Dicembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
DELLA SERIE: DECIDA LA POLITICA MA ASCOLTANDO LA SCIENZA E NON GLI SVALVOLATI
Sebbene sia riluttante a usare l’abusata espressione “sembra ieri”, mi sento
così nel momento in cui mi accingo a lasciare l’Istituto nazionale di sanità dopo oltre cinquant’anni.
Ripensando alla mia carriera, mi rendo conto che alcuni insegnamenti potrebbero tornare utili agli scienziati e agli operatori sanitari della prossima generazione che saranno chiamati ad affrontare e risolvere le sfide più impreviste di sanità pubblica che inevitabilmente si presenteranno.
A 81 anni ricordo ancora distintamente la prima volta in cui, nel luglio 1968, arrivai in auto nel bucolico campus del Nhi (National Health Institute, Istituto sanitario nazionale) di Bethesda, in Maryland, da neo-medico ventisettenne che aveva appena completato la specializzazione a New York City. All’epoca avevo una motivazione e una passione divoranti, volevo diventare il medico più esperto possibile, dedito a offrire le cure migliori ai miei pazienti.
Tutto ciò è ancora parte integrante della mia identità, naturalmente, ma all’epoca non mi resi conto di quanto alcune circostanze impreviste avrebbero influenzato profondamente la direzione della mia carriera e della mia vita. Molto presto, infatti, avrei imparato ad aspettarmi l’inaspettato.
Condivido qui la mia storia, fatta di amore per la scienza e la scoperta, nella speranza di ispirare la prossima generazione che entrerà a fare carriera in campo sanitario e di aiutarla a mantenere la rotta, a prescindere dalle sfide e dalla sorprese che dovessero presentarsi.
Fu durante il periodo della mia specializzazione che rimasi affascinato per la prima volta dall’interazione delle malattie infettive e dell’immunologia umana, nascente relativamente da poco ma già fiorente. Mentre mi prendevo cura di molti pazienti con infezioni comuni ma anche misteriose, divenne chiaro che i medici e gli altri operatori sanitari avevano bisogno di maggiori strumenti per effettuare diagnosi, prevenire e curare le malattie.
Per far confluire questi interessi, accettai una borsa di studio presso l’Istituto nazionale di Allergologia e di Malattie infettive dell’Istituto sanitario nazionale, per imparare le complesse modalità con le quali le cellule e altri componenti del sistema immunitario ci proteggono dalle malattie infettive. Così facendo, avrei seguito la tradizione del Nih della ricerca dal lavoro sperimentale alla pratica clinica, trasformando in cure le scoperte di laboratorio e, viceversa, portando in laboratorio le intuizioni dedotte durante la pratica clinica per migliorare la ricerca scientifica.
Malgrado non avessi alcuna preparazione pregressa nella ricerca scientifica di base, rimasi inaspettatamente colpito e conquistato dalle potenzialità che tutto questo aveva ai fini della possibilità di fare scoperte che avrebbero apportato benefici non soltanto ai miei pazienti, ma anche a un numero incalcolabile di altre persone che non avrei mai conosciuto e tanto meno curato direttamente come loro medico.
Quella nuova passione per il lavoro rappresentò una sfida enorme per i miei piani ben delineati di pratica medica. Alla fine, scelsi di seguire entrambe le strade: diventare un ricercatore e anche un medico che curava pazienti presso l’Istituto nazionale di sanità dove lavoravo fin dall’inizio.
Si possono effettuare molte scoperte in laboratorio e in ospedale, anche quando meno ce lo si aspetta. All’inizio della mia carriera, fui in grado di mettere a punto alcune terapie molto efficaci per un gruppo di malattie fatali dei vasi sanguigni denominate vasculiti.
Pazienti, che in caso contrario sarebbero deceduti, riuscirono invece a guarire sul lungo periodo grazie ai protocolli terapeutici che avevo sviluppato. Il mio futuro sembrava pertanto ben delineato: avrei trascorso la mia vita a lavorare su condizioni correlate a un’attività anomala del sistema immunitario.
Poi, nell’estate del 1981, i medici e i ricercatori si accorsero di una malattia misteriosa che si andava diffondendo perlopiù tra giovani uomini che avevano rapporti sessuali con altri uomini.
Quella condizione così insolita, che sarebbe diventata poi nota con il nome di H.I.V./AIDS, mi affascinò per il suo decorso insolito. Suo segno distintivo era la distruzione completa o la compromissione delle cellule del sistema immunitario di cui il corpo necessita per difendersi.
