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IL COLONNELLO DI FDI FABIO RAMPELLI DICHIARA CHE “LA MELONI NON HA MAI DETTO DI VOLER USCIRE DALL’EURO” E CARLO CALENDA HA GIOCO FACILE NELL’INFILZARLO PUBBLICANDO UN VIDEO D’ANTAN IN CUI LA MELONI RINGHIA: “L’ITALIA DEVE DIRE ALL’EUROPA, NOI VOGLIAMO USCIRE DALL’EURO”

Ottobre 16th, 2022 Riccardo Fucile

E RAMPELLI RIMEDIA UNA BRUTTA FIGURA

Di fronte alla lacerazione dei rapporti tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, il colonnello di Fratelli d’Italia, Fabio Rampelli, chiede di separare i piani: «C’è una questione di carattere politico, nella frase con cui Giorgia Meloni ricorda di non essere ricattabile, e ce n’è una che attiene alla categoria dei rapporti umani e personali».
Due fili dello stesso groviglio, prosegue Rampelli intervenendo ad HuffPost Day, a Roma, «ma per primo va risolto il nodo politico, perché è quello che interessa al Paese».
Meloni e Berlusconi «si vedranno o sentiranno a breve» – è l’augurio di Rampelli – per compiere un primo tentativo di disgelo. La chiave va cercata nel mosaico di ministeri da spartire. Non a caso, quando viene toccato l’argomento, lo storico esponente romano di FdI invita alla massima prudenza: «La costruzione di un accordo è un’operazione che va fatta con sobrietà. Se qui ci mettessimo a discutere di eventuali nomi e cognomi di chi potrebbe assumere cariche di governo, tra due ore esploderebbe tutto per aria». E anche per questo, nella costruzione della «squadra di governo – assicura – si terrà conto della rappresentatività dei partiti alleati».
Insieme a Rampelli sul palco ci sono anche il leader di Azione, Carlo Calenda, il giornalista Alessandro Giuli e il direttore di questo giornale, Massimo Giannini. Con il vicedirettore di HuffPost, Alessandro De Angelis, a moderare il confronto e ad arbitrare, a tratti, quello che diventa un duello tra Rampelli e Calenda.
A scatenare la reazione più forte del neo-senatore di Azione è la frase con cui Rampelli ammanta di europeismo la storia di Meloni: «La sua ricetta dice che ci vuole più Italia e più Europa, non meno Europa». Calenda non si tiene più.
Definisce «ridicola» l’opera di Meloni di riverniciatura delle proprie posizioni, ora che è al governo: «Dall’opposizione diceva “affondate i barconi” e ora sembra Adenauer. Hai un po’ la memoria selettiva: l’unica cosa che non hai nominato è quando Meloni voleva uscire dall’euro».
Il deputato di FdI ribatte piccato: «Non ha mai detto di voler uscire dall’euro. Mai! È la terza volta che dici una cosa campata per aria». Calenda sbotta: «Ci sono i video in rete di lei che lo dice. Scommetti? Vuoi scommettere?».
Tira fuori dalla tasca lo smartphone e lo mostra in segno di sfida a Rampelli: «Te lo ripubblico tra due minuti sui social, così fai l’ennesima figura barbina. Incredibile. Ora mi dirai che leggeva Gramsci!».
Il deputato di FdI prova a tenere botta: «Lo ha letto. Noi leggiamo anche autori non nostri».
A questo punto il leader di Azione alza le mani in segno di resa, ma non si arrende neanche per sogno. Vuole avere la parola finale sulla contesa: «Che la Meloni sia europeista, è l’ultima metamorfosi prima della beatificazione». E giù dal palco, compiaciuto
(da la Stampa)

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MA CHE ERRORE DI INGENUITÀ, BERLUSCONI CONOSCE BENE LE PROSPETTIVE DELL’AULA E CON IL SUO PIZZINO A GIORGIA MELONI SI È MESSO A FAVOR DI TELECAMERA

