Dicembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
SPARITI I FONDI ANNUNCIATI PER LA LOTTA AI TUMORI E PER I PRONTO SOCCORSO
Mentre l’Aiom avverte sul forte incremento di tumori in Italia e gli operatori sanitari chiedono sostegno, gli emendamenti previsti scompaiono dal testo atteso in Aula
La manovra del governo Meloni è quasi pronta per il voto in Aula alla Camera, atteso, non senza intoppi e ritardi, nelle prossime ore. La Commissione Bilancio ha preso in esame tutti gli emendamenti alla manovra, ma qualcosa nelle proposte di modifica sembra essere sfuggito. Si tratta di emendamenti annunciati dal governo e proposti dal ministero della Salute riguardanti due degli aspetti più critici e urgenti del sistema sanitario italiano: l’emergenza tumori, con l’istituzione del “Fondo per l’implementazione del Piano Oncologico nazionale 2022-2027″, e l’emergenza pronto soccorso, con l’anticipazione al 1° gennaio 2023, annunciato dallo stesso ministro della Salute Orazio Schillaci, dell’incremento di 200 milioni dell’indennità per gli operatori sanitari. Due interventi che nel testo della manovra sembrano essere scomparsi. O meglio, nessuno dei due emendamenti risulta mai depositato, non figurando né tra quelli approvati e riportati nel dossier del Servizio studi di Camera e Senato né nei resoconti ufficiali della Commissione Bilancio.
Pochi giorni fa il ministro della Salute aveva annunciato l’istituzione del Fondo per l’implementazione del Piano Oncologico nazionale 2022-2027, con una dotazione pari a 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2023 e 2024.
L’obiettivo sarebbe stato il potenziamento delle strategie e delle azioni per la prevenzione, la diagnosi, la cura e l’assistenza al malato oncologico.
A ridosso della proposta erano arrivati i dati aggiornati dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) che per il 2022 in Italia registrano un allarmante incremento delle diagnosi oncologiche. Nell’ultimo anno sono stati 390.700 i tumori individuati, 14.100 in più rispetto a due anni prima. Il più diagnosticato è il carcinoma alla mammella, seguito dal colon-retto, polmoni, prostata e vescica. Un’emergenza che ora ha bisogno di cura e soprattutto prevenzione, la stessa che nei lunghi mesi di pandemia ha subìto forti rallentamenti, con un drammatico calo dell’attività di screening.
Nonostante l’allarme, la nuova manovra economica sembra non aver trovato spazio per quei 10 milioni da investire. A protestare nelle ultime ore in particolare il dem Marco Furfaro, fautore tra le altre cose della proposta sul reddito alimentare per i più poveri approvata in manovra. «Il Governo ha fatto saltare i 10 milioni di euro che il ministro Schillaci aveva annunciato di fronte al Parlamento per il Piano Oncologico Nazionale. Non ci sono. Spariti da ogni emendamento. Hanno mentito al Paese, ma soprattutto ai malati oncologici. Inaudito. Nessun emendamento è stato depositato e in legge di Bilancio non c’è un euro», ha denunciato Furfaro.
