate al suo lavoro.
In un’intervista rilasciata a Luca Telese sul trentaduesimo numero del settimanale di The Post Internazionale, alla domanda “lei farà il ministro della Difesa?” Crosetto rispose: “Io sono l’ultimo dei problemi. Mi sembrerebbe inopportuno, dato il mio lavoro“.
Crosetto, infatti, era presidente dell’AIAD, la Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza di Confindustria, e di “Orizzonte Sistemi Navali”, società specializzata in sistemi ad alta tecnologia per le navi militari e di gestione integrata dei sistemi d’arma controllata al 51% da Fincantieri ed al 49% da Leonardo.
Ruoli lasciati da Crosetto prima di fare il ministro della Difesa, come da lui stesso sottolineato su Twitter: “Per tutti quelli che (non per amore) me lo stanno chiedendo, rispondo: mi sono già dimesso da amministratore, di ogni società privata (non ne ricopro di pubbliche) che (legittimamente) occupavo. Liquiderò ogni mia societa (tutte legittime). Rinuncio al 90% del mio attuale reddito”.
Ma quella a TPI non è l’unica volta in cui Crosetto smentiva categoricamente un suo coinvolgimento in un eventuale governo Meloni: al TPI Fest, la festa di The Post Internazionale che si è tenuta a Bologna dal 15 al 17 settembre e che ha visto proprio Guido Crosetto tra gli ospiti, il neo ministro della Difesa dichiarò: “Escludo ogni mio ruolo nel prossimo governo, ogni volta che ho avuto esperienze istituzionali ne risento fisicamente. Siccome ho avuto problemi gravi di salute e ho due figli piccoli non sarò candidato e non avrò incarichi”.
Inoltre, su Twitter, a chi gli chiedeva quando avrebbe fatto il ministro, il 27 settembre il co-fondatore di Fratelli d’Italia rispondeva: “Se aspetti me Ministro, muori di vecchiaia”.
(da TPI)
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Ottobre 24th, 2022 Riccardo Fucile
LE SPESE COMPRENDONO LIBRI, MATERIALE SCOLASTICO, VITTO E ALLOGGIO… IN ITALIA UNA LAUREA ASSICURA UN 45% IN PIU’ IN BUSTA PAGA
Accompagnare una figlia o un figlio dal nido alla laurea, perché si realizzi. Il desiderio di molti genitori, che farebbero bene ad attrezzarsi: il sogno costa dai 53mila ai 700mila euro.
La premessa è che studiare paga.
Secondo lo University report dell’Osservatorio Jobpricing, in Italia una laurea assicura un +45% in busta paga: 12.800 euro in più di un non-laureato. Ma formarsi è un percorso più ampio, che sempre più contempla di possedere le famose soft skills. Competenze quali «capacità di risolvere problemi» e «pensiero critico» che per il «Future of Jobs report» del World economic forum sono in cima alle qualità necessarie ai «lavoratori di domani».
È su queste basi che Moneyfarm, società d’investimenti, ha fatto i conti in tasca alle famiglie disegnando quattro percorsi formativi col relativo impegno economico. In media bisogna mettere in conto 130mila euro di budget, 6-7mila l’anno. Ma è un bilancio elastico, in cui le singole voci possono variare assai: basta pensare che si passa dai 60mila euro per una laurea magistrale a Napoli (costo della vita e sfizi inclusi) a 572mila per un Mba a New York. O che giocare a calcio tra i 3 e i 19 anni, tra scarpini e tesseramenti, presenta un conto da 12mila euro.
Nel percorso standard il budget è limitato, ma richiede comunque 53mila euro: come un bel suv. Dall’asilo al ciclo magistrale dell’Università, tutto si svolge nel pubblico e in sede (libri e materiali inclusi). Gli extra sono economici: lezioni d’inglese online dai 6 ai 16 anni e qualche svago come scout, teatro e sport. Il costo maggiore è l’Università, a Milano ad esempio, per 22mila euro.
Il gradino successivo punta sulla formazione tecnico- scientifica (STEM). Serve qualche attività extra-curricolare in più (informatica di base e poi coding), ma soprattutto fare i bagagli per l’Università fuori sede: si è considerato l’ateneo di Padova che, anche in questo caso, rappresenta il costo più impegnativo: 60mila euro. Il totale sale così a 98mila euro.