Ottobre 16th, 2022 Riccardo Fucile

NELLA STORIA PARLAMENTARE, DA COSSIGA A MARIO MONTI, IN TANTI HANNO FATTO UN USO STRATEGICO DEL PIZZINO PARLAMENTARE

In fondo sono finestre sulla nostra anima, i pizzini: lasciate aperte talvolta per sbaglio, talaltra proprio perché ci si guardi dentro. E certo fa molta differenza politica stabilire se i cinque punti di censura vergati da Berlusconi contro Giorgia Meloni e lasciati lì, in quel foglio pasticciato sul banco del Senato in favore di zoom fotografico, siano sfuggiti al suo ego ammaccato o siano, com’è più plausibile, un deliberato preavviso di divorzio esibito urbi et orbi.
Ma, di sicuro, sono già una crepa nell’epica forzista: perché datano senza pietà il nostro eroe che, tre legislature fa, nel 2008, all’apice del successo politico e di una ritrovata effervescenza emotiva, era estensore di ben altri messaggi alle colleghe in piena seduta parlamentare: «Care Nunzia e Gabry, state molto bene insieme! Grazie per restare qui ma non è necessario. Se avete qualche invito galante per colazione vi autorizzo ad andarvene… molti baci a tutte e due!!!», scriveva, sottolineando la parola «autorizzo» e firmandosi «il vostro presidente».
Chissà se un po’ di quella strategia da attempato sciupafemmine avrebbe alleviato o aggravato la crisi nel nuovo centrodestra di governo. La storia della nostra Repubblica — prima , seconda o terza che sia — è comunque costellata da pezzetti di carta, coriandoli di trattative e minacce, amori e rancori, che passano di mano in mano, suscitando curiosità, polemiche, talvolta sorrisi.
Clemente Mastella ne ricorda una precisa liturgia che poteva costituire notizia in sé: «Tu davi il biglietto al commesso e tutti nell’emiciclo ne seguivano con lo sguardo il percorso per scoprire il destinatario e da lì il senso politico eventuale. Cossiga era un grande estensore di pizzini. Anche Andreotti lo era».
Il Picconatore si dilettava a distribuire salaci commenti durante i fluviali interventi di Romano Prodi, strappando un sorriso perfino al prodianissimo Parisi (ma non a D’Alema, che alla lettura pare non facesse vibrare nemmeno un pelo del baffo). Persino per il Divo scudocrociato non tutto era politica politicante. Se ne ricordano sulfurei messaggi su Emma Bonino, «metà Giovanna D’Arco e metà Vispa Teresa» e irridenti bigliettini a Ingrao per gli scarsi voti raggranellati dal Pci nel suo paese natale, Lenola: 7 su 3000!
Mutuati dal codice di comunicazione mafioso («carissimo Zio», scrivevano i picciotti a Binnu Provenzano ricevendone ordini segreti sui pezzetti di carta, pizzini in siciliano, appunto), nell’elusivo gergo della politica questi sussurri d’inchiostro hanno subìto spesso un rovesciamento di senso. Si nasconde per mostrare, magari senza assumersene diretta responsabilità. «Nel caso di Berlusconi e Meloni non ci sono dubbi, il pizzino era in favore di telecamera», ridacchia Claudio Velardi, altro navigatore di lungo corso in questi mari: «Ma talvolta è frutto di ingenuità».
Caso di scuola, manco a dirlo, è Enrico Letta che, assai prima di scoprirsi occhi di tigre prese un notevole abbaglio esponendosi in un sostegno a Monti degno di un’accaldata cheerleader: «Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile dall’esterno. Sia ufficialmente (Bersani mi chiede di interagire per la questione dei vice) sia riservatamente. Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono!».
Si era nel novembre del 2011 e il professore in loden, appena nominato premier tecnico con l’incarico (consueto) di salvare l’Italia, lesse il biglietto in favore di fotografi, forse per inesperienza, forse per malizia. E Letta, allora numero due del Pd, fu sommerso dagli aspiranti viceministri: «Aiuto! Mai più letterine in vita mia», giurò sui social.
Berlusconi aveva pochi giorni prima concluso la sua ultima travagliata permanenza a Palazzo Chigi con un altro pizzino famoso, sugli «8 traditori» sfilatisi dalla maggioranza all’atto di votare per il Rendiconto generale dello Stato. Poiché alle nostre latitudini riusciamo spesso a rendere gravi le cose non serie e grottesche quelle serie, le incursioni fotografiche produssero una sorta di fatwa parlamentare contro i colleghi muniti di zoom o telecamera, con tanto di immancabile codice di autoregolamentazione. «Che davvero si tratti di pizzini è ora provato da questa voglia dilagante di proteggerli per regolamento», annotò Francesco Merlo su Repubblica.
E tuttavia tali reiterati tentativi di bavaglio liberticida non hanno mai funzionato davvero, come provano gli ultimi nostri giorni avvelenati. Anzi, questo nascondere per scoprire non fa altro che alzare la curiosità e la pressione politica sugli scritti galeotti o clandestini dei nostri rappresentanti, come nella danza dei sette veli, che per gli anglosassoni ha assunto anche il senso di metafora della rivelazione graduale, di spogliarello dell’informazione.
«Una volta, finite le riunioni, i cronisti si mettevano a frugare nei cestini. Le notizie erano lì, nei pizzini incautamente gettati via», ricorda Velardi. E sugli alberi c’erano ancora le sorbe… Ma quando Renzi, da premier, provò a circuire un Di Maio ancora in modalità vaffa («Scusa l’ingenuità, caro Luigi,ma è impossibile confrontarsi? Giusto per capire, voi fate sempre così?»), quello mise tutto su Facebook, chiosando: «Basta con questi biglietti berlusconiani, ci vediamo alla prova dei voti, davanti al Paese intero». Otto anni dopo, «Giggino» è fuori dal Parlamento e i pizzini del Cavaliere ancora ci fanno battere il cuore.
(da Il Corriere della Sera)

