Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
MARONI HA PRESO IN MANO IL PARTITO SOLO DOPO CHE IL CERCHIO MAGICO ERA STATO SPAZZATO VIA DALLA MAGISTRATURA… LA FASE DEL DIALOGO CON CONFINDUSTRIA CHE HA DISORIENTATO LA BASE…E ANCORA SCANDALI IN REGIONE E IL FLIRT CON SILVIO INVISO ALLA BASE
Dalle ramazze al (nuovo) inciucio?
In dodici mesi la Lega Nord è passata da Umberto Bossi a Roberto Maroni, dalla Padania alla macroregione, dalle corna alle cravatte, da “Roma ladrona” a “Prima il nord”.
Ma, tanto ha fatto e tanto ha brigato, che Maroni rischia di tornare da dove era partito.
Il 2012 della Lega è stato tutto un tumulto, un susseguirsi di colpi di scena e dèjà -vu.
Un anno passato tra spaccature interne, inchieste giudiziarie, rottamazione dei vecchi leader e nuove parole d’ordine arrivate a sostituire quelle consumate da un passato senza più credibilità .
Dodici mesi che stanno per culminare con una incredibile giravolta: la candidatura di Roberto Maroni alla presidenza della Regione Lombardia potrebbe infatti riaccendere la vecchia passione e riavvicinare la Lega al Pdl del redivivo Silvio Berlusconi, quell’alleato ingombrante di cui la stessa base del Carroccio non vorrebbe più sentir parlare.
FASE UNO — LE DIVISIONI INTERNE
Tutto è iniziato con l’esplosione dei malumori interni, covati per mesi nel cuore e nella pancia della base militante.
Una base stanca di un partito troppo legato agli scranni capitolini e sempre più distante dalle istanze del territorio. Così sono emerse, in tutta la loro evidenza, le divisioni tra i fedelissimi di Umberto Bossi e i barbari sognanti che spingevano per l’incoronazione di Roberto Maroni.
Le prime avvisaglie sono arrivate a ottobre del 2011, in occasione del congresso provinciale di Varese.
Nella sala dell’Ata Hotel è stata negata ai delegati la possibilità di votare ed è stato imposto un segretario provinciale bossiano: Maurilio Canton. Tanto è bastato per far scoppiare il putiferio.
Durante l’assemblea i militanti hanno dato vita a delle aperte contestazioni, consumate sotto lo sguardo incredulo di Bossi.
Nelle settimane e nei mesi a venire lo scontro è andato acutizzandosi e, senza che Roberto Maroni sia mai dovuto uscire allo scoperto, il movimento dei maroniani ha iniziato la propria rivolta, combattendola sul web e nelle segreterie.
L’apice di questa fase preparatoria è arrivata tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 quando, sull’onda del crescente consenso riscosso da Roberto Maroni dopo la caduta del governo Berlusconi, la segreteria federale ha vietato all’ex ministro dell’Interno di parlare in pubblico.
Una mossa che si è rivelata ben presto una clamorosa autorete da parte dei bossiani.
Nel giro di poche ore, infatti, centinaia di segreterie cittadine sparse in tutto il Nord hanno invitato Roberto Maroni a tenere comizi nelle loro città .
A quel punto a Maroni sarebbe bastato raccogliere i frutti della battaglia combattuta dal “suo” esercito senza generale.
E invece l’ex ministro degli Interni continuava a non esporsi.
FASE DUE — BOSSI GATE
Con i tumulti ancora in corso e un partito barcollante, a spianare la strada a Maroni ci hanno pensato le inchieste giudiziarie.
Mentre tutti aspettavano che Bobo, il barbaro sognante, infliggesse il colpo di grazia al vecchio Capo ormai delegittimato dalla sua stessa base, le procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria hanno fatto esplodere lo scandalo sull’utilizzo dei finanziamenti ai partiti.
Tutto è iniziato dall’indagine sull’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito, ma l’azione delle procure si è presto allargata, travolgendo nomi eccellenti nel panorama leghista.
Il figlio del Senatùr, Renzo Bossi, è stato tra i primi a dover lasciare la comoda poltrona di consigliere regionale. Assieme al “Trota” nel tritacarne è finita anche la pasionaria Rosi Mauro, vicepresidente del Senato e “badante” di Umberto Bossi.
In quelle settimane ogni giorno ha segnato inesorabilmente un passo verso il baratro. Soldi investiti in Tanzania, diamanti acquistati con i fondi di partito, addirittura una laurea in Albania per Renzo e rimborsi elettorali utilizzati per mantenere la famiglia del Capo.
Ai sospetti si aggiungono le intercettazioni, le mezze ammissioni.
La verità è che la Lega in versione primavera 2012 offre uno spettacolo da Prima Repubblica.
Uno spettacolo davanti al quale la storica base leghista, quella che affollava le piazze al minimo cenno del Capo, ha perso ogni speranza.
I sondaggi danno il Carroccio in picchiata, anche i più ostinati difensori di Bossi hanno dovuto arrendersi all’evidenza, accettando il fallimento del sistema. Un fallimento davanti al quale lo stesso Senatùr si è visto costretto a rimette il proprio mandato di segretario nelle mani del partito, aprendo la strada al congresso federale che mancava da dieci anni.
Per Roberto Maroni, in quel momento, è stato facile agitare le ramazze chiamando a raccolta i suoi barbari, in nome di una nuova Lega, più pulita e meritocratica, capace di spazzare via la vecchia classe dirigente con tutti i suoi vizi.
Così, il 10 aprile, alla fiera di Bergamo, dopo che la valanga giudiziaria e il tifone mediatico avevano ormai ridotto in brandelli la Lega, Roberto Maroni è salito sul palco assieme a un Umberto Bossi in lacrime, irriconoscibile, prendendosi la guida di quel che restava del partito.
FASE TRE — MARONI SI TROVA AL COMANDO
La Lega nella fase di transizione dall’era bossiana a quella maroniana è un partito completamente allo sbando.
Alle elezioni amministrative della primavera 2012 ha perso in quasi tutti i comuni interessati dal voto, uno dei peggiori risultati di sempre nella storia del partito.
L’unico successo degno di nota è stato quello di Verona, la città di Flavio Tosi, leghista atipico che piace molto a Maroni, che lo elegge a modello da imitare, per la sua capacità di guardare oltre i confini ristretti del partito e di parlare alla società civile, aggregando forze diverse attorno al progetto amministrativo del Carroccio.