Gli ultimi due percorsi sono quelli più particolari. Il primo, che Moneyfarm definisce “New Age” o “radical”, costa 170mila euro. Scuole Montessori, Steiner o Reggio Emilia fin dall’infanzia, oppure «con approccio bilingue in un contesto internazionale»: le rette vanno da un minimo di 7.700 euro fino a un massimo di 14.600 euro al nido, arrivano a 15.300 euro alla materna.
È proprio in queste primissime fasi che si toccano i picchi di spesa. Se l’Università pubblica in sede può fare al caso di questo profilo, le attività extra-currucolari diventano premium, soprattutto per quel che riguarda le competenze linguistiche. Alla fine sono la voce che richiede l’investimento più alto: 35mila euro circa.
C’è infine un percorso extra-lusso, la cui fattura finale è “proibitiva” per la famiglia media: 700mila euro, siamo dalle parti di una fuoriserie. Curriculum scolastico tutto privato e internazionale, che culmina alla University College London con master alla London School of Economics: costano, da soli, intorno ai 265mila euro vitto e alloggio inclusi (che schizzano a 572mila euro se ci spostiamo negli Stati Uniti). Un privilegio per poche tasche. Per tutti, invece, vale il consiglio di «pianificare in modo oculato le finanze», dice Moneyfarm, per far sì che non restino solo sogni.
(da agenzie)
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Ottobre 24th, 2022 Riccardo Fucile
LA RUSSIA STA RIATTIVANDO LE VECCHIE RETI CHE UTILIZZAVA DURANTE LA GUERRA FREDDA, CON NUOVI PROFILI DI PRESUNTI INSOSPETTABILI
Dall’invasione dell’Ucraina, l’intelligence francese ha individuato diversi agenti dei servizi segreti militari russi, che utilizzano nuovi profili per sfuggire alla sorveglianza occidentale.
Quando in estate hanno ricevuto la richiesta di visto di Yulia Chifmanovich, i servizi consolari francesi non si sono subito insospettiti. La guerra in Ucraina ha portato molti russi a voler partire temporaneamente per sfuggire alle sanzioni imposte a Mosca, alla mobilitazione “parziale” o semplicemente per viaggiare.
E le spie, gli assassini e i sabotatori più pericolosi di Vladimir Putin sono raramente donne. Ma poiché la cautela è all’ordine del giorno con un Paese pronto a tutto pur di riprendere l’offensiva in Ucraina, hanno atteso il parere dei servizi segreti francesi prima di dare la loro risposta.
Secondo un funzionario diplomatico francese intervistato da Le Monde, il rifiuto finale della richiesta di visto è stato il risultato di un parere “inspiegabile” dei servizi segreti francesi. Non è stato presentato appello. E per una buona ragione. Secondo le nostre informazioni, Yulia Chifmanovich, nome reale, è la compagna di Alexander Kulagin, membro dell’unità 29155 del 161° centro di addestramento speciale dei servizi segreti militari russi, il GRU, l’unità responsabile dell’attentato del 2018 a Salisbury, nel sud dell’Inghilterra, con agente nervino contro Sergei Skripal, un disertore del GRU, che si era rifugiato nel Regno Unito. Da allora, i servizi di intelligence occidentali pensavano di aver neutralizzato questa minaccia identificando tutti i suoi membri.
Questa richiesta di visto per la Francia, sullo sfondo della guerra in Ucraina, indicherebbe quindi che l’Unità 29155 non è morta e che ora opterebbe per nuovi profili, donne o agenti molto giovani, per sfuggire alla sorveglianza occidentale e ai mandati di arresto europei emessi dopo il caso Skripal.
Durante la Guerra Fredda, questa unità era responsabile dell’addestramento dei guerriglieri comunisti in Asia, Africa e America Centrale.
Dalla caduta del Muro di Berlino, è stata convertita nel servizio di azione clandestina dell’esercito russo. Presente in Cecenia negli anni ’90, oggi è impegnata in assassinii, sabotaggi e sovversioni in tutto il mondo, in particolare in Europa. È diventata l’arma preferita del Cremlino, che sembra divertirsi a trasgredire le regole di un mondo di segretezza che tuttavia è molto flessibile in questo campo.
