Aprile 30th, 2023 Riccardo Fucile
E LA VISITA DELLA MELONI A WASHINGTON NON E’ STATA ANCORA CALENDARIZZATA
Sono le prime dichiarazioni alla stampa da parte statunitense sulla fuga di Artem Uss, il russo di cui gli Stati Uniti avevano chiesto l’estradizione, che invece è scappato dall’Italia all’indomani del primo via libera della Corte d’appello di Milano, con quella che dai primi accertamenti sembra essere una operazione di «esfiltrazione» dei russi.
«Noi apprezziamo l’Italia come stretta alleata della Nato, del Quint (gruppo di dialogo tra Usa, Francia, Germania, Italia e Regno Unito. ndr ) e del G7. Anche se questo è stato un incidente molto spiacevole e siamo stati molto delusi per come si è svolto, siamo rincuorati dal fatto che l’Italia è andata avanti e c’è una indagine in corso», dice al Corriere della Sera una funzionaria del dipartimento di Stato.
«I nostri team dell’Fbi, della Giustizia e dell’IC (intelligence community, ndr ) sono in stretto contatto con le autorità italiane e siamo rincuorati perché l’Italia ha fatto qualcosa: congelando i suoi beni, nominandolo per sanzioni Ue».
La funzionaria aggiunge però che il congelamento dei beni «è una delle risposte e delle mosse da fare, ma alla fine dobbiamo fare un passo indietro e guardare alla situazione più ampia: questa è la Russia che viola palesemente la sovranità di un Paese. Non voglio commentare troppo, visto che gli italiani stanno ancora indagando e, speriamo, valutando ogni strumento a disposizione in risposta a quanto accaduto».
Da parte del dipartimento di Stato «non appena è arrivata la notizia della fuga, c’è stato un coinvolgimento ad ogni livello con gli italiani. E questo coinvolgimento continua», sottolinea la funzionaria.
(da agenzie)
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Aprile 30th, 2023 Riccardo Fucile
SOLITI FAVORI ALLE IMPRESE, LA PRECARIETA’ DIVENTA PRASSI
C’era una volta il decreto dignità. Fortemente voluto nel 2018 dall’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio, modificava il Jobs Act e introduceva nuove regole per i contratti a tempo determinato.
Da un lato li accorciava dai 36 ai 24 mesi massimi e riduceva da 5 a 4 le proroghe, ma poi permetteva il rinnovo dopo i primi 12 mesi e per un massimo di altri 12 mesi solo in presenza di alcune causali senza le quali il contratto sarebbe stato trasformato in assunzione definitiva.
Contratti più flessibili
Il nuovo decreto Lavoro allo studio del governo, e che lunedì primo maggio arriverà in Consiglio dei ministri, rimette tutto in discussione, in particolare per quanto riguarda i contratti a termine.
Le causali dai 12 ai 24 mesi diventeranno più «soft» e saranno legate ai contratti collettivi o aziendali oppure demandate a patti tra datore di lavoro e lavoratore.
«Una nuova deregulation che favorisce la precarietà» attacca l’opposizione.
Incentivi e giovani
Ma le novità riguardano anche altro. Per le nuove assunzioni, ai datori di lavoro sono riconosciuti degli incentivi. Quelli per i giovani fino a 30 anni che rientrano nella categoria «neet», cioè che né studenti né lavoratori, durano 12 mesi e valgono per le assunzioni dal primo giugno 2023 a fine anno e pesano per il 60% della retribuzione mensile lorda. Ma l’incentivo viene esteso anche per i contratti di apprendistato e somministrazione.
Confermato l’esonero contributivo per l’assunzione nelle regioni del Mezzogiorno e nelle Isole di giovani fino ai 35 anni e disoccupati. Il decreto prevede inoltre un fondo di 10 milioni di euro per il 2023 e di 2 milioni dal 2024 per le famiglie di studenti di scuole e università deceduti (dal primo gennaio 2018) mentre erano impegnati in attività di formazione, come ad esempio l’alternanza scuola-lavoro.
Limite dei voucher
Sale a 15 mila euro, da 10 mila, la soglia di utilizzo dei voucher per i lavoratori di aziende che operano nei settori dei congressi, delle fiere, degli eventi, degli stabilimenti termali e dei parchi divertimento.
Viene tolto il limite dei 29 anni per i contratti di apprendistato nei settori turistico e termale. E negli stessi settori potranno essere assunti sempre con contratti di apprendistato anche disoccupati sopra ai 40 anni.
Contratti di espansione
Più flessibilità anche per i contratti di espansione: viene prorogato alla fine di quest’anno lo scivolo pensionistico con l’anticipo di cinque anni per le aziende con oltre 1.000 dipendenti. La possibilità è rivolta alle aziende nell’ambito dei processi di reindustrializzazione e riorganizzazione. Cuneo fiscale Ancora da sciogliere del tutto il nodo del cuneo fiscale che il governo sta pensando di portare a un taglio di 4 punti per i redditi fino a 35 mila euro, che si tradurrebbe in 55 euro netti in più al mese.
(da il Corriere della Sera)
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Aprile 30th, 2023 Riccardo Fucile
QUATTRO ITALIANI SU DIECI SI RITENGONO SOTTOPAGATI
Quest’anno il Primo maggio arriva in un momento delicato, soprattutto per gli italiani. Perché il nostro Paese ha un serio problema di impoverimento, specie per quel che riguarda il lavoro, registrato settimana dopo settimana da ogni rilevazione che dà conto delle opinioni degli italiani. L’indifferenza è il triste risultato che scaturisce dalla domanda sulla celebrazione del Primo maggio. Tra rabbia, tristezza, speranza, delusione e festa, è proprio l’indifferenza a essere generata con la maggiore frequenza.
