Destra di Popolo.net

ALESSIA PIPERNO È STATA FERMATA DALLA POLIZIA IRANIANA CON L’ACCUSA DI AVER PARTECIPATO A UNA MANIFESTAZIONE CONTRO IL REGIME. E PER QUESTO È STATA PORTATA NEL CARCERE DI EVIN, QUELLO DEI PRIGIONIERI POLITICI

Ottobre 5th, 2022 Riccardo Fucile

LA FARNESINA E I NOSTRI SERVIZI SONO AL LAVORO PER DIMOSTRARE CHE LA TRENTENNE TRAVEL BLOGGER NON È MAI SCESA IN PIAZZA

Alessia Piperno è stata fermata dalla polizia iraniana con l’accusa di aver partecipato a una manifestazione contro il regime. Per questo è stata portata nel carcere di Evin, quello dei prigionieri politici.
L’accusa non è ancora stata notificata ufficialmente all’Italia. E questo è il lato positivo, il solo, della vicenda: in queste ore la Farnesina e i nostri Servizi stanno mettendo in campo tutto quello che è possibile per dimostrare quello di cui l’Italia è certa. E cioè che Alessia non abbia partecipato ad alcuna manifestazione.
Nel suo periodo in Iran non ha mai svolto attività politica, prova ne sia il fatto che dall’Iran volesse andare via al più presto, tanto da essere in attesa del visto per il Pakistan.
Se, dunque – è il ragionamento che fanno i funzionari del Ministero e gli 007 – davvero gli iraniani le contestano un reato di tipo politico, si tratta certamente di un errore.
È possibile per esempio che la posizione di Alessia, travel blogger, possa essere stata scambiata con quella di altri europei che dormivano nel suo stesso ostello. O che magari possano essere stati fraintesi i suoi viaggi, come quello nel Kurdistan iraniano dove la ragazza era recentemente anche passata.
La questione è molto delicata: se l’accusa dovesse essere confermata, i tempi rischierebbero di allungarsi. Alessia dovrebbe infatti affrontare un processo e difficilmente potrebbe lasciare il carcere.
L’obiettivo è invece ottenere immediatamente una scarcerazione e poi lavorare, magari, a un’espulsione. Possibilità sulla quale la Farnesina è ancora ottimista. Qualcosa si capirà già oggi quando la nostra ambasciata dovrebbe essere informata ufficialmente delle accuse.
Sono ore di ansia, intanto, nella casa di Colli Albani, a sud di Roma, per la famiglia della ragazza con lo zaino sempre in spalla. In alcune storie su Instagram, Alessia Piperno aveva descritto la condizione delle donne in Iran e le difficoltà che anche lei aveva incontrato.
David ribadisce quanto sostiene la Farnesina: “Mia sorella, a differenza di quanto ho letto da alcune parti, non ha mai partecipato a nessuna manifestazione di piazza. Non è un’attivista, era in viaggio. Nient’ altro”
(da La Repubblica)

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A SALVINI LA MELONI HA PROPOSTO IL MISE E IL LAVORO PER FARLO DESISTERE DALL’OSSESSIONE DI TORNARE AL VIMINALE