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LO SFOGO DI PAOLA EGONU DOPO GLI INSULTI RAZZISTI: “PERCHE’ IN NAZIONALE DEVO RAPPRESENTARE PERSONE DEL GENERE? SUONAVA L’INNO NAZIONALE E IO PIANGEVO”

Ottobre 16th, 2022 Riccardo Fucile

UN PAESE RAZZISTA E INGRATO, DOVE LA FECCIA RAZZISTA NON FINISCE MAI IN GALERA, NON LA MERITA, SOLIDALI CON LEI

Se la delusione delle azzurre della pallavolo femminile ai Mondiali per la sconfitta in semifinale contro il Brasile è stata in parte rimarginata dal trionfo contro gli Stati Uniti nella finale per il terzo posto, è anche vero che la giornata di ieri verrà ricordata soprattutto per la rabbia della schiacciatrice Paola Egonu, che a fine partita si è lasciata andare ad uno sfogo che testimonia a quanto dolore, rabbia e frustrazione si possa condannare una fuoriclasse, pur sempre 23enne, quando le si rivolgono vergognose considerazioni e commenti discriminatori.
Quando si vince, Egonu è tra le prime ad essere acclamate: con le sue schiacciate ha spesso e volentieri trascinato le azzurre verso la vittoria, risultando decisiva in parecchie occasioni (vedi i campionati Europei dell’anno scorso, la Nations League di tre mesi fa).
Ma quando si perde, ahimé. è sempre contro la veneta che si punta il dito. E gli haters non hanno mancato di farlo dopo la sconfitta in semifinale delle azzurre contro il Brasile, prendendo di mira Egonu con insulti odiosamente razzisti.
La 23enne si è sfogata ieri a bordo campo col suo procuratore: “Non puoi capire, non puoi capire – ha detto in lacrime – mi hanno chiesto anche se fossi italiana, questa è la mia ultima partita in Nazionale”.
Egonu ha poi parzialmente corretto quelle parole dette a caldo, d’impulso, spiegando che la sua sarà solo una pausa per ricaricarsi in vista di un ritorno in azzurro che avverrà auspicabilmente il prossimo anno. Nel dopo partita, la 23enne ha detto: “La prossima estate si vedrà, spero di ripensarci perché abbiamo ancora tanto da fare con questa Nazionale. A gennaio vi farò sapere”.
Poi, sugli insulti che le sono stati rivolti ha precisato: “Mi fa ridere pensare a persone che mi hanno chiesto perché sono italiana, mi chiedo perché con la maglia della Nazionale debba rappresentare persone del genere che mi scrivono queste cose – ha detto a Repubblica – io ci metto l’anima e il cuore, non manco mai di rispetto a nessuno e fa male”.
Adesso ad aspettare Paola Egonu c’è l’esordio col VakıfBank in Turchia: “Per questo vorrrei prendermi una pausa per riposare, mi farebbe piacere non fosse un addio, spero che venga capito. Non sarebbe una forma di mancanza di rispetto, ma un modo per prendermi una pausa per me stessa e tornare a dare il meglio in campo. C’è chi dice che non merito la Nazionale invece il mio sogno è essere sul podio con questa squadra”.
“Io un simbolo? – ha aggiunto – Ma quando questo simbolo non va bene è il primo che viene attaccato. Sono una persona umana che ha bisogno ogni tanto di riprendersi mentalmente, perché è dura. Non è stato semplice scendere in campo, suonava l’inno e piangevo, per il dolore ma anche per quanto sono ferita. E’ qualcosa che non si può condividere, solo noi quattordici sappiamo quanto abbiamo dato in campo, il resto del mondo non lo saprà mai”.
Quel che è certo è che l’Italia ha ancora bisogno di Paola Egonu. Ma, forse, è Egonu a non avere più bisogno di un Paese razzista e ingrato. Questo, in ultimo, è il significato del triste sfogo della giovane fuoriclasse.
(da agenzie)

