Aprile 23rd, 2014 Riccardo Fucile
GLI ALFANIANI MINACCIANO DI NON VOTARE IL TESTO, POI IL GOVERNO METTE LA FIDUCIA E CI RIPENSANO: “BATTAGLIA IN SENATO”
È difficile spiegare cosa è accaduto ieri alla Camera sul decreto lavoro: è sempre difficile, lo diceva decenni fa Enzo Forcella proprio parlando della cronaca parlamentare, raccontare una guerra finta come se fosse vera.
Per questo conviene partire dai dati di fatto: il governo ha chiesto la fiducia sul provvedimento, il voto di oggi sarà senza sorprese visto che tutti i partiti della maggioranza hanno annunciato il loro sì, la questione ricomincerà durante il passaggio in Senato.
Altre certezze sul tema: questo decreto — nonostante i ministri dell’Economia e del Lavoro Padoan e Poletti — lo giudichino nientemeno che “fondamentale”, non cambierà quasi nulla e non ha alcuna speranza di innescare l’ircocervo della crescita.
Si tratta, infatti, di poche — e in genere pessime — norme sui contratti a termine e l’apprendistato, non certo del “mitico ” Jobs act, che è una legge delega che verrà approvata, forse, entro dicembre.
Su questa minuzia s’è innescata la guerra finta di cui sopra: uno scontro di posizione in cui gli attori ondeggiano tra il desiderio di ottenere visibilità in tempo di elezioni e la mancata comprensione della pochezza del casus belli.
Nuovo Centrodestra e quel che resta di Scelta Civica e Udc, nel weekend pasquale, hanno abbandonato gli esercizi spirituali per mettere a verbale: “Noi questo testo non lo votiamo”. Poco importa che quel testo nascesse per mettere una pezza — al solito peggio del buco — alle norme più sconclusionate della precedente legge Fornero, allegramente votata da tutti gli interessati.
Per alfaniani e soci, nel merito, è inaccettabile che si preveda — per le aziende sopra i 30 addetti — la prescrizione di assumere il 20% degli apprendisti, dopo 36 mesi di contratto, prima di assumerne di nuovi: in sostanza un’impresa con 50 dipendenti, dopo aver formato per tre anni 7 apprendisti, dovrebbe alla fine assumerne uno per poter dedicarsi alla formazione di un’altra decina di giovani che non intende assumere.
Male, per Ncd e gli altri, pure che si preveda che durante l’apprendistato si faccia formazione col controllo della regione.
O che non si possa avere in azienda solo contratti a termine o che se un imprenditore non rispetta il limite dei 36 mesi per il lavoro temporaneo poi un giudice può costringerlo ad assumere il precario.
Roba inaccettabile, che stritola la libertà d’impresa, dicono montiani e Ncd (e pure Forza Italia).
La faccenda, ieri mattina, rischiava di complicarsi: in commissione Bilancio, per il parere, la maggioranza rischiava di andare sotto per l’assenza dei ribelli e pure di un bel pezzo del Pd. Solo l’interruzione della seduta decisa dal presidente Francesco Boccia e l’arrivo in massa di 11 sostituti (tutti renzianissimi, dal tesoriere Bonifazi al trio Carbone-Guerini-Ermini) ha fatto sì che arrivasse l’ok, anche se per soli due voti.
Nel frattempo si teneva, sempre alla Camera, un vertice di maggioranza assai tormentato.
Il ministro Poletti, dopo attenta riflessione, proponeva la sua mediazione ai presenti: nessuna modifica al Senato (anche perchè il decreto scade il 20 maggio e in mezzo ci sono pure un po’ di ferie); niente assunzione per i contratti a termine che eccedono i 36 mesi, ma un più modesto indennizzo in denaro; la formazione dell’apprendista a scelta dell’azienda potrà essere regionale o… aziendale.
Cesare Damiano, alfiere della cosiddetta sinistra Pd e presidente della commissione Lavoro, aveva già festeggiato come una grande conquista il fatto che i contratti temporanei potranno essere rinnovati al massimo cinque volte, anzichè otto.