Il primo cittadino scaligero assieme al sindaco di Varese Attilio Fontana e all’eurodeputato Matteo Salvini sono stati tra i principali sponsor dell’atto finale dell’affermazione maroniana che si è compiuta a luglio, in occasione del congresso federale, che non ha tradito le attese incoronando Roberto Maroni come nuovo segretario della Lega Nord.
Nelle settimane precedenti il Veneto e la Lombardia avevano anticipato il risultato, finendo sotto il controllo della nuova guardia leghista (a Tosi il Veneto, a Salvini la Lombardia).
Vestiti i panni del segretario, Maroni ha provato a restituire un’identità al partito, calandosi nel ruolo dell’anima candida, critico con il Governo e con chi lo ha sostenuto, vicino alla gente.
Il lavoro di Maroni è stato tutto volto a costruire una nuova immagine per la nuova Lega, con meno corna e più cravatte.
Così il neo-segretario ha indossato subito il vestito buono e ha iniziato a dialogare con la cosiddetta società civile, convocando grandi assemblee per incontrare di volta in volta gli industriali, le associazioni di categoria e gli amministratori locali.
Di fronte a questo nuovo modo di operare la base storica è rimasta in una certa misura smarrita.
Il nuovo corso del Carroccio, depurato dalle vecchie parole d’ordine (secessione e federalismo), è diventato più difficile da comprendere ed ha perso ampie fette di consenso nei territori di recente conquista (come l’Emilia Romagna), ridimensionando la presenza anche nelle roccaforti storiche.
La Lega 2.0 ha iniziato a parlare di “macroregione del nord”, con l’obiettivo dichiarato di assumere il controllo diretto della Lombardia per fare asse con Veneto, Piemonte e Friuli, anche a scapito della presenza nei palazzi romani.
FASE QUATTRO — CASO LOMBARDIA E RIAVVICINAMENTO AL PDL
Ma è proprio dalla sua ostinata rincorsa alla guida della Lombardia che Maroni rischia di fare un pericoloso salto nel passato.
Quando è arrivato il momento di definire candidature e alleanze in vista delle elezioni del prossimo febbraio (a seguito degli scandali che hanno travolto il Pirellone e il suo presidente Formigoni sostenuto anche dal Carroccio), l’ex ministro dell’Interno non ha esitato a riallacciare i rapporti con un Pdl sempre più a pezzi, spingendosi fino alla tana del diavolo per trattare direttamente con Silvio Berlusconi pur di assicurarsi la guida della Regione a lui più cara.
Un patto di reciproco sostegno che era nell’aria da mesi, da quando cioè Maroni ha iniziato ad ammorbidire le posizioni nei confronti di Angelino Alfano, dichiarando a più riprese che il dialogo con il Pdl sarebbe ripreso se e quando il Pdl avesse staccato la spina al Governo Monti.
Ora il governo Monti non c’è più e il dialogo tra la Lega e il Pdl si è fatto più intenso, tanto che l’idea del vecchio asse Pdl — Lega, ritenuta impossibile solo fino a qualche settimana fa, oggi sembra essere una delle poche alternative al fallimento del centro destra.
Un equilibrismo che molti dei militanti e dei quadri leghisti hanno affermato apertamente di non gradire, preferendo di gran lunga la prospettiva di un’onorevole sconfitta solitaria ad una vittoria da condividere con un alleato ingombrante.
Uno su tutti il segretario Lombardo della Lega, Matteo Salvini, che è più volte intervenuto a gamba tesa sulla possibilità di un accordo con il Pdl.
Maroni doveva sciogliere le riserve in queste ore a Bergamo, di fronte a quel che rimane del pubblico tradizionale del Carroccio.
Ma, ancora una volta, ha preferito rimandare.
Alessandro Madron
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
I NUOVI ITALIANI SONO ORMAI UN ESERCITO DI 5 MILIONI DI ESSERI UMANI, IN AUMENTO A SCUOLA E TRA GLI IMPRENDITORI CHE PRODUCONO RICCHEZZA NEL NOSTRO PAESE: E’ ORA DI RICONOSCERE LORO DIRITTI, NON SOLO DOVERI
Pagano le tasse e sostengono le casse dell’Inps. Cresce il loro numero tra i banchi di
scuola e tra gli imprenditori attivi. Oggi costituiscono il 10% della forza lavoro.
Sono i “nuovi italiani”: un esercito di cinque milioni di migranti che vive e lavora nel nostro Paese.
Ebbene? Nelle venticinque pagine dell’Agenda Monti non una riga, nè una parola è dedicata loro.
Riforma della cittadinanza? Diritto di voto? Revisione della Bossi-Fini? Niente di niente.
L’argomento pare non rientrare tra le priorità di governo del Professore.
L’immigrazione in campagna elettorale.
Eppure il tema immigrazione è tornato d’attualità nella campagna elettorale. Il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, lo ha promesso con chiarezza: “La prima norma che il nostro governo farà sarà sulla cittadinanza: chi nasce e cresce qui è italiano”.
Sul fronte opposto ha risposto Silvio Berlusconi, rispolverando i vecchi allarmi cari alla destra: “Non vorremmo assistere, con l’avvento della sinistra al potere, al proliferare di matrimoni gay e all’apertura delle nostre frontiere agli emigranti irregolari, i quali poi otterrebbero il diritto di voto per votare prevalentemente per la sinistra stessa”.
E Monti che dice? Per ora, nulla.
Il “buco” dell’Agenda Monti.
Nelle 25 pagine dell’Agenda Monti non si trova un accenno agli immigrati.
Va detto che nella premessa Mario Monti avverte che non si tratta di “un programma di lavoro dettagliato e non vuole avere carattere esaustivo”.
Eppure, la lacuna ha fatto storcere il naso a molti.
L’associazione interetnica Mondita scrive: “Per Monti e i suoi collaboratori l’Italia del 2013 sembra composta da 60 milioni di persone tutte bianche e di ordinarie origini nazionali, senza alcun problema o caratteristiche di multietnicità . I 5 milioni di cittadini di origine straniera, il quasi milione di giovani, i 700mila studenti figli di immigrati o coppie miste, gli oltre 300mila imprenditori stranieri, i 2 milioni e mezzo di lavoratori stranieri, i 7 miliardi e mezzo di risparmi annuali, i miliardi di Pil prodotti, i miliardi di euro pagati in contributi, tutti questi numeri per Monti & co. non esistono, non valgono nulla, non meritano menzione nè come problemi relativi nè come ricchezza del Paese?”.
