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LAVORO, LA STRAGE NASCOSTA, CENTO MORTI DIMENTICATI AL GIORNO

I DATI INAIL NON REGISTRANO CHI ERA OCCUPATO IN NERO E NEMMENO POLIZIOTTI E VIGILI CHE RESTANO “INVISIBILI”

Caduti, schiacciati, carbonizzati, avvelenati. Leonardo Scarpellini 25 anni. Francesco Leo, 24. Andrea Dalan, 40. Michele Di Lorenzo, 37. Emanuela Viezzer, 52. Antonio Galvano, 39. Daniele Finotti, 59.
Sono solo alcune delle sessantasette persone che hanno perso la vita sul lavoro dall’inizio dell’anno. Non tutte le loro storie sono raccontate da giornali e tv.
Ma l’affronto finale è che molti di quei morti scompariranno letteralmente dalle statistiche nazionali, la loro fine resterà  avvolta per sempre nella nebbia. Semplicemente perchè quei lavoratori non erano iscritti all’Inail o erano irregolari.
E dunque rimangono e rimarranno invisibili.
Le storie delle morti bianche (ma che ci sarà  poi di bianco in quelle morti?) si ripetono in un rituale tanto crudele quanto prevedibile.
Francavilla, Brindisi: stritolato da una pressa utilizzata per comprimere i rifiuti. Trapani: precipitato nel locale macchine di un aliscafo. Massalengo, Lodi: infilzato da un muletto durante operazioni di scaffalatura. Vazzola, Treviso: caduta all’interno di una tramoggia usata per miscelare il cemento.
Ci sono le storie, tutte ugualmente spaventose. E poi ci sono le statistiche, che mai come in questo caso tradiscono tutta la loro freddezza.
L’Inail è l’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Da lì vengono gli unici dati ufficiali. E ci dicono che nel corso del 2016, malgrado gli infortuni totali siano in crescita, le denunce di incidenti mortali sul lavoro sono scese a 1.018, dalle 1.172 dell’anno precedente. Un calo del 13,1%.
E tuttavia non tutte quelle denunce saranno alla fine considerate dall’Inail veri e propri infortuni legati al lavoro. In genere, ogni anno, un buon 40% viene scartato, spesso sotto la motivazione di “rischio generico”.
Ossia poteva capitare a chiunque di morire in quel modo, a prescindere dal lavoro svolto.
Difficile, in realtà , tracciare un confine tra le cause. Ad esempio, lo spostamento casa-lavoro è generalmente coperto dall’assicurazione, ma se durante il tragitto mi fermo un’oretta da un amico, addio copertura.
Alla fine è probabile che di quelle mille morti, solo 600 verranno indennizzate con rendite ai superstiti, cioè con la metà  della retribuzione.
Ma non è tutto, perchè l’Inail, come si diceva, non raccoglie la totalità  delle morti sul lavoro. Molti occupati, in realtà , sono iscritti ad altri istituti assicurativi e dunque sfuggono del tutto alle statistiche: dalle forze armate a quelle di polizia, dai liberi professionisti al personale di volo, ai vigili del fuoco.
Sono almeno due milioni (ma c’è chi dice molti di più), che vanno aggiunti agli assicurati Inail, i quali ora sarebbero 21 milioni.
Quando uno di quei due milioni – un vigile del fuoco, un poliziotto o un militare – perde la vita sul lavoro, magari la sua storia verrà  raccontata dai giornali, ma per le statistiche ufficiali la sua morte non è mai avvenuta.
Ecco la vera anomalia: non esiste un ente pubblico che raccolga tutti gli infortuni. “E’ un’assurdità  escludere tutte quelle categorie”, commenta Franco Bettoni, presidente dell’Anmil, l’associazione dei lavoratori mutilati o invalidi del lavoro. Ipotizzando di applicare a due milioni in più di occupati la stessa percentuale di decessi denunciati all’Inail, il numero delle morti sul lavoro salirebbe da 1.018 a 1.113.
Ci sono però da considerare anche gli oltre tre milioni di lavoratori in nero.
Secondo l’osservatorio indipendente di Bologna guidato da Carlo Soricelli, ex operaio metalmeccanico, includendo gli irregolari e i non iscritti all’Inail, i morti nel 2016 sarebbero almeno 1.400, di cui 641 proprio sul posto di lavoro, esclusi gli incidenti stradali tra casa e lavoro.
“Vede – spiega Soricelli – noi monitoriamo tutti quei fatti di cronaca che sfuggono alle statistiche ufficiali: dagli agricoltori in pensione schiacciati dai trattori (ne abbiamo contati 141 nel 2016) ai muratori assoldati a giornata che cadono dalle impalcature. Una strage silenziosa, che scompare dai radar delle istituzioni pubbliche “.