Ottobre 5th, 2022 Riccardo Fucile

UNO CHE NON HA MAI LAVORATO AL MINISTERO DEL LAVORO E’ FANTASTICO

Giorgia Meloni ha deciso di bruciare i tempi, accelerando la sua salita a palazzo Chigi. «D’accordo con il Quirinale», spiegano a Domani fonti vicine a Sergio Mattarella «la leader di Fratelli d’Italia farà di tutto per ottenere la fiducia del nuovo governo da lei presieduto già il 18 ottobre. Un’operazione difficile, ma non impossibile».
Il 18 è un martedì che Meloni ha già cerchiato in rosso. Un guizzo che secondo Giorgia è plausibile grazie ad alcune buone notizie che le sono arrivate da Francoforte, e necessario affinché la presidente del Consiglio in pectore raggiunga due obiettivi che si è prefissata. Cioè chiudere il totoministri, che da giorni provoca fibrillazioni nella litigiosa maggioranza di destra.
E presenziare come neopremier italiana al Consiglio europeo di Bruxelles del 20 ottobre, quando i capi di stato e di governo della Ue dovranno discutere e decidere sulle proposte della Commissione sulla crisi energetica, compresa la richiesta italiana e di altri partner di un tetto al prezzo del gas russo.
In molti hanno dato per scontato che sarà ancora Mario Draghi a rappresentare il paese, visto che le nuove camere si riuniranno solo il 13 e il 14 per eleggere i due nuovi presidenti di Montecitorio e di palazzo Madama.
«Ma se il blitz di Giorgia riuscisse davvero, quello di Bruxelles sarà il suo debutto internazionale. Noi sherpa stiamo lavorando affinché ce la faccia», conferma un dirigente di FdI. «Anche perché i lavori per la composizione della squadra di governo non sono in alto mare come sembra dalla lettura quotidiana dei giornali».
Una settimana fa abbiamo riferito come Meloni stesse lavorando notte e giorno al puzzle dell’esecutivo, spiegando che se alcuni suoi candidati avevano eccellenti possibilità di fare davvero i ministri (come Elisabetta Belloni agli Esteri, che Giorgia non intende mettere in discussione nonostante le pressioni di Antonio Tajani, o il presidente del Copasir Adolfo Urso, dato quasi certo alla Difesa o in subordine allo Sviluppo economico), altre caselle chiave erano ancora vacanti. Sette giorni dopo qualcosa è cambiato, e la lista di Giorgia si sta definendo.
La poltrona che preoccupava di più la leader era, ovviamente, quella che fu di Quintino Sella. Risulta a Domani che Fabio Panetta, ex direttore generale di Banca d’Italia e dal 2019 nel board della Bce, pochi giorni fa abbia finalmente sciolto la riserva e dato per la prima volta un sì di massima a Meloni per sedere sulla sedia del ministero dell’Economia.
Non sappiamo se il presidente della Repubblica abbia operato o meno una moral suasion sull’economista riluttante, ma di certo il tecnico ha fatto a Meloni un’apertura significativa alla proposta di nomina che finora aveva sempre rifiutato. Unica condizione: che il resto della compagine sia di alto livello.
Fino al giuramento tutto può ancora accadere, ma Meloni è fiduciosa che l’uomo che ha corteggiato strenuamente per due mesi, stimato da Mario Draghi, dalla burocrazia europea e da Christine Lagarde, sarà titolare del dicastero chiave del suo esecutivo. Maurizio Leo, come anticipato da Domani due mesi fa, sarà il vice con la delega al fisco.
È noto che Panetta avesse riserve perché consapevole che – una volta accettato il Tesoro – sarà più difficile coronare il sogno di ogni dirigente di Via Nazionale, quello di diventare un giorno governatore della Banca d’Italia. Né Meloni né altri hanno potuto garantire al banchiere che prima o poi riuscirà a sedersi nella stanza che oggi è di Ignazio Visco, ma è probabile che Panetta in futuro potrà giocarsi con le istituzioni un credito importante.
Anche perché non è un segreto che il Quirinale preferisca al Mef un profilo come il suo rispetto a quelli degli ex ministri Domenico Siniscalco (stimatissimo da Guido Crosetto, non perderà la speranza di un ritorno fino all’ultimo secondo) e l’altro papabile Giulio Tremonti.
L’altro motivo per cui Panetta non aveva sciolto la riserva era dovuto alla posizione di membro del board della Bce. Un piedistallo strategico da cui provare a difendere gli interessi italiani in merito alle politiche monetarie dell’istituto di Francoforte. Se Panetta tornasse a Roma, non è affatto sicuro che il Consiglio europeo sceglierà un altro connazionale al suo posto.
Una figura che potrebbe avere voce in capitolo nella sostituzione dell’economista in seno alla Bce è Paolo Gentiloni, ex premier e attualmente commissario europeo agli Affari economici. Con Meloni non ci sono rapporti diretti, ma Antonio Funiciello – capo di gabinetto sia con il piddino sia oggi con Draghi – ha sempre fatto da trait d’union in via ufficiosa tra le rispettive cerchie: non è impossibile che sia lui a organizzare un incontro in tempi brevi tra i due leader.
UN LAVORO PER SALVINI
L’apertura di Panetta ha tranquillizzato Meloni, anche perché la soluzione dell’enigma Mef scioglierebbe parecchi nodi.
La vincitrice delle elezioni proverà a venire incontro ad alcune delle richieste dei suoi alleati, ma non intende stravolgere i suoi piani iniziali. Silvio Berlusconi e Matteo Salvini fanno filtrare da giorni i loro desiderata sui media (l’ex Cavaliere ha chiesto la Farnesina per Antonio Tajani, il leghista vuole il Viminale, ed entrambi vorrebbero essere pure vicepremier), insieme a velate minacce contro l’eccesso di tecnici nel governo che vogliono «più politico».
La realtà è che il 25 settembre Lega e Forza Italia hanno perso milioni di voti dimezzando i risultati del 2018, e che in tempi di guerra tra occidente e Russia i loro due leader sono considerati da Bruxelles e Washington pericolosi filo putiniani. Meloni al contrario ha dalla sua numeri in parlamento e consenso, mentre la sua strategia di mischiare figure di rilievo ed esperti d’area con profili politici ha l’appoggio del Quirinale, di un peso massimo come Draghi e soprattutto della diplomazia americana ed europea.
«È vero, i nostri alleati possono fare come Ghino di Tacco e impedire il varo del governo», dice un importante senatore meloniano. «Ma poi dovrebbero spiegare ai loro parlamentari e ai loro elettori perché non hanno dato vita al primo governo di centrodestra eletto dal popolo dal 2008. Perché non hanno avuto le poltrone che chiedevano? Andrebbero al 2 per cento».
Insomma, Meloni accetta il braccio di ferro, convinta che le intimidazioni e le armi dei due alleati siano a salve. Dunque, nonostante le richieste, a oggi la presidente di FdI non ha alcuna intenzione di fare alcun vice premierato. Non solo.
Salvini avrà un posto di rilievo al governo ma non al Viminale, dove c’è il divieto della nomenclatura di mezzo occidente per via dei precedenti burrascosi del governo Conte I (il Capitano è imputato in un processo per via dei respingimenti considerati illegali dai pm) e dei rapporti suoi e dei suoi collaboratori con i russi.
Salvini ha davanti tre strade alternative percorribili. La prima, più scontata ma non banale visto il ricco portafogli del dicastero, è quella dell’Agricoltura, che però Matteo considera una diminutio eccessiva, e dove punta a rimettere l’amico Gian Marco Centinaio. Restano così due caselle libere: quella dello Sviluppo economico (Mise) e quella del Lavoro.
Il Mise è un ministero importante, ma con un big come Panetta al Mef i margini di manovra di Salvini sarebbero limitati alle sole crisi aziendali. Così come per l’uscente Giancarlo Giorgetti che, stretto tra il ministro Daniele Franco, il Mef e il potere di Cassa depositi e prestiti, non ha quasi toccato palla. «Il Mise ha poca cassa, un’autonomia finanziaria minima, ma staremo attenti ai contratti di sviluppo industriali e al Pnrr», ha detto riservatamente un uomo della Meloni a coloro che in Confindustria temono che dando il timone in mano a Salvini di un dicastero a loro caro possa deragliare.
Anche il dicastero del Lavoro ha budget minimo, ma potrebbe affatto non dispiacere al leghista per via della tradizione sindacal-laburista che la Lega ha sempre vantato, senza dimenticare la passione per quota 100 e la volontà di superare l’odiata legge Fornero. Come ha suggerito già a fine agosto Susanna Turco sull’Espresso, alla fine Salvini potrebbe seguire la strada di Luigi Di Maio e chiedere entrambe le poltrone.