L’immigrazione non esiste.
E il portale Stranieriinitalia aggiunge: “In venticinque pagine non trova spazio l’immigrazione. Eccezion fatta per un accenno indiretto all’inizio, quando si dice che “il rifiuto del populismo e dell’intolleranza, il superamento dei pregiudizi nazionalistici, la lotta contro la xenofobia, l’antisemitismo e le discriminazioni sono il denominatore comune delle forze europeiste”.
E in Italia, con gli immigrati, che bisogna fare?
Chissà , forse prima o poi Monti ce lo dirà .
Vladimiro Polchi
(da “la Repubblica”)
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
CI MANCAVA LA TRAMA INTERNAZIONALE, A BREVE TIRERA’ IN BALLO LA CIA E IL MOSSAD…FINISCE CHE UNA OLGETTINA LA FARA’ VESTIRE DA MATA HARI E SI SCOPRIRANNO LE CIMICI SOTTO IL LETTONE DI PUTIN
Oggi il Cavaliere viaggia in treno: d’altronde aveva annunciato la sua intenzione di riprendere contatto con le piazze, può ben iniziare anche dai binari della stazione Centrale di Milano.
Anche fuori dalla stazione peraltro è pieno di accattoni con cui scambiare suggerimenti.
Quello che non cambia è il ritornello quotidiano: anche oggi ne ha per tutti, da Monti a Fini a Maroni.
Ecco qualche perla di saggezza quotidiana.
“In quel momento c’è stata una vera e propria congiura e noi, vincendo, instaureremo subito una commissione per esaminare quei fatti”. E’ quanto ha risposto ai giornalisti che alla stazione centrale di Milano gli hanno chiesto se si sia pentito di aver appoggiato il presidente del Consiglio Mario Monti.
L’attacco del Cavaliere nei confronti del capo del governo, fresco di candidatura a capo di una coalizione composta da Udc, Fli, montezemoliani e fuoriusciti di Pd e Pdl, è frontale: “E’ stato creato un grandissimo scandalo. Ho sentito dire da Monti stesso e da altri ministri che eravamo sull’orlo del burrone, della catastrofe. Queste cose qua sono mascalzonate”.
E chi ha obbligato Silvio a dimettersi? Non glielo aveva certo ordinato il medico curante, poteva continuare se il baratro era una mera invenzione…
E la stessa “salita in politica” del Professore “è qualcosa — ha aggiunto — che francamente non mi aspettavo, dopo le reiterate dichiarazioni di Monti fatte anche come promessa al capo dello stato, a me, a tutti gli italiani, che non avrebbe utilizzato l’esposizione mediatica che gli dava l’essere presidente di un governo tecnico, per una sua ulteriore presenza nella politica come, questa volta, parte della politica”.
Berlusconi ha parlato di un “vulnus grave della democrazia”.
Parla lui che della esposizione mediatica e del controllo del 50% delle Tv ha fatto la base della sua affermazione in politica.
Secondo l’ex premier “c’è stata una manovra finanziaria, politica”.
“Fini — ha aggiunto — per quali motivi ha lasciato un partito di cui era cofondatore, numero due, mio successore per dare vita a un piccolo gruppo parlamentare” che ora “raccoglie l’1%?”.
Perchè si era rotto le palle del dittatore dellea Repubblica delle banane, se pur tardivamente?
No, non è ammissibile per il Cavaliere, ci deve essere stata una congiura.
“Si deve scavare — ha spiegato Berlusconi — per sapere quali sono state le motivazioni. E la stessa cosa vale per quello che è successo nei giornali, sulla stampa; il governo tecnico che era già pronto”.
La conclusione è che “c’è stato veramente un vulnus grave della democrazia”
Ma Monti quanti voti prenderà ? “Pochi, secondo i sondaggi”.
E allora di che ti preoccupi, direbbe un osservatore neutrale.
Berlusconi dice di vedere intorno a sè “un consenso forte” e di non essere preoccupato dalla costituzione del nuovo centro.
“Il contatto con la gente è qualcosa che mi fa tornare indietro a quel momento magico del 2009 quando ebbi a raggiungere il 75% di consenso” ( ma non aveva raggiunto il 101%?)
Berlusconi, tuttavia, ha ancora il problema di un accordo con gli unici che potrebbero fare da alleati, cioè la Lega Nord, malpresi come lui.
E’ arrivato poco fa nella sua residenza milanese in via Rovani, in compagnia della sua fidanzata, vera o taroccata che sia, Francesca Pascale.
A Milano si trovano già anche il segretario del Pdl Angelino Alfano, il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni e il coordinatore del Pdl Denis Verdini.
In Via Rovani si terrà un vertice del Pdl a cui dovrebbe partecipare anche il segretario del Carroccio Roberto Maroni.
Il presidente del Pdl confida di potere trovare un accordo con la Lega Nord che altrimenti resterebbe “un partito piccolo” (come se già non lo fosse…)
“Se diventassimo in competizione — ha aggiunto — cadrebbero in un tempo, e in un tempo non lungo, sia Piemonte che Veneto e quasi circa cento amministrazioni comunali. Quindi la Lega si troverebbe fuori da tutti i giochi, diventerebbe un partito ininfluente. Non credo che arriveremo a questo”.
Tipico avvertimento…
Infine l’ultima stoccata a Gabriele Albertini, europarlamentare del Pdl che ha confermato che si candiderà alla presidenza della Regione Lombardia, ma che sarà appoggiato dall’area dei “montiani”: “Gabriele Albertini si è buttato in questa avventura, ma andrà incontro a una sconfitta sonora: avrà pochissimi voti e saranno voti ininfluenti”.
Se invece sarà l’alleanza Pdl-Lega a perdere, Maroni la scopa potrà usarla giusto per fare le pulizie a casa Votino e a Silvio ridurranno i permessi di uscita.
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
BOCCHINO: “IO HO DIRITTO PIU’ DI TUTTI”…A RISCHIO TASSONE (UDC) E FLAVIA PERINA (FLI), SI RIPARLA DI SOFIA VENTURA E ALESSANDRO CAMPI IN QUOTA FINI (MA NON ERANO ANDATI A VOTARE PER RENZI ALLE PRIMARIE DEL CENTROSINISTRA?)