Secondo un membro dell’intelligence, Alexander Kulagin faceva parte del commando inviato in Montenegro nel 2016 per effettuare un colpo di Stato che è fallito. Kulagin fu poi affiancato da Eduard Shishmakov, alias Eduard Shirokov. Questi due uomini non sono sconosciuti alle autorità francesi. “Tra il 2014 e il 2018, almeno undici ufficiali dell’unità 29155 del GRU, tra cui Kulagin, hanno soggiornato in Francia, vicino a Ginevra”, secondo un alto funzionario dell’intelligence francese. Le Monde aveva riportato, alla fine del 2019, come questa unità avesse scelto l’Alta Savoia, al confine con la Svizzera, come base posteriore per lanciare le sue operazioni ostili.
Al termine di nuove indagini di Le Monde, sono emersi nuovi elementi sui soggiorni di questi agenti russi del GRU nell’Ain, vicino all’Alta Savoia e alla Svizzera. Si tratta di un’area molto comoda per le spie extraeuropee, in quanto consente un rapido accesso all’aeroporto di Ginevra, l’unica porta d’accesso al cuore dell’Europa che sfugge ai controlli di Schengen.
Le ricerche condotte dai servizi francesi dopo il 2018 mostrano che Kulagin era in compagnia di Yulia Chifmanovich durante i suoi soggiorni in Francia. Gli agenti del controspionaggio hanno trovato alcune delle residenze degli agenti dell’unità 29155, in particolare nel comune di Ferney-Voltaire, nella regione dell’Ain: l’hotel Median, l’Appart’hotel Citadines Genève (ora chiuso) e l’Appart’City Genève. Alexandre Michkine, alias Alexandre Petrov, uno dei due assalitori di Sergei Skripal a Salisbury, aveva, da parte sua, acquistato, nel gennaio 2018, una giacca blu in un negozio di Thoiry, nell’Ain. Un orologio di fascia media sarebbe stato pagato in una gioielleria dell’Alta Savoia.
Nessuna traccia di armi
I servizi segreti francesi sono riusciti a stabilire con precisione i movimenti in Francia di sette agenti del GRU: Alexandre Michkine e Anatoli Tchepiga alias Ruslan Bachirov, i due autori dell’attacco a Skripal; Denis Sergueïev alias Sergueï Fedotov, coordinatore di diverse operazioni in Europa tra cui quella su Skripal; Sergueï Lyutenko alias Sergueï Pavlov, visto in Bulgaria; Armangeldy Kourmanbaïev alias Aman Youssoupov; Guennadi Chvets e Timour Nozirov, entrambi noti con la loro vera identità.
Altri membri dell’Unità 29155 hanno richiesto visti o prenotato voli, ma non sono stati rintracciati. Spesso in coppia, a volte in tre, questi agenti si sono alternati in questa regione di confine, quasi ininterrottamente, fino al febbraio 2018, al momento del tentativo di avvelenamento di Skripal. Prima di questa vicenda non erano state individuate spie russe in Francia. Tuttavia, le indagini successive al 2018 non hanno finora dimostrato l’esistenza di alcuna operazione ostile sul territorio francese. Allo stesso modo, non sembra essere stato scoperto alcun deposito di armi, né alcuna complicità locale.
Nel 2019, il sito web investigativo Bellingcat, in associazione con altri media, aveva rivelato i nomi o gli pseudonimi di undici agenti di questa unità. Le Monde ha rivelato altri cinque nomi. Infine, il New York Times ha rivelato il nome di Andrei Averianov, il leader di un gruppo che era diventato l’obiettivo prioritario dei servizi segreti occidentali. Secondo nuove informazioni raccolte da Le Monde, i servizi occidentali hanno aggiunto altri due agenti alla lista dell’Unità 29155, oltre a Yulia Shifmanovich: Mikhail Smirnov, che si ritiene sia uno pseudonimo, e Ivan Jikarev, la cui vera identità è sconosciuta. Entrambi sarebbero transitati anche in territorio francese.
Nel corso delle loro ricerche, dal 2018, i servizi segreti dei Paesi presi di mira da queste spie russe hanno scoperto che le missioni assegnate a questo gruppo clandestino erano spesso legate all’Ucraina, a partire dall’invasione della Crimea e dalla guerra nel Donbass, nel 2014. Secondo i risultati delle indagini dei servizi di sicurezza cechi, trasmessi ai partner occidentali e citati il 17 aprile 2021 dal capo del governo ceco Andrej Babis, è “altamente probabile” che questa unità del GRU sia dietro la distruzione di due depositi di munizioni a Vlachovice, Vrbetice, il 16 ottobre e il 3 dicembre 2014.