Nessuna traccia dell’emendamento sull’indennità di pronto soccorso
Nel testo passato dalla Commissione Bilancio alla Camera non ha trovato posto nemmeno l’altro annuncio fatto dal ministro della Salute Schillaci in merito ai pronto soccorso. Intervenendo in audizione presso le commissioni Affari sociali e Sanità di Camera e Senato, il ministro si era impegnato a far approvare in legge di Bilancio l’anticipo al 2023 di un finanziamento in favore degli operatori dei pronto soccorso, ora però totalmente assente dal testo in discussione nell’aula di Montecitorio. La misura in particolare prevedeva l’anticipazione, dal 2024 al 1° gennaio 2023, dell’incremento di 200 milioni dell’indennità di pronto soccorso già riconosciuta al personale della dirigenza medica e al personale del comparto sanità, dipendente delle aziende e degli enti del Servizio sanitario nazionale operante nei servizi di pronto soccorso. «Il mio impegno sarà volto ad anticiparne la decorrenza della misura in favore degli operatori sanitari del pronto soccorso al 2023 e a lavorare con le Regioni così da poter destinare non appena sarà possibile un maggior finanziamento per retribuire meglio gli operatori sanitari e rendere maggiormente attrattivo il sevizio nel Ssn», diceva allora Schillaci. L’emendamento annunciato di fatto risulta mai depositato in commissione Bilancio. Un corto circuito alimentato dalle dichiarazioni del sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato che davanti la commissione Affari sociali alla Camera nella giornata di ieri 21 dicembre aveva detto: «Come è noto, è stata inserita nel ddl bilancio per il 2023 una norma finalizzata a riconoscere, per le particolari condizioni del lavoro svolto dal personale della dirigenza medica e del personale del comparto operante presso i Servizi di Pronto Soccorso, un incremento dell’indennità specifica, con un impegno di spesa di 200 milioni di euro annui già a decorrere dal 2023». Annunciando quindi un intervento di fatto inesistente nella discussione conclusasi poche ore prima in commissione Bilancio sugli emendamenti alla manovra
Cosa è successo?
er ora il ministero della Salute tace. Il fatto che le due proposte non siano state neanche discusse in Commissione Bilancio fa pensare che con tutta probabilità non abbiano passato nemmeno il vaglio del Mef e di quei 400 milioni di tesoretto previsti per gli emendamenti
(da agenzie)
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Dicembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
TUTTE LE CORREZIONI CHIESTE DALLA RAGIONERIA DELLO STATO ALLA LEGGE DI BILANCIO. MANCANO LE COPERTURE
Una manovra con 44 buchi intorno. In un documento lungo 18 pagine la Ragioneria dello Stato ha fatto a pezzi la Legge di Bilancio del governo Meloni. Segnalando la necessità di correggerne ben 44 punti «al fine di evitare oneri privi di copertura finanziaria».
Il primo rilievo ha riguardato l’ormai famigerata norma sui 450 milioni ai comuni, approvata per errore in Commissione Bilancio alla Camera.
Ma sotto la lente dei tecnici è finita anche la nuova 18app, ovvero il suo sdoppiamento in Carta Cultura e Carta Merito. E lo smart working, ovvero la proroga al 31 marzo per i dipendenti pubblici.
Nel primo caso sotto la lente di ingrandimento è finita la modalità con cui sono scritte le coperture per il 2023, mentre nel secondo caso i dubbi riguardano il mondo della scuola e la sostituzione del personale scolastico a cui è concesso il lavoro agile.
La partita Rgs-governo Meloni
Secondo la Ragioneria ci sarebbero problemi anche sulla convenzione con Radio radicale che sarebbe coperta solo per il 2023. E sulla tassa di soggiorno a 10 euro per i comuni turistici. Mentre è saltato il fondo da 10 milioni di euro per il piano oncologico. Ma non c’è solo questo. Perché ci sarebbero problemi anche sull’emendamento che riguarda l’offerta “congrua” per il reddito di cittadinanza. O meglio: la norma suggerita dal leader di Noi Moderati Maurizio Lupi effettivamente cancella il riferimento alla congruità dell’offerta contenuto nella legge. Ma così facendo rimanda al decreto legislativo che istituisce il sussidio. Dove si definiscono le caratteristiche che l’offerta di lavoro deve avere per essere accettata. Ovvero la distanza dal luogo di lavoro, la retribuzione, la coerenza con le competenze del soggetto. E quindi così la “congruità” uscita dalla porta rientra dalla finestra. A sancirlo è stato ieri l’Ufficio Bilancio della Camera: «Non viene comunque eliminato il rinvio all’articolo 4, comma 8, lettera b), n.5», si legge nel dossier dei tecnici anticipato da Repubblica.