La “tosatura” dei candidati sarà consistente. Monti non vuole assalti alla diligenza.
Neppure ritrovarsi con una lista civica, quella di Montezemolo e Riccardi, dove ci siano candidati con qualche conflitto d’interesse.
Ancora meno, avere in lizza tutti i vecchi arnesi di Udc e Fli.
Il Professore vuole il ricambio.
A Enrico Bondi ha affidato il compito di vagliare, valutare, sconsigliare.
Montezemolo ad esempio, ha già detto che non si candida.
Se mai ci avesse pensato, sarebbe toccato a Bondi fargli comprendere che qualche conflitto di interesse in piedi ce l’ha, in quanto presidente della Ferrari, vice presidente di Unicredit e, benchè non ne sia più presidente, come fondatore di Ntv. Non avrebbe insomma superato l’esame-Bondi.
Nel gruppo “Verso la Terza Repubblica”, attenzione quindi a non mettere in campo imprenditori che abbiano interessi dalla Sanità alle telecomunicazioni.
Molti nomi si fanno e si disfano in queste ore.
A sorpresa, i ministri Andrea Riccardi e Corrado Passera non si candidano, mentre viene data per certa la candidatura di Anna Maria Cancellieri, l’ex prefetto che Monti ha voluto come ministro dell’Interno.
Tra i centristi di Casini si accettano scommesse.
Vengono dati per candidati sicuri Roberto Rao, Giampiero D’Alia, Gian Luca Galletti e Antonio De Poli.
Però un ricambio anche l’Udc dovrà metterlo in campo. Casini lo sa.
Ha portato a casa una lista autonoma alla Camera (il listone sarà solo al Senato), ma deve pensare a una qualche forma di rinnovamento.
Non può rimettere in lista i “dinosauri”, chi ha cioè carriere politiche trentennali, come Mario Tassone che in Parlamento ci sta da 34 anni e che a chi gli chiede se intenda ancora candidarsi risponde: «Dipende dal partito».
In piena fibrillazione è Fli, il partito di Fini.
Nei giorni scorsi si parlava di una lista unica Udc-Fli: Casini in quel caso si sarebbe detto disponibile a caricarsi non più di quattro-cinque persone, incluso Fini.
Ora Fli si allarga.
Italo Bocchino ha convocato ieri una riunione del partito per cominciare a raccogliere le firme. A metà pomeriggio – quando ancora il vertice con Monti è in corso e per Fli siede al tavolo Benedetto Della Vedova – racconta di essere sommerso dalla modulistica per le sottoscrizioni.
Sostiene, Bocchino, di essere abbastanza sicuro della propria candidatura.
Nel passato c’è stata qualche ombra, la storia con l’ape regina di Berlusconi, Sabina Began, condita di sms e pettegolezzi?
Bocchino replica: «Non c’è ragione perchè non ci sia una mia candidatura. Dopo Fini, sono quello che ci ha messo più passione e impegno nel sostenere il Professore e che ci ha rimesso di più. Sono in attesa di remunerazione da Monti».
In bilico Flavia Perina, ex direttore del Secolo d’Italia, finiana della prima ora.
Al contrario, Giulia Bongiorno, la presidente della commissione Giustizia, è data per certa.
Potrebbero essere candidati anche Sofia Ventura e Alessandro Campi, in quota Fini o forse in lista civica.
E poi ci sono i transfughi dal berlusconismo.
Soprattutto, il gruppo dei dieci, capitanati dall’eurodeputato Mario Mauro: Isabella Bertolini, Gaetano Pecorella, Alfredo Mantovano, Giorgio Stracquadanio, Fabio Gava, Giustina Destro, Roberto Antonione.
Hanno lasciato il Pdl da quel dì.
Stamani si riuniscono per decidere il da farsi.
Hanno scritto una lettera aperta nella quale sostengono che aprire al popolo del centrodestra fa la differenza.
«Se si vuole creare un polo dei moderati, crediamo di potere essere utili», commenta Bertolini.
Tra loro, c’è l’ex ministro Franco Frattini. Monti lo stima, ma i finiani non hanno dimenticato quando l’allora responsabile della Farnesina in Parlamento dedicò una informativa alla vicenda della “casa di Montecarlo” e al caso Santa Lucia.
Fini se l’è legata al dito.
Nel listone al Senato, il presidente della Camera non gradirebbe certo Frattini.
Quasi certa la candidatura di Alfredo Mantovano, ex sottosegretario alla Giustizia e anche quella di Beppe Pisanu, presidente della Commissione Antimafia.
Porte chiuse per quanti invece – da Sacconi a Roccella – abbiano sperato nella federazione montiana come approdo.
Avance ai montiani da Alessandro Cattaneo, il “formattatore” del Pdl, sindaco di Pavia.
Giovanna Casadio
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
BOCCIATA LA LISTA UNICA ALLA CAMERA… IL MINISTRO: PRONTO A FARE UN PASSO INDIETRO… RICCARDI APPOGGIA L’UDC. PER VINCERE CI VOGLIONO PIU’ LISTE IN CAMPO
«Signori siamo partiti: andiamo a conquistare quel 40 per cento di italiani che non vanno più a votare».
La voce di Mario Monti rimbomba sotto le volte del refettorio del convento delle suore di Sion, una location appartata nel cuore del Gianicolo, messa a disposizione grazie ai buoni uffici del fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e ministro, Andrea Riccardi.
Un posto perfetto per sfuggire alla caccia serrata dei giornalisti, per tenere a battesimo il nuovo centro e siglare quello che uno dei protagonisti definisce scherzando il «Patto dei sionisti».
Un passo avanti definitivo di Monti, che ha annunciato persino di concedere il suo nome come capo della coalizione.
Una decisione che al Quirinale, al momento, non trova commenti ufficiali, nonostante siano note le riserve del capo dello Stato rispetto a un impegno in prima linea del premier in campagna elettorale.
Dal Colle trapela una linea di assoluta neutralità . Verso Monti non ci sono «nè viatici, nè veti».
Ma la prima riunione «operativa » del nuovo soggetto politico è anche l’occasione per il primo scontro al vertice.
E sarà ricordata per quella che potrebbe esserne la prima vittima: Corrado Passera, a un passo dal ritirarsi dalla corsa.