Secondo gli intervistati negli anni il Primo maggio ha assunto il ruolo di una festività priva di significato, solo vetrina e propaganda (30,2%), governata dalla politica (19,8%) e obsoleta (16,5%).
Solo per un italiano su tre (28,4%) mantiene la sua importanza e il suo valore. È principalmente l’elettorato del Partito democratico a dichiararlo (58,3%).
Se ci fermiamo a riflettere fa una certa impressione osservare che, anche tra l’elettorato di centrosinistra, con il tempo questa festività abbia smarrito il suo significato originario. Per i più il Primo maggio è una scusa per un ponte, come del resto il 25 aprile e, purtroppo, la mancanza del quorum dello scorso giovedì in Parlamento con l’assenza dei parlamentari nel giorno del voto sul Def offre un’ennesima conferma ai cittadini, qualsiasi siano state le giustificazioni.
In ogni classifica il lavoro è sempre una voce dominante, eppure rispetto all’articolo 4 comma 1 della Costituzione – «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» – la stragrande maggioranza degli italiani dichiara di non vedere riconosciuto tale diritto nella società odierna (75,8%). E neppure rispetto al comma 2 del medesimo articolo – «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» – si ritrova una visione italiana, perché il 76,1% degli intervistati afferma di non ritrovare nulla di tutto questo nella nostra società.
Sembra assurdo, ma la Costituzione italiana, celebrata e pluricitata, appare non rispettata proprio nei suoi principi fondanti.
La criticità più evidente secondo i cittadini è che il lavoro oggi sia sottopagato (37,3%) soprattutto nella visione delle donne (40,2%), così al posto di portare dignità alla persona (16,8%) si trasforma in un’emergenza (13,1%) e in uno strumento gestito in maniera antiquata (10,9%). Sono proprio i più giovani tra i 18 e i 24 anni, prossimi al mercato del lavoro, che ne lamentano i maggiori disagi e non ne riconoscono lo strumento per la costruzione di un futuro.
Del resto le manifestazione del 25 aprile e del Primo maggio non fanno registrare alcun cambiamento nelle intenzioni di voto degli italiani, poche sono le evoluzioni che registrate nel sondaggio realizzato per Porta a Porta tra il 26 e il 27 aprile. Rispetto a 15 giorni fa (ultimo sondaggio su La Stampa) pochi sono i cambiamenti rilevanti: un +0,5% per il Movimento 5 Stelle (15,7%) e la perdita di consenso di Fratelli di Italia (-0,6%).
Riflettendo sui dati, ciò che pensano gli italiani del Primo maggio rispecchia ciò che pensano del lavoro, e a tratti della politica. La domanda riflette una risposta mancata: paghe inferiori alle attese, navigare a vista tra le emergenze, sciatteria nella gestione, metodi antiquati ecc… Di anno in anno cresce la percentuale di persone maggiorenni che non partecipano alla vita politica. Un’adesione che potrebbe avvenire in maniera indiretta per qualche elettore, leggendone o parlandone, oppure in via attiva partecipando a cortei e manifestazioni e che, tuttavia, a oggi tiene lontano un italiano su tre (26,3% dati Istat 2021).
Nulla cambia e tutto si perpetua e così, come recita una freddura, se al desiderio di un bambino per un unicorno alato da trovare sotto l’albero di Natale gli chiedessimo qualcosa di più reale, lui ci potrebbe domandare un lavoro per aiutare la sua famiglia e pianificare il futuro… Sarà proprio allora che ci faremmo in quattro per trovare la leggendaria creatura.
(da La Stampa)
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Aprile 30th, 2023 Riccardo Fucile
DEVONO ESSERE RIPARATI
Venti cannoni semoventi M109L consegnati dall’Italia all’Ucraina sono inutilizzabili. Lo rivela un articolo del Financial Times, che riporta le dichiarazioni di un consigliere del ministro della Difesa di Kiev.
I venti obici – che appartengono alla stessa tipologia di semoventi visti transitare dalla stazione di Udine qualche settimana fa – sarebbero stati prodotti dalla Oto Melara nei primi anni Novanta.
Si tratta di cingolati dotati di un cannone da 155 millimetri, considerato lo standard dell’artiglieria Nato. Nel 2002, spiega Repubblica, il governo italiano ha deciso di trasferire tutti i cannoni semoventi nel deposito di Lenta, in provincia di Vercelli.
La scorsa estate, l’esecutivo di Mario Draghi ha deciso di recuperare gli M109L, abbandonati da oltre vent’anni all’aria aperta, per inviarli al governo di Kiev. L’accordo previsto era il seguente: l’Italia avrebbe fornito 60 obici all’Ucraina e gli Stati Uniti avrebbero finanziato i costi di riparazione. A settembre, il governo italiano ha spedito ai tecnici ucraini i primi venti cannoni. Le componenti americane per ripararli, però, non sono mai arrivate oppure si sono rivelate incompatibili. Risultato: i cannoni sono rimasti fermi per mesi.
Secondo la ricostruzione del Financial Times, i venti M109L sarebbero diretti in Italia o in Belgio, dove potranno essere riparati. Nel frattempo, il governo italiano sembra aver imparato la lezione. La seconda tranche di semoventi partiti a Pasqua e filmati alla stazione di Udine, precisa Repubblica, sono stati riparati prima di partire e pare che siano già stati usati in battaglia.
(da agenzie)
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Aprile 30th, 2023 Riccardo Fucile
IL CAPITANO ALESSIO GHERSI ERA AI COMANDI DELL’ULTRALEGGERO PRECIPITATO IN FRIULI
C’era il capitano dell’Aeronautica militare Alessio Ghersi sull’ultraleggero precipitato nell’alta Val Torre in Friuli e morto insieme a un parente che era bordo con lui.
Ghersi era un pilota delle Frecce tricolori con il nome di Pony 5, aveva la posizione di secondo gregario destro.