Un’approvazione complicata
Ma ormai il dado è tratto. L’aula della Camera voterà la questione di fiducia posta dal governo alla legge di Bilancio stasera alle ore 20.30. Lo ha stabilito la conferenza dei capigruppo di Montecitorio. Le dichiarazioni di voto inizieranno alle ore 19. Dopo il voto su tabelle e ordini del giorno il governo si riunirà per la nota di variazioni al bilancio. Il voto finale al provvedimento è previsto verso le 6 del mattino di domani, vigilia di Natale. La manovra sarà poi inviata al Senato per l’ultimo, definitivo passaggio parlamentare. E le correzioni chieste dalla Rgs? Per quanto riguarda 18app il governo va verso il rinvio dello sdoppiamento delle carte a partire dal 2024. Per il reddito l’idea prevalente è quella di cambiare il decreto legislativo all’inizio del 2023. O forse nel decreto complessivo sul mondo del lavoro annunciato ieri dal sottosegretario Claudio Durigon.
Cosa vuole la Ragioneria
In tutto la Rgs ha poi chiesto di «riformulare» 22 articoli. Per escludere «effetti negativi sui saldi di finanza pubblica». Intendendo che erano scritti in modo tale da lasciare spazio a possibili spese non previste. Per esempio le detrazioni sull’efficienza energetica e sulle ristrutturazioni edilizie. O i fondi destinati al Consiglio nazionale Giovani. Problemi anche per la commissione sul Pos varata dal governo dopo che è saltata la norma sui 60 euro per i bancomat. La Stampa rivela che «al fine di evitare oneri privi di copertura» la Ragioneria ha chiesto di specificare che «ai componenti del tavolo permanente non spettano compensi, gettoni di presenza, rimborsi spese o altri emolumenti comunque denominati». E ancora: la norma sul bonus psicologo «non è correttamente formulata sul piano tecnico».
Il dg del Tesoro nel mirino
Manca l’incremento del fabbisogno sanitario e bisogna acquisire la relazione tecnica. E deve essere chiarito ancora che «il contributo è stabilito nel limite massimo di 1.500 euro a persona a decorrere dall’anno 2023. E nel limite complessivo di 5 milioni di euro per il 2023 e 8 milioni di euro a decorrere dal 2024». Intanto La Stampa racconta un retroscena che riguarda proprio i rilievi della Ragioneria. Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia, è andato all’attacco del Tesoro: «Qualcosa non ha funzionato. Mi risulta che nessun tecnico della Ragioneria fosse presente in diversi momenti dell’esame in commissione. Prenderemo provvedimenti». La frase minacciosa prelude a un cambio della guardia in via XX Settembre? «La presidente del Consiglio Meloni tornerà alla carica con Giorgetti per chiedergli di sostituire il direttore generale del Mef Alessandro Rivera», sostiene con il quotidiano un parlamentare della maggioranza che vuole rimanere anonimo.
(da La Repubblica)
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Dicembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
ECCO LA RETE DI MORATTI… SU 5.000 ISCRITTI ALLA LEGA IN LOMBARDIA GIA’ 1.500 HANNO ADERITO ALLA CORRENTE DI BOSSI
Il traino “riformista” del Terzo polo a Milano, la metropoli con gli stipendi più alti d’Italia, dove nel collegio del centro città l’accoppiata Iv-Azione il 26 settembre prese il 23%; la capacità di parlare alla provincia profonda lombarda, montana e valligiana, degli ex leghisti.
Se l’operazione andrà in porto lo si saprà dopo domenica, ma lo schema di Letizia Moratti è chiaro. Conquistare la terza lista – oltre alla propria civica e alla federazione renzian-calendiana – a sostegno della propria candidatura a presidente della Regione Lombardia, quella del Comitato Nord capitanato da Umberto Bossi, avrebbe un senso politico chiaro, cioè allargare la base dei consensi a mondi molto diversi tra loro. “Moratti e Bossi hanno un ottimo rapporto da sempre, sin da quando furono ministri assieme nel secondo governo Berlusconi”, racconta chi lavora fianco a fianco con la ex sindaca di Milano.
Il rapporto personale tra lei e il Senatur non si è mai interrotto in questi anni, problemi di comunicazione non ce ne sono insomma. Quando Moratti era a Palazzo Marino capitava spesso che Matteo Salvini, giovane capogruppo leghista in Consiglio comunale, facesse drizzare i capelli della sindaca, per quei suoi modi da agitatore seppur in maggioranza; allora capitava che lei sentisse Bossi, chiedendogli una mano. Solo che adesso, prima di eventualmente siglare una nuova e clamorosa intesa con Moratti, il fondatore della Lega è in attesa di una risposta da Salvini e dal resto della coalizione: c’è spazio per gli autonomisti a sostegno di Attilio Fontana?
