Luglio 19th, 2012 Riccardo Fucile
LA CONVERSAZIONE INTERCETTATA CIRCA LA VENDITA A PREZZO DI FAVORE DELLA CASA
C’è anche la voce di Roberto Formigoni nelle intercettazioni della Procura di Milano.
Non perchè i suoi numeri siano stati messi sotto controllo, ma per la vendetta di un suo ex assessore.
È Massimo Buscemi, marito della figlia di Pierangelo Daccò, Erika, che il 28 ottobre 2011 va nell’ufficio del presidente della Regione Lombardia e fa partire dal suo cellulare una telefonata a Patrik Gonnella, il fidanzato della sorella di Erika, Monica Daccò.
Così tutto il colloquio finisce registrato.
Buscemi è infuriato per essere stato sacrificato: Formigoni, tre mesi dopo l’arresto di Daccò, ha fatto un mini-rimpasto di giunta per potergli togliere l’assessorato alla cultura e dimostrare di aver tagliato i ponti con gli uomini più vicini al superfaccendiere.
Non ci sta a fare il capro espiatorio, lui che è stato più volte sulle barche di Daccò in compagnia di Formigoni. Protesta: “Esco dalla giunta in malo modo, sono lo zimbello di tutti… Non è possibile, Roberto, cioè io vengo a guadagnare 2.500 euro in meno in questo periodo qua in cui abbiamo tutto bloccato”.
Il riferimento è ai beni della famiglia Daccò congelati dall’inchiesta giudiziaria.
Buscemi, per spaventare Formigoni, dice una cosa non vera: “Adesso Erika l’hanno chiamata in tribunale, perchè le chiederanno com’è quella storia della casa, vogliono sapere conto e ragione e come mai così poco… Tre milioni, contro 9/10 milioni di valore commerciale! No guarda, siamo nella merda fino a qua!”.
La “storia” è quella della villa in Sardegna, venduta a prezzo di favore da Daccò ad Alberto Perego, alter ego di Formigoni.
Il presidente non si scompone: “Ho le fonti”.
Buscemi replica: “Ce le ho anch’io le fonti… le nostre fonti sono richieste ufficiali di verifiche che stanno facendo… Stanno indagando su Erika, le hanno sequestrato tutto”.
Formigoni: “Il problema, siccome mi sono impegnato a risolverlo, lo risolviamo…”.
La conversazione dimostra un paio di cose pesanti.
La prima è che la villa è di fatto riconducibile a Formigoni (il quale ci ha messo 1 milione di euro, che sostiene di aver prestato all’amico Perego).
La seconda che il prezzo pagato è molto più basso di quello reale.
“Dal contenuto del dialogo, è evidente”, commentano gli investigatori, “che Formigoni nè ha disconosciuto l’operazione, nè contestato le cifre espresse da Buscemi… Emerge come i due interlocutori abbiano la consapevolezza che il prezzo concordato (…) sia considerevolmente al di sotto del suo effettivo valore di mercato”.
In più, Buscemi ha “la cosciente consapevolezza di interloquire con il reale beneficiario economico dell’operazione o quantomeno uno dei beneficiari”.
Gli investigatori parlano di “condotta intimidatoria di Massimo Buscemi nei confronti di Roberto Formigoni”, di “atteggiamento ricattatorio con specifico riferimento alla sua richiesta di ottenere un nuovo incarico politico che sia oltretutto adeguato e corrispondente alle sue necessità economiche”.
Lo fanno anche a proposito di due intercettazioni del 17 aprile 2012. Buscemi parla al telefono con il senatore Mario Mantovani, coordinatore lombardo del Pdl.
Non gli è piaciuto che il presidente, in un programma tv condotto da Gad Lerner, abbia nella sostanza dato del “Giuda” al suocero Daccò (“Anche Gesù ha sbagliato nella scelta di uno dei collaboratori”, aveva detto Formigoni).
Nella prima telefonata, Buscemi dice a Mantovani che alle 15 andrà dal presidente, col quale “andrà giù pesante”.
Nella seconda telefonata, gli racconta l’incontro. Gli dice che quel “Giuda” non è piaciuto “a nessuno, tanto meno alla famiglia”. Gli fa capire che, in cambio dell’assessorato perso, vuole un’altra poltrona pubblica.
“Gli ho detto io ho ancora la faccia tagliata, per cui non vengo più, io qui non ci vengo più fino a che non mi metti a posto la mia situazione, trova quello che vuoi (…). Pensa a quello che può evidentemente salvare il mio conto perchè io, ho detto, la mia pazienza è qui terminata, la mia lealtà e la mia riservatezza continuano, ma certamente non puoi abusare della mia posizione. Lui era molto scosso”.
“Alla fine mi ha tirato fuori la presidenza di questa società della Fiera che è Miart (…), però gli ho detto fai la conferenza stampa al mio fianco e annunci al popolo che questa cosa è una cosa straordinaria. Lui ha preso nota di tutto e ha detto che lo fa”.
Gianni Barbacetto e Antonella Mascali
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 19th, 2012 Riccardo Fucile
“IL FATTO” PUBBLICA UNA INFORMATIVA DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA DI MILANO SUI REGALI ELARGITI DAL FACCENDIERE ARRESTATO AL GOVERNATORE DELLA LOMBARDIA
Sarebbero circa 9 i milioni di euro spesi per Roberto Formigoni e il suo entourage da Pierangelo Daccò, il faccendiere in carcere per le inchieste sulla Fondazione Maugeri e il San Raffaele: a fare il conto è il Fatto quotidiano, che cita una informativa segreta della polizia giudiziaria di 200 pagine inviata al procuratore aggiunto Francesco Greco e ai pm Luigi Orsi, Laura Pedio, Gaetano Ruta e Antonio Pastore.
Nell’articolo si legge di 20 milioni movimentati da Daccò e da Antonio Simone, anche lui in carcere.