Ieri, visto il casino, ha provato il colpaccio bolscevico: noi votiamo le proposte di Poletti, ma i rinnovi devono scendere a quattro.
“Giammai”, è stata la risposta del Ncd, Maurizio Sacconi, omologo di Damiano in Senato, su tutti.
Risultato: niente mediazione e governo costretto a mettere la fiducia sul testo uscito dalla commissione.
Ncd e gli altri si piegano: “Votiamo la fiducia, ma in Senato sarà battaglia”.
Riassunto serale di Matteo Renzi: “Queste polemiche sono tipiche della campagna elettorale, ma con tutto il rispetto noi vogliamo governare. Sui dettagli discutiamo ma alla fine si chiuda l’accordo perchè non è accettabile non affrontare il dramma della disoccupazione”.
Peccato che questo decreto non serva allo scopo.
Marco Palombi
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Aprile 23rd, 2014 Riccardo Fucile
LA LETTERA DI SANDRO A “LA STAMPA”
La lettera comincia così: “Gentile Direttore, la mia impressione è che il centrodestra non solo
sia diviso ma privo di una strategia per il futuro”.
Firmato Sandro Bondi, ex ministro, uomo simbolo del berlusconismo militante passato, politico e poeta.
Una lettera inviata a La Stampa, una lettera in cui Bondi non è affatto tenero con l’attuale Forza Italia ancora viva solo e soltanto grazie al carisma di Silvio Berlusconi: “Resta – scrive – un gigantesco problema che riguarda l’identità del centrodestra in Italia”.
Il motivo? Secondo l’ex ministro l’insediamento di Renzi a Palazzo Chigi e l’arrivo di Papa Francesco sul soglio pontificio hanno cambiato le cose.
Ecco il Premier appunto, Bondi non fa mancare il suo elogio all’ex rottamatore: “Rappresenta – spiega – senza dubbio la prima vera cesura nella sinistra italiana rispetto alla sua tradizione comunista”.
E per argomentarlo utilizza un’equazione: “Blair sta alla Thatcher come Renzi sta a Berlusconi”.
Dunque dato il fatto che ora “comanda” Renzi, secondo l’ex ministro è venuto il momento di accettare che la famosa e tanto invocata, da Berlusconi e dai suoi, rivoluzione liberale non c’è stata: “Non ha potuto farla – il riferimento è all’ex Cav – perchè i suoi principali alleati, da Fini a Casini, da La Russa a Bossi erano fuorchè liberali”.
E così, spiega Bondi, riconosciuto il fallimento bisogna guardare avanti.
Il che significa una cosa sola per il centro destra: scegliere se fare opposizione dura al Premier oppure incalzarlo e sostenerlo nel suo impeto riformatore e modernizzatore: “Mi piacerebbe – conclude – che Berlusconi dicesse chiaramente che se Renzi farà cose giuste lo sosterrà e che se lo criticherà e lo avverserà con fermezza solo se non manterrà fede alle sue promesse di cambiamento e di modernizzazione dell’Italia”.
(da “Huffington Post“)
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Aprile 23rd, 2014 Riccardo Fucile
RENZI: “NON PARTECIPERO’ ALLA PARTITA DEL CUORE, I GRILLINI HANNO SPORCATO UN EVENTO IMPORTANTE”…SI ATTENDONO SUICIDI DI MASSA
Alla fine Matteo Renzi ha desistito, niente partita del cuore in diretta Rai a sei giorni dal voto per le Europee: “Non parteciperò – scrive su Facebook il premier – sono il presidente del Consiglio di un paese che non merita polemiche ridicole come questa. Non hanno paura di me calciatore. Hanno paura di chi vuole cambiare l’Italia, restituire speranza, cambiare la protesta in proposta”.
Un Renzi in piena overdose di narcisismo mattutino, pari solo alla suo proverbiale esibizionismo sui prati, pone fine alla sua partecipazione alla marchetta televisiva.