34 anni, originario di Domodossola, era entrato in Aeronautica mixiate nel 2007 con il corso Ibis V dell’Accademia Aeronautica. Finite le scuole di volo, era stato assegnato al IV Stormo di Grosseto. È stato lì che ha conseguito la qualifica di pilota combat ready sul velivolo Eurofighter, con cui ha svolto attività di difesa aerea anche per missioni Nato.
È stato poi selezionato per le Frecce Tricolori, con cui stava per partecipare alla quinta stagione. Ghersi e l’altra vittima dell’incidente viaggiava su un Pioneer 300 areche I-8548 che era decollato poco prima da Campoformido. Testimoni hanno raccontato di aver visto il velivolo prendere fuoco prima di schiantarsi in una zona boschiva.
La seconda vittima è il 35enne Sante CiacciaLa seconda vittima dell’incidente aereo è invece Sante Ciaccia, un 35enne originario di Monopoli, in provincia di Bari, ma attualmente residente a Milano. Risulta essere un parente della moglie del pilota dell’ultraleggero, Alessio Ghersi. Stando alle prime ricostruzioni disponibili, Ghersi e Ciaccia stavano facendo un sorvolo serale di pochi minuti per poter ammirare il paesaggio montano.
Un’uscita semplicemente di svago favorita dal fatto che il 35enne era arrivato in Friuli proprio per assistere all’Airshow delle Frecce, in programma alla Base aerea di Rivolto per domani. E ora annullato in segno di lutto dai vertici dell’Aeronautica militare.
(da Open)
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Aprile 30th, 2023 Riccardo Fucile
“LI PAGHERO’ DI PIU’ MA MI COSTERANNO MENO DI UNO STATO CHE TI TAGLIEGGIA”
M. R. è un imprenditore alla guida di un gruppo hi-tech con due sedi principali a Roma e Londra e altre sedi in molti paesi del mondo. Ha approvato i conti del gruppo e il 2022 è andato così bene da avere la possibilità di distribuire un dividendo a se stesso e ai soci. Convocata l’assemblea della società ha fatto approvare la delibera per la distribuzione di quel dividendo. Ultimo atto formale la sua registrazione. E questa in Italia è una strada tutta in salita. «In Gran Bretagna», si sfoga M.R., «mi è bastato inviare la delibera per mail alla Camera di commercio procedendo così rapidamente al pagamento dei dividendi. In Italia questo è impossibile perché non esiste ancora una procedura digitalizzata». Non potendo recarsi di persona fisicamente perché avrebbe perso troppo tempo prezioso, M.R. ha incaricato una agenzia specializzata di fare la fila per lui, e ovviamente l’ha pagata per questo 120 euro più Iva. In più ha dovuto pagare 200 euro all’Agenzia delle Entrate per registrare il verbale sui dividendi (che vengono a loro volta tassati), più una marca da bollo di 16 euro. Ma non basta registrarla qui. Bisogna fare il bis anche alla Camera di commercio. Il deposito qui costa un po’ meno (120 euro), ma a parte restano da pagare altri 65 euro di diritti camerali. Alla fine 548 euro per quello che a Londra costa zero. «L’unica cosa che posso dire è Bye Bye», spiega amareggiato l’imprenditore, «perché ogni volta è così in qualsiasi passaggio burocratico. Stare in Italia mi costa troppo e in ogni paese civile del mondo tutto questo non esiste più da anni: si fa tutto on line senza costi. Non mi resta che proporre ai miei dipendenti il trasferimento a Londra. Li pagherò di più, ma mi costeranno meno di uno Stato che ti taglieggia per cose inutili buone solo a mantenere in piedi strutture che non servono più, con i loro consigli di amministrazione e personale in esubero…».
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
LE STORIE DI SARA, GIACOMO, GIORGIA, VINCENZA E LUCA, CINQUE RAGAZZI RACCONTANO LA LORO ESPERIENZA
C’è chi è partito in cerca di una prospettiva. Chi crede in un futuro in Italia e sta per tornare a casa, portandosi dietro esperienze. Chi non riesce a non farsi ogni giorno la stessa domanda: «Ne vale la pena?». Ogni anno il Primo Maggio diventa l’occasione per riflettere su ciò che non funziona nel mercato del lavoro italiano, fatto di bassi salari, poche tutele e prospettive di futuro quasi azzerate. Ogni anno la speranza è che questo giorno non sia solo un ricorrenza di frasi fatte, ma sia l’occasione per impegnarsi concretamente a far cambiare le cose. Per fare questo, partiamo dalle storie di cinque giovani, su cui il far west del mercato del lavoro pesa di più. Storie di ventenni e trentenni stanchi di sentire la retorica del sacrificio: giovani che hanno il coraggio di fare scelte per la qualità del loro lavoro, che vuol dire la qualità della loro vita.
Sara Della Rovere, 25 anni, praticante avvocato
«Siamo davvero dei professionisti che, per spiccare, devono vivere per lavorare?». Nonostante Sara Della Rovere una risposta a questa domanda ce l’abbia, le continua a rimbombare in testa tutti i giorni, combattuta dalla passione per il suo mestiere e le rinunce che le richiede. Una mattina di qualche settimana fa ha deciso di metterla nero su bianco su LinkedIn, con un post in cui ha raccontato la conversazione con una collega. «Se vuoi essere un ottimo avvocato, visto quanti ce ne sono – è la risposta che ha ricevuto dalla collega -, devi dedicarti completamente al lavoro, altrimenti rimarrai sempre mediocre». Ma per Sara, 25 anni appena compiuti, la qualità della vita di un bravo professionista non può essere misurata in ore passate alla scrivania.