Potrebbe essere un punto di caduta onorevole per il capo del Carroccio, uscito tramortito dalle elezioni e criticato ogni giorno da pezzi del partito e gran parte della base.
Se Salvini dovesse accettare una delle proposte della premier in pectore, il resto delle caselle governative si riempirebbe rapidamente. Il leghista Edoardo Rixi è in pole per le Infrastrutture (ma qualche delega come quella sui porti andrebbe divisa con il neonato ministero del Mare), mentre Giulia Bongiorno a oggi sta perdendo il derby con Carlo Nordio per la Giustizia e finirebbe alla Funzione pubblica.
Considerando cosa probabile il ritorno di Elisabetta Belloni agli Esteri (ne è stata per anni apprezzato segretario generale), la presidente post fascista sta pensando seriamente di offrire il Viminale a Tajani. L’aspirazione a salire alla Farnesina del coordinatore di Forza Italia sarebbe da accantonare, ma il vice di Berlusconi sarebbe adeguatamente ricompensato. «È la soluzione migliore che abbiamo in tasca», dice una fonte vicinissima alla Meloni.
«Noi di Fratelli d’Italia e lo stesso Quirinale preferiremmo un tecnico, ma capiamo gli alleati che chiedono sul tema sicurezza e ordine pubblico una figura politica. Salvini si irriterebbe? Se non lo fa lui, preferisce non lo faccia nessuno dei suoi, compreso un fedelissimo come Nicola Molteni che potrebbe continuare a fare il sottosegretario».
Sul tavolo di Meloni per il ruolo c’è anche il nome del prefetto di Roma Matteo Piantedosi, civil servant che stima molto, e che ha fatto il capo di gabinetto quando Salvini era all’Interno.
Dovesse andare il Viminale a Tajani, e se la Belloni giurasse come nuovo ministro degli Esteri, Piantedosi con buone probabilità non resterà in prefettura, ma verrà promosso direttore del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che coordina le nostre due agenzie di intelligence Aise e Aisi.
A cascata, Meloni dovrà decidere chi si occuperà dell’autorità delegata oggi in mano a Franco Gabrielli. Ovvio che se mantenesse le deleghe nelle sue mani, il vero capo dei servizi sarebbe il capo del Dis, che riporterebbe direttamente al premier.
Meloni, però, preferisce trovare un sottosegretario tecnico che si frapponga tra lei e il comparto. Per un motivo semplice: crede che in caso di tensioni o scandali (come quello che colpì Giuseppe Conte all’epoca del Russiagate) lo scudo di un esperto possa proteggere il suo premierato da polemiche potenzialmente rovinose
Per questo ha incaricato alcuni suoi uomini (come lo stesso Leo) di mettersi a cercare un prefetto all’altezza del compito. Risulta a Domani che emissari di Giorgia abbiano chiesto consiglio soprattutto a Gianni De Gennaro, ex capo della polizia, già capo dei servizi e autorità delegata ai tempi del governo Monti. A ora, il prescelto non è stato ancora trovato.
La mossa, però, sembra allontanare da palazzo Chigi Guido Crosetto, i cui rapporti altalenanti con Meloni sono stati già raccontati da questo giornale qualche giorno fa. Il suo nome per ora non è nell’elenco dei ministri preferiti da Giorgia, che forse premierà il cofondatore di FdI con un incarico importante (presidente di Leonardo?) alla prossima tornata di nomine nelle partecipate.
Così a palazzo Chigi potrebbero seguire Giorgia solo Giovanbattista Fazzolari, ministro dell’Attuazione del programma in pectore, e Ignazio La Russa. Qualcuno dà l’ex missino possibile nuovo presidente del Senato, ma ora il terzo big di FdI è in pole per fare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
Nel caso, chiederà una delega importante, quella dello Sport: La Russa è un terminale importante di un pezzo imprenditoriale di quel mondo (è amico di Adriano Galliani, che insieme a Barbara Berlusconi chiamò nel 2014 il giovane Geronimo La Russa a fare il consigliere di alcune società della galassia Milan), e il suo rampollo è dal 2020 influente presidente di Aci Milano, il club che gestisce l’autodromo di Monza dove si organizza il gran premio di Formula Uno.
Altro nome a cui Meloni aveva pensato per il dipartimento oggi retto da Valentina Vezzali è quello del manager d’area Andrea Abodi. Presidente dell’Istituto di credito sportivo, considerato serio e competente anche a sinistra, qualcuno in Fratelli d’Italia teme sia un eccellente battitore libero, ma poco propenso a fare gioco di squadra. Così preferirebbe che Meloni lo promuovesse a capo della Fondazione Milano-Cortina che deve organizzare le Olimpiadi invernali, piuttosto che averlo membro nel Consiglio dei ministri.
Si vedrà. Intanto se l’ex infermiera Licia Ronzulli anela ancora alla Salute (Meloni la considera inadeguata, e preferirebbe tecnici d’area come il presidente nazionale della Croce rossa Francesco Rocca), e se per l’altra forzista Anna Maria Bernini le porte di un ministero di peso medio sembra possano aprirsi senza troppi veti, c’è un altro dicastero chiave che non ha ancora il suo titolare designato. Quello della Cultura.
Una pedina che Meloni vuole usare anche per accontentare qualche scontento. Le quotazioni di Federico Mollicone (il meloniano s’è distinto di recente per un’intemerata contro il cartone animato Peppa Pig, reo di aver mostrato in una puntata «due mamme») e della leghista Lucia Borgonzoni («non leggo un libro da tre anni», si vantò una volta in radio) sono in netto calo. Così come quelle di Giampaolo Rossi, ex consigliere di amministrazione della Rai dato invece papabile come futuro dirigente (presidente o amministratore delegato) della Rai stessa.
Al contrario, salgono le possibilità del critico Vittorio Sgarbi, spendibile in quel ruolo come indipendente di Forza Italia. Qualcuno ha suggerito per il feudo di Dario Franceschini anche il nome di Giulio Tremonti, in questi giorni frustrato perché l’aspirazione di un ritorno al Mef rischia di rimanere tale, soprattutto dopo il sì condizionato di Panetta.
«Non sappiamo se alla fine Meloni gli offrirà davvero la Cultura per ammansirlo, ma fosse saggio Giulio metterebbe l’orgoglio da parte, e chiederebbe la presidenza della commissione Bilancio alla Camera. È un ruolo centrale e di raccordo tra Mef e parlamento, e Meloni gli direbbe sicuramente di sì», dice una fonte di Forza Italia che conosce benissimo l’ex ministro dell’Economia.
Meloni confida che in contemporanea all’elezione dei presidenti di Camera e Senato tutte le tessere del domino governativo possano incastrarsi a dovere, in modo da presenziare lei stessa a Bruxelles al posto dell’uscente Draghi.
In molti sostengono che i suoi calcoli sono eccessivamente fiduciosi, e che per piegare Salvini, Berlusconi e Tajani le servirà maggior tempo di negoziazione. «Anche perché», aggiungono i pessimisti, «Meloni non ha ancora in tasca il team che l’accompagnerà a Chigi: le selezioni per il capo di gabinetto e per i vertici degli uffici tecnici e legislativi sono in alto mare».I tempi sono stretti, anche perché Funiciello e il sottosegretario Roberto Garofoli hanno negato qualsiasi possibilità di rimanere con la destra.
Per la cronaca i due, insieme ad altri collaboratori, hanno donato qualche giorno fa a Draghi (come regalo d’addio) la celebre copertina dell’album dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, quella in cui la band viene immortalata insieme ai suoi personaggi preferiti della politica e dello spettacolo.
Ovviamente, la copertina è stata riveduta e corretta: al posto delle facce dei quattro musicisti, ci sono quelle di Draghi, di Garofoli e dello stesso Funiciello, il consigliere economico Francesco Giavazzi (al posto di Ringo Starr).
Dietro di loro Franco Gabrielli, Roberto Chieppa – che è segretario generale a palazzo Chigi – il coordinatore del Comitato tecnico scientifico Franco Locatelli e la portavoce Paola Ansuini. Un album di famiglia degli uomini di punta di un governo che per mezzo mondo e gran parte degli italiani ha fatto bene, e che Meloni dovrà rimpiazzare con figure di livello, se vuole che la sua nuova avventura parta senza intoppi.
(da Domani)