Dopo una prolusione di Monti, il vertice si apre infatti dando la parola ai due “campioni” delle opposte visioni sul tavolo: dare vita a una lista unica anche alla Camera – come vorrebbe appunto Passera, ma anche Nicola Rossi, Benedetto Della Vedova, Pietro Ichino – , oppure procedere separati, come chiedono sia l’Udc che i montezemoliani?
Passera espone il suo punto di vista, vuole la lista unica.
Ha persino portato dei bozzetti per il simbolo che mostra e poi ripone subito in una cartellina. «Dobbiamo noi per primi dare prova che vogliamo lasciare le vecchie case d’appartenenza – spiega il ministro dello Sviluppo – e costruire una cosa nuova. Dar vita a una lista Monti sarebbe un segno di determinazione e coerenza ».
Casini non è d’accordo: «I voti che possiamo prendere separatamente non si sommano ». Su questo i rappresentanti di Italia Futura, Andrea Romano e Carlo Calenda, la pensano allo stesso modo.
Con questo ragionamento: «Chi vuole votare una lista civica come la nostra non accetta che ci siano dentro anche politici di professione».
Vengono elencate questioni pratiche – come la par condicio che garantisce più presenze in tv a chi si presenta con più formazioni – o la difficoltà – è ancora Casini a parlare – di «procedere a un rinnovamento delle candidature imposto dall’esterno ». Il leader dell’Udc punta i piedi: «Se c’è qualcuno che ha dato una mano a questo governo, fin dal primo giorno, siamo noi. Non possiamo essere penalizzati per questo».
Tra opposte visioni il confronto si fa serrato.
Le suorine che, discretamente, passano nel convento sentono alzare la voce. Anche Andrea Riccardi è del parere che in fondo andare con una formazione a più liste sia la cosa più ragionevole. «C’è una pluralità di mondi che guardano a Monti con interesse – osserva il ministro dell’Integrazione – e quindi anche le liste dovrebbero riflettere questi criteri: coralità , apertura e pluralità ».
Passera è isolato e Monti alla fine accetta la linea maggioritaria.
Oltretutto presto potrebbero arrivare altre adesioni al progetto.
Ci sono gli ex Pdl che oggi si vedranno per provare a dar vita a una loro “lista per Monti”.
Ci sono le associazioni cattoliche finora rimaste alla finestra – dal Movimento cristiano lavoratori di Carlo Costalli a Rinnovamento dello Spirito e poi i focolarini, Retinopera, Scienza e Vita – che si riuniranno per decidere il 10 gennaio.
Una lista civica di cattolici doc non è esclusa.
Il ministro dello Sviluppo prende atto di aver perso la battaglia: «Io resto a disposizione di Monti ma ho sempre lavorato a una lista unica. Se si prende un’altra strada io faccio coerentemente un passo indietro».
A questo punto Passera potrebbe anche non candidarsi, a meno che il premier non lo ripeschi.
Non saranno invece in lista Montezemolo e Riccardi, ma questo si sapeva da qualche giorno.
Presa la decisione più importante, quella di procedere con più formazioni – per ora tre: Udc, Fli, Lista civica – nella lunga riunione si passa a parlare d’altro.
Della campagna elettorale, per esempio. Monti non farà comizi come un politico tradizionale, d’accordo.
Ma se ci sarà un confronto tv all’americana, con Berlusconi, Bersani e Grillo, anche il premier non si sottrarrà .
Si decide poi di dar vita a una cabina di regia, ci sarà un «codice etico» per le candidature, a Montecitorio si farà comunque un gruppo parlamentare unico.
E il censore Enrico Bondi vaglierà non soltanto le fedine penali ma anche i conflitti di interesse e le situazioni patrimoniali.
Ci si dà quindi un nuovo appuntamento per oggi, con la stessa formazione, anche se Monti non sarà della partita (si è preso due giorni di riposo a Venezia con la moglie). Della questione politica di fondo – quale rapporto con il Pd, probabile vincitore – tutti assicurano che non si sia parlato.
Ma la convinzione di Monti è che il dopo elezioni debba passare per un accordo di governo con Bersani.
Francesco Bei
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
“LIGURIA FUTURISTA” AVANZA QUATTRO PROPOSTE A FINI PER RAGGIUNGERE IL QUORUM IN LIGURIA
Liguria Futurista, a nome delle decine di dirigenti e militanti che si sono
allontanati nell’ultimo anno, delusi dalla gestione nazionale e locale di Futuro e Libertà , e alla luce della indicazione di una lista Fli all’interno della coalizione montiana, prendono atto dell’invito rivolto loro di “collaborare” al buon esito della campagna elettorale.
Trattandosi della stessa sopravvivenza del partito, visto che dovrà raggiungere il 2% di consensi in Regione Liguria, Liguria Futurista avanza concrete proposte per poter raggiungere tale obiettivo:
1) Commissariamento immediato del partito a livello regionale, affinchè si ponga in essere una campagna elettorale movimentista, improntata sui contenuti di Bastia Umbra e non sulla esclusiva ricerca di visibilità di quelli stessi dirigenti che hanno affossato il partito, mossi solo dalla ricerca perenne di cariche e poltrone.
2) Il capolista deve essere espressione della Regione, non paracadutato dall’alto.
Non condividiamo l’ipotesi concreta di un Fini “capolista ovunque” e in subordine pensiamo che, al limite, sia più trainante e funzionale all’esito elettorale ligure la candidatura di Giulia Bongiorno, per l’apertura di credito di cui gode sia nell’elettorato femminile che sui media.
3) Tutti i vecchi notabili diano una mano dall’esterno, ma non siano candidati, abbiano l’intelligenza e il pudore di fare un passo indietro.
L’elettorato deve ricevere un segnale forte di rinnovamento e Fli deve far parlare di sè come il partito dei giovani: proponiamo come capolista una donna sotto i 30 anni, poi tutti giovani da 20 a 30 anni, espressione delle varie province.
Una soluzione perfettamente fattibile, trattandosi di soggetti che hanno aderito a Fli fin dalla nascita e per profonda convinzione programmatica, in pieno disinteresse.
4) Ribadire il concetto di unità nazionale, di impegno sociale e di solidarietà verso chi sta pagando di più le conseguenze della crisi economica: Fli deve essere il partito attento al sociale, al volontariato e alla tutela dei diritti dei lavoratori e delle donne nella coalizione montiana, solo così puo ritagliarsi uno spazio e distinguersi dagli altri.