Di 11 milioni non si sarebbe potuta verificare la destinazione, mentre 4 milioni sarebbero lo sconto “di cui hanno goduto Formigoni e Perego, a cui Daccò ha venduto una villa in Sardegna”, 3,7 milioni sarebbero andati per acquistare imbarcazioni di lusso e per mantenerle dal 2007 al 2011, 800mila euro per vacanze e biglietti aerei, 70mila euro per il meeting di Cl, mezzo milione per eventi e incontri in ristoranti rinomati “con Formigoni e altri politici, dirigenti e funzionari della sanità lombarda, dirigenti di strutture sanitarie pubbliche e private”.
Nell’elenco ci sono anche 600mila euro transitati dal conto Ramsete della Maugeri al centro Sikri di Daccò: soldi che sarebbero stati ricevuti per la campagna elettorale del Pdl per le regionali del 2010, ma che Daccò dice di aver tenuto per sè.
“Mera dichiarazione di circostanza – scrivono gli investigatori in un passaggio citato dal Fatto – per non coinvolgere l’amico politico”.
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Luglio 19th, 2012 Riccardo Fucile
IL BILANCIO DELLA REGIONE SAREBBE STATO ATTIVO NEGLI ULTIMI DUE ANNI.. SOLO UNA MANCANZA DI LIQUIDITA’ RISOLTA CON 400 MILIONI”
Sicilia contrordine.
Parole “tranquillizzanti” di fonti governative le riporta l’agenzia Ansa. «Non c’è rischio default per la Sicilia», l’affermazione contraddice le parole del numero due della Confindustria siciliano, Ivan Lo Bello, aveva denunciato che la Sicilia è «sull’orlo del fallimento» e che aveva spinto Mario Monti a scrivere a Lombardo per avere conferma dell’intenzione – dichiarata pubblicamente – di dimettersi il 31 luglio. Il problema non è strutturale ma di «temporanea mancanza di liquidità ed è stato risolto con trasferimenti per 400 milioni di euro già programmati» continua l’Ansa riportando fonti governative secondo le quali il bilancio della Regione Sicilia è stato in attivo nel 2011 e nel 2010 e i fabbisogni delle Regioni non sono automaticamente garantiti dall’Amministrazione centrale dello Stato.
La spending review, spiega la fonte, prevede inoltre interventi di ottimizzazione per la spesa pubblica anche per le Regioni.
Per le Regioni a Statuto speciale sono previsti interventi per complessivi 600 milioni già nel 2012.
Ma la Sicilia non ha pace.
E nel frattempo si fomenta la polemica tra il presidente Raffaele Lombardo e Ivan Lo Bello. E nasce un piccolo giallo che ha tenuto banco per tutto il pomeriggio.
«È la smentita di quanti, non disinteressatamente, hanno parlato di default e di rischio fallimento per la Sicilia con articoli, interviste e prime pagine di quotidiani nazionali». È stata la reazione del presidente della Regione siciliana, Raffaele Lombardo.
«Vorrei che taluni imprenditori facessero davvero il bene della Sicilia. Lo Bello – avrebbe sibilato Lombardo – l’ho incontrato alcune volte nel caso di inaugurazione di impianti fotovoltaici, tipo di investimenti che si è visto essere nelle mani dei mafiosi. Perchè non fanno le cose positive invece di dire certe cose?».
Ed è polemica anche per un’affermazione («può andare a morire ammazzato») che Lombardo avrebbe diretto verso il numero due della Confindustria Siciliana.
Il governatore ha smentito ma che ha scatenato egualmente una pioggia di reazioni. Lombardo ha precisato di aver voluto criticare uno «pseudo imprenditore secondo cui la ricetta per salvare le casse della Regione è quella di licenziare i dipendenti regionali. Nessun riferimento a Lo Bello».
Ma tra i suoi «nemici» l’inquilino di Palazzo d’Orleans annovera anche l’Udc che proprio domenica scorsa aveva annunciato la presentazione in Parlamento di una mozione per chiedere il commissariamento dell’amministrazione siciliana. Pierferdinando Casini, leader dello scudocrociato rincara la dose: «Sollevando il problema della spesa in Sicilia, che è un grande nominificio, Monti ha compiuto un gesto di grande responsabilità istituzionale».
Lombardo, fondatore del Mpa, rimanda al mittente le critiche con parole al vetriolo: «l’Udc vuole rimettere le mani sulla Sicilia.
Sono pronto a confrontarmi con Casini, anche sui sette anni precedenti ai miei fatti di termovalorizzatori e quant’altro».
Accuse respinte da Lombardo che contesta anche l’analisi sulle risorse finanziare della Regione snocciolando alcune cifre: «Il bilancio della Sicilia è di 27 miliardi, il debito di 5,5 miliardi, il Pil di 85 miliardi di euro.
Se confrontiamo il nostro Pil con quello nazionale capiamo meglio: lo Stato ha un Pil di 1600 miliardi e duemila miliardi di euro di debito. Inoltre, lo Stato ci deve circa un miliardo».
Dati che stridono con un’analisi resa nota stamane dalla Cgia di Mestre: «La Regione Sicilia ha costi per la politica e per l’acquisto di beni e di servizi, in termini pro capite, circa il doppio rispetto alla media di tutte le altre regioni d’Italia; quelli relativi agli stipendi del personale addirittura più del triplo».
Ma Lombardo allarga le braccia: «Certo il numero dei dipendenti, sono circa 26 mila – è alto, ne basterebbero la metà ma ce li siamo trovati e cosa dobbiamo fare? Sparargli?».
E liquida seccamente chi lo accusa di volere ancora prendere tempo, esorcizzando al contempo l’ipotesi di un commissariamento: «Per quanto mi riguarda è come se mi fossi dimesso ieri. Non voglio però che la Sicilia diventi merce di scambio, in caso di elezioni contemporanee con le politiche, per un ministero in più. Si deve votare prima».