La prima esplosione, che ha ucciso due dipendenti del sito, ha preso di mira un magazzino che ospitava 50 tonnellate di munizioni. La seconda esplosione ha colpito un deposito di quasi 100 tonnellate di munizioni. Questo materiale era, in parte, destinato a sostenere lo sforzo bellico delle forze ucraine. Sulla base di questi risultati, il governo ceco ha espulso diciotto diplomatici russi identificati come agenti russi.
Numerose espulsioni
I servizi cechi sono stati in grado di documentare la presenza sul loro territorio, al momento dell’esplosione, di Anatoli Chepiga e Alexander Mishkin, i due ufficiali che sarebbero stati coinvolti nel caso Skripal. Presentandosi come ispettori della Guardia Nazionale della Repubblica del Tagikistan e di nazionalità tagica e moldava, erano riusciti ad accedere al complesso di Vlachovice a Vrbetice con il pretesto di effettuare verifiche e ricognizioni. In questa azione sarebbero stati coinvolti altri tre agenti di Budapest, in Ungheria, e lo stesso capo dell’Unità 29155, Andrei Averianov, giunto appositamente da Vienna, in Austria.
Senza provarlo formalmente, i servizi di sicurezza cechi hanno collegato questi attacchi ai due tentativi di avvelenamento di un trafficante d’armi bulgaro, Emilian Gebrev, nell’aprile e nel maggio 2015 in Bulgaria. Parte delle scorte distrutte appartenevano alla sua azienda, la Emco, che riforniva regolarmente l’esercito ucraino. Nell’aprile 2021, la procura bulgara ha stabilito una correlazione diretta tra le esplosioni avvenute all’inizio del 2015 di due magazzini della società bulgara VMZ-Sopot, nella città di Iganovo, che ospitavano anche le scorte di armi della Emco, Gebrev, e la permanenza in Bulgaria di sei agenti russi dell’Unità 29155, tra cui Denis Sergeyev, alias Fedotov, e Egor Gordienko, alias Georgi Gorshkov, poi inviato in Svizzera sotto copertura diplomatica.
Gli elementi scoperti dal controspionaggio francese su Yulia Chifmanovich sono stati condivisi con i servizi alleati per arricchire la lunga lista di agenti russi, in viaggio o sotto copertura diplomatica. Le numerose espulsioni di spie russe tra il 2018 e il 2021 e la caccia agli agenti del GRU sembrano aver costretto Mosca a cambiare i suoi metodi e il suo reclutamento.
(da Le Monde”)
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Ottobre 24th, 2022 Riccardo Fucile
LA MELONI PENSA DI NOMINARE CONSIGLIERE DIPLOMATICO L’EX AMBASCIATORE IN ISRAELE, FRANCESCO MARIA TALÒ, ATTUALE RAPPRESENTANTE PERMANENTE DELL’ITALIA PRESSO LA NATO
Giorgia Meloni è diventata presidente del Consiglio dei ministri. E nasce un problema: cosa farà nella giornata del 28 ottobre, nel centenario della “marcia su Roma”?
C’è un’ipotesi, anzi un progetto, che senz’altro farebbe tornare alla memoria un passato leader della destra: una visita lampo in Israele. Alla fine del mese di novembre del 2003, Gianfranco Fini disse parole pesanti a Gerusalemme, nel museo dell’Olocausto: «Nessuna giustificazione per i carnefici di ieri».
Non solo per chi uccise, ma «anche per chi poteva salvare un innocente e non lo fece». E poi, la volontà di «denunciare le pagine di vergogna che ci sono nella storia del nostro passato. Bisogna farlo per capire la ragione per cui ignavia, indifferenza, complicità e viltà fecero sì che tantissimi italiani nel 1938 nulla facessero per reagire alle infami leggi razziali volute dal fascismo».
I consigli utili di Talò, Pontecorvo e Mieli
Il progetto non è impossibile da realizzare, nonostante le poche giornate che mancano per arrivare alla data del 28 ottobre: proprio domenica 23 ottobre si parlava della nomina come consigliere diplomatico a Palazzo Chigi di Francesco Maria Talò, attuale rappresentante permanente dell’Italia presso la Nato a Bruxelles.