A differenza di chi in queste ore cerca accrediti nelle segrete tremebonde stanze, Liguria Futurista avanza a Fini questa proposta alla luce del sole.
Perchè in politica si può vincere o perdere, ma la differenza la fa la dignità , la coerenza e il saperne comunque uscire a testa alta.
Liguria Futurista
Ufficio di Presidenza
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
SECONDO I DATI ISTAT LA PERCENTUALE DI GIOVANI CHE LASCINO L’ITALIA E’ PASSATA DALL’11,9% DEL 2002 AL 27,6% DEL 2011
L’Italia non è un Paese per laureati. O almeno, non lo è più.
Lo dice il rapporto Istat sulle migrazioni internazionali e interne della popolazione residente, secondo cui la percentuale di giovani dottori che lasciano il Belpaese è passata dall’11,9 per cento del 2002 al 27,6 per cento del 2011: più del doppio in appena dieci anni.
La meta preferita?
Il Regno Unito che accoglie l’11,9 per cento dei nostri cervelli. In coda Svizzera, Germania e Francia, ma anche mete più distanti come Stati Uniti, Brasile e Australia.
Al contrario, la quota di emigrati con titolo di studio fino alla licenza media è scesa dal 51 al 37,9 per cento.
A fuggire dall’Italia, insomma, sembrerebbero soprattutto i giovani con alte aspettative d’impiego.
Nulla di nuovo, in realtà .
Già negli Anni ’50, si legge nel testo di Goffredo Fofi L’Immigrazione meridionale a Torino (Feltrinelli Editore, 1964), i primi a lasciare il Meridione per le ricche città del Nord furono gli esponenti della piccola-media borghesia: sarti, artigiani, commercianti che potevano permettersi il sogno di una nuova vita.
Ora, in tempi di precariato e disoccupazione giovanile alle stelle, a partire sono sempre i figli della classe media: hanno un titolo di studio elevato, soldi sul conto corrente e, spesso, il sostegno delle famiglie.
Ma che cosa cercano i ragazzi in fuga dall’Italia?
Mariolina Eliantonio, 34 anni di Pescara, ricercatrice e insegnante presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Maastricht, non ha dubbi: lavoro, meritocrazia e senso civico.
«In Italia – spiega in una recente intervista a La Stampa – la carriera universitaria è impossibile, tutti sanno che le selezioni per i dottorati non sono trasparenti. E non parliamo dell’avvocatura, per anni non vedi un soldo. In Olanda, invece, ho trovato rispetto e solidarietà sociale. Qui lo Stato non è percepito come un’entità estranea che chiede tasse e non restituisce. Il senso di comunità è molto forte. Se tornerei indietro? Assolutamente no».
Le statistiche, d’altronde, le danno ragione.
L’Istat rileva che il numero di italiani che, sempre nel periodo 2002/2011, si è iscritto dall’estero nel registro dei residenti è diminuito da oltre 35mila a 22mila unità .
Anche in questo caso, però, risulta in aumento la quota dei laureati (dal 13,7 al 25,9 per cento), mentre diminuisce quella di coloro in possesso di titolo fino alla licenza media (dal 66,7 al 48 per cento).
Ciononostante, nel 2011 il saldo migratorio risulta negativo sia per gli individui in possesso di titolo di studio fino alla licenza media (-5 mila 200) sia per diplomati (-6 mila 300) e laureati(- 4 mila 800): gli italiani che lasciano l’Italia sono sempre in numero maggiore rispetto a quelli che rientrano.
Enrico Caporale
(da “la Stampa“)
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
SU 1.663 SOLO 35 HANNO I CONTI A POSTO, LE ALTRE SONO IN ROVINA
Quanto rendono i beni sequestrati alle mafie? Niente. 
Le aziende che una volta erano dei boss non ce la fanno a sopravvivere.
Le eccezioni sono rare, rarissime.
Una di sicuro è quella di Pontecagnano, sulla litoranea che da Salerno scende verso sud. È un albergo ad ore. Lì, gli affari vanno sempre bene. Come prima.
La “roba” strappata con tanta fatica a Corleonesi e Casalesi non produce quasi mai ricchezza, l’antimafia non riesce ancora a far soldi.
Al contrario genera perdite. Sempre garantite.
Fino a quando è un capo della ‘Ndrangheta a mandare avanti il business tutto va a gonfie vele, quando poi arriva lo Stato le imprese affogano nei debiti.
Un esempio? Il famoso “Cafè de Paris” di via Veneto, a Roma.
Era affollatissimo al tempo degli Alvaro di Sinopoli, a due anni dalla confisca uno dei locali simbolo della Dolce Vita rischia la chiusura.
I numeri raccontano tutto. Su 1.663 società confiscate dal 1982 – anno primo della legislazione antimafia – solo 35 sono in attivo. E per un soffio. Praticamente soltanto il due per cento.
SULL’ORLO DEL FALLIMENTO TOTALE
Troppa burocrazia. Troppa indolenza. Troppo disinteresse.
E troppo il tempo che passa dal sequestro di un bene alla confisca, dalla sua destinazione all’assegnazione definitiva.
Cinque anni, sette, anche nove anni.
Terreni che sono ormai abbandonati. Aziende finite inesorabilmente fuori mercato. Dipendenti a spasso. Con banche che revocano i fidi, assicurazioni che non assicurano più, fornitori che chiedono il rientro immediato dei loro crediti. È il fallimento italiano della (vera) lotta alla mafia. Tutto funziona perfettamente se è nelle mani dei boss, tutto va in rovina se non ci sono loro.
È il crac delle confische, delle ricchezze portate via a uomini della Cupola o del Sistema, ristoranti, fabbriche, impianti minerari, fattorie, allevamenti di polli, supermercati, agriturismi, distributori di benzina, cantine, serre, trattorie, discoteche, residence, ottiche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli.
La punta più alta di confische in Sicilia: 621 le aziende espropriate ai boss. In Campania sono 332. E 216 in quella Lombardia che, da qualche anno, si rivela la prima regione lontana dai tradizionali territori dei clan ad avere ricchezze sporche nel suo ventre.
Cosa si può fare per proteggere questo tesoro e far guadagnare le imprese non più di mafia?