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ORMAI SULLA TELEVISIONE DI STATO RUSSA PARLANO APERTAMENTE DI COME L’ARMATA LESSA STA PERDENDO UNA GUERRA CHE PUTIN NON PUÒ VINCERE

Ottobre 5th, 2022 Riccardo Fucile

PER FORTUNA NOI ABBIAMO I TALK SHOW ITALIANI E QUEI DUE TRE GIORNALI CHE CI DICEVANO CHE PUTIN ERA INVINCIBILE E LA SUA AVANZATA INESORABILE. AVEVANO CAPITO TUTTO

Dopo mesi di propaganda sull‘”operazione speciale” in Ucraina e la “cacciata dei nazisti” da Kiev, qualcosa è profondamente cambiato anche nella tv di stato russa alla luce delle sconfitte militari.
Da giorni infatti il tono degli interventi di ospiti e conduttori nelle principali trasmissioni di dibattito fanno chiaro riferimento alla sconfitta e ritirata delle truppe davanti all’avanzata dell’esercito ucraino.
toni però non sono certo quelli pacifisti ma di chi invece è alla ricerca di un capro espiatorio per quanto accaduto sui campi di battaglia. Un clima che si respira anche tra la popolazione come dimostrano i messaggi sui social ma che in tv assumono i contorni della rabbia anche contro i vertici militari russi. Lo stesso Caporedattore di Russia Today, Margarita Simonyan, considerata la “regina” della propaganda russa, si è scagliata contro il comando militare russo.
Apparsa nel corso della trasmissione di Vladimir Solovyov, Simonyan ha chiesto che l’intero comando venga sostituito “per codardia”. “Vigliaccheria, abbandono volontario di posizioni strategiche senza coordinamento con il comando superiore, crollo del comando e controllo delle truppe, inazione del potere” sono gli errori elencati da Simonyan ribadendo però il concetto che si è di fronte alle armi della Nato.
“Questo territorio, tre volte più grande del Belgio, è saturo di ogni tipo di arma, ogni tipo di istruttori, tutta la volontà, la forza e la potenza dell’intero Occidente. Se qualcuno nell’esercito non lo capisce, forse dovremmo rivedere la cosa e sostituire queste persone” ha aggiunto.
Stesso atteggiamento anche da parte di Olga Skabeyeva, altro cardine della propaganda russa. “Perché avanziamo metro dopo metro quando loro avanzano villaggio dopo villaggio?” ha chiesto in diretta ad Andrei Marochko, portavoce della “milizia popolare” di Luhansk, i filorussi del Donbass, durante una trasmissione tv. La risposta del militare collegamento in video ancora una volta ha fatto riferimento alla Nato. “Stiamo combattendo contro la Nato piuttosto che con l’Ucraina” ha spiegato.
Sempre nel corso di una nota trasmissione anche il vicepresidente del Comitato di difesa Dmitry Sablin, ha confermato le perdite sul campo proponendo: “Dobbiamo fermarci, riorganizzarci, prepararci e accumulare riservisti. Ci vorrà tempo ma siamo obbligati a riorganizzarci”. “Stiamo giocando una partita lunga, la guerra va avanti da 30 anni e solo ora si è tolta la maschera. Dobbiamo capire che le industrie non si ricostruiscono velocemente, abbiamo bisogno di nuove attrezzature, strumenti e stabilimenti ma anche di addestrare gli uomini” ha aggiunto Sablin.
(da Fanpage)