Inoltre, provai una forte empatia per quei gay, perlopiù giovani uomini che venivano già stigmatizzati e a quel punto lo diventarono doppiamente, perché la malattia ne consumava i corpi, derubandoli della vita e dei sogni.
Con grande sgomento di amici e mentori che ritenevano che avrei mandato in cortocircuito una carriera in ascesa, pur andando contro il loro parere decisi di modificare radicalmente la direzione della mia ricerca. Da quel momento in poi mi sarei dedicato alle ricerche sull’AIDS, prestando cure a quei giovani presso gli ospedali del Servizio sanitario nazionale e continuando a indagare e scoprire i misteri di quella nuova malattia nel mio laboratorio – ricerca che continuo a portare avanti da oltre quarant’ anni.
Non ho mai aspirato a una posizione amministrativa di primo piano e ho avuto a cuore la mia identità di medico e di ricercatore clinico dall’approccio diretto. Tuttavia, all’inizio degli anni Ottanta rimasi particolarmente deluso dalla relativa mancanza di attenzione e di risorse destinate allo studio dell’H.I.V./Aids.
Ancora una volta mi si presentò un’occasione imprevista quando mi fu chiesto di guidare il Servizio sanitario nazionale: accettai, a condizione di poter continuare a curare i miei pazienti, oltre che dirigere le ricerche di laboratorio. Quella decisione impresse una svolta alla mia carriera e mi aprì l’opportunità di influenzare positivamente la medicina e la sanità globale come non avrei mai immaginato.
Nel corso dei 38 anni che ho trascorso da direttore dell’Istituto nazionale di allergologia e di malattie infettive (NIAID), a partire dalla presidenza di Ronald Reagan sono stato consigliere di sette presidenti americani. I nostri colloqui vertevano su come reagire all’H.I.V./AIDS e ad altre minacce come la febbre aviaria, gli attacchi con l’antrace, la pandemia di influenza del 2009, le epidemie di Ebola, Zika e Covid-19. Ai presidenti e agli altri funzionari di governo di alto grado ho sempre parlato con schiettezza, in modo nudo e crudo, anche quando la verità poteva risultare scomoda o politicamente sconveniente, perché quando la scienza e la politica lavorano a braccetto possono accadere cose straordinarie.
Alla metà degli anni Novanta, fu dimostrata la sicurezza e l’efficacia di alcuni antivirali salvavita nei casi di H.I.V., studiati perlopiù nel corso di ricerche sostenute dal NIAID. Quegli antivirali divennero disponibili negli Stati Uniti nel 1996. Alla svolta del XXI secolo, le persone in grado di accedere a quei farmaci poterono aspettarsi una durata della vita pressoché normale.
Per le persone che vivevano nell’Africa subsahariana e in altre regioni a basso e medio reddito, invece, l’accesso a quelle terapie in pratica fu inesistente. Spinto da una compassione ben radicata nel suo animo e dal desiderio di uguaglianza sanitaria globale, il presidente George W. Bush mi impartì l’ordine, insieme ai membri del mio staff, di mettere a punto un programma che potesse far pervenire quei farmaci e altre cure a chi viveva nei Paesi con scarse risorse e alti livelli di incidenza dell’H.I.V.
Poter essere l’artefice di quello che sarebbe diventato il Programma di sostegno all’Aids del Piano di emergenza del presidente, che salvò 20 milioni di vite in tutto il pianeta, è stato il massimo privilegio e l’onore della mia vita. Tale piano è un esempio di quello che è possibile realizzare quando i policymaker aspirano a eccelsi risultati con il sostegno della comunità scientifica.
Se il primo risultato della mia carriera al Servizio sanitario nazionale fu il contrasto dell’H.I.V./AIDS, quello più recente è relativo al Covid-19. Questa pandemia non era del tutto inattesa, poiché lungo tutta la storia sono emerse sempre malattie infettive che hanno messo in pericolo il genere umano, ma alcune di esse riescono anche a trasformare le civiltà. Il Covid-19 è la pandemia della malattia respiratoria più devastante che abbia mai colpito l’umanità dalla pandemia influenzale del 1918. E c’è ancora molto da imparare dall’esperienza ancora in corso con il Covid-19.