GLI INTERVENTI NECESSARI
«Tre cose», risponde Franco La Torre, presidente di Flare (la rete europea di associazioni contro il crimine organizzato) e figlio di Pio, il deputato del Partito comunista italiano ucciso nell’aprile del 1982 giù a Palermo per la sua grande battaglia per una Sicilia libera dai boss, artefice di quella legislazione antimafia che porta il suo nome e che ancora oggi – dopo trent’anni – resta un esempio in tutto il mondo.
Quali sono le tre cose da fare?
Franco La Torre: «La prima: la presenza di amministratori giudiziari competenti che siano in grado di fare il loro mestiere fino in fondo e di programmare piani a medio e a lungo termine per le aziende confiscate. La seconda: sostenere la legge d’iniziativa popolare – quella che ha lanciato la Cgil – per la tutela di tutti i dipendenti delle aziende sotto confisca e per garantire loro gli stessi diritti di tutti gli altri lavoratori dei settori in crisi. La terza: utilizzare il contante sequestrato e reinvestirlo nelle attività dove si registrano le sofferenze».
LA MAPPA DEI DISASTRI
L’elenco delle aziende che vanno o sono già andate in malora in pochi anni, o addirittura in pochi mesi, è infinito.
C’è una mappa dei disastri da una parte all’altra dell’Italia.
A Palermo c’è l’hotel San Paolo, in via Messina Marine, al confine fra Brancaccio e il porto di Sant’Erasmo, quasi di fronte alla “camera della morte” dove in piena guerra di mafia i boss torturavano i loro nemici di cosca.
Costruito da Giovanni Ienna per conto dei fratelli Graviano (i due, Giuseppe e Filippo, si nascondevano nella suite prima delle stragi del 1992), quest’albergo è famoso per un ascensore esterno di vetro dove i genitori accompagnavano i figli per far vedere Palermo dall’alto e perchè lì, nell’“ambiente” dell’hotel e degli amici dei Graviano – nel 1993 – è stato fondato il primo club di Forza Italia in Sicilia. L’albergo oggi accumula debiti spaventosi.
Una voragine
Stessa sorte per l’azienda agricola Suvignano di Monteroni D’Arbia, in provincia di Siena. I vecchi proprietari erano i costruttori Piazza di Palermo.
Un’estensione di 713 ettari, campi coltivati a grano e a orzo, uliveti, un bosco, 13 case coloniche, un’antica fornace, una villa padronale, un agriturismo, una riserva di caccia, 200 capi di suini e duemila pecore.
In rosso permanente anche gli 80 distributori di benzina sparsi fra il beneventano, l’avellinese, il casertano e il basso Lazio, tutti sequestrati ai Salzillo, quelli del “petrolio della camorra”.
E ancora, tanti altri beni-azienda in perdita totale. La Delfino srl di Gioia Tauro, rottami e rifiuti nel regno dei Piromalli e dei Molè. La Pio Center di Bovalino, un pezzo di sanità calabrese fra Locri e Reggio nelle grinfie dei Nirta.
E poi Villa Santa Teresa di Bagheria, sequestrata all’ingegnere Michele Aiello, il re Mida della Sanità privata in Sicilia, quello che è sospettato di aver fatto da prestanome al vecchio Bernardo Provenzano e che ha contributo a trascinare in un gorgo giudiziario e a Rebibbia il governatore della Sicilia Totò Cuffaro.
Uno dei casi più clamorosi resta sempre quello della Riela Group di Catania, all’epoca della confisca – nel 1999 – la quattordicesima azienda più florida di tutta la Sicilia con un fatturato di 30 milioni di euro.
Quando i titolari erano Lorenzo Riela e suo figlio Francesco (condannato all’ergastolo per omicidio), legati tutti e due ai Santapaola, i dipendenti erano 250. Oggi sono 12.
I Riela hanno provato a riprendersi la loro società di trasporti con vari prestanome. E facevano tutto dal carcere con la complicità di amministratori giudiziari.
Ma come è possibile che una “famiglia” si possa riappropriare del bene che gli è stato sottratto dallo Stato?
IL RUOLO DELLO STATO
«Questa della Riela Group è forse l’esempio più negativo in assoluto», dice Enrico Fontana, presidente di Libera Terra Mediterraneo, il consorzio delle cooperative che gestisce le proprietà agricole confiscate in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia.
E spiega: «Lo Stato ci deve mettere la faccia. Non basta sequestrare e poi gestire burocraticamente un bene, ma quel bene bisogna farlo diventare un buon esempio. La verità è che queste aziende che erano delle mafie non si possono considerare come tutte le altre, è necessario trattarle come aziende speciali. A parte le difficoltà di carattere finanziario – i lavoratori vengono messi in regola, si pagano i contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare al nero – queste imprese operano in contesti estremamente difficili. Dal sequestro in poi l’intervento su ognuna di queste aziende deve essere fatto con grande attenzione al mercato».
Ma come può un amministratore giudiziario nominato da un Tribunale fare impresa come un vero imprenditore?
Il più delle volte la gestione si rivela una sciagura. Di quelle 1663 aziende confiscate in via definitiva dal 1982 quasi la totalità sono destinate alla disfatta, alla liquidazione e alla cancellazione dai registri camerali e tributari. C’è da fare tanto.
Lo Stato deve cambiare marcia. Non serve solo applicare la legge e poi abbandonare le aziende, lasciarle in mezzo ai guai economici, prigioniere degli istituti di credito, sotto ricatto, sotto minaccia della concorrenza della porta accanto, i boss ancora sul mercato.
L’anno scorso Unioncamere e Libera hanno sperimentano un sistema di governance delle aziende confiscate.
Un monitoraggio per capire quali sono le emergenze più immediate e soprattutto capire come intervenire.
La lista degli interventi necessari: istituire strumenti di finanza agevolata e di incentivazione fiscale, introdurre facilitazioni contributive per il mantenimento dei dipendenti, prevedere un welfare per ricollocare i lavoratori in caso di chiusura del-l’attività , sostenere con aiuti la nascita di cooperative, destinare una quota del Fondo nazionale di garanzie per le piccole e medie imprese anche alle associazioni che gestiscono beni confiscati alla criminalità . È proprio tutto nero (e in rosso) il mondo dell’imprenditoria dal passato mafioso?