Dopo le critiche dei giorni scorsi, l’intervista di Fico (presidente della Commissione vigilanza Rai), la difesa del suo partito e di Gino Strada che quella partita, per conto di Emergency, aveva organizzato, Renzi usa Facebook per spiegare le sue ragioni senza risparmiare attacchi a M5s: “Grazie alla rabbia e alla paura dei grillini per la prima volta si sporca un evento come la partita del cuore che da anni unisce gli italiani. Strumentalizzare gli 80 euro, i segreti di stato, gli investimenti sulle scuole è ancora polemica politica. Strumentalizzare – conclude – la beneficenza no”.
Ha ragione, peccato che sia stato lui a strumentalizzarla.
Il Premier dice così addio al sogno di giocare insieme ai suoi idoli Baggio, Batistuta e Antognoni: “Anche – spiega – se mi costa dal punto di vista personale perchè giocare con Baggio, Batistuta e Antognoni per uno come me che ama il calcio (non ricambiato, lo so) era un piccolo sogno: inutile nascondersi, siamo uomini”.
Si compri le figurine Panini come tanta gente comune e la finisca di speculare alle spalle degli italiani indigenti a cui non ha destinato un euro solo perchè sono meno di quelli che ha gratificato con 50-80 euro, sottraendoli ad altri.
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Aprile 23rd, 2014 Riccardo Fucile
L’AMMINISTRATORE DELEGATO DEL TORCHIO PRESENTA AL CDA LE DURE RICHIESTE DI ETIHAD PER SALVARE L’EX COMPAGNIA DI BANDIERA… MA SE NON ACCETTA SARà€ FALLIMENTO SICURO
La passione di Alitalia non è finita con la Pasqua, anzi, probabilmente è appena cominciata, e
la trattativa con gli arabi di Etihad si sta presentando come la stazione di una straziante via crucis. Tra la compagnia araba e quella italiana è in corso da alcuni giorni uno scambio di lettere e il consiglio di amministrazione di ieri pomeriggio della società di Fiumicino è stato usato dall’amministratore Gabriele Del Torchio per comunicare agli azionisti il succo di queste pratiche epistolari.
Per tirar fuori dai 350 ai 500 milioni di euro con cui acquisirebbero tra il 40 e il 49 per cento della società italiana, i capi di Etihad guidati dal falco James Hogan continuano ad alzare la posta aggiungendo pretese a pretese.
Una sfilza: 3.000 dipendenti da mandare a casa o in subordine da scaricare sullo Stato italiano e quindi sui contribuenti.
E poi la trasformazione in azioni della compagnia dei 400 milioni di debito vantati da Banca Intesa e Unicredit che sono anche già socie rispettivamente con il 21 e il 13 per cento.
E infine la manleva sul contenzioso con l’ex azionista di punta Carlo Toto e con la low cost Windjet fallita e su tutte le partite pregresse relative al braccio di ferro con l’Agenzia delle Entrate a causa delle società di diritto irlandese con cui la compagnia italiana ha affittato gli aerei.
Mentre dal governo italiano gli arabi vorrebbero provvedimenti per le compagnie low cost a cui dovrebbero essere negati i finanziamenti considerati aiuti lesivi della concorrenza.
Ciliegina sulla torta, ora spingono con sempre maggiore convinzione pure sulla pretesa di entrare dalla porta principale nel capitale e nella gestione di Adr-Aeroporti di Roma, la società dei Benetton che ha in concessione Fiumicino.
Gli arabi presentano l’acquisto di una quota iniziale di almeno il 20 per cento dello scalo romano come l’ennesima condizione imprescindibile.
Il percorso che prospettano è questo: prima deve essere chiusa la partita con Alitalia e subito dopo deve essere aperto il capitolo Fiumicino.
Dal loro punto di vista l’aeroporto romano non è separabile dalla vicenda della compagnia italiana rappresentando un tassello della strategia di espansione nel mercato aereo italiano ed europeo.