Gli Stati Uniti devono tenere a mente quanto sia importante investire di continuo nella ricerca clinica biomedica e di base. I più importanti successi della pandemia da Covid-19 sono stati assicurati dai progressi scientifici, in particolare dai vaccini salvavita che sono stati messi a punto, e la cui sicurezza ed efficacia è stata dimostrata nelle sperimentazioni cliniche, per essere poi messi a disposizione dell’opinione pubblica in un solo anno, impresa senza precedenti.
Altre lezioni che abbiamo tratto sono dolorose, come il fallimento di alcune reazioni di politica sanitaria a livello interno e globale. Peraltro, dobbiamo anche ammettere che la nostra battaglia contro il Covid-19 è stata ostacolata dalla profonda spaccatura politica insita nella nostra società. Le decisioni di alcune misure di sanità pubblica, come l’uso delle mascherine e le vaccinazioni con vaccini molto efficaci e sicuri, sono state influenzate, come non avevamo mai visto in precedenza, dalla disinformazione e dall’ideologia politica
Garantire che le decisioni ufficiali di politica sanitaria siano trainate dai migliori dati disponibili è una responsabilità collettiva. Gli scienziati e gli operatori sanitari possono fare la loro parte, spiegando, parlando, includendo informazioni su nuovi e vecchi media, condividendo e illustrando con un linguaggio chiaro e accessibile le ultime scoperte scientifiche e quello che resta ancora da scoprire.
Se ripenso a quel giovane ventisettenne arrivato al campus dell’Istituto Nazionale di Sanità nel 1968, mi sento onorato dall’enorme privilegio di aver potuto servire il popolo americano e i cittadini di tutto il mondo. Ho provato una gioia enorme e ho tratto grandi vantaggi dalla possibilità di formarmi e apprendere da centinaia di medici brillanti e appassionati, da scienziati e membri degli staff di supporto nel mio laboratorio, negli ospedali dell’Istituto Nazionale di Sanità, nelle divisioni di ricerca del NIAID, da collaboratori locali e internazionali di ricerca.
Guardando avanti, confido nel fatto che le prossime generazioni di giovani medici, scienziati e operatori del servizio sanitario pubblico possano sperimentare lo stesso entusiasmo e il medesimo senso di appagamento che ho provato io, quando dovranno soddisfare l’immensa necessità di mantenere, ripristinare e proteggere con la loro competenza la salute di tutto il genere umano nel mondo e dimostrarsi all’altezza delle sfide sempre impreviste che inevitabilmente dovranno affrontare durante il loro lavoro.
Anthony Fauci
per “The New York Times” pubblicato da “La Stampa”
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Dicembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
CONTINUANO GLI SGARBI DELLA PITONESSA VERSO IL SUO PREDECESSORE
Alla fine non s’è trattenuto, e l’insofferenza verso chi ha preso il suo posto l’ha sfogata su Twitter. E così Massimo Garavaglia, leghista tutto d’un pezzo, ha rilanciato un post del suo ex ministero, quello del Turismo, in cui si riportavano le parole di Daniela Santanchè: “Ho l’ambizione di rendere il turismo la prima azienda italiana, non solo a parole come è stato fatto fino ad adesso”.
Al che, la replica di Garavaglia: “Potrebbe sembrare un attacco al ministro precedente. Dal ministero del Turismo direttamente”.
Se domenica non è riuscito a trattenersi, il senatore del Carroccio, è perché quel post sui social è solo l’ultimo sgarbo che ritiene d’aver subito da Santanchè.
A inaugurare il dissidio tra i due è stata la scelta, da parte della nuova ministra, di rimuovere d’imperio dalla guida dell’Agenzia nazionale del turismo (Enit) quella Roberta Garibaldi, docente universitaria a Bergamo e ora vice presidente comitato Turismo dell’Ocse, nominata da Garavaglia soltanto a ottobre 2021, e subito silurata per far posto alla carneade Ivana Jelinic. E anche qui, i toni furono non troppo garbati: “L’Enit è un pesce che puzza dalla testa”, scappò alla Santanchè, che dunque imputò il fetore proprio a Garavaglia.
Almeno una telefonata, uno scambio di pareri sul rinnovo del gabinetto, la grammatica del passaggio di consegne, che diamine. Niente. E anzi, col ministro assai spesso a Milano, gli uffici del ministero del Turismo rispondono, a quanto pare, soprattutto all’attivismo di quel Gianluca Caramanna, deputato patriota e responsabile del settore di FdI, tedesco di nascita e romano d’adozione, che a maggio scorso, durante la conferenza programmatica del partito a Milano, diceva così: “Questo governo non fa nulla per il turismo, che è il motore della nostra economia”. Il ministro era Garavaglia.