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KIEV ALL’ASSALTO DELLE TRUPPE RUSSE IN RITIRATA: “VERSO LA LIBERAZIONE DELLA ZONA DI ZAPORIZHZHIA”

Ottobre 16th, 2022 Riccardo Fucile

L’AGGIORNAMENTO DEL SINDACO IN ESILIO DI MELITOPOL

Il sindaco in esilio di Melitopol, Ivan Fedorov, spiega che l’avanzata ucraina sta per riprendere il controllo dell’oblast in cui si trova la centrale nucleare più grande d’Europa. In quella zona le truppe russe avrebbero già dato fuoco ad alcuni depositi di munizioni
Le forze armate dell’Ucraina si starebbero preparando a liberare la parte occupata dall’esercito russo nella regione di Zaporizhzhia.
Questo è l’annuncio condiviso su Telegram dal sindaco di Melitopol in esilio, Ivan Fedorov. Nell’area dell’Ucraina sud-orientale, sede della centrale nucleare più grande d’Europa, le truppe di Mosca starebbero avendo la peggio, secondo quanto riporta Unian.
Fedorov riporta che non lontano da Gulyaipol le unità di Kiev hanno distrutto un deposito di munizioni, mentre a Tokmok, Pology, Kamianets-Dniprovska le truppe della Federazione stanno subito gravi perdite in termini di soldati ed equipaggiamenti. «Circa 100 occupanti sono stati colpiti nelle aree degli insediamenti di Orihiv, Kinsky Rozdory e Tokmak», scrive Unian citando Federov.
Sin dall’inizio dell’invasione, la città di Zaporizhzhia è stata al centro dello scontro tra le forze armate di Mosca e quelle di Kiev
(da agenzie)

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LA MINISTRA TECNICA PER CAMBIARE IL REDDITO DI CITTADINANZA: IL MINISTERO DEL LAVORO CHE NESSUNO VUOLE

Ottobre 16th, 2022 Riccardo Fucile

ORA NON SI ELIMINA PIU’, SI PUNTA ALLE “POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO”. COME SE BASTASSE CAMBIARE NOME PER CREARE OCCUPAZIONE VERA

Quello del ministero del Lavoro è uno di quei ruoli che nella trattativa tra i partiti di centrodestra non sembra essere il più richiesto.
Anzi, così come per il dicastero dell’Istruzione, dalla poltrona di via XX settembre i nomi più politici della coalizione vorrebbero restare lontani, considerando le non poche rogne a cui quel ministro sarà chiamato a risolvere, tra i sindacati in agitazione, la crisi economica pronta a esplodere e gli interventi inevitabili, soprattutto dopo le promesse in campagna elettorale, per modificare il Reddito di cittadinanza.
Per quel ruolo, scrive Franco Bechis su Verità e Affari, si farebbe sempre più insistente il nome di Marina Elvira Calderone. Sarebbe lei la soluzione «tecnica» di Giorgia Meloni, scelta per l’esperienza tecnica maturata in circa 18 anni alla guida dei consulenti del Lavoro.
Apprezzata da buona parte del centrodestra, Calderone era stata già in ballo per la presidenza dell’Inps nel Conte I. A lei dovrebbero essere affidati alcuni dei punti più spinosi che il nuovo governo dovrà affrontare.
A cominciare proprio dalla revisione delle regole del Reddito di cittadinanza, della cui abolizione lo stesso centrodestra quasi non parla più. Il suo compito sarà quello di trovare il modo per far partire davvero le politiche attive sul lavoro, dopo anni in cui il sussidio è rimasto monco e non quello strumento di inserimento per i disoccupati attraverso la formazione
I tre dossier economici urgenti
La squadra economica del prossimo governo dovrebbe completarsi con il leghista Giancarlo Giorgetti al Mef e il meloniano Guido Crosetto a dargli il cambio al Mise. È su di loro che Meloni fa affidamento per affrontare i mesi complicati dalle varie emergenze in corso, da quella energetica a quella economica. Su tutti, ci sarebbero tre dossier più urgenti, ricorda Bechis: un’altra proroga degli aiuti sulle bollette, in scia a quelli già decisi dal governo Draghi, con l’ipotesi di coprire almeno i prossimi tre mesi.
C’è poi la necessità di trovare fondi per coprire gli extra cosi legati all’inflazione sul bilancio dello Stato, con la spesa per i soli interessi salita a 30 miliardi. E non ultimo il tema delle pensioni, su cui sarà necessario trovare 20 miliardi per adequare gli assegni con l’ondata inflazionistica in corso. In più c’è da scongiurare il ritorno della legge Fornero, che dovrebbe tornare in vigore dal 1 gennaio 2023, con buona pace di quota 100 o 102.
(da Open)