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“I RUSSI SONO COME PUGILI INTONTITI, POSSONO FINIRE KO” : L’ESERCITO DI MOSCA VICINO AL COLLASSO

Ottobre 5th, 2022 Riccardo Fucile

GLI UCRAINI SPINGONO A KHERSON E NEL DONBASS, E ORA PUNTANO MARIUPOL – SE AVVENISSE L’ATTACCO E LA “RECONQUISTA” DA PARTE DELLE TRUPPE DI KIEV, LE ZONE RUSSE SAREBBERO TAGLIATE A METÀ E CIÒ FAREBBE FINIRE NELLA POLVERE DELL’UMILIAZIONE MILITARE IL GRANDE SOGNO IMPERIALE DI PUTIN

Si avvicina a grandi passi il collasso dell’esercito convenzionale russo in Ucraina. E ciò spiega, almeno in parte, le motivazioni che spingono Vladimir Putin ad agitare lo spauracchio dell’arma nucleare a pochi giorni dalla sua dichiarazione di «annessione» delle zone occupate dopo il 24 febbraio e adesso seriamente minacciate dalla massiccia controffensiva ucraina. Circa 30.000 soldati russi rischiano di rimanere circondati nell’enclave di Kherson.
Le loro unità si stanno ritirando precipitosamente dai settori settentrionali della regione che occupavano da metà marzo, quando ancora si illudevano di poter raggiungere Odessa lungo il Mar Nero e quindi marciare vittoriose su Kiev per unirsi ai corpi di spedizione in discesa dal nord, eliminare con la forza il governo Zelensky e infine riportare l’Ucraina nella condizione di Stato vassallo di Mosca.
I corpi scelti ucraini continuano ad avanzare lungo il Dnipro. Sono ormai a oltre 40 chilometri dalle linee di partenza, hanno già superato il villaggio di Dudchany; ieri sera hanno percorso altri 5 chilometri per dribblare un ponte fatto saltare dai nemici in fuga e potrebbero presto chiudere la sacca di Kherson verso l’estuario del Dnipro sino al Mar Nero. Le avanzate potrebbero nelle prossime ore garantire ai lanciamissili Himars di colpire la grande base aerea di Chaplynka, che dai primi di aprile permetteva ai caccia russi si coprire l’intero fronte meridionale, privando il nemico dell’indispensabile controllo dell’aria. A quel punto possono mirare alla Crimea via terra.
I successi nel sud-ovest fanno il paio con quelli nel Donbass. Qui, dopo aver riconquistato Izyum l’8 settembre e Lyman venerdì scorso, gli ucraini continuano a correre in avanti: liberano nuove aree del Donetsk ed entrano a Lugansk, mirando addirittura al suo capoluogo, che le unità locali filo-Mosca avevano dichiarato autonomo sin dal 2014.
Ma la novità delle ultime ore, tenuta nascosta dai portavoce di Kiev, sembra il terzo asse dell’offensiva destinata a sferrare un colpo mortale all’impalcatura dell’occupazione. Dalla zona di Huliaipole, infatti, gli ucraini stanno organizzando una nuova direttiva d’attacco che mira a Mariupol.
Se ciò avvenisse, le zone russe sarebbero tagliate a metà e ciò farebbe finire nella polvere dell’umiliazione militare il grande sogno imperiale di Putin.
Di tutto questo e dei costi in termini di vite umane e sofferenze parlavamo ieri pomeriggio con i soldati ucraini incontrati nel ristorante principale di Sloviansk, dove staziona il fior fiore delle unità impegnate nel Donbass.
Per loro l’incubo peggiore sono le cosiddette «bombe foglia», la versione italiana è «pappagallo verde»: bombe a grappolo antiuomo. «Sono piccole, con 40 grammi di esplosivo, a forma di foglia.
Sono difficilissime da individuare, fanno impazzire gli sminatori anche perché restano innescate per decenni, basta una pressione di cinque chili per farle deflagrare. Raramente uccidono, ma mozzano le gambe», spiega Yuri, 47enne medico al seguito di un battaglione corazzato impiegato a Lyman.
Ce ne parla senza nascondere la crescita esponenziale di vittime nei due eserciti. «Vennero prodotte nell’ex Unione Sovietica e oggi sono lanciate di continuo sia dagli elicotteri russi che dai nostri. Sono tra le cause più importanti di ferite gravi nei due campi». Ma le sue parole non gettano alcuna ombra sull’evidente ottimismo dominante.
«Il grosso dei nostri arsenali è ancora quello dell’Urss, molto simile a ciò che usano adesso i russi. Però la differenza più importante sta nella motivazione: noi siamo più forti perché difendiamo il nostro Paese, molti di loro invece non hanno alcuna idea di cosa stiano a fare qui, per lo più vorrebbero gettare i fucili e tornarsene a casa», raccontano Vlad e Bagdan, specialisti di un’unità dell’intelligence incaricata di individuare gli obbiettivi per le artiglierie. Al loro fianco siedono alcuni artiglieri che da giugno utilizzano mortai da 120 millimetri inviati dal governo italiano.
«Sono buone armi, molto leggere e abbastanza precise. Unico limite è che si scaldano troppo presto e allora occorre lasciarle raffreddare», dicono. Ma almeno su di un punto concordano tutti: «Noi ucraini stiamo vincendo, l’impeto della nostra avanzata non può fermarsi, dobbiamo approfittare del momento: i russi sono come pugili intontiti, possono solo finire a kappaò».
(da Corriere della Sera)