(da il Foglio)
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Dicembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
DOPO LA NIPOTE E LA SORELLA ECCO CHE ARRIVA UN ALTRO NIPOTE, MAHMOUD MORADKHANI (CHE VIVE A LONDRA) A RANDELLARLO: “IL REGIME È DESTINATO A CADERE, SONO ANNI CHE ASPETTIAMO. LA GENTE CHE MANIFESTA NON HA PIÙ PAURA”
L’ultima volta che Mahmoud Moradkhani ha incontrato la Guida Suprema
dell’Iran Ali Khamenei, suo zio, era il 1984. «La mia famiglia gli chiese un’autorizzazione ufficiale per lasciare il Paese ma ce la rifiutò», ricorda il dottore, che oggi è otorinolaringoiatra a Croix, piccolo comune nei pressi di Roubaix. Da quel giorno, le loro strade si sono separate, anche se Moradkhani ha continuato, seppur a distanza, a contestare il potere di Teheran. Come la madre Badri Hossein Khamenei, sorella dell’ayatollah.
Lei, sull’ottantina, è rimasta in Iran, dove nei giorni scorsi ha inviato una lettera aperta al fratello, schierandosi apertamente al fianco delle proteste. «Siamo sempre stati all’opposizione», dice il medico spiegando che il padre Ali, morto un paio di mesi fa, ha partecipato alla rivoluzione del 1979 per poi prenderne quasi subito le distanze: «L’ayatollah Khomeini lo considerava come un figlio» ma «dal punto di vista di mio padre la religione non sarebbe dovuto arrivare a governare».
Una storia di contestazione familiare lunga più di quarant’ anni, che negli ultimi mesi si è riaccesa con le manifestazioni scoppiate in tutto il Paese. E proprio nel clima di tensione che regna in questo momento in Iran è scattata la condanna a tre anni di prigione della sorella di Moradkhani, Farideh, che in un video aveva attaccato il regime seguendo l’esempio della madre. Per questo quando gli viene chiesto di sostenere l’appello de La Stampa per la liberazione di Fahimeh Karimi, il medico non esita un secondo: «Mettete pure la mia firma!».
Dottor Moradkhani, adesso teme per l’incolumità di sua madre e di sua sorella?
«Se avessimo avuto paura di morire non ci saremmo opposti al regime. Facciamo comunque parte della famiglia di Ali Khamenei, sappiamo che non ci uccideranno perché sarebbe controproducente per loro».
Ha avuto più notizie da sua madre?
«Prima chiamava quasi tutti i giorni, ma dopo la diffusione della lettera non le hanno più permesso di avere contatti con noi».
Come giudica la condanna inflitta a sua sorella?
«È un pretesto per colpire tutta la mia famiglia. Era stata incarcerata all’inizio dell’anno e in seguito rilasciata su cauzione. Quando è stata pronunciata la condanna, ha chiesto di rientrare a casa per prendere le sue cose con al promessa di tornare, ma è stata fermata con la forza e imprigionata. Del resto, anche io se tornassi in Iran sarei immediatamente arrestato».
La protesta in Iran è esplosa dopo che una ragazza, Mahsa Amini, è morta mentre era in stato di fermo, scattato perché non indossava correttamente il velo. Sua sorella, però, in un video di protesta che proprio lei ha pubblicato su Youtube è apparsa con il volto coperto.
«Lei è credente, ma tenere l’hijab è stata anche una scelta mirata. Quando scendeva in strada a manifestare mi diceva di voler dimostrare che la protesta non riguarda solamente i giovani intenzionati a voler vivere all’occidentale, come la propaganda di regime ha cercato di far credere. Il movimento in atto richiede la libertà totale: di pensare, di parlare e di lavorare. È importante dimostrare che anche le persone più religiose sono contrarie al potere centrale di Teheran».
Pensa che le autorità di Teheran abbiano i giorni contati?
«Il regime è destinato a cadere, sono anni che aspettiamo».
Come si spiega questa resistenza?
«Le ragioni sono molteplici. In questi anni non è stata creata un’opposizione abbastanza forte, con un programma chiaro da presentare agli iraniani e alla comunità internazionale. La maggior parte della popolazione è contraria al regime ma al tempo stesso ha paura che possa scoppiare una guerra civile con esecuzioni sommarie.