Per Etihad le piste capitoline possono diventare una base di lancio per i voli verso l’America del nord e del sud e anche uno scalo per convogliare verso Abu Dhabi i passeggeri diretti verso l’Estremo oriente e l’Australia.
Al nord puntano invece sull’aeroporto di Linate a tutto svantaggio di Malpensa.
Stando così le cose è sempre più chiaro che gli arabi stanno usando Alitalia come il cavallo di Troia per mettere le mani sui gangli vitali del trasporto aereo nazionale.
I Benetton sono da una parte tentati dall’alleanza internazionale, ma dall’altra anche impauriti. Tentati perchè un socio di peso come Etihad dell’emiro di Abu Dhabi potrebbe dare impulso allo sviluppo dell’aeroporto, ma pure impauriti dalla potenza finanziaria degli arabi che dove vanno diventano padroni.
Questa situazione di potenziale sudditanza degli interessi nazionali a quelli arabi è il grazioso ricordino lasciato da Silvio Berlusconi al quale nel 2008 venne in mente con una piroetta di impostare mezza campagna elettorale sull’accattivante quanto sconclusionato slogan “Alitalia agli italiani”.
Vinte le elezioni, il centrodestra sbattè subito la porta in faccia ad Air France che era disposta a prendersi la compagnia italiana a condizioni relativamente assai meno iugulatorie di quelle imposte ora dai conquistatori arabi.
Da quel momento per Alitalia non c’è stato un attimo di tregua e i “patrioti” berlusconiani sono passati da un rovescio all’altro.
Dopo aver eseguito la due diligence (verifica) sui conti Alitalia, gli arabi conoscono le condizioni in cui versa la compagnia di Fiumicino e sanno di poter impugnare il coltello dalla parte del manico. Senza il loro ingresso l’azienda italiana muore in due secondi strangolata dai debiti, con il loro ingresso campa, ma sottomessa.
Loro arabi, al contrario, senza Alitalia possono vivere benone e crescere in Europa e nel mondo. Alla prova dei fatti, rispetto ai francesi si stanno dimostrando negoziatori più spietati e comparando l’oggi con il 2008 è come se Alitalia fosse caduta dalla padella nella brace.
Il ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, uno dei politici più vicini a Berlusconi ai tempi del no ad Air France, ripete con ottimismo che l’accordo con Etihad ci sarà sicuramente.
Ma più che l’espressione di una certezza le sue parole sembrano un auspicio.
Daniele Martini
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Aprile 23rd, 2014 Riccardo Fucile
IN NOME DELL’ITALIANITà€ BERLUSCONI FECE SALTARE L’AFFARE COI FRANCESI… ECCO I RISULTATI DEI “CAPITANI CORAGGIOSI”
Rieccoci al capolinea. Pare che l’Alitalia sia in crisi nera.
Il fatto è che lo è almeno da un quarto di secolo, da quella calda estate del 1988 in cui il presidente dell’Iri Romano Prodi cacciò Umberto Nordio, storico padre-padrone della compagnia di bandiera, accusandolo di pigrizia nella ricerca di alleanze internazionali.
In questi 25 anni l’unico settore del trasporto aereo che ha potuto razionalizzare e ottimizzare è quello della stampa specializzata, in grado di ripubblicare sempre lo stesso articolo, scritto chissà quando e da chi, senza rischiare l’errore grossolano.
Il mondo è cambiato, l’Alitalia no.
Il trasporto aereo ha avuto un boom che rimarrà nei libri di storia, l’Alitalia è sempre più piccola.
Gli italiani volano low cost, i piloti italiani pilotano low cost, e la politica italiana continua a coccolarsi l’immortale fabbrica di debiti come se fosse un tesoro irrinunciabile.
Come se i cugini francesi fossero sempre in agguato per strapparci questa gioia chiamata, con retorica novecentesca, “compagnia di bandiera”. E così la storia si ripete.