Nel frattempo Moratti (“concreta, dinamica, tenace come la Lombardia”, dicono i suoi manifesti appesi ovunque, dalle stazioni della metropolitana ai classici cartelloni) gira ormai da settimane in lungo e in largo: ospedali, aziende brianzole, associazioni di categoria, uffici in condivisione, la comunità ebraica per Hanukkah ma pure i centri culturali sikh.
“Ha un profilo liberale che ci permette di costruirle attorno un nostro progetto identitario”, dice la coordinatrice metropolitana di Iv, Lucia Caridi. Il “progetto identitario” in questione è quello di una proposta “che vada oltre alla destra e alla sinistra per focalizzarsi sulla competenza”. Sarà anche per questo che con Moratti, nella civica ma pure nella lista terzopolista, sono arrivati da tutte le parti: ex leghisti, ex 5 Stelle, ex pd o comunque civici di sinistra, finanche provenienti dall’esperienza di Giuliano Pisapia.
Per Matteo Renzi e Carlo Calenda più ancora che la Lombardia è Milano e la sua area produttiva (produttiva, europea e tutto il resto) il fortino simbolico da conquistare definitivamente. Dove si è tenuta la contro-manifestazione pro-Ucraina? A Milano. Dove l’assemblea di Iv per dare il via libera alla federazione? Sempre Milano.
Intanto sulla Nuova Padania, giornale online che ha preso idealmente il posto del vecchio quotidiano del Carroccio, si legge che sarebbe “meglio arrivare al dunque, augurarsi che resti il veto di Salvini, che il Comitato Nord vada per la sua strada e dimostri di avere le gambe per camminare”. Sempre più militanti inferociti chiamano il segretario federale “ministro del Ponte sullo Stretto”, su 5 mila iscritti al partito lombardo ben 1.500 hanno aderito alla corrente bossiana. I quattro consiglieri regionali che hanno formato il gruppo al Pirellone – l’ultimo giorno utile per poter presentare una lista senza dover raccogliere le firme – potrebbero diventare sei a giorni, tra loro ci sono anche eletti che un loro giro di preferenze lo hanno: da Roberto Mura a Pavia a Max Bastoni su Milano. Poi ci sono i neoeletti segretari di federazioni di peso come Bergamo e Brescia, il sindaco di Pavia Fabrizio Fracassi che è un ottimo amministratore, tutta gente in mezzo al guado che in queste ore deve decidere sul da farsi.
Il sogno accarezzato da molti sarebbe trovare la via legale per scippare alla Lega per Salvini premier il simbolo della Lega Nord di cui Bossi è presidente a vita, quell’Alberto da Giussano che da solo farebbe da sigillo di qualità, per così dire.
“Bossi ci chiede di concentrarci sul radicamento in Lombardia, lavoriamo non per spaccare la Lega ma per salvarla”, assicura l’eurodeputato Angelo Ciocca, il co-promotore del Comitato con Paolo Grimoldi, uomo da 90 mila preferenze nel 2018. Va da sé però che ora tocca ai super-salviniani alla guida del partito decidere se accettare la consulenza padana: la risposta è attesa entro domenica. Andasse male, Moratti è lì con le braccia aperte.
(da La Repubblica)
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Dicembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
NON C’ERANO PIU’ I TERMINI PER UNA CORREZIONE
L’offerta di lavoro per i percettori del reddito di cittadinanza rimane congrua. E non perché il governo ci abbia ripensato nel frattempo. E’ solo che l’emendamento presentato da Maurizio Lupi (Noi Moderati), pur cancellando l’aggettivo “congrua”, rinvia alla norma del decreto legislativo istitutivo del reddito di cittadinanza, che definisce appunto le caratteristiche che l’offerta deve avere per essere obbligatoriamente accettata:
– la distanza dal luogo di residenza,
– la retribuzione,
– la coerenza con le competenze del soggetto.