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L’ARMATA È LESSA, IL MINISTRO DELLA DIFESA PURE

Ottobre 5th, 2022 Riccardo Fucile

DOPO LE BATOSTE MILITARI TIRA UNA BRUTTA ARIA PER IL MINISTRO DELLA DIFESA RUSSO SHOJGU

Mappa canta. Tutto ciò che il generale russo Igor Konashenkov ha evitato di dire nel briefing giornaliero presso il ministero della Difesa è apparso impietosamente alle sue spalle: nella mappa aggiornata sulla posizione delle truppe nella regione di Kherson, si vede chiaramente lo sfondamento degli ucraini da Nord, lungo il fiume Dnepr.
Nel giorno della ratifica da parte del Senato russo delle quattro annessioni, Konashenkov non ha menzionato perdite a Kherson. E tuttavia alla lista dei villaggi riconquistati dalle forze di Kiev, se ne aggiungono altri sette, tra cui Davydov Brod, Staroselye, Bolshaya Aleksandrovka, Velyka Oleksandrivka, Novopetrivka. Il cuneo della controffensiva ucraina sta puntando in direzione di Nova Kachovka, città strategica sulla riva sinistra del Dnepr dove i russi stanno ripiegando.
La crisi operativa in cui versa la cosiddetta “operazione speciale”, come ancora a Mosca chiamano l’invasione, emerge sia dai commenti di alcuni giornalisti russi, sia, soprattutto, dalle chat dei blogger militari.
“Non abbiamo abbastanza uomini, siamo stanchi. I territori non li teniamo più, non ci saranno buone notizie nel prossimo futuro: né dal fronte di Kherson, né da Lugansk”, scrivono sui canali telegram. “Ci hanno chiuso a tenaglia”, “gli ucraini possono fare operazioni di sbarco colpendoci al fianco”, “ci ritiriamo”.
Riferiscono pure di un trucco usato dai soldati di Kiev: disegnare la Z e la V dell’esercito russo sui propri tank, per confondere il nemico.
Cosa che si possono permettere di fare solo grazie ai moderni sistemi di comunicazione dell’Occidente che sventano il fuoco amico. “Putin è con le spalle al muro”, avverte la Cia. “Può essere pericoloso”. Il riferimento è all’utilizzo di armi tattiche nucleari, rilanciato dal Times: citando documenti di intelligence Nato, il quotidiano inglese sostiene che il presidente russo stia per ordinare un test atomico vicino al confine dell’Ucraina “come gesto dimostrativo”.
A spingere Putin verso l’atomica è soprattutto il leader ceceno Ramzan Kadyrov. Sabato, dopo la ritirata russa da Lyman, Kadyrov ha inveito contro i vertici militari accusandoli di essere sconnessi dalla realtà e di non informare propriamente Putin. Poco dopo Evgenij Prigozhin, capo e fondatore della Brigata mercenaria Wagner, si è complimentato con Kadyrov: “Ben detto Ramzan. Inviate tutta questa immondizia a piedi nudi direttamente al fronte”.
Secondo Andrej Pertsev, analista russo con ottime fonti al Cremlino, i due starebbero complottando per rovesciare il ministro della Difesa Sergej Shojgu. Kadyrov e Prigozhin hanno a disposizione due eserciti privati che si stanno rivelando decisivi sul terreno.
In questo momento godono perciò della totale fiducia di Putin, ma – stando a Pertsev – anche dei suoi fedelissimi, come l’ex guardia del corpo e attuale governatori di Tula, Aleksej Djumin, e l’ex governatore di Jaroslav e ora assistente del presidente, Dimitrij Mironov. Djumin (da anni considerato tra i delfini di Putin papabili per la successione) sarebbe l’uomo che aspirerebbe a prendere il posto di Shojgu.
(da agenzie)

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LA MELONI CERCA DI ARGINARE LE PRETESE DI POLTRONE DI SALVINI E BERLUSCONI

Ottobre 5th, 2022 Riccardo Fucile

SI PREPARANO A FARLE OPPOSIZIONE ALL’INTERNO DEL GOVERNO?