Chi non sembra proprio accorgersi di una Sicilia sull’orlo del fallimento, sono gli stranieri. Emanuele Spurny, un giovane turista austriaco in coda per visitare la Cappella Palatina all’interno di Palazzo dei Normanni, sede del più antico parlamento d’Europa, domanda: «Siete davvero ad un passo dal default? Vista da fuori la situazione non sembra così drammatica»
(da “Il Corriere della Sera”)
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Luglio 19th, 2012 Riccardo Fucile
I PASSAGGI DI DENARO NEGLI ULTIMI DIECI ANNI ALIMENTEREBERO IL SOSPETTO CHE L’EX PREMIER PAGASSE IL SILENZIO DI DELL’UTRI NEI PROCESSI
Sono tanti soldi, più di quaranta milioni, quelli che Silvio Berlusconi ha versato a Marcello Dell’Utri negli ultimi dieci anni.
Il prezzo del ricatto, secondo l’accusa, esercitato sull’ex presidente del Consiglio da uno dei più stretti collaboratori colluso con la mafia.
Il quale, per tacere particolari scomodi o per altre ragioni legate alle sue «relazioni pericolose» con i boss, ha costretto Berlusconi a pagarlo profumatamente.
Anche di recente. Almeno fino alla vigilia della sentenza della Cassazione, dopo la quale sarebbe potuto finire in galera.
A meno di darsi a una clamorosa latitanza. Invece evitò la cella perchè la Corte annullò la condanna, pur confermando i rapporti dell’imputato con Cosa Nostra negli anni Settanta e Ottanta.
Ma il ricatto, nell’ipotesi della Procura di Palermo, non s’è mai fermato.
Solo la metà di quel fiume di denaro risulta formalmente giustificata dall’acquisto di villa Comalcione a Torno, sul lago di Como.
Venduta da Dell’Utri a Berlusconi per 21 milioni l’8 marzo scorso (il giorno prima del giudizio della Corte suprema, per l’appunto), nonostante una valutazione del 2004 fissasse il prezzo della lussuosa abitazione a «soli» 9,3 milioni.
Tutto il resto non ha motivazione ufficiale, e i versamenti dai conti bancari dell’ex premier a quelli del senatore e di sua moglie sono stati registrati sempre sotto la stessa voce: «prestito infruttifero».
Stesso discorso per la donazione di titoli bancari.
I magistrati considerano Berlusconi vittima della presunta estorsione realizzata dal senatore del Pdl che lo aiutò a fondare Forza Italia e l’ha accompagnato in tutta la sua avventura politica.
E come lui sua figlia Marina, giacchè alcuni pagamenti sono arrivati da conti correnti cointestati a lei.
Per questo entrambi sono stati convocati.
La nuova indagine nasce da uno stralcio di quella sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi, tra il ’92 e il ’94, all’interno della quale un anno fa la Procura di Palermo acquisì le prime tracce dei movimenti milionari scovati dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’inchiesta romana sulla cosiddetta P3 (Dell’Utri è imputato anche lì): 9 milioni e mezzo elargiti in tre tranche : 1,5 il 22 maggio 2008, tratto da un conto del Monte dei Paschi di Siena, e altri 8 tra il 25 febbraio e l’11 marzo 2011, arrivati da una filiale milanese di Banca Intesa private banking.
Dopo gli approfondimenti degli investigatori delle Fiamme gialle sono venuti alla luce altri movimenti bancari sospetti, è così scattata la nuova ipotesi di estorsione. Collegata, più che alla trattativa, al processo per concorso in associazione mafiosa a carico del senatore.
Proprio mercoledì è cominciato il nuovo dibattimento di appello, dopo l’annullamento della Cassazione.
Che però è stato parziale, poichè alcune parti della precedente sentenza sono state confermate.
Come quella in cui è sancita la colpevolezza del senatore per i fatti precedenti al 1974. È stato definitivamente accertato che Dell’Utri, «avvalendosi dei rapporti personali di cui già a Palermo godeva con i boss, realizzò un incontro materiale e il correlato accordo di reciproco interesse tra i boss mafiosi e l’imprenditore amico Berlusconi», hanno scritto i giudici.
Un’intermediazione da cui derivò «l’accordo di protezione mafiosa propiziato da Dell’Utri» in favore del futuro presidente del Consiglio.
In questa trama criminale è rimasto impigliato il solo senatore, mentre Berlusconi non ha subito conseguenze nonostante le inchieste subite (è stato più volte inquisito dalla Procura di Palermo, ma sempre archiviato) sulla misteriosa origine dei suoi capitali. Oggi l’ipotesi dell’accusa è che con quei quaranta milioni, e chissà quali altre «donazioni» non ancora scoperte, l’ex premier abbia comprato il silenzio del suo amico e collaboratore su qualche particolare che poteva trasformarlo da vittima dei boss in un complice consapevole dei traffici di Cosa Nostra.
In questa ricostruzione Berlusconi è diventato dunque vittima di Dell’Utri, dopo esserlo stato della mafia per i ricatti dai quali il senatore lo avrebbe liberato grazie ai suoi «buoni uffici» negli anni Settanta e Ottanta.
Ad esempio attraverso l’assunzione come stalliere nella villa di Arcore del «picciotto» Vittorio Mangano, «indicativa di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia», scrivono ancora i giudici della Cassazione.
La convocazione dell’ex premier in Procura coincide con quella chiesta dal sostituto procuratore generale nel nuovo processo d’appello a Dell’Utri.
Anche in quel giudizio l’ex capo del governo è considerato dall’accusa una «persona offesa» dai reati attribuiti all’imputato.
Nel 2002, ascoltato dal tribunale, si avvalse della facoltà di non rispondere poichè all’epoca era indagato in un procedimento connesso.
Oggi non lo è più, e quindi sarebbe obbligato a rispondere. Come in Procura. I legali di Dell’Utri si sono opposti alla sua testimonianza. La Corte d’Appello deciderà , i procuratori hanno già deciso.