Poi c’è anche un aspetto internazionale. L’Iran è sostenuto da Mosca e Pechino, ma anche l’Unione europea e gli Stati Uniti per anni hanno perso tempo a negoziare sul dossier del nucleare, continuando a mantenere aperti i canali commerciali. I Paesi europei devono richiamare in massa i loro ambasciatori a Teheran in segno di protesta».
E le sanzioni?
«Non bastano, perché l’Iran sul piano economico ha relazioni commerciali con la Cina, la Russia, l’India e i Paesi limitrofi. Economicamente non è il regime ad essere in difficoltà, ma il popolo».
Secondo un’inchiesta del Guardian, durante i cortei la polizia colpisce volontariamente le donne al volto, ai genitali e al seno per sfigurarle. Neanche questa violenza basterà a scoraggiare la protesta?
«Sono più di 40 anni che in Iran va avanti la repressione. Ci sono state esecuzioni sommarie, dei veri e propri massacri nelle strade. Ma adesso c’è più coraggio. La gente che manifesta non ha più paura e risponde alle aggressioni. Più si cercherà di reprimere la contestazione e più aumenterà l’odio nei confronti del regime».
Cosa è cambiato in questi anni?
«Nel 1979, quando c’è stata la rivoluzione, io avevo 15 anni. Ho visto come sono cambiate le cose e so che l’attuale regime ha mentito su chi l’ha preceduto. I giovani che scendono in strada oggi, invece, sono nati in questa situazione e hanno capito che l’unico modo per cambiare le cose è manifestare. Soprattutto le donne, che con il loro coraggio e la loro sensibilità stanno cercando di liberarsi».
(da la Stampa)
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Dicembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
“HANNO AUMENTATO I PREZZI SENZA AVVERTIRE 2 MILIONI E MEZZO DI CLIENTI”
L’Antitrust ancora contro le utilities. Stavolta sotto la lente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato finiscono sette aziende fornitrici di elettricità e gas, che insieme rappresentano circa l’80% del mercato. Secondo il presidente Roberto Rustichelli le società hanno mandato proposte di modifica del prezzo di fornitura e proposte di rinnovo in contrasto con la legge che sospendeva l’efficacia delle clausole contrattuali.
Il decreto 8 agosto 2022 n. 115 (Aiuti Bis) sospendeva fino al 30 aprile 2023 le modifiche e i relativi preavvisi. Gli interventi di oggi sono il seguito di quelli nei confronti di Iren, Dolomiti, E.On e Iberdrola. Le società interessate sono Enel, Eni, Hera, A2A, Edison, Acea ed Engie. L’Autorità ha aperto un’istruttoria nei confronti di 25 imprese. Circa la metà degli operatori interessati ha rispettato la legge evitando di modificare le condizioni economiche oppure revocando gli aumenti illecitamente applicati. Le sette sotto accusa invece non hanno sospeso le comunicazioni di modifica unilaterale dei contratti. Giustificando il tutto con la scadenza delle offerte a prezzo fisso. Ad Acea viene anche contestata l’asserita efficacia delle comunicazioni di modifica unilaterale del prezzo di fornitura. Perché la società le ha inviate prima dell’entrata in vigore del decreto. Senza perfezionarle prima della stessa data. Le utenze interessate sono 7 milioni e mezzo, mentre 2,6 milioni avrebbero subito un aumento del prezzo ingiustificato. Adesso le sette società dovranno sospendere od annullare tutti. Entro 7 giorni potranno inviare una memoria difensiva all’Antitrust. Che a quel punto potrà confermare o meno i provvedimenti cautelari.
(da agenzie)
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Dicembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
“METTE LE MANI AVANTI PERCHE’ TEME UN FALLIMENTO”
I ritardi del Pnrr tornano a causare polemiche. Mentre la premier Giorgia
Meloni ha in programma di cambiare i tecnici che si occupano del Recovery Plan, gli ex ministri di Mario Draghi non ci stanno.
E dicono di aver lasciato in linea tutte le scadenze prima delle consegne al nuovo esecutivo. «Gli impegni del 2022 dovrebbero essere tutti raggiunti. La verità è che provano a mettere le mani avanti perché temono un fallimento nella realizzazione dei cantieri nel 2023», è il virgolettato (anonimo) riportato oggi in un retroscena di Repubblica. Anche se l’ex premier resta in silenzio, sono dunque i membri del suo governo a farsi sentire.