Nella primavera del 2008 l’Air France se la stava prendendo con debiti e tutto, imponendo 2.000 esuberi. Apriti cielo.
I sindacati, storici complici nella gestione allegra a base di assunzioni clientelari, si misero di traverso.
Silvio Berlusconi ne approfittò per issare la bandiera elettorale della “italianità ” da difendere.
Il capo di Air France, Jean Ciryl Spinetta, disse al premier Prodi (ancora lui) che non si fidava di firmare un contratto che il suo prevedibile successore a Palazzo Chigi avrebbe fatto saltare.
Il salvataggio orchestrato per B. dal numero uno di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, è un capolavoro da studiare in tutte le facoltà di economia.
Gli esuberi sono passati da 2.000 a 3.200 ufficiali, in realtà molto di più perchè quanti fossero veramente i lavoratori Alitalia non si è mai capito di preciso, tanti erano i precari e gli stagionali. Fondendo l’Alitalia con l’Air One sono stati imbarcati circa 14 mila dipendenti, non più di due terzi dei lavoratori effettivi.
Sono stati lasciati a terra 850 piloti, un terzo del totale, professionalità che erano costate a tutti i contribuenti anni di addestramento.
Il debito di circa 4 miliardi, che Spinetta era pronto ad accollarsi, è rimasto sul groppone dello Stato, affidato al liquidatore Augusto Fantozzi, oggi alle prese con i successori che resistono alla corresponsione degli augusti onorari pretesi.
Migliaia di dipendenti Alitalia sono andati in cassa integrazione, allungata con apposita legge fino a sette anni, a spese di Pantalone.
Gli unici che ci hanno guadagnato sono i cosiddetti “patrioti”, che hanno risposto all’appello di Passera e hanno messo insieme 850 milioni per far ripartire la nuova Alitalia sull’onda del mitico “piano Fenice”.
La crema dell’imprenditoria italiana, capitanata da Roberto Colaninno, lo scalatore di Telecom Italia.
Alcuni sono finiti male prima della nuova Alitalia, come Salvatore Ligresti e Emilio Riva, arrestati. E questi due, come tutti gli altri, hanno buttato i loro soldi sapendo che la gratitudine del capo del governo non avrebbe mancato di manifestarsi.
Qualche esempio? La famiglia Benetton poteva farsi riconoscere sontuosi aumenti nelle tariffe autostradali di Atlantia; l’allora presidente di Confindustria Emma Marcegaglia pochi mesi dopo avrebbe portato a casa a canone vile le strutture turistiche della Maddalena realizzate per il G8; lo stesso Riva aveva in ballo una complicata Autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto, andata a buon fine.
È finita come doveva. Guardate chi sono oggi i principali azionisti dell’Alitalia moribonda che si sta consegnando senza condizioni agli emiri di Etihad.
Al primo posto c’è, con il 20,59 per cento, Intesa Sanpaolo. Al secondo posto ci sono le Poste Italiane, con il 19,48 per cento: il numero uno Massimo Sarmi si è precipitato a buttare 75 milioni pubblici per fare la respirazione bocca a bocca al carrozzone dei patrioti, sperando di guadagnarsi meriti governativi in vista delle nomine di primavera, e senza calcolare che l’Alitalia non porta bene, e no lo ha fatto nè a lui nè al governo che ha cercato di toglierla alle grinfie francesi per “trattare da posizioni di forza”.
Al terzo posto c’è Unicredit, con il 13 per cento: anche la seconda banca italiana ha finanziato i patrioti, e c’è rimasta impigliata.
Il capo di Unicredit, Federico Ghizzoni, potrà ringraziare Passera, che nel 2008 versò lieto il suo obolo di 100 milioni in conto capitale, perchè allora si teorizzava la “banca paese”, una specie di dèpendance del governo Berlusconi.
Passera ci credeva: “Abbiamo investito 100 milioni di euro in Alitalia, contribuendo a salvare 14 mila posti di lavoro. Era un’azienda praticamente fallita e noi pensavamo che, com’è avvenuto, potesse essere ristrutturata”.