L’acquisto della villa sul lago di Como, oltre a non spiegare l’intera somma dei versamenti, agli inquirenti sembra un paravento.
Al di là della sopravvalutazione rispetto alla stima del 2004, infatti, Dell’Utri giustificò i «prestiti infruttiferi» del 2008 e del 2011 con i restauri da effettuare in quella residenza.
Finanziati da Berlusconi, dunque, che alla fine avrebbe l’avrebbe pagata più di 30 milioni.
Un po’ troppo, pensano i pubblici ministeri in attesa di spiegazioni.
Giovanni Bianconi
(da “Il Corriere della Sera”)
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Luglio 19th, 2012 Riccardo Fucile
CONTESTATO IL MALTRATTAMENTO DEI BEAGLE E L’UTILIZZO DEGLI ANIMALI PER RICERCHE CONNESSE CON LA COSMESI
Ora sui cancelli dell’allevamento Green Hill a Montichiari, nel Bresciano, meta di numerosi cortei di protesta e anche teatro di arresti di animalisti che avevano effettuato un blitz per liberare i cani beagle, c’è un cartello: ‘Area sottoposta a sequestro probatorio’.
Alla struttura, in cui sono allevati 2.500 cani destinati alla sperimentazione, gli agenti del Corpo forestale dello Stato e della Digos della questura di Brescia hanno posto i sigilli su ordine del pm Ambrogio Cassiani, che ipotizza il reato di maltrattamento di animali nei confronti di tre persone ai vertici della stessa Green Hill.
Sono soprattutto due i problemi sollevati nel decreto di sequestro: si ipotizza che i beagle siano utilizzati non solo a fini scientifici ma anche per ricerche connesse alla cosmesi, e questo non sarebbe in linea con la legislazione italiana (un’accusa che Green Hill respinge con forza definendola “infondata”).
Poi ci sono le condizioni in cui sono custoditi i cani: il beagle è un segugio che ha bisogno di vivere all’aria aperta e non in gabbie come nella struttura bresciana.
Per capire la destinazione degli animali e le condizioni in cui vivevano sono al lavoro gli agenti della Digos, che hanno già sentito i dipendenti di Green Hill.
Ancora non è certo il numero dei cani che si trovano nell’allevamento.
I beagle non potranno essere portati fuori, omunque, e gli stessi rappresentanti della Green Hill sono stati nominati custodi giudiziari assieme al sindaco della cittadina lombarda e all’Asl: avranno l’obbligo di cura e alimentazione degli animali.
Il sequestro dell’azienda che fa capo alla danese Great Divide Aps è stata salutato con gioia dalle associazioni animaliste che da mesi si battono per la sua chiusura definitiva.
Il 28 aprile davanti all’allevamento ci furono anche tafferugli con le forze dell’ordine: finirono in carcere per un paio di giorni in 13 che avevano fatto irruzione nella Green Hill e avevano liberato alcuni cuccioli.
L’8 maggio scorso ci furono proteste in una settantina di città , molte delle quali estere. Lega antivivisezione e Legambiente cantano vittoria (anche se parziale): “Ci auguriamo che gli accertamenti in corso, disposti dalla Procura, possano fare luce definitivamente sulle reali condizioni di vita degli animali rinchiusi nei padiglioni della struttura, in attesa della spedizione verso gli acquirenti, e sull’impossibilità di Green Hill di garantire il rispetto delle necessità fisiche e comportamentali dei cani, visti i numeri enormi di cui si parla”.
Poi reiterano la richiesta che si approvi la legge che vieta l’uso di animali a fini scientifici: “Alla luce di questi sviluppi giudiziari rivolgiamo un nuovo appello ai senatori affinchè l’articolo 14 della legge comunitaria sia finalmente approvato e possa essere di incentivo per la ricerca pulita, scientifica ed eticamente accettabile”. Entusiasta anche Brigitte Bardot, convinta animalista: “E’ la prima buona notizia dell’anno e sono contenta che arrivi dall’Italia, il mio Paese del cuore.
Questo allevamento vergognoso deve chiudere definitivamente i battenti perchè non abbiamo il diritto di abbandonare migliaia di cani all’inferno, povere cavie sacrificate per una scienza senza coscienza”.
Alla soddisfazione degli animalisti risponde l’azienda: “Siamo sconcertati dal clima di persecuzione a cui stiamo assistendo, arrivato al punto di bloccare un’attività che dà lavoro a decine di dipendenti per cercare di dimostrare la validità di accuse pretestuose respinte nei fatti da innumerevoli ispezioni”.
(da “La Repubblica”)
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Luglio 19th, 2012 Riccardo Fucile
ROBERTO SAVIANO E IL LIBRO DI ENRICO DEAGLIO SULLA STRAGE DI VIA D’AMELIO… I MISTERI CHE DA SEMPRE LA CIRCONDANO
Vent’anni fa, nello stesso condominio di via D’Amelio, entra Paolo Borsellino: deve portare sua madre dal medico, ma non ne avrà il tempo.
Rivediamo la terribile sequenza di immagini: una tranquilla strada in uno dei quartieri cresciuti come erbacce alle pendici del monte Pellegrino, su cui sta appollaiato il Castel Utveggio, sede forse dei servizi segreti e forse luogo da cui sarebbe stato azionato il telecomando della bomba.
Un boato tremendo, auto scaraventate in aria, una stradina devastata. Sulla scena accorre subito una moltitudine di persone, che rende difficile il lavoro di chi dovrebbe fare i rilievi.
Così il 19 luglio del 1992 muoiono Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Uno solo si salva: è Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta.
Così comincia un mistero che non è stato ancora chiarito
In questi momenti mi manca Peppe D’Avanzo. Oggi, a vent’anni dalla morte di Paolo Borsellino, credo che nessuno come lui sarebbe stato in grado di ricostruire la storia della nostra Repubblica con altrettanta lucidità .