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TAJANI VICEPREMIER E 4 MINISTRI A FORZA ITALIA

Ottobre 16th, 2022 Riccardo Fucile

LA TRATTATIVA PER I POSTI AL GOVERNO

La trattativa tra FdI e il partito di Silvio Berlusconi prosegue su almeno cinque figure che potrebbero riportare la pace nella coalizione. Ma resta ancora da risolvere il pressing sul dicastero della Giustizia chiesto dall’ex premier per Elisabetta Casellati
La base su cui costruire un possibile accordo nel centrodestra per la formazione del nuovo governo passerebbe da un punto fermo su Antonio Tajani come vice premier di Giorgia Meloni e la concessione di almeno 5 ministeri per Forza Italia.
In attesa che la leader di FdI e Silvio Berlusconi si rivedano per ricucire lo strappo degli ultimi giorni partito dagli appunti del Cav al Senato e finito in avvertimenti e minacce incrociate, secondo il Corriere della Sera la trattativa tra i partiti di centrodestra per il prossimo esecutivo procede, per quanto a fatica, verso una mediazione che dovrebbe accontentare le ambizioni di tutti, o almeno buona parte di queste.
Se sul fronte leghista, la trattativa con FdI sembra aver trovato una quadra, è con Forza Italia che i nodi devono essere ancora formalmente sciolti.
Nelle ultime ore sarebbe caduto il veto che dal partito di Meloni veniva agitato contro i senatori forzisti che non avevano votato a sostegno di Ignazio La Russa al Senato. Una minaccia svanita, spiega il Corriere della Sera, con l’apertura della leader di FdI al possibile ingresso al governo di figure come Anna Maria Bernini ed Elisabetta Casellati.
Se per la prima ci sarebbe l’ipotesi del ministero dell’Istruzione, per l’ex presidente del Senato le possibilità di ottenere il dicastero della Giustizia appaiono sempre più lontane, nonostante l’insistenza di Berlusconi.
In quel ruolo Meloni punterebbe sull’ex magistrato Carlo Nordio. A chiudere il possibile accordo c’è quindi il nome di Tajani, dato agli Esteri e con il ruolo di vice premier.
Le certezze per FdI
Tra le fila di FdI i nomi ormai stabili da giorni nei vari totoministri dei quotidiani dovrebbero trovare collocazioni ormai consolidate. A cominciare dal consigliere più vicino in questa fase a Meloni, Giovanbattista Fazzolari, che dovrebbe diventare sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Fabio Rampelli andrebbe a prendere il posto di Roberto Cingolani alla Transizione ecologica, Raffaele Fitto andrebbe agli Affari europei e Adolfo Urso alla Difesa. Le indiscrezioni degli ultimi giorni indicano poi Guido Crosetto verso il ministero dello Sviluppo economico.
I leghisti al governo
Proprio dal Mise dovrebbe traslocare il leghista Giancarlo Giorgetti, sempre più confermato per l’Economia. Il prefetto di Roma ed ex capo di gabinetto di Salvini, Matteo Piantedosi, andrebbe al Viminale, portando così il leader della Lega alla guida del ministero delle Infrastrutture, oltre che al ruolo di vice premier. Resta in ballo invece la scelta del ministro della Famiglia, su cui circolano i nomi di Isabella Rauti per FdI e Simona Baldassare per la Lega. Al Carroccio andrebbe poi la scelta del ministro per l’Agricoltura e anche per la delega alla Disabilità, su cui si fa il nome di Alessandra Locatelli.
(da Open)