«Non accettiamo l’accusa di aver accumulato ritardi – ha detto qualche giorno fa proprio a Repubblica Enzo Amendola -. Abbiamo fatto tutto quanto era dovuto, e anche di più». Ma c’è anche chi è più preciso. Secondo gli ex draghiani il governo ha agito sia per il raggiungimento degli obiettivi che contro il rincaro delle materie prime. In più c’è il caso dell’unità di missione del ministero delle Infrastrutture. Che all’epoca era guidato da Enrico Giovannini.
Lo scorso 30 settembre il dicastero ha prodotto una relazione sugli obiettivi 2022. Ne mancavano tre. Da quel momento sono state aggiudicate due gare. Mentre il terzo impegno, ovvero il regolamento sulla concessione dei porti, è stato predisposto, inviato al Consiglio di Stato e da lì è tornato quando ministro è diventato Matteo Salvini. E mentre la Corte dei Conti fa sapere che su asili nido e scuole dell’infanzia gli obiettivi sono a rischio, c’è chi fa notare che il cambio dei tecnici alla guida dei progetti rischia davvero di rallentare tutto.
(da La Repubblica)
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Dicembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
ELETTORI PD: BONACCINI 39%, SCHLEI 35%… E SULLA FIDUCIA BONACCINI 89%, SCHLEIN 86%
Le rilevazioni a livello Nazionale continuano a registrare una forte ed evidente emorragia di voti all’interno del Partito Democratico. Un viatico non positivo, soprattutto in vista delle tornate Regionali che si terranno nel mese di febbraio (nel Lazio e in Lombardia, e non solo). Il tutto mentre all’interno del dem si è entrati nel vivo della campagna che porterà al Congresso per la scelta della nuova guida del partito. Il successore di Enrico Letta sarà Elly Schlein o Stefano Bonaccini? Secondo gli ultimi sondaggi sulla corsa alla Segreteria del PD, sarà un testa a testa fino alla fine
L’ultima rilevazione di SWG per il Tg di La7, infatti, mostra i due principali candidati a pochi punti di distanza rispetto alla domanda sul candidato più adeguato secondo gli elettori del Partito Democratico.
In testa, con il 39%, c’è il Presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, mentre la sua ex-vice Elly Schlein è staccata di pochissimo (35%). Una corsa a due, mentre gli elettori danno pochissimi fiducia all’ex Ministra per le Infrastrutture e i Trasporti del Governo Conte-2, Paola De Micheli (accreditata, al momento, del 7%). Ma parte dell’elettorato dem non è convinto di nessuno dei nomi proposti nei sondaggi Segreteria PD.
Le distanze sono più o meno simili anche in un’altra rilevazione realizzata da SWG: quella sulla fiducia nei tre candidati che, al momento, affronteranno la corsa alla Segreteria del Partito Democratico. In testa, seppur di poco, resta sempre Stefano Bonaccini, seguito da Elly Schlein. Staccata, e non di poco, Paola De Micheli. Infine c’è anche un’ultima rilevazione, quella sul nome del Partito.
Per l’86% degli elettori PD intervistati, il nome deve rimanere lo stesso e non cambiare.
(da NextQuotidiano)
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Dicembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
ROMA MAGLIA NERA CON 52 MINUTI PER ARRIVARE A DESTINAZIONE
Si torna sempre più a lavorare in presenza e questo ha un impatto sul
trasporto pubblico: aumentano i tempi di viaggio e anche quelli di attesa alla fermata. Lo certifica Moovit, l’app più utilizzata in Italia per i mezzi pubblici, che presenta il suo report di fine anno. Il rapporto, dedicato ai mezzi pubblici, ai mezzi in sharing e alla mobilità urbana, è stato elaborato grazie allo studio di decine di milioni di viaggi pianificati e compiuti tramite l’app Moovit in 99 aree metropolitane di 24 nazioni al mondo ed è la fotografia più dettagliata oggi disponibile sulla mobilità urbana nelle grandi aree urbane del pianeta. Oltre ai tempi di viaggio e di attesa alla fermata, lo studio analizza – tra l’altro – il numero di cambi effettuati, le distanze percorse, la frequenza e tipologia di utilizzo dei mezzi di micromobilità e l’impatto del Covid sulla scelta di mobilità dei cittadini.