Di origini friulane, si è trasferita a Milano durante gli studi universitari e per permettersi la vita nella metropoli più cara d’Italia ha sempre fatto «lavoretti – racconta -, dalla cassiera alla Lidl all’addetta alle vendite da Pandora». Finché, dopo la laurea in Giurisprudenza, non ha iniziato la pratica forense con il sogno di diventare avvocato. «Sogno che ogni giorno si scontra con una realtà fatta di compromessi e rinunce – rimarca -: la rinuncia a un equilibrio vita-lavoro, a dei ritmi di vita sostenibili, a un’indipendenza economica. Spesso, anche la rinuncia alla sanità mentale». Da Milano si è trasferita a Monza non solo per i costi ma anche perché lavorare in uno studio di periferia le permette di avere una vita che è quasi «un’utopia per il mio settore», commenta. La sveglia suona tutti i giorni alle 8 meno 15, alle 8 e mezza esce di casa per entrare in studio verso le 9. Lavora otto ore con una pausa pranzo di due che le permette alcuni giorni di andare in palestra. «Rispetto alle esperienze di miei amici ed ex colleghi, che non escono dall’ufficio mai prima delle 21 e fanno pranzi davanti al computer – spiega -, io ho preferito l’umanità».
Per i 18 mesi di praticantato percepisce un rimborso spese «attorno ai 400 euro». Una cifra che non le permette di mantenersi a Milano ma nemmeno a Monza. «Ad oggi è obbligatorio il compenso per legge – aggiunge – ma non viene stabilito un minimo: alcuni miei colleghi prendono 150/200 euro mensili, gli studi si giustificano dicendo che usciti dall’università non siamo una risorsa ma quasi un peso». Difronte a questa realtà «sono combattuta se quello che sto facendo sia effettivamente quello che voglio fare – conclude Sara -: questa prima parte di formazione è sicuramente la più dura e non aiuta il fatto che si tratti di una professione quasi satura. Quotidianamente mi chiedo se ne valga la pena. Poi i miei dubbi si risolvono in virtù di quella che è la passione per questo mestiere. Ma credo che sia necessario un intervento».
Giacomo Collini, 33 anni, ingegnere
Cinquantacinque. Quarantasette. A volte quarantasei. Giacomo Collini ha perso il conto delle ore che passava in ufficio a Bologna. Ma non è il tempo passato davanti a un computer o in macchina per raggiungere la sede di lavoro ad averlo fatto scappare in Germania. Ingegnere appassionato del suo mestiere, a 33 anni come tanti ragazzi guarda avanti, sogna. E in Italia, dice, è questo che manca: la prospettiva. Lo spiega riprendendo la metafora che usava il suo datore di lavoro: «Ci diceva di pensare a una partita di pallavolo in cui il nostro compito era buttare di là la palla. Dovevamo solo fare questo: buttare la palla di là. Non c’era pianificazione, non c’erano prospettive». Da settembre Giacomo si è trasferito a Dusseldorf con la sua compagna, dove tra lo stipendio più alto – «e il costo della vita è pari a quella di Bologna», sottolinea -, e le maggiori libertà – «la settimana lavorativa è di 37 ore» – riesce a immaginarsi un futuro. «Ci siamo interrogati sul tornare o meno a Bologna – confessa -, ma non rientreremmo mai per il solo sgravio fiscale, vorremmo anche lo stesso work/life balance che possiamo avere qua».
Originario di Ravenna, dopo aver fatto il muratore e l’elettricista durante il periodo scolastico, all’Alma mater di Bologna si è laureato in Ingegneria meccanica. Ha iniziato subito a lavorare per una multinazionale con sede sotto le Due Torri, con un contratto a tempo indeterminato «e un buono stipendio – riconosce -, per gli ingegneri è abbastanza la normalità». Per un anno e mezzo ha fatto il collaudatore, finché non è passato all’ufficio commerciale come specialista di prodotto. «Da lì è diventato un lavoro più gestionale e ho iniziato a fare le grandi trasferte: sono andato a Wuhan quando ancora nessuno la conosceva». Sono passati velocemente sei anni, in cui oltre il lavoro c’era poco spazio per dedicarsi ad altro. «Lavorando con l’Asia alle 8 di mattina c’erano già riunioni, poi il pomeriggio c’erano quelle con il mercato americano. La mia settimana lavorativa durava mediamente 48 ore». Si è trasferito da Bologna a Faenza quando ha incontrato la donna che sarebbe diventata sua moglie. «Ho fatto presente in azienda la necessità di fare un’ora di macchina all’andata e al ritorno tutti i giorni – ricorda -, mi è stato risposto che l’auto aziendale non me l’avrebbero data, ma che ci sarebbero state possibilità di carriera. Promesse non mantenute e da lì ho iniziato a guardarmi intorno».
Dopo lunghe settimane passate a mandare curricula, da un cliente è arrivata la proposta di trasferimento in Germania. Accettata dopo mesi di ripensamenti. Da settembre Giacomo vive a Dusseldorf e la sua vita è stata stravolta, in senso positivo. «Qui la settimana è di 37 ore, il venerdì pomeriggio è libero. Non ci sono orari standard, basta rientrare nel bilancio delle ore annuali – spiega -. Se esci 10 minuti prima non devi chiedere un permesso, se ritardi non ti devi giustificare. Tutta questa libertà mi ha sconvolto: non ce l’avevo mai avuta». Non solo. «Ci sono tanti servizi per le famiglie e agevolazioni per i giovani- aggiunge -. Il mercato del lavoro italiano è senz’altro disallineato rispetto alle aspettative delle persone: non puoi offrire mille euro al mese perché la vita adesso ha un costo elevato – sottolinea Giacomo -. Ma oltre a un problema di stipendi, manca la garanzia di un futuro». Quell’auto aziendale a Dusseldrof è arrivata. «Quello che in Italia ci sembrava impossibile, qui è automatico».