E quindi la “congruità” rimane.
Troppo tardi per correggere
Ad essersi accorta che la norma era mal scritta, e non raggiungeva l’obiettivo voluto dal governo, la deputata Cecilia Maria Guerra, relatrice di minoranza per il Pd, che lo ha segnalato in Commissione Bilancio ma aspettando che fosse troppo tardi perché la maggioranza correggesse il suo errore.
«L’emendamento di Lupi, approvato in commissione, elimina la parola congrua – spiega l’ex sottosegretaria del Mef – e crede così di avere obbligato il percettore ad accettare una qualsiasi offerta di lavoro. Ma non è così. La norma modificata costringe il lavoratore ad accettare “la prima offerta ai sensi dell’articolo 4, comma 8, lettera b), numero 5)” del decreto legislativo che disciplina il reddito di cittadinanza, che rinvia a sua volta al decreto legislativo di attuazione del Jobs act, che definisce appunto l’offerta congrua».
Come leggere la norma
L’ennesimo pasticcio. Che fa sì che ora la norma si legga così, conclude Guerra: «Il percettore del Rdc deve accettare la prima offerta definita ai sensi della norma che ne definisce la congruità». «Un emendamento inutile, guidato dalla foga ideologica e dalla incapacità tecnica», sintetizza la parlamentare.
La tesi di Maria Cecilia Guerra nelle ultime ore è stata confermata dal Servizio Bilancio della Camera: «Non viene comunque eliminato il rinvio all’art.4, comma 8, let.b), n.5», si legge nel dossier. E i deputati della maggioranza hanno accusato il colpo, anche se non ci sono commenti ufficiali.
Il governo tira dritto, annunciando modifiche al reddito di cittadinanza a partire da gennaio: «Io spero che nella seconda metà del mese di gennaio potremo portare a casa questo decreto che toccherà anche il reddito di cittadinanza – spiega in un intervento a Radio24 il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon (Lega) -. L’offerta congrua che abbiamo in mente prevede che qualsiasi persona, anche laureata, se gli offrono un posto anche di cameriere, casomai vicino casa, è giusto che la accetti».
Rimarrebbe invece il criterio della territorialità, assicura il sottosegretario, «anche perché una persona non può andare a Trieste per due giorni se è di Napoli, tranquillizzerei Conte».
La rabbia dei 5Stelle
Il riferimento è alla levata di scudi del M5s, che ha fatto del reddito di cittadinanza una colonna portante del proprio programma. Se per il momento l’offerta resta “congrua”, in attesa del decreto annunciato dal Durigon e del riordino delle politiche attive del lavoro annunciate dalla ministra del Lavoro Marina Calderone, nel 2023 si ridurrà invece la durata dell’assegno per circa 400 mila famiglie beneficiarie.
I nuclei senza un anziano
«Anche qui la narrazione del governo non è coerente con quello che hanno scritto nella norma – rileva Maria Cecilia Guerra -. È stato detto che perderanno l’assegno dopo sette mesi gli occupabili che non lavorano, ma non è così. Lo perderanno i nuclei che non hanno al loro interno un anziano ultrasessantenne, un disabile o un minore. Gli altri, anche se lavorano, ma guadagnano troppo poco, senza quelle condizioni lo perderanno».
(da agenzie)
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Dicembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
CON IL SOLDATO SEMPLICE OLEKSIY CHE DIFENDE LA CITTA’ DOVE PUTIN “DEVE” VINCERE
La chiamano la Stalingrado ucraina. Pur con le debite proporzioni, dopo cinque mesi di bombe e migliaia di cadaveri nel fango, accostare Bakhmut alla battaglia più drammatica della Seconda guerra mondiale (2 milioni di perdite, tra morti, feriti e dispersi) suona sensato.
La guerra portata da Putin, qui, si è fatta d’attrito e di trincea. Si combatte in campagna, radure immense che illudono e deludono. Si combatte per strada. Si combatte persino tra bottiglie di champagne. È l’unico punto lungo i milletrecento chilometri del fronte dove si sentono le mitragliatrici sparare. E dove, certe notti, fanno diciotto gradi sotto zero.