Ecco come l’hanno ristrutturata.
Anno 2009, 326 milioni di perdita; 2010, 160 milioni di rosso; 2011, 69 milioni in fumo.
Rocco Sabelli, ex braccio destro di Colaninno prima alla Tim poi alla Piaggio, ripeteva più o meno tutte le settimane che il pareggio dei conti era in vista, bastava aspettare.
A un certo punto se n’è andato, senza mai dire perchè. Al suo posto fu pescato un certo Andrea Ragnetti, manager di esperienza internazionale, proveniente dalla Philips dove si era messo in luce proponendo all’austera multinazionale olandese il lancio del vibratore di marca. Ragnetti ha fatto danni nel solo 2012, chiuso con una perdita di 280 milioni per la quale è stato accompagnato alla porta con una buonuscita di un milione di euro.
Niente in confronto al trattamento dei manager dell’era pubblica, come Giancarlo Cimoli e Francesco Mengozzi, oggi a processo per “bancarotta per dissipazione”, che se non altro rende l’idea.
Al posto di Ragnetti è arrivato Gabriele Del Torchio, che continua a parlare di imminente rilancio , come se niente fosse.
Intanto nel 2013 ha incassato una perdita vicina ai 500 milioni.
Fatte le somme dei numeri qui elencati, l’Alitalia dei Patrioti — con flotta e mercato quasi regalati, senza un euro di debiti e con il personale ben alleggerito — ha prodotto in cinque anni 1,3 miliardi di perdite, pari a 700 mila euro al giorno, pari a 30 mila euro l’ora, pari a poco meno di 500 euro al minuto.
I vecchi boiardi della Partecipazioni statali in confronto erano geniali e onesti.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 23rd, 2014 Riccardo Fucile
L’INTERVISTA DELLA MINISTRA BOSCHI A VANITY FAIR
Chissà perchè, quando una donna bella dichiara di sentirsi sola si trasforma subito in una
notizia.
Ultimo caso, la ministra delle riforme Maria Elena Boschi che rivela a Vanity Fair quanto le piacerebbe poter riformare almeno la sua esistenza, trovando un marito e abrogando le tazze di latte bevute in solitudine la sera davanti alla tv.
Parole che ci sorprendono.
Come se esistesse un’associazione automatica tra bellezza e pienezza del vivere. E fosse impossibile, a chi magari bellissimo non è, immaginare la perfezione estetica abbinata a una condizione latente di infelicità .
Eppure già Apuleio, agli albori della letteratura, raccontò in una favola immortale il percorso tormentato di Psiche, la creatura più bella del mondo, rimasta a lungo zitella proprio a causa della sua esagerata e inibente avvenenza, mentre le sorelle trovavano con disinvoltura marito.
Curioso e feroce il destino delle donne: crescono con l’idea, instillata da altri, che solo la bellezza e il successo le renderanno felici.
Ma appena raggiungono uno o entrambi gli obiettivi, si accorgono che il loro punto di vista è cambiato.
Si scoprono insicure per la paura di perdere ciò che sono diventate.
E al tempo stesso più esigenti: sentendosi all’apice, pretendono il massimo dal proprio compagno e di rado lo trovano, perchè è ancora piuttosto difficile incontrare un maschio che accetti di stare accanto a una donna simile senza andare in crisi di identità .
Inutile illudersi: la bellezza non dà la felicità .
Figuriamoci la bruttezza.
Massimo Gramellini
(da “La Stampa”)
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Aprile 23rd, 2014 Riccardo Fucile
PERCHE’ RENZI NON FA NULLA PER ASSICURARE ALLA GIUSTIZIA I 25 AMERICANI CONDANNATI CON SENTENZA DEFINITIVA PER AVER SEQUESTRATO UN EGIZIANO CON REGOLARE DIRITTO DI ASILO PER TORTURARLO IN UN CARCERE DEL CAIRO?