Ma l’Inail contesta l’attendibilità  di quei dati: “Non è vero che gli irregolari che perdono la vita a causa del lavoro non lascino tracce nelle nostre statistiche. Quando l’infortunio è mortale, è difficile che non scatti la denuncia anche per un lavoratore in nero. A quel punto si apre l’ispezione e se viene dimostrato che la morte è legata al lavoro svolto, tocca proprio a noi dell’Inail indennizzare i superstiti, salvo poi farci rimborsare dal datore di lavoro”.
Anche l’Anmil nutre dubbi sui 1.400 morti: “Sui decessi ci atteniamo ai dati ufficiali – dice Bettoni -La vera, spaventosa sottovalutazione avviene invece per tutti gli altri infortuni, soprattutto quelli minori. Nelle 637 mila denunce totali del 2016 non compaiono tutte quelle situazioni in cui il datore di lavoro, per evitare che gli venga alzato il premio assicurativo o che scattino per lui conseguenze penali, convince il suo dipendente a dire che non si è fatto male durante il lavoro, che stava a casa”.
L’agricoltura è tra i settori in cui gli incidenti si denunciano di meno, complice la vergogna del caporalato. Ma anche la classifica ufficiale consegna l’angoscioso primato dei decessi agli agricoltori, seguiti dai muratori, sia pure con minori casi che in passato.
L’Emilia Romagna è in testa tra le regioni, ed è anche l’unica che registra una crescita dei morti. E poi c’è il contributo degli extracomunitari: ufficialmente quasi l’11% dei decessi.
“Anche una sola vittima del lavoro infligge al corpo sociale una ferita non rimarginabile “, ha detto recentemente Sergio Mattarella.
L’Inail invita però a non dimenticare i progressi compiuti negli ultimi dieci anni: infortuni totali scesi del 40%, morti dimezzate.
Certo, è aumentato il grado di conoscenza e di consapevolezza: prevenzione e controlli qualche risultato lo hanno prodotto.
Tuttavia buona parte dei miglioramenti è dovuta anche a un fatto di per sè negativo: la crisi economica. Lavorare meno espone a rischi minori.
E poi c’è un terzo motivo: l’automazione crescente dei processi produttivi. “Se pensiamo a quanto sia cambiato il lavoro negli ultimi anni – dice Bettoni – oggi dovremmo avere dei risultati molto più soddisfacenti nella lotta agli infortuni.
Quando ho cominciato a lavorare da giovanissimo, non assicurato, mi assegnarono a una macchina che aveva già  tranciato il braccio ad altri tre lavoratori. Ora molto è cambiato, ma il problema ancora oggi è la formazione, la conoscenza, che deve cominciare già  a scuola. Assistiamo invece a corsi sulla sicurezza spesso inutili perchè troppo astratti, fatti in aula o al computer, lontano dalle fabbriche. E a controlli e ispezioni che lasciano molto a desiderare”.
Sarà  anche per questo limite evidente del nostro sistema di controlli (oltre che per la timida ripresa economica) che nel 2016, dopo una caduta decennale, gli infortuni totali sono tornati a salire.
Sarà  anche per questo che le malattie professionali non hanno arrestato la loro crescita, lasciandoci in eredità  più di quattro morti al giorno, solo in parte spiegabili dall’emersione delle denunce.
C’è chi è convinto che prevenzioni e controlli non bastino e che sia venuto il momento di introdurre il reato di omicidio sul lavoro: un disegno di legge sarà  presentato oggi al Senato.
Il risultato finale è che, nonostante i progressi fatti, in Europa non siamo certamente tra i più virtuosi nella lotta alle morti bianche. La classifica europea ci vede più o meno nella zona centrale, con Regno Unito in testa ai paesi virtuosi, seguito a ruota da Svezia e Danimarca, e Lituania e Romania in fondo.
Già , gli inglesi: hanno conosciuto in passato una preoccupante ondata di infortuni, poi si sono rimboccati le maniche e hanno messo in piedi un sistema che allo stesso tempo sa prevenire e controllare, con un unico organismo nazionale di ispettori del lavoro, e con professionisti che stanno tutti i giorni a contatto diretto con le imprese. Si spera che l’Italia possa trarne utili lezioni, ma questa è un’altra storia

(da “La Repubblica“)

This entry was posted on venerdì, Febbraio 10th, 2017 at 13:37 and is filed under Lavoro. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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