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PRIMA GLI AFFARI E POI LA DIGNITA’: MARINA BERLUSCONI IN MISSIONE AD ARCORE PER “FERMARE” BERLUSCONI

Ottobre 16th, 2022 Riccardo Fucile

IL PRESSING DELLA MELONI SUI FIGLI DEL CAV PER RITORNARE A TRATTARE

Da giorni la leader di FdI avrebbe tentato di mandare all’ex premier segnali distensivi attraverso l’ad di Mediaset Pier Silvio Berlusconi. Ma dopo lo strappo al Senato, è stata la presidente di Mondadori a cercare di convincere il padre a trovare un accordo sul prossimo governo
Una possibile ricucitura tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni potrebbe arrivare già domani, sempre che il leader di Forza Italia alla fine dia ascolto a chi, tra i suoi figli maggiori e i consiglieri più vicini – in testa l’ex sottosegretario Gianni Letta e l’amico di sempre Fedele Confalonieri – da ore provano a spingerlo per trovare con la leader di FdI un accordo «il meno doloroso possibile» per Forza Italia.
Come racconta il retroscena sul Corriere della Sera di Francesco Verderami, tra i pontieri in campo ci sono anche, e forse soprattutto, i figli del Cav, a cominciare dalla presidente di Fininvest e Mondadori, Marina Berlusconi, che dopo lo strappo degli appunti al Senato avrebbe raggiunto il padre ad Arcore per portarlo a interrompere il clima di guerriglia scoppiato durante le elezioni dei presidenti delle Camere per la formazione del nuovo governo.
L’appello di Marina e Pier Silvio Berlusconi
Sarebbe stata proprio Meloni a ricorrere ai canali famigliari sentendo per due volte l’ad di Mediaset Pier Silvio Berlusconi, perché portasse il messaggio di pace al padre, assicurandogli che dietro i No piombati nella trattativa per la scelta dei ministri non ci fossero questioni personali. L’ex premier però in entrambe le occasioni non avrebbe voluto seguire il consiglio del figlio. Così si è arrivati allo scontro al Senato, finito male per Forza Italia che non è riuscita a frenare l’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza, al vaffa intercettato davanti allo stesso neo presidente di palazzo Madama, quindi gli appunti impietosi contro la leader di FdI e quel «non sono ricattabile» che sembrava aver portato il centrodestra a un passo dall’implosione.
L’appello di Marina Berlusconi al padre, incontrato ieri 15 ottobre ad Arcore, è stato chiaro e perentorio: «Fermati», gli avrebbe detto su tutte le furie. E non solo per i motivi di natura imprenditoriale e politica che Pier Silvio aveva più volte sollevato nei colloqui inascoltati col padre, ma per il «dolore» di vedere suo padre trattato come un anziano ormai senza più autonomia decisionale, in barba a tutto quello che è stato e ha provato a rappresentare nella sua storia.
I nodi sui ministri
Lo stallo dovrebbe risolversi nel giro di 24 ore, durante le quali però, scrive La Stampa, il Cav si aspetta delle scuse da parte di Meloni, da cui intanto sarebbero arrivati attraverso i pontieri tra Forza Italia ed FdI messaggi di disponibilità a trovare una mediazione, evitando prove di forza. Sul tavolo restano ancora nodi importanti da sciogliere, a cominciare dall’ambizione di Berlusconi di ottenere il ministero della Giustizia. Ma su quel nome Meloni avrebbe intenzione di indicare l’ex magistrato Carlo Nordio. E poi c’è il veto di fatto su Licia Ronzulli, su cui la leader di FdI non pare intenzionata a fare alcun passo indietro.
(da agenzie)

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“QUELLO DI SALVINI È UN PARTITO PERSONALE. PENSO A KIM JONG-UN”: LA RIUNIONE DEI FEDELI ALLA VECCHIA LEGA NORD

Ottobre 16th, 2022 Riccardo Fucile

“QUALCUNO PENSAVA DI CONQUISTARE IL SUD E INVECE HA PERSO IL NORD”