Matteo Salvini, riunito il consiglio federale della Lega, intende presentare sette nomi di possibili ministri per il prossimo governo.
Sette! Anche se Giorgia Meloni intende dargliene forse al massimo tre, nemmeno di primissima fascia, uno per lui, uno per Edoardo Rixi e uno forse per Giammarco Centinaio o Giulia Bongiorno. E lo stesso vuole fare con Silvio Berlusconi, che considera all’incirca inamovibili Antonio Tajani, Anna Maria Bernini e Licia Ronzulli.
Dunque si sono alleati, il Cav. e Salvini, e mentre la leader di FdI perde il sonno sulle bollette, pensando già alla prossima legge di bilancio, loro premono per avere più posti in un governo che ancora non esiste.
“Se chi ha votato per un cambiamento poi si ritrova i soliti tecnici, allora non sia va da nessuna parte”, dice Claudio Borghi. E Tajani, domenica: “I tecnici siano dei casi isolati”.
Temono lo strapotere di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, e come soci di un medesimo club, quello degli alleati minori, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi palleggiano tra loro timori e rivendicazioni.
Più tecnici vuol dire infatti più Meloni dentro il governo, come hanno capito tutti. E dunque ci si oppone, o almeno ci si deve provare. Meloni si chiede: “Berlusconi e Salvini vogliono svolgere una regolare funzione di pressing, tipica di ogni minoranza dentro una coalizione, o si preparano a dare bastonate dall’interno alla futura presidente del Consiglio?
(da Il Foglio)

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SENZA DRAGHI, IN EUROPA TORNANO A COMANDARE GERMANIA E FRANCIA

Ottobre 5th, 2022 Riccardo Fucile

ANCHE SE DALL’AMERICA IL FILO-ATLANTISMO DI “DONNA GIORGIA” È APPREZZATO, A BRUXELLES NON DIMENTICANO LE SUE INTEMERATE FILO-ORBAN

I timori per quel che sarebbe accaduto con le elezioni anticipate in autunno Mario Draghi glieli aveva espressi ben prima di ieri: «Cara Giorgia, fai attenzione al rinascente asse fra Parigi e Berlino».
L’immagine che meglio rappresenta il cambio di fase nel Continente è quella del leader francese in visita nella capitale tedesca con giacca e maglione a collo alto: mentre il commissario Thierry Breton abbozzava una risposta europea al maxi piano tedesco contro il caro energia, il capo dell’Eliseo aveva già programmato la cena riservata con il collega tedesco.
Complice la lunga transizione fra Angela Merkel e Scholz, finché a Palazzo Chigi c’è stato Draghi l’interlocutore privilegiato del francese è rimasto lui. Ora non sarà più così. Per Meloni è un passaggio delicatissimo, perché dal rapporto con Parigi e Berlino dipende la capacità dell’Italia di incidere ai tavoli europei.
Un vecchio frequentatore di Palazzo Chigi sotto la garanzia dell’anonimato, la spiega così: «Per mesi Giorgia Meloni ha rassicurato l’alleato americano, cercando di far dimenticare i selfie con Steve Bannon, e ci è riuscita. Il sostegno fermo all’Ucraina in guerra le è stato d’aiuto. Ma le partite importanti si vincono e si perdono in Europa, con Parigi e Berlino. E su questo Meloni è al giorno zero».
I toni della campagna elettorale non le sono state di aiuto: la dichiarazione sulla «pacchia è finita», il voto all’Europarlamento a favore dell’Ungheria di Viktor Orban, la promessa – citando Giovanni Paolo II – di avere più attenzione «all’Est dell’Unione rispetto all’asse franco-tedesco».
«Siamo desiderosi di cominciare a lavorare con il nuovo governo», diceva ieri la portavoce della Casa Bianca. Ma in questo contesto l’Italia di Meloni rischia di trasformarsi nella Polonia del Sud Europa.
Circa un mese fa, mentre la politica era nella bolla delle elezioni, e mentre Bruxelles tentava di costruire una proposta per un tetto al prezzo del gas, Parigi e Berlino si accordavano per un sostegno reciproco contro la crisi.
La Francia ha preso l’impegno a fornire gas alla Germania, che in cambio distribuirà oltre il confine ovest elettricità. «Nelle prossime settimane metteremo a punto i collegamenti necessari», disse Macron in conferenza stampa. Il giorno dopo l’annuncio tedesco del maxi-piano da duecento miliardi un documento firmato dalle due cancellerie ha sancito lo sforzo comune «per ridurre i prezzi».
Draghi, come è nella tradizione della diplomazia italiana, per spingere a favore di un intervento comune contro il caro energia aveva fatto leva sul blocco dei Paesi mediterranei. Il caso ha voluto che il vertice annuale di quel blocco – previsto ad Alicante la scorsa settimana – sia saltato a causa della positività al Covid di Pedro Sanchez.
Oggi il premier spagnolo e Scholz si incontrano a La Coruña con i rispettivi ministri per un importante vertice bilaterale. Insomma, nonostante il tentativo di Draghi e Mattarella di non farlo sembrare tale, il vuoto di potere a Palazzo Chigi si sente. Ed è questa la ragione per cui il capo dello Stato preme perché il governo Meloni giuri il prima possibile. La premier, non appena seduta a Palazzo Chigi, dovrà occuparsi di ricostruire la rete di alleanze che Draghi non può più garantirle.
(da agenzie)

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LA GIORNALISTA MARINA OVSYANNIKOVA IN FUGA DAI DOMICILIARI: “MI RIFIUTO DI RISPETTARE LE MISURE RESTRITTIVE”

Ottobre 5th, 2022 Riccardo Fucile

“PERSEGUITATA PER AVER DETTO LA VERITA’: PUTIN E’ UN ASSASSINO”… BEFFATA LA POLIZIA RUSSA, SE LA SONO FATTA SCAPPARE DAI DOMICILIARI