Giorgia Vezzani, 27 anni, specialista di sostenibilità ambientale
«Sono tornata a Copenaghen e …piove». Sono passati quattro anni ma Giorgia Vezzani, 27enne di Reggio Emilia, non si vuole abituare. Il brutto tempo, il sole che da novembre a marzo sorge alle 8 e tramonta alle 15, uscire di casa nel buio e rientrare nel buio. Si è trasferita in Danimarca nel novembre del 2019, dopo una laurea magistrale in Economia dell’ambiente. A Copenaghen «la mancanza di sole si fa sentire», insiste, ma si è costruita una vita che in Italia sarebbe difficile da immaginare. «Non mi piace dire che sono i Paesi più felici al mondo perché non penso sia così – sottolinea -, ma come indicatori di benessere sono sempre in alto. Qui c’è la consapevolezza che abbiamo diritto a una vita oltre al lavoro». Se alla pioggia non ci si abitua, alla libertà sì. E ora che sogna di tornare in Italia non nasconde di avere qualche timore: «La mia paura è lavorare per sopravvivere – confessa -. Qua ho trovato una qualità della vita elevata e la libertà economica, ma l’amore per la mia famiglia e per i miei amici di una vita non può essere sostituito».
Ancora prima di avere una laurea in tasca, in Danimarca Giorgia ha percepito uno stipendio di disoccupazione che le ha permesso di mantenersi finché non ha trovato lavoro come specialista di sostenibilità ambientale da Postnord, «l’equivalente delle Poste Italiane in Danimarca – spiega -. Sono responsabile di calcolare la co2, cercare di capire come ridurre le emissioni e aumentare la sostenibilità aziendale». La settimana dura 37 ore: lavora dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 16.30, con pause pranzo di mezz’ora. Un orario che le permette di non rinunciare ad allenarsi per il triathlon, vedere gli amici e il fidanzato. «Ognuno si organizza come vuole – spiega – perché si può scegliere a che ora iniziare a lavorare: c’è chi attacca alle 7 ed è libero alle 14.30». Non c’è bisogno di permessi né di giustificazioni. «Se devo andare dal medico me lo lasciano fare, se voglio lavorare da casa posso farlo sempre – chiarisce -. La differenza tra la società danese e quella italiana è che la prima è basata sulla fiducia e sembra funzionare».
A farla desistere finora dal rientrare in Italia sono state anche quelle che definisce “storie horror” raccontate dagli amici. «Ho amiche che attaccano alle 9 e finisco tra le 20 e le 21. E viene dato per scontato. In Italia sembra che il datore di lavoro ti faccia un favore ad assumerti, mentre in Danimarca sei tu a fare un favore al datore e tutto viene incentrato sul tuo benessere. La mia paura è tornare e lavorare per sopravvivere, e con lo smart working che sembra essere una concessione divina». Paura colmata dalla mancanza della famiglia e degli amici, che l’ha spinta a decidere in ogni caso di rientrare nel 2024. «Sono consapevole che tornerò in un ambiente dove avrò uno stipendio più basso e delle condizioni lavorative peggiori, ma desidero fare una professione che mi permetta di dare indietro quello che ho imparato qui. Mi sono state date delle opportunità lavorative che credo che non mi sarebbero mai state date in Italia. Aumentare gli stipendi è importante, ma fidarsi dei propri lavoratori lo è ancora di più».
Vincenza Giglione, 32 anni, copywriter
«Ci viene detto che non siamo più disposti ad accettare certe condizioni di lavoro. E perché dovremmo?». Vincenza Giglione, originaria di Camporeale, un paesino di nemmeno 3mila abitanti in provincia di Palermo, sintetizza i suoi 32 anni come uno «zigzagare da un lavoro all’altro, da una città all’altra, da un Paese all’altro». Dopo una laurea a Milano, due tirocini, diversi lavori come copywriter e una parentesi a Cambridge per un master, è tornata a Catania. «Ho sempre percepito il tornare in Sicilia come un fallimento», confessa. Invece per lei la pandemia non ha solo cambiato le priorità ma le ha anche dato il tempo di cambiare prospettiva. «Vivere a Milano significava una vita con la data di scadenza, non vedevo un futuro – ricorda -. Il Covid ci ha fatto notare le storture del sistema in cui siamo, ci ha ricordato che non esiste solo il lavoro e, a me, che non esistono solo le grandi città».
Nel capoluogo lombardo è arrivata per studiare Lettere moderne all’Università. Poi, con la laurea in tasca, è volata a Cambridge per un master in Editoria. Qui si è affacciata al mondo del lavoro con il primo stage in una piccola casa editrice e poi, rientrata a Milano, con il secondo nell’ufficio comunicazione di un’università. Zigzagare sì, ma a Vincenza non è mai mancata la voglia di mettersi in gioco che l’ha portata, rimborso spese dopo rimborso spese, a ricevere la prima offerta di lavoro come copywriter: «È stata un’esperienza positiva – ricorda -, anche se avevo un contratto che si rinnovava ogni 6 mesi, vivevo con l’ansia di restare a casa». Senza mai darsi per vinta ha cambiato agenzia, «un’esperienza terrificante – spiega -: si è conclusa con una causa legale contro il nostro datore di lavoro. Siamo rimasti a casa da un giorno all’altro con modalità da film». Ricorda la vita Milano come «alienante»: «Bisogna sempre correre e chi si ferma è perduto. Anche se sono arrivata in un momento in cui i prezzi degli affitti non erano ancora così folli, non mi permetteva di ragionare in prospettiva, non riuscivo a mettere niente da parte».