Vogliono riprendersi la Lega Nord. Quella dell’Alberto da Giussano con lo spadone. Quella che prima viene la Padania e poi il resto si vedrà. Quella dove le parole d’ordine sono autonomia, federalismo e magari pure secessione. Citano Gianfranco Miglio e Carlo Cattaneo.§
Si sono radunati ieri mattina nella pizzeria “Da Sebastian” di Biassono, tra Monza e Arcore, fra bandiere della Catalogna e della Scozia, biglietti con la scritta “Per il Nord! Riparte la battaglia!” e una accurata selezione di foulard e cravatte verdi. Sono poco meno di duecento: molti lombardi e piemontesi, pochissimi veneti, qualcuno arrivato dal Trentino e dall’Emilia.
Della “Lega per Salvini premier” che ha ottenuto l’8,9% alle ultime politiche ma che è comunque riuscita a portare a Roma 95 parlamentari, a conquistare la presidenza della Camera con Lorenzo Fontana e che ora spera di guadagnare anche 5 o 6 ministeri, dicono di interessarsi poco o nulla.
«La Lega per Salvini premier non ci rappresenta – chiarisce Gianni Fava, mantovano, ex colonnello della segreteria targata Roberto Maroni e sfidante di Matteo Salvini all’ultimo congresso -. Hanno eletto Fontana a Montecitorio? La cosa non ci appassiona. Io sono ancora iscritto al vecchio partito, quello che oggi hanno ridotto a una bad company commissariata. Chiedo semplicemente che ci facciano fare un congresso, come d’altronde prevede lo statuto, e che ci siano regole democratiche. Faremo tutti i tentativi possibili per riavere il simbolo che ci unisce».
Ci sono gli autonomisti della Rete 22 ottobre, i rappresentanti di Grande Nord e quelli di “Autonomia e libertà”, l’associazione dell’ex ministro Roberto Castelli («assente giustificato»), un paio di esponenti di Italexit ma soprattutto decine di storici militanti come Roberto Gremmo, fondatore a cavallo fra gli anni ’70 e ’80 dell’Union Piemontèisa.
Si aggirano «con curiosità, solo per ascoltare, senza commettere atti impuri» anche gli attuali consiglieri regionali lombardi Federico Lena e Antonello Formenti. Assenti invece Paolo Grimoldi e Angelo Ciocca, i due “scout” a cui Umberto Bossi ha affidato il compito di organizzare il suo Comitato Nord rimanendo però all’interno del partito salviniano.
Operazione che a Biassono viene bollata come una manovra di autoconservazione o un tentativo di sopire il malumore. «Qualcuno pensava di conquistare il Sud e invece ha perso il Nord – dice Matteo Brigandì, ex avvocato del Senatur, ex deputato ed ex membro del Csm -. Il massimo che può fare oggi è elemosinare la guida di Veneto e Lombardia se Meloni vorrà concedergliele. Altrimenti chi ha preso più voti governerà anche lì».
«Quello di Salvini è un partito personale, quando vedo i suoi eletti che lo applaudono penso alle parate di Kim Jong-un – rincara la dose Davide Boni, ex presidente del consiglio regionale lombardo -. Dicono che faranno i congressi ma mi devono spiegare come troveranno uno sfidante. C’è il cognome di Salvini nel simbolo. Come la risolvono? Chiedono a un cugino?».
(da La Stampa)

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LEGA NORD, L’ASSEMBLEA DEGLI EX PARLAMENTARI E MILITANTI: “RIPRENDIAMOCI IL SIMBOLO, IL PARTITO DI SALVINI E’ UNA NUOVA DC”

Ottobre 16th, 2022 Riccardo Fucile

“VOTARE LA NUOVA LEGA DI SALVINI? PIUTTOSTO MI TAGLIO I COGLIONI”… “PRESIDENZIALISMO? IN UN PAESE COME IL NOSTRO DOVE LA GENTE SCEGLIE IL PIU’ COGLIONE?”