E Talò è stato anche ambasciatore italiano in Israele: si tratta di un profondo conoscitore della politica di quella nazione. Poi non mancano i consigli di Stefano Pontecorvo, altra feluca di valore. E Fratelli d’Italia ha eletto come senatore Ester Mieli, a lungo portavoce della comunità ebraica di Roma.
Senza dimenticare i ministri a lei più vicini, e che rispondono ai nomi di Guido Crosetto e Adolfo Urso. Il primo, in particolare, prima dell’insediamento del governo si è assentato dall’Italia per compiere delicate missioni di diplomazia internazionale. Una mossa del genere come il viaggio a Gerusalemme permetterebbe a Meloni un definitivo “sdoganamento” mondiale: con il plauso, e senz’altro l’aiuto, dell’ex presidente del Consiglio Mario Draghi e del capo dello Stato Sergio Mattarella.
Ma ricordiamo le parole di Fini, dette nel 2003: «Di fronte all’orrore della Shoah, simbolo perenne dell’abisso di ferocia in cui può cadere l’uomo quando disprezza Dio, si avverte fortissimo il dovere di tramandare la memoria e fare tutto ciò che è possibile per evitare che in futuro sia riservato anche a un solo essere umano ciò che il nazismo riservò all’intero popolo ebraico».
Quindi, «il ricordo della Shoah, dello sterminio, non è rivolto al passato, ma guarda al futuro. È tempo della responsabilità, se non ora, quando? Di fronte al razzismo e all’antisemitismo nessuno può dire io non c’ero, non dipende da me, tocca ad altri fare qualche cosa». L’allora leader di Alleanza nazionale disse che «bisogna denunciare le pagine vergognose che ci sono nel nostro passato» e nei confronti delle quali «tanti italiani nel 1938 non fecero nulla».
La Meloni vuole stare lontana dalle polemiche sui gruppi nostalgici
Il silenzio di Giorgia Meloni, che accompagna la nascita del nuovo governo, sembra voler annunciare un grande evento: se tutti i pezzi del puzzle si assembleranno perfettamente, a poca distanza dalla giornata del 28 ottobre potrebbe essere data la notizia del viaggio verso Israele. Lontano dall’Italia e dalle inevitabili polemiche sul centenario, facendo dimenticare le celebrazioni di gruppi di nostalgici che possono solamente dare fastidio, innanzitutto, alla stessa Meloni. Una trasferta che le permetterebbe di riscuotere un consenso internazionale, e costituire una solida base per il suo governo.
(da tag43)
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Ottobre 24th, 2022 Riccardo Fucile
CHI E’ IL 42ENNE MILIARDARIO, FIGLI DI IMMIGRATI INDIANI, EREDE DELLA TRUSS
Il partito conservatore inglese ha deciso: sarà Rishi Sunak il nuovo primo ministro britannico. A pochi giorni dalle dimissioni di Liz Truss, la maggioranza dei Tories ha scelto di incoronare il 42enne come nuovo leader del Partito e, automaticamente, anche come nuovo primo ministro. Sunak ha avuto la meglio contro gli altri due candidati alla leadership del partito: l’ex premier Boris Johnson e Penny Mordaunt, attuale leader della Camera dei Comuni che si è ritirata dalla corsa.
Dopo le dimissioni di BoJo (il 7 luglio) e quelle di Liz Truss (il 20 ottobre), Sunak diventa così il terzo premier britannico in poco più di tre mesi. Non solo: il nuovo leader dei conservatori, che ha origini indiane, sarà anche la prima persona non bianca a ricoprire il ruolo di primo ministro.
La moglie miliardaria e il lavoro a Goldman Sachs
Nato a Southampton nel 1980 da una coppia di immigrati indiani, Sunak è cresciuto in una famiglia benestante. Suo padre Yashvir è medico, mentre la madre Usha è titolare di una farmacia.
Dopo una laurea in Filosofia, politica ed economia a Oxford, Sunak vola negli Stati Uniti, dove ottiene un master in Business administration all’Università di Stanford. È lì che conosce Akshata Murty, figlia di un miliardario indiano fondatore del colosso informatico Infosys. I due si sono sposati nel 2009 e hanno avuto due figli.
Una volta tornato nel Regno Unito, i primi passi di Sunak nel mondo del lavoro non sono nella politica, ma nel mondo della finanza: prima a Goldman Sachs (per quattro anni) e poi in alcuni fondi speculativi.