Il soldato semplice Oleksiy Varchenko voleva fare il commercialista. Economia all’Università di Kiev, i libri, gli esami, le feste di laurea. Un’esperienza all’estero, forse. Ora mette tre paia di calzini e la polvere riscaldante negli stivali, nei guanti e sulle spalle. “Ho imparato che bisogna sempre avere i piedi asciutti e caldi”.
Autodidatta nel buio polare di Bakhmut. “Quando però il buco si riempie d’acqua e affondo fino alle ginocchia, sento i coltelli nella carne”. Il buco, la trincea: da venti giorni il suo immobile posto di lavoro. Ci mette diciotto minuti a raggiungerlo. Avanza a quattro zampe lungo i graffi scavati con la pala, profondi un metro e mezzo. Arriva a ottanta metri dal nemico, a tiro di fucile.
Come Stalingrado, anche Bakhmut all’inizio era solo un nome sulla mappa. Ad agosto, quando i primi missili russi sono piovuti sui palazzi e i 77mila abitanti hanno capito quanto fosse opportuno cambiare aria, era la tappa facile di un’avanzata che pareva inarrestabile.
“Il Donbass è nostro, Bakhmut sarà schiacciata presto”, promettevano i generali di Putin. Il piano era annichilirla e farne la base l’assalto a ciò che resta di libero nel Donetsk: le città di Kramatorsk e Sloviansk. Le cose sono andate diversamente. Il fronte si è inceppato a Bakhmut. E l’autocrate del Cremlino non lo accetta.
È diventata una questione di principio, un duello personale con Zelensky. Putin vuole Bakhmut, ne ha bisogno. Secondo l’intelligence britannica, è il regalo di Natale che intende portare alla Russia per dimostrare che no, non la sta perdendo questa guerra. Che non sono poi così importanti le ritirate strategiche cui è stato costretto dopo 302 giorni di “operazione speciale”.
Lo ha detto chiaramente a quei generali dalle promesse frettolose. Prima di rivolgersi alla nazione per la fine dell’anno, vuole un trofeo, almeno uno, da brandire verso chi dubita. Incurante del fatto che l’attimo favorevole è passato, perché gli ucraini hanno fortificato le seconde e le terze linee sulla via che porta a Kramatorsk. A Putin, questo, non interessa. Ha concentrato qui le sue divisioni migliori, l’artiglieria più letale, i mercenari più feroci che puntano il kalashnikov contro i commilitoni che tremano. Lo fece anche Hitler nell’inverno del 1942: spostò a Stalingrado il grosso della Wehrmacht, indebolendo il fronte orientale. Un errore fatale.
Il soldato semplice Oleksiy non ha letto il libro di Grossman. Ignora che il giornalista di Zytomyr già settant’anni fa metteva in parole la sua odierna vita di trincea. “Com’era pesante, la terra! Cavare gli stivali dal fango, sollevare il piede, fare un passo e poi ricominciare da capo costava una fatica enorme…”, scriveva in Stalingrado. È Oleksiy che arranca a quattro zampe, imprecando e sbuffando, il fango gli penetra nei guanti e annulla il tepore della polvere riscaldante.
Niente sa questo 21enne timido che voleva fare il commercialista, del grande fiume Volga, dell’abisso che inghiottì Stalingrado in sei mesi di battaglia, delle donne che per prime provarono a difendere la città usando cannoni che sapevano a malapena adoperare.
Dell’ordine numero 227, il “non un passo indietro”, che terrorizzò l’Armata Rossa: i sovietici, stremati, imploravano i comandi di arretrare, i comandi mandarono le unità Smersh con l’ordine di ammazzare gli esitanti. Eppure anche Oleksiy chiama Bakhmut “la nostra Stalingrado”, influenzato dai racconti di suo padre Ivan e di suo fratello maggiore Dmytro. I tre uomini della famiglia Varchenko: uniti dal sangue, dal ruolo che la Storia gli ha assegnato, dal braccialetto rosso e verde che indossano dal primo giorno in cui sono andati, insieme, alla guerra. Sono nella stessa unità e nella stessa zona di Bakhmut: il quartiere meridionale di Opytne.