Nessuno come lui sarebbe stato in grado di mettere insieme vent’anni di storia giudiziaria, di inchieste, di false piste, di errori, di successi e collegare tutto al dramma che stiamo vivendo in queste ore.
Il dramma di una crisi economica devastante, che non è causata solo da fattori esterni, ma da una cattiva gestione della cosa pubblica divenuta endemica e quasi “incurabile”, mentre sul Paese continua ad aggirarsi il fantasma di Berlusconi tentato da una ricandidatura.
Ecco, Peppe avrebbe forse messo insieme tutto questo, restituendoci la complessità in un quadro d’insieme con cui qualcuno avrebbe dissentito, ma che sarebbe comunque stato un modo coraggioso di spiegare il presente attraverso la lente del passato.
In quegli anni, negli anni delle stragi, era fin troppo evidente che si stava combattendo una guerra, ma noi che osserviamo e interpretiamo oggi facciamo una fatica immensa a individuare le parti in campo, a capire esattamente quali interessi erano stati lesi e quale ordine precostituito si volesse mantenere con quel terrore.
Le stragi del ’92 e del ’93 in Italia sono tutt’altro che storia superata, metabolizzata, chiarificata.
Se le stragi del ’93 erano un tentativo da parte della mafia di contrattare con lo Stato condizioni di vita meno dure nelle carceri, gli effetti sono stati di breve durata.
Io ho sempre ritenuto che gli attentati fossero gli ultimi rantoli di una bestia morente, di una bestia che era stata colpita al cuore come mai era accaduto prima.
Di una bestia che aveva sempre agito indisturbata e che invece, con il lavoro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, era stata finalmente smascherata.
Nel 1978 era morto Peppino Impastato, nel 1984 Pippo Fava, nel 1990 Rosario Livatino, senza che la società civile italiana, tutta, si fosse sentita davvero colpita al cuore. Falcone e Borsellino avevano compiuto quella rivoluzione civile, anzi, come dicevano loro “culturale” che il nostro paese aspettava, avevano toccato i tasti giusti e l’avevano fatto in un momento in cui le persone, da Milano a Palermo, erano pronte a seguirli.
Oggi, in questo dibattito, si inserisce un libro “Il vile agguato”. Chi ha ucciso Paolo Borsellino. Una storia di orrore e menzogna – Feltrinelli) di Enrico Deaglio.
L’ho letto cercando di rimanere calmo. Di non lasciarmi aggredire dalla rabbia che ti sale leggendo per quanti anni depistaggi, menzogne, falsità , bugie, corruzioni, sono colate come irrefrenabile lava sulla tragedia di Paolo Borsellino.
Ma poi mi sono chiesto se in un certo senso non fossimo tutti colpevoli di aver permesso che verità rassicuranti coprissero con un velo di comoda ignoranza la sua morte, mentre gli intitolavamo piazze e scuole.
Ecco cosa si prova a leggere queste pagine: l’assurdità .
Non aver raggiunto una verità sui colpevoli della morte di Paolo Borsellino e dei suoi uomini corrode la democrazia italiana, corrode la fiducia, corrode l’empatia sociale, alimenta lo sconforto, la diffidenza che mai come ora è un sentimento dannatamente predominante nel nostro Paese.
Quando è morto Falcone avevo 12 anni.
Ero a Paestum, dove forse mi avevano già spedito in vacanza. Oppure semplicemente ero lì con tutta la famiglia per il fine settimana. Un fine settimana di maggio.
Ricordo solo che stavo in cucina, che la televisione era accesa e che mia zia d’improvviso si mise davanti alla tv. La coprì tutta con la sua schiena.
Noi bambini non capivamo perchè non volesse vedere, non capivamo perchè volesse oscurare tutto. Giocavamo con una palla di gommapiuma in casa, non stavamo nemmeno guardando la tv, eppure lei si mise davanti, col suo corpo minuto, a coprire lo schermo quadrato di una piccola e vecchia Sony.
Aveva le lacrime agli occhi, ci guardava come se non ci vedesse, agitava la testa e ripeteva «No, no, no». Nessuno di noi faceva domande.
I bambini del Sud cresciuti negli anni ’80-’90 con faide di mafia, tensioni continue in strada e in casa, polizia e posti di blocco, sanno contenere le domande. Sarebbe stato naturale puntare il ditino verso lo schermo e chiedere spiegazioni. Noi no.
Non chiedevamo, sentivamo che era accaduta la solita cosa, quella che quando accadeva se chiedevi qualcosa ti guardavano storto e chiudevano con «Niente, niente». Ricordo di essermi seduto a terra, gambe incrociate all’indiana, come faccio ancora oggi, e mi guardavo intorno.
Fuori sentivo che tutte le case dei vicini avevano la tv accesa. Qualcuno la radio. C’era un silenzio irreale. Solo le voci dei bambini. Il Tg3 confermò l’attentato.
C’era una donna con i capelli corti che ne parlava da Palermo e ogni tanto si vedevano immagini incredibili: cemento e terra divelta. Lamiere e tante persone che si aggiravano come in trance tra le macerie.
Capii che avevano ucciso un giudice e dei poliziotti. Mi feci coraggio e infransi la regola del bimbo di paese che non deve mai fare domande sul sangue e sui morti ammazzati.
Riuscii finalmente ad alzarmi e chiesi: perchè?
Il 19 luglio dello stesso anno si è ripetuta una scena simile. Sempre a Paestum. Ricordo caldo afa sudore e lacrime. Lacrime per una morte che anche un dodicenne sentiva come annunciata.
E oggi siamo ancora qui a chiederci: Perchè? Come? Chi?