LE POCHE ESPERIENZE VIRTUOSE
«L’esperienza più virtuosa è quella della Calcestruzzi ericina», ricorda ancora Enrico Fontana mentre racconta «le perfette coincidenze» avvenute una decina e passa di anni fa a Trapani, dopo che avevano sequestrato l’impianto al capo mandamento della provincia Vincenzo Virga. Un prefetto attentissimo (Fulvio Sodano), un amministratore giudiziario molto preparato e appassionato, una cooperativa con soci capaci.
Ne è venuto fuori un piccolo grande miracolo.
Tutto nasce nel 1996 quando al boss tolgono la Calcestruzzi e quattro anni dopo gliela confiscano.
Qualcuno ha provato a boicottarlo l’impianto, la mafia ha provato a riconquistarlo.
Ma poi le cose hanno preso un’altra piega.
Per la prima volta – la vicenda non ha precedenti – l’Unipol ha concesso un mutuo ventennale di 700 mila euro senza garanzie e poi è cominciata l’avventura.
«Noi ci siamo ingranditi, è la prova che se tutti lavorano bene ce la possiamo fare », dice Giacomo Messina, il presidente della nuova Calcestruzzi. Quando era di Vincezo Virga i dipendenti erano 11, dopo tanto tempo e con l’antimafia i dipendenti sono diventati 14. Hanno assunto un ingegnere ambientale, una donna per le pulizie, hanno assunto anche un nuovo autista. E allargato gli uffici. E realizzato un nuovo stabilimento per il recupero degli scarti edilizi. Un piccolo gioiello.
Un’anomalia nel panorama dell’Italia che non vuole arricchirsi con i soldi della mafia.
Come quell’albergo confiscato alla camorra sulla strada che porta verso i templi di Paestum. Una clientela molto particolare. Quasi tutte coppie della zona. Molti impiegati, qualche professionista, ogni tanto si vede anche un pensionato. All’Hotel Mare ci vanno per fare l’amore. Nei dintorni di alberghi così – del genere daily use – ce ne sono almeno una dozzina. Ma l’Hotel Mare è l’unico sequestrato alla camorra. Non ci sono angosce a fine mese.
Sempre in attivo.
Attilio Bolzoni
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 29th, 2012 Riccardo Fucile
TOTONOMI SUL LISTONE E SI PENSA GIA’ AL DOPO BERSANI… SPUNTA IL NOME DI BARCA PER IL RUOLO DI SEGRETARIO
Non c’è solo il nome di Pietro Grasso tra i giudici che il Pd vuole candidare: dai piani alti filtra anche quello del giudice anti-Gomorra, Raffaele Cantone, cui potrebbe essere proposto di entrare nel listone bloccato insieme a quelle personalità che non vengono sottoposte al vaglio delle primarie che metteranno a confronto 1500 sfidanti in giro per le province tra domani e domenica.
E si registra gran movimento intorno al «listone», un elenco di 120 nomi che verrà reso noto dopo le primarie, dove confluiranno una ventina di capilista, esponenti delle correnti, ma anche una quarantina di persone decise dal segretario.
Che per la scelta di volti nuovi farà tesoro degli incontri riservati in questi mesi con storici, economisti, intellettuali ed esperti di comunicazione.
Tra i nomi «sugli scudi» c’è sempre quello di Fabrizio Barca, ministro della coesione territoriale, molto stimato da Bersani, che ha già provato a coinvolgerlo, senza esito, nella sfida per la conquista del Campidoglio.
Ma che lo ritiene adatto, se non entrerà nel listone come candidato, a ricoprire ruoli di governo o di partito ai più alti livelli.
Non sorprende dunque che, per l’apprezzamento di cui gode Barca anche nel mondo di Sel, comincino a circolare voci di una sua possibile ascesa ai vertici, al punto che c’è chi ritiene sia un nome spendibile perfino per la corsa ad una futura segreteria unificata dei due partiti, Pd-Sel.
Ma è sul problema più impellente ora, quello del «listone», che si concentrano le attenzioni: si vocifera di un corteggiamento ad altri ministri come Balduzzi o Profumo, ma non ci sono conferme a riguardo.
Poi c’è il nodo dei big che hanno ottenuto la deroga al limite dei tre mandati: mentre la Bindi corre in Calabria e la Finocchiaro a Taranto, Franco Marini è esonerato dalle primarie ed entrerà nella quota bloccata, così come, forse, anche Beppe Fioroni e Gianclaudio Bressa.
Sempre nel «listone bloccato» dovrebbero entrare altre personalità come Marco Rossi Doria, sottosegretario del governo Monti, l’ex segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, il politologo Carlo Galli.
E potrebbero trovare spazio anche alcuni parlamentari renziani come gli ambientalisti Realacci, della Seta e Ferrante o l’ex ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni. Di certo ne faranno parte i componenti dello staff di Bersani per le primarie: lo storico Miguel Gotor, la portavoce Alessandra Moretti e Roberto Speranza.
Stesso dicasi per lo staff ristretto di Renzi, Giuliano Da Empoli, Roberto Reggi e Simona Bonafè.
Ma in centinaia si cimenteranno sul campo, a partire dai 200 parlamentari uscenti (un altro centinaio si è ritirato) che se la vedranno con figure popolari, come la ex olimpionica Josefa Idem che corre a Ravenna, o molto radicati sul territorio, come il fratello del sindaco di Bari Alessandro Emiliano.
A Torino gareggia anche l’ex ministro del lavoro Cesare Damiano, che potrebbe avere poi un ruolo da capolista, ma anche Pietro Marcenaro, Fabrizio Morri.
Nel Lazio un affollamento di parlamentari, da Marianna Madia a Stefano Fassina da Roberto Morassut a Matteo Orfini, da Walter Tocci a Vincenzo Vita e due renziani, Giachetti e Lorenza Bonaccorsi.
In Abruzzo si candida la ex presidente della Provincia aquilana, Stefania Pezzopane, a Reggio Calabria la Bindi è in lista con altri sei candidati, a Bologna corre il renziano Salvatore Vassallo, la ex portavoce di Prodi, Sandra Zampa e un’altra dozzina di candidati tra cui il presidente dei famigliari delle vittime dell’attentato dell’80, Paolo Bolognesi.
Fatte le primarie, delle liste si parlerà il 3 gennaio quando si dovrà procedere alle compensazioni con le correnti, prima della Direzione dell’8 gennaio chiamata a mettere il timbro sulle candidature.
Carlo Bertini
(da “La Stampa“)
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