La pandemia l’ha aiutata a rivalutare alcune scelte e, nell’estate dopo la prima ondata, è tornata nella sua Sicilia, ha aperto una partita Iva ed è diventata freelance. Ora lavora come copywriter e traduttrice, porta avanti un progetto musicale come cantante e vive con il mare sullo sfondo. «È troppo facile dire che noi giovani non abbiamo voglia di fare – conclude -. Non è così: io incontro persone che hanno come fine la soddisfazione personale ma anche la volontà di creare valore nella società. Ci viene detto che non accettiamo certe condizioni di lavoro ed è giusto che sia così: la gavetta la facciamo tutti, accettiamo rimborsi spese in cambio di formazione, ma a un certo punto se una persona pur di lavorare deve farsi pagare dai proprio genitori non credo sia normale. È sfruttamento”.
Luca Altimani, 29 anni, freelance esperto di comunicazione
Manda un curriculum e passano giorni. Presto diventano settimane, mesi. Luca Altimani ricontrolla il curriculum. Forse qualcosa non funziona, perché nessuno lo chiama nemmeno per un colloquio. Tra le esperienze principali ci sono più di tre anni come amministratore di “Commenti memorabili”, una pagina che interpreta con ironia le notizie del giorno seguita da oltre tre milioni di persone solo su Instagram. «Ho delle potenzialità», riflette. Eppure la conclusione è una: «Il mondo del lavoro non mi vuole». A raccontare come ci si sente quando devi essere «selezionato da qualcuno» è un 29enne di Carmagnola, freelance della comunicazione ed esperto di social media.
«Nella mia vita non ho mai avuto voglia di lavorare finché non ho trovato qualcosa che mi piacesse fare», ammette. Dopo aver lavorato in un negozio di abbigliamento e aver fatto l’agente immobiliare per un anno, la svolta è arrivata quando il fondatore di “Commenti memorabili” l’ha chiamato per entrare a far parte del team: «Si era accorto – spiega – che i miei commenti venivano sempre selezionati». Si è buttato in quella avventura senza avere esperienze da social media manager alle spalle e sono passati velocemente tre anni, tra ufficio e smart working. «Un giorno mi sono detto che volevo giocare da libero battitore», ricorda. E così ha chiuso il computer per un anno. Ha viaggiato e ha provato a fare il falegname, finché non gli è tornata la voglia di ricominciare da capo. «Ho iniziato a mandare curricula nel mondo del digital, avevo un’esperienza positiva alle spalle e credevo di trovare piuttosto facilmente un normale lavoro che mi permettesse di portare a casa un normale stipendio. Invece nessuno mi contattava».
Sono passati tre mesi, che poi sono diventati sei e velocemente otto. Un periodo che a Luca è sembrato infinito. «Ho fatto due colloqui su chissà quante candidature presentate. Mi sentivo male: un lato di me sapeva che avevo delle potenzialità ma dall’altra parte mi dicevo che il mondo del lavoro non mi voleva. Ero a terra». Si è persino presentato al Comune di Carmagnola per chiedere come poter trovare un’occupazione: «Mi hanno consigliato di creare il cv in formato europeo – spiega -, ma neanche questo è servito». Si è iscritto a LinkedIn su consiglio della sua compagna. «Mi sono creato un profilo standard, con la foto con la camicia e dei libri di business sulla mensola per fare capire che ero uno sveglio – ironizza -, mandavo solo candidature ma non funzionava. Finché mi sono detto “quello non sei tu” e ho ricreato tutto per come sono davvero».
Ha riorganizzato il profilo in modo che lo rispecchiasse e, in chiave ironica, ha iniziato a scrivere post prendendo in giro lo stesso mondo del lavoro che sembrava non accettarlo. «Le persone hanno iniziato ad avvicinarsi – racconta -, così come le aziende. Sono diventato un freelance, ho diversi clienti che vogliono qualcuno che segua la comunicazione in modo non istituzionale, faccio formazione e seguo eventi». Non nasconde l’emozione: «Ho capito quanto fosse importante non adattarsi a un sistema e mantenere la mia identità. Ora è come se avessi vinto al lotto».
(da La Stampa)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
DISTRUTTI OLTRE 10 SERBATOI DI PRODOTTI PETROLIFERI RUSSI, INCENDIO MOLTO VASTO
Gli 007 di Kiev esultano e parlano di punizione di Dio per Uman
L’esplosione e il conseguente vasto incendio di un deposito di carburante a Sebastopoli è «la punizione di Dio, in particolare per i civili uccisi a Uman, tra i quali ci sono cinque bambini».
Lo ha detto Andriy Yusov, rappresentante del Gur, il servizio di intelligence del ministero della Difesa dell’Ucraina, come riporta Rbc Ukraine.
«Questa punizione sarà di lunga durata. È auspicabile affinché tutti i residenti della Crimea temporaneamente occupata non siano vicini alle strutture militari nel prossimo futuro», ha detto ancora Yusov, aggiungendo che nell’esplosione di Sebastopoli sono stati distrutti più di 10 serbatoi con prodotti petroliferi. La loro capacità totale è di circa 40 mila tonnellate. I prodotti petroliferi erano destinati alle esigenze della flotta del Mar Nero della Federazione Russa.
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2023 Riccardo Fucile
MENO SOLDI PER I POVERI, PIU’ QUATTRINI ALLE IMPRESE, SI RIDUCE LA PLATEA DEGLI AVENTI DIRITTO
La lotta della destra al reddito di cittadinanza volge al termine: tagli e modifiche si erano già visti con la Manovra, così come la propaganda contro i percettori del sussidio, che ha impegnato a lungo il dibattito pubblico, sbeffeggiando i più poveri e facendo un favore agli sfruttatori. Ora arriva però il decreto Lavoro del governo Meloni, che, tra diversi temi, tratta anche delle nuove misure contro la povertà, tra cui la Garanzia per l’Inclusione. Il paradosso è che le norme delineate dall’esecutivo ricalcano quasi del tutto quelle del decreto 4/2019, che istituiva il Reddito di cittadinanza: la nuova misura conserva (e in parte riesce persino a peggiorare) i difetti dell’originale, eliminando però gli elementi di dignità che il sussidio contro la povertà aveva introdotto. Vediamo come.