Il confronto del servizio di trasporto pubblico tra le città italiane
Tra le aree geografiche analizzate nel mondo, 9 si trovano in Italia: Roma e il Lazio, Milano e la Lombardia, Firenze e la Toscana (nel 2020 i dati erano riferiti alla sola città di Firenze), Napoli e la Campania, Torino e Asti, Venezia, Palermo e Trapani, Genova e Savona, Bologna e Romagna. Il report include tutti gli spostamenti effettuati dagli utenti con autobus urbani ed extraurbani, tram, metropolitane, treni regionali, funicolari, battelli e ascensori e non si riferisce a un singolo operatore di trasporto pubblico ma a tutti gli operatori che operano sullo stesso territorio.
Tempi aumentati nel nostro Paese
In quasi tutte le 9 aree geografiche esaminate in Italia, i tempi di viaggio e i tempi di attesa alla fermata sono aumentati rispetto al 2020. Questo incremento è spiegato dall’aumento del traffico nelle città causato principalmente dalla progressiva riduzione delle attività da remoto (smart working e didattica a distanza) e dalla propensione di una percentuale di utenti del trasporto pubblico locale ad affidarsi a un mezzo privato a causa del rischio sanitario legato al Covid-19. I tempi medi per raggiungere la propria destinazione ogni mattina: 41 minuti – media Italia; 52 minuti – Roma e Lazio (+4 minuti rispetto al 2020); 45 minuti – Napoli e Campania (+7 minuti); 44 minuti – Milano e Lombardia (+4 minuti); 41 minuti – Palermo e Trapani (+4 minuti); 40 minuti – Torino e Asti (+2 minuti); 39 minuti – Venezia (+4 minuti); 39 minuti – Firenze e Toscana (+4 minuti); 36 minuti – Genova e Savona (+2 minuti); 36 minuti – Bologna e Romagna (+2 minuti).
Attesa alla fermata del bus
I tempi medi di attesa alla fermata del trasporto pubblico ogni mattina: 14 minuti – media Italia; 29 minuti – Palermo e Trapani (+5 minuti rispetto al 2020); 20 minuti – Napoli e Campania (stabile); 16 minuti – Roma e Lazio (+1 minuto); 13 minuti – Torino e Asti (+1 minuto); 11 minuti – Firenze e Toscana (+2 minuti); 10 minuti – Milano e Lombardia (+1 minuto); 10 minuti – Genova e Savona (+1 minuto); 10 minuti – Bologna e Romagna (+1 minuto); 10 minuti – Venezia (+2 minuti). Distanze medie percorse quotidianamente nel viaggio di andata: 7,32 km – media Italia; 8,78 km – Napoli e Campania; 8,57 km – Milano e Lombardia; 8,18 km – Venezia; 8,16 km – Bologna e Romagna; 7,52 km – Roma e Lazio; 7,17 km – Firenze e Toscana; 6,31 km – Genova e Savona; 5,79 km – Torino e Asti; 5,45 km – Palermo e Trapani.
Dai monopattini alla bici
Frequenza di utilizzo dei mezzi di micromobilità (monopattini elettrici, bicicletta): 5,9% – Venezia (+3,2% rispetto al 2020); 4,2% – Genova e Savona (+3,9%); 3,5% – Napoli e Campania (+2,9%); 3,3% – Palermo e Trapani (+1,6%); 2,6% – Milano e Lombardia (+1,5%); 2,5% – Firenze e Toscana (nel 2020 l’1,3% era riferito alla sola città di Firenze); 2,1% – Bologna e Romagna (+0,4%); 2,0% – Roma e Lazio (+0,5%); 1,6% – Torino e Asti (-0,4%).
I mezzi e il Covid
L’impatto del Covid-19 e della pandemia sull’utilizzo dei mezzi pubblici (somma delle percentuali di utenti che hanno abbandonato definitivamente i mezzi pubblici e di utenti che si sono affidati definitivamente a un altro mezzo di trasporto): 13,6% – Genova e Savona (a cui si aggiunge un 21,5% che utilizza con minore frequenza i mezzi pubblici); 11,2% – Venezia (15,8%); 12,6% – Palermo e Trapani (17,7%); 10,7% – Bologna e Romagna (16,3%); 9,3% – Milano e Lombardia (17,4%); 9,2% – Napoli e Campania (20,7%); 9,0% – Torino e Asti (17,8%); 8,9% – Firenze e Toscana (14,5%); 8,8% – Roma e Lazio (16,6%). A questi numeri, disponibili anche per altre 90 aree geografiche nel mondo, si aggiungono altre voci consultabili nel report: i cambi effettuati tra un mezzo di trasporto e l’altro ogni mattina, la tipologia di utilizzo dei mezzi di micromobilità e le richieste degli utenti.