Oleksiy crede solo a ciò che vede dalla trincea. Sbirciando oltre l’orlo del terreno, appare uno spettacolo ipnotico e terrificante. Appare Stalingrado. “Colonne di fumo si alzano a pochi metri da me, pezzi di razzo rotolano fin dentro al buco. Ci sparano addosso, anche duemila mortai al giorno. La terra trema, o forse sono io che tremo e non me ne accorgo. Il mio turno dura 24 ore. Sto lì, mi riscaldo con una candela, prego che non mi colpiscano”. Negli ultimi quindici giorni non si è mosso: il comandante gli ha ordinato di tenere la posizione e lui obbedisce. I suoi nemici sono al di là del fiume Bakhmutovka, il Volga di Bakhmut.
“Non so come fare a descrivere una cosa successa una settimana fa… non sono mica quello scrittore, Grossman…”. Provaci, Oleksiy. “Un giorno nebbioso, mi pare un mercoledì. Non si vedeva niente. All’improvviso i russi sono saltati fuori dalle trincee e si sono messi a correre verso di noi. Allo scoperto, senza un motivo. Sono stati falciati a decine dalla mitragliatrice. Altri russi uscivano dalla terra e si facevano ammazzare. Non ho mai visto una cosa del genere. Erano zombie, non finivano mai. Correvano incontro alla morte. È durata dalle due del pomeriggio alle tre di notte. Un cadavere aveva lo stemma della Wagner”. La Brigata dei mercenari di Putin, che arruola galeotti e li usa, sotto minaccia, come carne da cannone.
I droni si alzano in volo per correggere i tiri dell’artiglieria e riprendono più di quanto Oleksiy possa immaginare. Il ponte sul fiume è saltato. A sud e a est il tessuto urbano di Bakhmut è mangiato: mozziconi di case in fiamme, condomini sbriciolati, fumo, i carri armati che avanzano incerti nelle vie, i lampi dei proiettili di fucile all’interno dello stesso isolato, all’interno della stesso condominio. Il pensiero che torna di nuovo a Stalingrado: si sparavano dalle crepe degli appartamenti e i nazisti la chiamarono “la guerra dei topi”, perché, dicevano, “conquistiamo una cucina mentre combattiamo ancora in salotto”. A Bakhmut, si va oltre. Si lotta tra le bottiglie di champagne.
La Artwinery, la più grande ditta che produce vino spumante in tutta l’ex Unione Sovietica, si trova nel quartiere a est, oltre il fiume. Produceva 25 milioni di bottiglie. È uno scherzo della Storia perché da queste parti non ci sono vigne, l’uva arriva da Odessa. La volle Stalin quando scoprì per caso che il vino di pregio inviato dai Paesi sconfitti come riparazione postbellica si conservava bene nei 29 ettari di sotterranei delle miniere di gesso di Bakhmut. I tunnel oggi sono i migliori rifugi. Là sotto ci sono anche i militari del Battaglione Skala, che hanno ripreso l’enorme fabbrica devastata strappandola agli invasori, dopo scontri brutali tra botti e diraspatrici.Il numero dei morti è segreto militare. Le stime dicono non meno di 60-80 ucraini al giorno e un centinaio di russi.
“Non rinunceremo alla nostra terra, so che è in corso la battaglia più difficile e vi ringrazio”, ha detto Zelensky martedì mattina, incontrando in un impianto industriale i difensori di Bakhmut. I militari gli hanno messo nelle mani la bandiera dell’Ucraina, con le loro firme, per consegnarla al Congresso.
Sul panno blu e giallo, idealmente, c’è anche il nome di Oleksiy, che voleva fare il commercialista. E che non arretra di un metro. Perché, anche senza aver letto le pagine di Grossman, ne conosce il senso. Dalla guerra non si scappa, ti segue come un’ombra nera. E chi arretra se la tira comunque dietro, la guerra.