Un passato che gli è valso l’appellativo di «uomo di Davos», usato dai rivali laburisti in riferimento alla città svizzera che ospita ogni anno il meeting del World Economic Forum.
Un «Thatcheriano» moderato
Con un patrimonio familiare di 900 milioni di sterline, Sunak sarà l’inquilino più ricco della storia di Downing Street. Il suo ingresso in politica è piuttosto recente.
Nel 2015 ottiene il suo primo seggio da parlamentare e nel 2020 viene scelto personalmente da Boris Johnson come Cancelliere dello scacchiere, ossia come responsabile delle politiche economiche e fiscali. È lui a farsi carico della risposta economica del governo inglese alla pandemia, mettendo a punto un piano di aiuti colossale da 400 miliardi euro (il più ingente nella storia del Paese).
Anche lui, come Liz Truss, si definisce un «Thatcheriano» di ferro e si è espresso a favore di politiche economiche di stampo neoliberista. Rispetto alla premier uscente, però, Sunak viene considerato di gran lunga più affidabile sulla gestione dei conti pubblici.
«Abbassare le tasse ora è un grave azzardo – aveva avvertito in campagna elettorale qualche settimana fa – Gli interessi saliranno alle stelle e le famiglie ne pagheranno le conseguenze insieme a un’inflazione già alta».
Sunak è stato anche tra i più ferventi sostenitori della Brexit, ha invocato la riaffermazione di una global Britain in politica estera e ha chiesto più volte l’inasprimento delle leggi sull’immigrazione irregolare.
Partygate e altri scandali
Negli ultimi mesi, Sunak non è stato esente da scandali. Ad aprile, i media britannici hanno scoperto che la ricchissima moglie Akshata Murty ha sfruttato per anni una controversa legge sul domicilio oltremanica per non pagare le tasse nel Regno Unito.
Una rivelazione arrivata proprio mentre suo marito, nelle vesti di ministro delle Finanze, si preparava ad alzare le tasse per la prima volta dopo molti anni. Quelle stesse inchieste hanno poi portato a un’altra rivelazione: Sunak aveva da poco fatto richiesta per una green card negli Stati Uniti, probabilmente per trasferirsi oltreoceano.
A tutto questo si aggiunge poi il Partygate, lo scandalo in cui Johnson e alcuni suoi alleati – tra cui proprio il nuovo premier inglese – sono stati multati per aver violato le restrizioni anti-Covid. Le dimissioni di Sunak, arrivate il 5 luglio, sono state l’inizio di una serie di addii che ha portato al passo indietro di Johnson.
(da agenzie)
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Ottobre 24th, 2022 Riccardo Fucile
VORREBBE METTERE A FRUTTO LA RETE DI CONOSCENZE COSTRUITA NEL TEMPO
I ghigni che hanno accompagnato la sua uscita di scena sono destinati a spegnersi e a scivolare via. Perché non riusciranno, congiuntivi fantozziani e soprannomi dileggianti, a descrivere davvero fino in fondo chi è stato Luigi Di Maio per questo Paese. Capace di cavalcare in giacca e cravatta l’antipolitica alla conquista dei Palazzi di Roma, da mosca bianca del Movimento del vaffa, e di finire sconfitto nel momento in cui aveva ogni cosa nelle sue mani.
«Il più giovane della storia repubblicana», si è sentito dire spesso, da vicepresidente della Camera, da vicepremier, da ministro degli Esteri. Eppure, è un ragazzo che non è stato ragazzo mai. Entrato nel Movimento 5 stelle a 21 anni e a Montecitorio cinque anni più tardi, nel 2013. Altri cinque anni ed è ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. L’unico vero miracolo grillino, in cui si è realizzato il sogno e consumato il contrappasso: l’uomo del popolo che diventa élite finché il suo popolo non lo riconosce più.
Con lo 0,6 per cento incassato alle ultime elezioni, il passaggio di consegne alla Farnesina e le dimissioni dalla guida di Impegno civico, a 36 anni Di Maio chiude il primo capitolo della sua storia politica. E ora che tutto finalmente si posa, guardando indietro a questi dieci anni bruciati in fretta, tra mille acrobazie, come un fuoco d’artificio impazzito, si fa ancora una tremenda fatica a capire chi sia davvero Luigi Di Maio.