(da La Repubblica)
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Dicembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
L’UNICO SUPERSTITE E’ IL PIU’ PICCOLO DI 6 ANNI
Jack Johnson aveva 10 anni, è uno dei tre bambini tragicamente morti domenica pomeriggio a Solihull, nel centro dell’Inghilterra non lontano da Birmingham, mentre giocavano su un lago ghiacciato dall’ondata di freddo delle ultime ore oltremanica.
Ma ora si scopre che il piccolo Jack è stato anche un eroe. Perché il bambino ha provato a salvare gli altri coetanei sprofondati nel gelo assassino del lago del Babbs Mill Park. Il cui strato di ghiaccio, intorno alle due di pomeriggio di domenica, si è rotto, risucchiando con sé tre bambini. Jack ha provato, inutilmente, a tirarli fuori. Ed è caduto anche lui, fatalmente, in acqua.
Secondo i suoi familiari distrutti dal dolore, infatti, Jack non conosceva gli altri tre bambini caduti nel lago, a quanto pare tutti appartenenti a una stessa famiglia, e di 6, 8 e 11 anni. Tutto è iniziato quando uno di loro per primo è rimasto incastrato con la gamba in una crepa del ghiaccio. Allora gli altri piccoli si sono avvicinati per provare a salvarlo, ma in quel momento la lastra del lago ha ceduto del tutto.
Secondo il Daily Mail, dunque, Jack ha visto la scena e si è tuffato per salvare gli altri nell’acqua gelida (le temperature erano già intorno allo zero). Ma è cascato ed è morto anche lui. L’unico dei quattro bambini ancora vivo è il più piccolo, di 6 anni, che lotta tra la vita e la morte, dopo l’ipotermia e l’arresto cardiaco, di cui sono stati tutti vittima a causa della permanenza nel lago.
Secondo una zia, quando Jack si è tuffato nel gelo per cercare di salvare gli altri bambini è stato seguito dal nonno che ha provato a rompere altre parti della lastra di ghiaccio per cercare di recuperare il nipote. Anche altri residenti della zona si sono buttati in acqua e con altri soccorritori alla fine sono riusciti a recuperare i corpi dei piccoli, ma solo uno per ora è riuscito a sopravvivere. Una veglia è iniziata ieri a Solihull in onore delle vittime. Per quella che è una tragedia nazionale in Inghilterra.
(da La Repubblica)
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Dicembre 13th, 2022 Riccardo Fucile
PECCATO CHE IL MEZZO DI CUI STAVA PARLANDO FOSSE UNA MONOVOLUME OMOLOGATA PER 8
L’incidente in auto dei sette ragazzi ad Alessandria ha scosso il Paese. E come
spesso accade dopo una tragedia, il governo corre agli annunci di strette e inasprimenti.
Ma è altrettanto chiaro, aggiunge Salvini, «che non sali in auto in sette… Su questo puoi fare tutta l’educazione stradale che vuoi, puoi mettere tutta la prevenzione che vuoi, ma poi…», dice riferendosi al grave incidente avvenuto ad Alessandria.
Ma il sindaco della città piemontese, Giorgio Abonante, non ci sta e parla di dichiarazioni «superficiali e leggere».
Il ministro Salvini, accusa Abonante, «dimostra di non avere la minima sensibilità. Pretendiamo un minimo di garbo, di silenzio e di rispetto». Soprattutto perché dice il sindaco “l’auto era omologata per 8 e le dinamiche sono ancora da chiarire».
Irresponsabile il conducente lo è stato di sicuro, se è vero che non si è fermato all’alt dei Carabinieri (e che procedeva a zigzag in piano centro abitato). Ma il ministro prende un granchio colossale rimproverando i giovani di essere saliti “in auto in sette”: come riportano le cronache all’unanimità, infattti, il modello in questione di Peugeot 807 – una monovolume di grossa taglia prodotta dal 2002 al 2014 – era proprio uno di quelli a sette posti, distribuiti su tre file di sedili.
“Siamo sconcertati dalle dichiarazioni di Matteo Salvini, non solo e non tanto per la superficiale inesattezza delle sue dichiarazioni ma perché dimostra di non avere la benché minima sensibilità per il momento che stanno vivendo le famiglie, le amiche e gli amici della ragazza e dei ragazzi che ci hanno lasciato e l’intera comunità alessandrina sconvolta dall’incidente di sabato notte”, è il duro commento del sindaco di Alessandria Giorgio Abonante.
(da agenzie)
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