(da La Repubblica)
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Dicembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
L’HOTEL DOVE SI TROVAVA E’ STATO BOMBARDATO
II video mostrano una tavolata ancora imbandita con le pietanze servite nelle porcellane, i calici pieni e le posate d’argento cadute dalle mani. Ovunque ci sono chiazze di sangue. Alcuni dei corpi giacciono ancora a terra. È un attacco che ha il sapore di sfida e l’odore del tradimento. E che, coincidono gli esperti, può essere stato compiuto solo grazie a una intelligence molto sofisticata.
L’ex vicepremier russo Dmitry Rogozin è stato gravemente ferito mercoledì sera mentre celebrava il suo compleanno in un hotel nella periferia della città di Donetsk. Nell’agguato, è stato colpito anche il capo della Repubblica Popolare di Donetsk, Vitaly Khotsenko e il sindaco filorusso della città di Horliivka, Ivan Prykhodko.
I tre rappresentanti del governo di Mosca sono stati feriti nel corso di un’operazione realizzata con armi ad alta precisione, secondo quanto riportano fonti russe. I responsabili, sempre stando alle stesse fonti, avrebbero agito sulla base di una soffiata.
Secondo la pubblicazione russa Baza, Rogozin ha riportato una grave ferita da scheggia al cranio, una ferita da scheggia ai glutei e un’ulteriore, sempre da scheggia, alla coscia sinistra. Alcuni dei presenti hanno detto ad altre fonti che è stato colpito anche alla schiena e che il frammento di proiettile è passato “a un centimetro dalla spina dorsale”.
Le sue condizioni sarebbero delicate, tanto da richiedere un’operazione che, date le circostanze, non può essere realizzata a Donetsk. L’ex vicepremier verrà trasportato a Mosca per le cure.
A dare la notizia dell’imminente operazione chirurgica è stato lo stesso canale Telegram del 59enne ex capo dell’agenzia spaziale Roscosmos, strenue supporter di quella che il Cremlino chiama l’operazione militare speciale. “Abbiamo vissuto in questo hotel tutti gli ultimi mesi e per otto anni il nemico non ha mai bombardato questo posto. Qualcuno ha fatto trapelare informazioni e intorno alle 19:45 ci sono stati diversi colpi ad alta precisione”, si legge nel post.
Rogozin è stato destituito nel mese di luglio dalla sua posizione di capo dell’agenzia spaziale russa Roscosmos e negli ultimi mesi era stato arruolato in una squadra di consulenti militari per fornire supporto alle forze filo-russe che combattono a fianco delle truppe di Mosca nell’est dell’Ucraina. La città di Donetsk, capoluogo della regione omonima, è controllata dal 2014 dai separatisti sostenuti dal Cremlino.
(da Repubblica)
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Dicembre 23rd, 2022 Riccardo Fucile
FERMATO L’AGGRESSORE: HA 69 ANNI, L’ANNO SCORSO AVEVA ATTACCATO UN CENTRO MIGRANTI
È di tre morti e tre feriti, di cui uno in gravi condizioni, il bilancio della sparatoria avvenuta oggi nel centro culturale curdo Ahmet-Kaya, situato nel decimo arrondissement di Parigi.
Secondo quanto riferito dalla procura, l’uomo che ha aperto il fuoco è stato subito fermato. “Le Parisien” riferisce che si tratta di un uomo di 69 anni, un ex ferroviere in pensione. Al momento resta sconosciuto il movente.
La sindaca dell’arrondissement, Alexandra Cordebard, ha fatto sapere che l’aggressore è rimasto ferito e portato in seguito all’ospedale «in urgenza relativa».
“BfmTv” riferisce che l’aggressore era conosciuto dalle autorità per aver attaccato con una sciabola un centro migranti nel 12imo arrondissement della capitale francese lo scorso anno. Sul caso era stata aperta un’inchiesta per «violenze a sfondo razzista con un’arma».
Sono stati sparati dai «sette agli otto colpi di fuoco in strada, era il panico totale. Ci siamo rinchiusi all’interno», ha detto un abitante del quartiere citato dal Figaro.
Su Twitter la prefettura ha invitato i cittadini ad «evitare il settore» e a «lasciare i servizi di soccorso intervenire». Sul caso è stata aperta un’inchiesta per omicidio volontario e violenza aggravata.
(da agenzie)
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