«Ora che sono passati vent’anni — scrive Deaglio nel suo libro — non solo non sappiamo chi l’ha ucciso, ma innumerevoli versioni, continue verità , continuano ad ucciderlo. Borsellino viene continuamente riesumato in uno spettacolo macabro che insulta la sua memoria e noi spettatori. È stato Scarantino. No Spatuzza. È stato Riina; no, i fratelli Graviano. La polizia ha imbeccato Scarantino per proteggere i veri colpevoli. È come piazza Fontana. È stato lo Stato, lo Stato Mafia, la Mafia Stato; il Doppio Stato. È stato Berlusconi, o perlomeno Dell’Utri. Sono stati i servizi. Deviati. No, quelli ufficiali. Sono stati Ciancimino e Provenzano. Sono stati gli industriali del Nord. È stato il ministro Mancino… La sua morte era necessaria alla trattativa. Anzi, era l’essenza della trattativa. (A proposito — cos’è che stavano trattando?) È stato un volontario, lucido sacrificio di Borsellino che si è offerto come vittima per salvare la sua famiglia. È stata la prova della potenza infinita di Cosa Nostra a cui nessuno può sfuggire. È stato il Fato, del quale era in balia… ».
Roberto Saviano
(da “La Repubblica“)
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Luglio 19th, 2012 Riccardo Fucile
VIA D’AMELIO, IL PUNTO SULLE INDAGINI: FU SOLO MAFIA? PERCHE’ VENNE DATO CREDITO AL FALSO PENTITO SCARANTINO?
Il lavoro cominciato a Capaci, sulla strada che portava dall’aeroporto alla città , fu completato a Palermo, cinquantasette giorni dopo, in via Mariano d’Amelio.
Dopo Giovanni Falcone toccò a Paolo Borsellino, anche stavolta con il carico aggiuntivo degli agenti di scorta, saltati in aria insieme all’obiettivo che avrebbero dovuto proteggere.
Era scritto, e Borsellino lo sapeva bene. Per questo aveva fretta. Voleva arrivare a qualche risultato prima che gli assassini arrivassero a lui.
Si capì allora, e c’è la conferma oggi, dopo le nuove indagini che hanno in parte riscritto la storia di quell’attentato.
Una storia di mafia, ma non solo.
Ormai sembra un modo di dire, una frase fatta, un luogo comune. Ma è così. Non è importante che siano o meno inquisiti o imputati estranei a Cosa nostra, per sostenere che con ogni probabilità qualche altro elemento entrò in gioco nella morte di Borsellino.
FERMI A BOSS E PICCIOTTI?
Come presunti colpevoli siamo fermi a boss e picciotti, ricorda il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, titolare dell’ultima inchiesta, peraltro non ancora conclusa. Ha ragione, lui deve attenersi a ciò che risulta agli atti.
Dentro quegli stessi atti, però, emergono frammenti di verità , schegge di avvenimenti che se pure non portano a individuare responsabilità penali fanno capire che intorno alla fine di Paolo Borsellino — prima, durante e dopo — c’è qualcosa che non riguarda solo Cosa nostra.
Il procuratore aggiunto di Palermo dilaniato il 19 luglio 1992 dal tritolo mafioso doveva morire perchè era l’unico che poteva prendere il posto di Falcone nella comprensione delle dinamiche interne alle cosche, e quindi nel contrasto ad esse.
E forse era tra i pochi che avrebbero potuto avvicinarsi alla verità sulla strage di Capaci, al di là del movente della vendetta. Anche se formalmente non era suo compito, e di questo lui si rammaricava.
Fu forse il cruccio più grande dei suoi ultimi due mesi di vita.
VOLEVA ESSERE INTERROGATO
Titolare delle indagini era una Procura diversa dalla sua, ma lui avrebbe voluto testimoniare di fronte ai colleghi di Caltanissetta, per rivelare qualcosa che sapeva e poteva essere utile per risalire agli assassini di Falcone, e magari a qualche diverso centro di potere che poteva aver avuto interesse alla sua eliminazione.
Lo ripeteva in ogni occasione, anche in pubblico, parlando del suo amico Giovanni: c’erano delle cose su cui era costretto a tacere perchè doveva riferirle all’autorità giudiziaria, nel segreto dell’inchiesta.
Ma nell’arco di due mesi non ci fu alcuna autorità giudiziaria che trovò il tempo per raccoglierne la testimonianza.
E’ uno dei misteri di quei cinquantasette giorni.
Che può avere pure una spiegazione banale, ma mai sufficiente a giustificare l’assenza di quella deposizione tra le carte dell’inchiesta.
Così come la scomparsa dell’agenda rossa sulla quale il giudice annotava le proprie considerazioni sul lavoro che andava svolgendo nella sua corsa contro il tempo, su quello che era venuto a sapere, sugli spunti d’indagine da coltivare.
Un elemento prezioso per tentare di scoprire le responsabilità nascoste su Capaci e — dopo —su via D’Amelio. Che non è mai stata ritrovato.
L’agenda rossa era nella borsa che il giudice portò con sè dalla casa del mare a quella della madre, prima dell’esplosione.
E’ sparita, e le indagini non hanno chiaro perchè, nè per mano di chi. E’ un altro mistero che non ha a che fare con la mafia.
OLTRE LA MAFIA
Non ce’è bisogno di individuare “mandanti esterni” o agenti segreti infedeli che abbiano partecipato all’attentato, per capire che non è solo una storia di mafia.
Basta risalire a qualche omissione o pezzo mancante per poter sostenere che nell’intreccio c’è qualche altra cosa, oltre la mafia. Capita quasi sempre, nelle storie dove il potere s’intreccia col crimine.
Colpevoli sono i criminali, ma sulla sponda del potere si scopre puntualmente che qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto.
Nella migliore delle ipotesi.
Vale anche per la presunta trattativa avviata tra lo Stato e la mafia dopo Capaci (o forse addirittura prima, secondo l’ultima ipotesi della Procura di Palermo), di cui Borsellino era venuto a conoscenza.
Almeno per un frammento, che magari era solo un’iniziativa investigativa un po’ audace: i colloqui tra i carabinieri e l’ex sindaco corleonese di Palermo Vito Ciancimino.