GPI, PAL, GAL: nuove sigle per un’elemosina di Stato
Le nuove misure governative confermano le modifiche già introdotte con la manovra: meno soldi, riduzione della congruità delle offerte, più incentivi alle imprese. In particolare, il decreto lavoro prevede tre diversi sussidi: la Garanzia per l’Inclusione (GPI), la Prestazione di Accompagnamento al Lavoro (PAL) e la Garanzia per l’Attivazione Lavorativa (GAL).
La PAL è destinata a coloro che percepivano il reddito di cittadinanza, sebbene con importanti riduzioni di importo, dal momento che l’indennità ammonta a 350 euro al mese per ogni richiedente, comunque entro il limite annuo di 6.000 euro, moltiplicati per la scala di equivalenza, per nucleo familiare. La GAL è invece destinata a persone in condizioni di povertà assoluta, con un ISEE inferiore a 6.000 euro all’anno: l’indennità ammonta a 350 euro al mese, con la possibilità, per un solo altro componente del nucleo familiare, di richiedere l’indennità, che però sarà di soli 175 euro al mese. Una famiglia in povertà assoluta potrà ambire, al più, a 525 euro al mese. Non un euro di più.
Ma è la Garanzia per l’Inclusione la misura centrale del decreto governativo, che come anticipato ricalca la struttura del RdC. La platea dei possibili beneficiari di questo nuovo sussidio, però, è molto ridotta. Già nelle discussioni degli scorsi mesi si escludevano gli occupabili (che dovrebbero cercarsi da soli un posto di lavoro, secondo il sottosegretario Durigon) e i giovani privi di titolo di studio non iscritti a corsi di formazione, ma la proposta del governo Meloni va oltre. La Garanzia per l’Inclusione sarà infatti erogata solo ai nuclei familiari che abbiano almeno un componente con disabilità, o minorenne, o con almeno sessant’anni di età, o un soggetto a cui sia stata riconosciuta una patologia che dà luogo ad assegno per l’invalidità civile. Non solo. I nuclei familiari a cui spetta il nuovo sussidio saranno più poveri di quelli assistiti con il RdC: se in origine la soglia ISEE era di 9.360 euro, ora scende a 7.200.
I favori agli sfruttatori e alle imprese, tra incentivi e decadenza dal sussidio
Di contro, aumentano gli incentivi alle imprese e, oltre a questi, anche la manovalanza ricattabile per gli sfruttatori.
Ma partiamo dai favori alle imprese. Come in molti casi, anche con le misure di sostegno alla povertà e di politica attiva del lavoro sono previsti incentivi alle imprese che assumono, sotto forma di decontribuzione: in altri termini, assumendo un percettore di indennità (ma anche altre categorie di lavoratori), i contributi sono pagati dallo Stato, invece che dall’impresa (e dai lavoratori).
Nel caso del reddito di cittadinanza, i datori di lavoro che assumevano i percettori a tempo pieno e indeterminato potevano contare sull’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per massimo 18 mensilità, entro il limite dell’importo dell’indennità percepita dal lavoratore; nella nuova misura del governo Meloni, entro il limite di 8.000 euro annui, a chi assume, anche a tempo parziale, è riconosciuto l’esonero dal versamento del 100% dei complessivi contributi previdenziali, per un massimo di 24 mensilità.
C’è però un’altra modifica che non favorisce solo le imprese, ma soprattutto gli sfruttatori. Già con il RdC era prevista la decadenza in caso di rifiuto di tre offerte di lavoro congrue, ossia proposte che avessero una certa coerenza con la formazione e le esperienze maturate, e con un’attenzione alla distanza dal domicilio: l’ultima offerta poteva arrivare dall’intero territorio nazionale, ma la prima doveva essere entro un raggio di 100 km. Con la Garanzia per l’Inclusione (che, è il caso di ricordarlo, è dedicata solo a chi abbia in famiglia persone con disabilità, o minori, o anziani) non c’è alcun riferimento alla collocazione geografica dell’offerta di lavoro, e l’intero nucleo familiare decade di diritto dal beneficio nel caso in cui un componente non accetti una qualunque proposta, anche a tempo determinato, anche in somministrazione, di durata non inferiore a un mese.
Tra l’altro, contrariamente alle critiche sulla scarsa efficacia della precedente misura nel trovare un lavoro ai percettori, e nonostante le (pur vaghe) proposte della ministra Calderone, non ci sono particolari novità in termini di politiche attive del lavoro: il collocamento dei disoccupati resta un problema irrisolto.
Controlli e sanzioni tra cultura del sospetto e repressione
Resta poi quasi del tutto invariato l’impianto giustizialista già presente nel decreto del governo gialloverde: copiando quasi alla lettera i predecessori, il governo Meloni considera reato le dichiarazioni false (da due a sei anni di carcere) e l’omessa comunicazione di variazioni del reddito “anche se provenienti da attività irregolari” (da uno a tre anni), a cui si aggiunge la revoca retroattiva con restituzione di quanto percepito.
Nel decreto sul RdC, inoltre, era prevista la decadenza anche in caso di condanna in via definitiva (o patteggiamento) per i reati di truffa aggravata, strage, terrorismo, mafia. Già questa previsione era discutibile sul piano sociale, dal momento che, se lo scopo di un sussidio è la lotta alla povertà (e non la repressione dei reati, per cui esistono già le pene), il bisogno è bisogno a prescindere dalla fedina penale, e le condanne che dovrebbero tendere alla rieducazione del condannato, non alla sua perenne stigmatizzazione sociale ed economica, con un impatto sull’intero nucleo familiare (come sia possibile per un figlio di camorrista discostarsi dal suo destino, se le colpe dei padri continuano a ricadere sui sussidi alla famiglia, è un mistero).