La giornalista televisiva russa Marina Ovsyannikova, famosa per aver essersi mostrata a marzo dietro la conduttrice di un telegiornale della Tv di Stato russa con un cartello contro l’invasione russa dell’Ucraina, ha confermato di essere sfuggita agli arresti domiciliari.
La donna era stata fermata con l’accusa di aver diffuso di notizie false. Come previsto dalla legge bavaglio russa entrata in vigore in otto giorni dopo l’inizio della guerra, Ovsyannikova avrebbe potuto passare in carcere fino a 15 anni.
La giornalista, in un messaggio sul suo canale Telegram si è definita «completamente innocente». Aggiungendo che: «Dal momento che il nostro Stato si rifiuta di rispettare le proprie leggi, io mi rifiuto di rispettare le misure restrittive impostemi lo scorso 30 settembre, e mi assolvo».
La donna avrebbe dovuto presentarsi a un’udienza a Mosca alle 10 ora locale (le 8 del mattino in Italia). Tuttavia, gli investigatori non sono riusciti a stabilire dove si trovasse dopo la fuga.
La scorsa settimana, l’ex marito, anche lui giornalista, aveva denunciato la scomparsa della donna. Ovsyannikova, 44enne, era stata posta due mesi ai domiciliari ad agosto, in attesa di processo, dopo aver partecipato a una protesta nella capitale russa nella quale mostrava un cartello in cui Putin veniva definito un assassino, mentre i soldati delle Federazione venivano chiamati fascisti.
La detenzione sarebbe dovuta durare fino al 9 ottobre. Assieme a lei, è fuggita anche la figlia 11enne. Reuters spiega che la notizia è stata rivelata da Russia Today. La testata ha scoperto che il nome della donna è stato inserito nella lista dei fuggitivi del ministero dell’interno di Mosca. La giornalista ha dichiarato di «essere perseguita per aver detto la verità».
(da agenzie)

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GIORGIA MELONI E L’OSSESSIONE DI SALVINI PER IL VIMINALE

Ottobre 5th, 2022 Riccardo Fucile

NESSUNO CHE DICA LA VERITA’: SALVINI HA DISPERATO BISOGNO DI QUELLA CARICA O DI AVER IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA PER NON FINIRE IN GALERA (DOVE IN UNO STATO NORMALE SAREBBE DA TEMPO)

«È il gioco delle parti. Vedrete che alla fine troveremo un accordo». Giorgia Meloni sta dimostrando un’infinita pazienza con Matteo Salvini e la sua voglia di Viminale. Tanto è vero che ieri, secondo l’AdnKronos, avrebbe commentato così con chi ha avuto modo di parlarle l’ennesima uscita del Consiglio Federale della Lega. Che ieri ha dato «pieno mandato» al segretario sulle trattative per il nuovo governo. Ma ha anche indicato una lista – poi smentita – di ministeri chiave a cui il Carroccio vorrebbe accedere.
Con in cima, manco a dirlo, proprio quel ministero dell’Interno che ormai è diventata un’ossessione di Salvini. E sul quale però proprio Meloni non sembra voler fare marcia indietro. Perché «i problemi sono grandi, io già non dormo la notte. Servirebbe più serietà».
Niente veto, ma…
In serata, all’uscita dalla Camera, Meloni si è fermata a scambiare qualche battuta con le tv prima di salire in auto. E chi gli chiedeva di dire la sua sulla correzione di rotta di Salvini rispetto alla linea del Consiglio federale, la leader di via della Scrofa ha risposto gettando acqua sul fuoco e ribadendo che la coalizione si confronterà ma resterà sempre unita: «Mi pare che Salvini confermi l’atteggiamento che tutto il centrodestra sta avendo fin dall’inizio di questa avventura…».
Prima di salutare giornalisti Meloni ha quindi assicurato che «siamo tutti concentrati su un obiettivo, quello di dare a questa nazione un governo che offra le risposte migliori» per aiutare il Paese «in tempi non facili». Ma un retroscena del Corriere della Sera a firma di Paola De Caro sembra circostanziare meglio il pensiero della premier in pectore. Lei non cambia idea. Ai suoi ripete che non c’è alcun veto nei confronti del Capitano. Ma bisogna ragionare insieme con gli alleati se convenga che un ministro con un processo aperto – Open Arms – proprio per le sue attività al Viminale possa tornare al ministero dell’Interno.
E detta così sembra proprio un modo per far digerire un No al Capitano. Perché il suo arrivo al Viminale non rafforzerebbe il governo, anzi: «Appena insediati avremo caro bollette, conti terribili, rischio di tempeste finanziarie in Europa, la guerra alle porte. Ci serve aprire un fronte con la magistratura?».
Agricoltura, infrastrutture, turismo
Ciò nonostante il Viminale resta la prima opzione per Salvini. Ma il leader del partito di via Bellerio potrebbe alla fine accettare anche l’Agricoltura (abbinando, forse, insieme a Tajani, la carica di vicepremier). L’agricoltura è, infatti, uno dei ministeri considerato interessante per il partito, insieme a Difesa, Scuola, Infrastrutture e Turismo. E mentre il totoministri diventa sempre più un toto-Salvini, un candidato utile potrebbe essere l’ex sottosegretario agli Interni Nicola Molteni. Non a caso leghista. Oppure Matteo Piantedosi, prefetto di Roma nominato da Lamorgese ma prima capo di gabinetto proprio di Salvini.
O, infine, Giuseppe Pecoraro, che è stato eletto nelle fila di Fdi. Ma proprio per questo, spiega Repubblica, Meloni sembra proprio quasi stufa di Salvini e della sua ossessione per il Viminale.
Il quotidiano parla di una «sgrammaticatura evidente» nella lista di ministeri uscita dal Federale. Perché non c’è ancora un premier incaricato. Perché mancano i presidenti delle Camere. Ma intanto un partner di maggioranza si sostituisce al Quirinale: «I problemi sono grandi, non dormo la notte immaginando soluzioni – è il senso dei ragionamenti della leader – servirebbe serietà».
(da agenzie)

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