Non glielo dissero i carabinieri, con i quali pure aveva contatti e stava programmando attività d’indagine: che ne avrà pensato il giudice?
E chi era l’amico che l’aveva tradito, come hanno testimoniato sue suoi giovani “allievi” che l’incontrarono piangente e piegato da avvenimenti e preoccupazioni poche settimane prima che morisse?
Perchè, il giorno prima dell’attentato, disse alla moglie che ad ucciderlo non sarebbe stata soltanto la mafia?
DOMANDE SENZA RISPOSTA
Sono tutte domande rimaste senza risposta, che suscitano inquietudini.
In cui la mafia non c’entra.
Così come non c’entra nelle indagini che dopo la strage di via D’Amelio imboccarono quasi subito una falsa pista, smascherata solo dopo sedici anni da un nuovo pentito. Perchè si volle chiudere tutto così in fretta, con le false confessioni di qualche falso collaboratore di giustizia?
Fu solo un errore investigativo e poi giudiziario — com’è costretto a ipotizzare il procuratore di Caltanissetta, in assenza di prova che dimostrino altro — o c’era qualche diverso motivo?
Comunque sia andata, dietro la morte di Paolo Borsellino e quello che s’è mosso intorno a lui prima e dopo la bomba di vent’anni fa, non ci furono solo i padrini e i loro gregari.
E anche quell’eccidio è diventato uno dei grandi misteri d’Italia che hanno deviato e inquinato il corso della storia.
Rimanendo misteri, purtroppo.
Giovanni Bianconi
(da “Il Corriere della Sera”)
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Luglio 19th, 2012 Riccardo Fucile
NELL’ULTIMA STAGIONE DI RACCOLTA SONO STATI OLTRE 2.000 I MIGRANTI IMPIEGATI COME BRACCIANTI… IL 30% VIVE CON MENO DI 50 EURO AL MESE E IL 60% IN ATTESA DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Nell’ultima stagione di raccolta degli agrumi sono stati oltre 2000 (dati della Prefettura con altre fonti ufficiali) i migranti impiegati come braccianti nella Piana di Rosarno.
Tutti uomini principalmente provenienti dall’Africa subsahariana (il 22% dal Mali, seguono il Senegal con il 15%,Guinea con il 13%, e la Costa d’Avorio con quasi il 12%), con un’età media di 29anni (la fascia d’età degli over 31 è preponderante con il 46% dei lavoratori).
E senza permesso di soggiorno: il 72%, infatti è irregolare contro il 28% dei regolari. Inoltre la quasi totalità degli intervistati ha lavorato in nero (90,7%).
Lo dice il Dossier Radici/Rosarno, un monitoraggio effettuato nel periodo autunno-inverno 2011/12, da Fondazione IntegrA/Azione e Rete Radici.
Il volume, che ha indagato le condizioni lavorative, abitative e sanitarie e il livello di integrazione dei migranti, è stato presentato oggi a Roma.
Status giuridico.
Secondo il rapporto l’80% della popolazione immigrata a Rosarno e dintorni ha avanzato domanda di protezione internazionale.
Tra quelli che sono riusciti a ottenere il riconoscimento, e dunque hanno concluso il loro iter burocratico, però, la maggior parte resta incastrato in un limbo giuridico che compromette la qualità della vita, fatto di attese (3,3%), dinieghi (54,2%) e ricorsi (3,3%).
“È provata la difficoltà degli stranieri a comprendere il complesso coacervo di leggi che li riguarda. Addirittura risulta incomprensibile la logica stessa del sistema che li obbliga in una zona grigia più che rischiosa — si legge nel testo -.
Inutile dire infatti, quanto una condizione del genere renda fragile un individuo, soprattutto se richiedente asilo o in attesa del ricorso, rispetto a casi di sfruttamento lavorativo e capacità personali di pianificare alternative.”
Il documento in loro possesso, infatti, non è spendibile per l’ottenimento del lavoro: in sostanza, non possono lavorare e dunque essere assunti regolarmente, non hanno diritti e, di conseguenza, diventano ricattabili, merce a basso costo sul mercato del caporalato, manodopera d’occasione.
“È proprio la burocrazia lenta e farraginosa a imprigionarli in un girone infernale dal quale non sempre è facile uscire — continua – Senza documenti, i migranti semplicemente non esistono, spesso però il migrante partito e arrivato in Italia è l’unico che possa provvedere al sostentamento della famiglia nel Paese d’origine”.
Lavoro.
Ben il 90,7% degli intervistati lavora in nero (contro il 75% dello scorso anno): dalle ispezioni effettuate dalla direzione provinciale del Lavoro di Reggio Calabria in tutta la Piana di Gioia Tauro, infatti, su un totale di 1082 posizioni lavorative verificate, solo il 9% riguarda cittadini extracomunitari.
I salari del 55,6% dei campesinos si aggirano tra i 20-25 euro per 8-10 ore lavorative al giorno (contro il 76,37% dello scorso anno) e aumentano i lavoratori pagati “a cassetta” (37,4% contro il 10,44% dello scorso anno), con un prezzo standard di 1 euro a cassetta per i mandarini e 0,50 euro per le arance.
Mediamente il 60% di loro riesce al lavorare dai 3 ai 4 giorni a settimana, ma una percentuale consistente di braccianti, e cioè il 24,7%, lavora meno di 2 giornate a settimana.
Secondo l’indagine l’87% degli stagionali svolgeva lavori manuali nel paese d’origine, ma con una grande varietà professionale: a raccogliere le arance di Rosarno sono sarti, meccanici, saldatori e elettricisti.
Ma anche ragazzi che nel loro paese erano studenti, poliziotti, agenti assicurativi, politici locali e soldati dell’esercito.
Arrivare a Rosarno ha significato livellarsi all’unica domanda di lavoro possibile e perdere la propria specificità .
Caporalato.
Il caporalato resta un’abusata modalità d’ingaggio.