Il governo Meloni inasprisce ulteriormente quest’impianto già abbastanza punitivo. La decadenza non è limitata ai gravi delitti di mafia e terrorismo o a quelli relativi alle truffe, in un certo senso legati all’erogazione di sussidi, ma si allarga a qualunque delitto non colposo che comporti l’applicazione di una pena non inferiore a un anno di reclusione.
A questo si aggiunge anche la sospensione dal sussidio in caso di condanne non definitive o di misure cautelari o persino di misure di prevenzione, ossia restrizioni imposte non per la commissione di delitti, ma in base a un giudizio di pericolosità.
C’è poi anche una sospettosa attenzione ai controlli: i Comuni, come anche in precedenza, devono procedere alla verifica dei dati, incrociando le dichiarazioni rese con le informazioni anagrafiche in loro possesso, ma a questa vigilanza si aggiunge la minaccia di responsabilità amministrativo-contabile, e disciplinare, nei confronti di chi non scopra fatti suscettibili di dar luogo a revoca o decadenza dal sussidio
Persone di serie A e di serie B: la discriminazione della povertà
Restano poi intatti i problemi di discriminazione, e di esclusione sociale, che già c’erano con il reddito di cittadinanza. Sebbene infatti la misura abbia sostenuto nel 2022 1,7 milioni di famiglie, per un totale di 3,6 milioni di individui, il dato dell’anno precedente sulle persone in povertà assoluta è ben più alto: 5,6 milioni, a cui si aggiungono gli 8,8 milioni di individui in povertà relativa secondo i dati Istat del 2021. La realtà, insomma, nonostante le critiche, è che il reddito di cittadinanza non era troppo: piuttosto, non era abbastanza.
C’è poi un elemento discriminatorio, sia rispetto all’accesso alla misura, sia per la documentazione richiesta agli extracomunitari aventi diritto: il RdC era infatti per cittadini italiani o dell’UE, mentre per i cittadini di paesi terzi era richiesto il permesso per soggiornanti di lungo periodo, con residenza in Italia negli ultimi 10 anni. Inoltre, per ottenere il sussidio, allo straniero è richiesta la produzione di un maggior numero di documenti, con certificazione rilasciata dalla competente autorità dello Stato estero, tradotta e legalizzata dall’autorità consolare italiana.
Si potrà dire, ignorando il diritto antidiscriminatorio, “prima gli italiani!”, ma si avrebbe torto. L’esclusione degli stranieri, ma in generale delle persone, ha un impatto sulla società, perché la miseria non è un fatto individuale, ma una questione collettiva: la povertà, oltre a poter avere conseguenze criminogene (spingendo le persone a commettere reati per sopravvivere), rende ricattabili, specie sul luogo di lavoro, e soprattutto le persone straniere, dal momento che la mancata accettazione di condizioni di lavoro degradanti può comportare la perdita del posto e, con esso, del permesso di soggiorno.
Ovviamente, questa disparità di trattamento (che in casi simili è stata dichiarata discriminatoria nei tribunali) è rimasta invariata nella politica sociale del governo Meloni.
ll “beneficio”: il paternalismo della concessione contro la garanzia dei diritti
C’è infine un problema lessicale che ricorre spesso nelle norme su indennità e misure sociali, ed è lo slittamento concettuale dall’erogazione al “beneficio”. Sia il reddito di cittadinanza, sia le indennità previste dal governo Meloni, sia i precedenti sussidi sono definiti con questo termine che, in sé, potrebbe anche essere neutro. Quando però la scelta terminologica si accompagna a una strategia politica paternalista e punitiva, che, pur promettendo di superare la povertà, la affronta sempre con un approccio colpevolizzante, la concezione dello stato sociale diventa assistenzialista, simile a quella già vista in altre epoche: chi è in difficoltà si ritrova a dover intraprendere un percorso a ostacoli, in cui viene considerato nullafacente e parassita, trattato con sospetto, espulso dall’economia legale e dall’assistenza pubblica se ha la sventura di un familiare condannato (o anche solo indagato), il tutto per poche centinaia di euro al mese, per qualche mese, e con l’obbligo di accettare anche offerte tutt’altro che congrue.
La povertà affrontata politicamente in questo modo diventa allora tanto uno strumento di consenso quanto di controllo sociale, con cui si raccolgono i voti dei disperati, nella speranza di un’elargizione pubblica, ma li si tiene nella precarietà esistenziale di chi non sa se la nuova carta arriverà all’ufficio postale, se l’Inps risponderà alla domanda, se i conteggi del patronato sono giusti, e che davanti a queste preoccupazioni può vivere solo giorno per giorno, senza occasioni di solidarietà collettiva né di elaborazione politica.
La parola “beneficio”, che ricorre in queste norme sul margine tra assistenzialismo e paternalismo, ricorda molto la beneficenza, un concetto ben diverso dalla solidarietà su cui dovrebbe reggersi la nostra socialdemocrazia. La beneficenza è un atto di generosità che lascia intatte le disparità di partenza: chi ha di più, liberamente, concede a chi ha di meno, che riceve e ringrazia, ma che non può lamentarsi se il benefattore smette di donare. La solidarietà, invece, ha un respiro collettivo, è un dovere e un diritto, coinvolge tanto chi tende la mano quanto chi ha bisogno di aiuto, che è parte attiva e protagonista del miglioramento delle proprie condizioni, personali e sociali, e che è anche in grado di comprendere che l’uguaglianza sostanziale non è un regalo da parte dei ricchi, o delle imprese, o dello Stato: è un diritto, non un favore.
(da Fanpage)
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