I fazzoletti, i foulard e le felpe verdi con il sole delle Alpi, i gonfaloni delle Leghe regionali, la bandiera con la croce rossa e Alberto da Giussano.
È una micro-Pontida d’altri tempi quella andata in scena in un ristorante di Biassono, in Brianza, dove quasi duecento “nostalgici” della Lega Nord si sono riuniti in un’assemblea (“Per il Nord! Riparte la battaglia!”) organizzata dagli ex deputati Gianluca Pini e Gianni Fava (che fu lo sfidante di Salvini alle primarie del 2017).
Quasi nessuno ha votato la “nuova” Lega fondata dal Capitano nel 2019, quasi tutti si sentono orfani di rappresentanza: tanti però hanno ancora in tasca la tessera del vecchio partito, congelato e commissariato, che sognano di rivitalizzare con un congresso (o addirittura fondando un nuovo soggetto).
Si va dai semplici militanti alle vecchie prime file: ci sono l’ex presidente del Consiglio regionale lombardo Davide Boni, lo storico avvocato della famiglia Bossi Matteo Brigandì, ex parlamentari (anche della prima Repubblica) come Bruno Matteja, Luigi Roscia, Fabio Meroni.
Oltre a nomi un tempo pesanti, come Roberto Castelli e Giacomo Stucchi, che hanno aderito all’iniziativa pur non potendo partecipare in presenza. Si fanno vedere anche due consiglieri regionali lombardi in carica, Federico Lena e Antonello Formenti, che pur da iscritti alla Lega per Salvini premier dicono di stare alla finestra in attesa di ciò che si muoverà sul fronte autonomista (e ammettono di rischiare la “scomunica” da parte del segretario). “I partiti con i nomi non mi hanno mai convinto…”, dice Formenti.
“Votare la Lega di Salvini? Piuttosto mi taglio i coglioni“, sintetizza Brigandì, in Parlamento dal 1994 al 2010 e tuttora tra gli uomini più vicini a Umberto Bossi.
“Voglio vedere se c’è spazio per tornare a quella Lega che sfiorava il 10% solo con i voti padani. Ora Salvini l’ha portata sotto il 9% dicendo tutto e il contrario di tutto. Eravamo la locomotiva d’Italia, bisogna essere intelligenti per mollare la locomotiva e salire sull’ultimo vagone…”.
Anche Boni, già segretario provinciale di Milano, ha smesso di fare politica dopo la creazione della nuova Lega: “È un partito nazionalista, centralista, legato alle logiche di centrodestra. Noi eravamo abituati a Miglio, al federalismo, alla secessione… l’autonomia è un pannicello caldo. Dobbiamo tornare a fare il sindacato del Nord“.
Come già Fava, Pini e Castelli, anche lui si dichiara scettico sull’operazione “Comitato Nord”, la corrente autonomista interna alla “nuova Lega” attribuita al Senatùr e affidata ad Angelo Ciocca e Paolo Grimoldi: “È una manovra di autoconservazione. A Bossi continuano a dire che può riprendersi la Lega, ma non è così”.
Gli strali verso la svolta nazionalista si ritrovano in quasi tutti gli interventi. “Il nostro vecchio movimento è solo archiviato, congelato: è casa nostra e dobbiamo riprendercela. Chi ha dato la sponda alla sua degenerazione non può più avere un futuro con noi”, attacca Roberto Stefanazzi, ex “barbaro sognante” e storico dirigente del varesotto. “Dobbiamo parlare di cose concrete, dell’autonomia delle nostre regioni e dell’indipendenza del futuro della Padania: basta battaglie sui temi etici o altri terreni che non ci appartengono”.
Alessandro Sarasini, sindaco del piccolo comune di Commessaggio (Mantova), chiede aiuto: “Non voglio tornare ad annullare la scheda alle prossime elezioni perché non c’è nessuno che mi rappresenta”.
Le conclusioni toccano a Fava, diventato in questi anni il riferimento ideologico di chi non si è mai rassegnato al commissariamento della Lega Nord: “Voglio un luogo dove poter esprimere le mie idee, perché io alla nuova Democrazia cristiana non sono interessato”, esordisce. “Vogliamo un movimento post-ideologico, che se ne infischia della destra e della sinistra”.
E in questo senso traccia un “programma” che è assai distante da quello dei “cugini” salviniani: “Sul fine vita sono convinto che il cittadino si debba autodeterminare e nessuno può decidere per lui, meno che mai lo Stato”, dice tra gli applausi.
Poi: “Nel contesto occidentale c’è l’Europa, che ci piaccia o no, perché l’alternativa all’Europa è l’Africa, e io non voglio guardare all’Africa”. E ancora: “Il presidenzialismo fa una paura terribile declinato in un Paese come questo, dove normalmente la gente sceglie il più coglione“. E la sala scoppia in un boato non casuale.
(da agenzie)

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