Sebbene infatti la metà degli intervistati ha dichiarato di trovare lavoro in piazza, ben il 20% dichiara di trovare lavoro tramite un “kapò migrante” (quasi il 5% tramite un kapò bianco), ovvero una figura di intermediario tra il gruppo degli africani e i datori di lavoro.
“La figura del caporale, va detto, è cambiata nel corso degli anni per via anche del ruolo fondamentale di mediazione culturale che figure interne alle comunità straniere possono assumere per via della conoscenza della lingua italiana — sottolinea il rapporto – . I kapò provvedono a fornire l’ingaggio e spesso trattengono una percentuale della paga giornaliera che si attesta tra i 2,5 e i 4 euro a lavoratore”.
La figura del kapò è cruciale anche quando si analizzano le modalità di spostamento per raggiungere il posto di lavoro: il 26% ricorre ai loro mezzi, naturalmente a pagamento.
Qualità della vita.
Un migrante su due spedisce parte dei guadagni alle famiglie lasciate nei paesi d’origine.
Il 37,6% dichiara di vivere con nulla o molto poco (da 0 a 50 euro a settimana), con alloggi di fortuna, come i casolari abbandonati senza acqua nè luce nè gas e mangiando alle mense della Caritas.
Sono pochi quelli che riescono a vivere con più di 100 euro a settimana (2,7%) e pochissimi coloro che vivono con 200/300 euro al mese (il 17,4%).
Ne consegue, inevitabilmente, soluzioni di alloggi di fortuna in condizioni igienico sanitarie spaventose, una dieta alimentare insufficiente e squilibrata e la mancanza di prevenzione, che aggiunte a un’attività lavorativa sfiancante, determina un precario stato di salute.
Infezioni alle vie respiratorie (dovute in molti casi all’uso di sostanze chimiche nei campi), aggravate dal freddo e dal fumo dei fuochi accesi per riscaldarsi, disturbi dell’apparato gastrointestinale per via di diete povere e dall’utilizzo di acqua non potabile e malattie infettive rendono questi lavoratori affetti da un numero elevato di patologie professionali.
(da “Redattore Sociale“)
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Luglio 19th, 2012 Riccardo Fucile
IL CONTESTATO ED ESPULSO CONSIGLIERE COM. DI FERRARA: “TRA UN ANNO IN PARLAMENTO COSA PORTIAMO? I POST DEI TUOI BLOG SU ECONOMIA E DIRITTI CIVILI?”…. “C’E’ UN DEFICIT DI DEMOCRAZIA INTERNA NEI CINQUESTELLE”
Più di 4 mesi fa la sua espulsione arrivata via blog con poche righe firmate da Beppe Grillo.
Poi la chiamata di Federico Pizzarotti a Parma, per il posto di direttore generale, e lo stop imposto da Gian Roberto Casaleggio.
Oggi, Valentino Tavolazzi, primo epurato dal Movimento 5 stelle, scrive un appello direttamente al blogger genovese, chiedendo una svolta: “Centinaia di migliaia di cittadini — scrive il consigliere di Ferrara — non vogliono che il progetto politico Movimento sia a scadenza come il latte (nel lungo periodo sì), nè che sia un esperimento di marketing politico. Se anche Grillo e Casaleggio non lo vogliono, si diano una mossa per farlo camminare con le sue gambe”.
Insomma una lettera aperta che ha il sapore dell’aut aut: o si cambia o non si arriva in Parlamento.
Già , perchè dopo il trionfo di Parma, il prossimo traguardo ora sono le elezioni politiche dell’anno prossimo.
Da settimane i sondaggi danno il Movimento in ascesa, con percentuali da secondo partito.
Un potenziale che, secondo Tavolazzi, potrebbe andare perduto se non si risolvono i nodi emersi negli ultimi mesi.
A partire dai problemi di democrazia interna. “Da mesi — accusa Tavolazzi — si aggiunge danno a danno, con perseveranza non comune. I riflettori dei media sono sul Movimento, ne hanno favorito l’ascesa nel consenso popolare (condizione necessaria ma non sufficiente per farlo maturare), ma ne hanno anche messo a nudo fragilità e deficit di democrazia interna”.
Dunque la scalata verso Montecitorio potrebbe essere a rischio: “Mancano pochi mesi alle elezioni politiche e non sono ancora noti criteri e modalità per completare il programma nazionale del m5s e per la scelta dei candidati. Il portale è inadeguato e il governo del movimento nelle mani degli utenti della rete’ resta una frase vuota, scritta nel non statuto. Cosa andremo a fare in parlamento? sono i post sul blog di Beppe le nostre scelte politiche su economia, lavoro, affari esteri, diritti civili, welfare, bilancio dello stato, Europa? Quando si comincia a produrre la politica nazionale del m5s in rete?”.
Tavolazzi prosegue snocciolando uno per uno i diktat arrivati in questi mesi.
“La frittata è ancora sul fuoco — prosegue — i miasmi nel movimento aumentano e sono sempre più insopportabili. Dopo la cantonata presa da grillo su Ferrara e Cento, dopo l’intervento a gamba tesa di Casaleggio su Pizzarotti, per impedirgli di esercitare le sue prerogative di sindaco, ora c’è la scomunica non spiegata di poppi a Modena”.
Secondo il consigliere di Progetto per Ferrara “centinaia di migliaia di cittadini non vogliono che il progetto politico m5s sia a scadenza come il latte (nel lungo periodo sì), nè un esperimento di marketing politico. Se anche Grillo e Casaleggio non lo vogliono, si diano una mossa per farlo camminare con le sue gambe. Prima o poi (spero tardi) loro non ci saranno più. Gli appuntamenti con la storia politica del paese incombono. Bisogna far crescere i cittadini che, in servizio civile e a tempo, andranno a fare i sindaci, i deputati, i consiglieri regionali ed i presidenti di regione. Pensate a tutto voi, grillo e Casaleggio? o volete farvi aiutare — conclude — dai cittadini cinque stelle?
Giulia Zaccariello
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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