Il sacrificio per il potere, si dirà. Eppure, non può essere solo questo. Il senso di rivalsa, forse, che arriva da una provincia dimenticata del Sud, come è Pomigliano d’Arco, e che lo porta a esultare dal balcone di palazzo Chigi per aver sconfitto la povertà. E insieme l’abilità, persino il talento, di essere tutto e il contrario di tutto.
L’uomo che voleva uscire dall’Euro e che chiese l’impeachment di Sergio Mattarella, che si lasciò cullare dalle fascinazioni prima russe e poi cinesi, che vedeva nel Pd un nemico e che incontrò in Francia i gilet gialli, oggi è alfiere della stabilità, uomo di fiducia di Mario Draghi e amico del Pd, atlantista ed europeista convinto. Il giustizialista che per primo, senza imbarazzi, ha chiesto scusa per il suo giustizialismo: «Scurdammoce ‘o passat’».
Gira voce che ora voglia dedicarsi al lobbismo. Entrare alla Bains, società di consulenza americana tra le più importanti al mondo, o magari fondarne una sua, mettendo a frutto la rete di conoscenze costruita nel tempo, fin dal primo giorno in cui ha imparato ad annodare la cravatta.
Mentre i grillini sbraitavano contro i poteri forti, lui ci andava a cena insieme. E se poteva, piazzava i suoi amici, compagni di scuola e di avventura politica, su poltrone e poltroncine, come ha fatto chiunque abbia amministrato il potere in Italia prima di lui. «Giggino core d’oro», lo chiamavano i suoi detrattori.
Ma è la capacità di ascolto e di dialogo, di costruire un rapporto plasmando la propria identità su quella del suo interlocutore, senza mai scontentare nessuno, ad avergli permesso di superare scivoloni ed errori politici. Da ultimo, la scissione dal Movimento, progettata e orchestrata per dare maggiore stabilità politica al governo Draghi e per assestare un colpo mortale a Giuseppe Conte, finita invece per terremotare palazzo Chigi e ridare forza all’identità dei Cinque stelle in campagna elettorale.
Nessuno si ricorderà di Impegno civico. «Un cartello elettorale», così l’ha infilzato a morte Bruno Tabacci, unico eletto sotto quell’insegna. Ma Di Maio, a 36 anni, ha ancora cinque o sei vite di fronte a sé. L’unica vera domanda da porgli, oggi, è se abbia voglia di rallentare, prendere fiato, e decidere una volta per tutte, magari, chi è davvero Luigi Di Maio.
(da la Stampa)
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Ottobre 24th, 2022 Riccardo Fucile
DOPO AVER SPARATO CAZZATE SOVRANISTE PER ANNI, ORA CHE SONO AL GOVERNO HA TERMINATO LE SUE PRESUNTE DENUNCE: ORA VA TUTTO BENE
Stop a “Fuori dal Coro“. Mediaset ha deciso di sospendere per tre mesi il talk show sovranista condotto da Mario Giordano. La notizia, resa nota dal sito “Calcio e Finanza“, lascerà spazio a diverse interpretazioni dal punto di vista politico ma anche aziendale. Il programma saluterà Rete 4 tra poche settimane, il prossimo 15 novembre e non il 13 dicembre (come originariamente previsto).
Il competitor di “CartaBianca” e “DiMartedì” dovrebbe tornare in onda martedì 14 febbraio 2023. Precisamente tre mesi dopo.
Lo scorso anno la trasmissione aveva subito uno stop di un mese per le festività natalizie, una assenza così lunga danneggerà il talk, che pure ottiene buoni ascolti, lasciando in sospeso diverse domande.
Giordano si concentra su politica, economia e cronaca con una narrazione spesso sopra le righe, accompagnata da coreografie, canzoni e trovate scenografiche. “Donato“, il nome del regista urlato per l’intera serata.
Una pausa a tempo o l’avvicinamento a una cancellazione definitiva? Fonti Mediaset beninformate escludono a FqMagazine la chiusura di “Fuori dal Coro”, pur confermando la sospensione della programmazione per tre mesi, e assicurano il ritorno in onda.
Quest’anno, complice la compagna elettorale, Giordano ha debuttato prima del previsto ma le ragioni sarebbero soprattutto di natura economica.
L’unico talk politico del prime time di Rete4 in onda da Milano ha costi più elevati proprio per la messa in scena, per il cast fisso che comprende figuranti e ballerini, oltre ai costi che si sostengono per la realizzazione degli sketch
(da agenzie)
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