Siccome c’è un limite anche alla fantasia, l’altro ieri Matteo Renzi si era riposato e, al posto delle due o tre televendite quotidiane, si era limitato a una: “Abbiamo deciso di desecretare gli atti delle principali vicende che hanno colpito il nostro Paese: tutti i documenti delle stragi di Piazza Fontana, dell’Italicus e della bomba di Bologna”.
Ma subito, in vece sua, ha provveduto Repubblica , attribuendogli un “piano segreto per tagliare gli F-35: via metà degli aerei”.
Il piano è talmente segreto che lo stesso Renzi non ne sa nulla, nè tantomeno l’amico Obama al quale, non più tardi di due settimane fa, il premier e Napolitano avevano garantito che gli F-35 ce li compriamo tutti, costringendo la cosiddetta ministra della Difesa Pinotti a spettacolari arrampicate sugli specchi.
Nulla, naturalmente, è impossibile all’autore dell’hashtag “enricostaisereno” 24 ore prima di “enricoseimorto”.
Ma, al momento, il piano segreto prevede il taglio di un F-35 (su 90), più il costo di un’ala o di due carrelli. Roba forte.
Quanto alla mirabolante abolizione del segreto di Stato sulle stragi di Piazza Fontana, dell’Italicus e di Bologna, c’è un piccolo problema: per legge, il segreto di Stato non può mai riguardare fatti di strage, di terrorismo e di mafia, e comunque può durare fino a 15 anni, prorogabili a un massimo di 30 (Piazza Fontana è del 1969, l’Italicus del 1974, Bologna del 1980).
Dunque non si vede quali sconvolgenti verità dovrebbero saltare fuori nel caso in cui la promessa venga mantenuta (è raro che qualcuno metta per iscritto l’ordine di fare una strage e comunque ci sono altri modi per far sparire carte compromettenti, tipo quelle emerse dall’archivio dell’Ufficio affari riservati del Viminale sull’Appia nel 1997, quand’era ministro un certo Napolitano).
Fanno eccezione i segreti di Stato attinenti a rapporti con altri Stati, nel qual caso però Renzi non può revocare nulla: deve prima mettersi d’accordo con gli Stati interessati. Siccome però annuncia “il principio della total disclosure”, che noi comuni mortali chiamiamo “trasparenza assoluta”, il segreto di Stato potrebbe toglierlo su un altro mistero d’Italia ben più misterioso e soprattutto recente, che diversamente dalle stragi è davvero coperto dal segreto di Stato: il sequestro di Abu Omar, l’imam di Milano rapito nel 2003 dalla Cia con la complicità di agenti del Ros e del Sismi, deportato in Egitto e lì torturato per mesi.
Su questa vergogna mondiale, i magistrati di Milano sono stati sabotati da quattro governi — Prodi, Berlusconi, Monti e Letta — i quali hanno, nell’ordine: apposto sistematicamente il segreto di Stato sulle complicità del Sismi; sollevato quattro conflitti di attribuzioni (record di tutti i tempi) dinanzi alla Consulta contro i giudici per far assolvere gli spioni italiani; e bloccato con i loro 7 ministri della Giustizia (Castelli, Mastella, Scotti, Alfano, Nitto Palma, Severino e Cancellieri) i mandati di cattura internazionali per assicurare alla giustizia i 26 americani imputati. Ora che le sentenze sono definitive (26 americani e 5 italiani condannati, altri 5 uomini del Sismi salvati dal segreto di Stato), il governo Renzi nulla fa per assicurare alla giustizia i 25 yankee latitanti, cioè tutti i pregiudicati tranne il colonnello Joseph Romano graziosamente graziato da Napolitano.
Se Renzi vuole una disclosure davvero total, dica al ministro Orlando di ordinare finalmente le ricerche internazionali di questi criminali perchè siano estradati in Italia a scontare la pena. Dopodichè, siccome i miracolati nostrani (Pollari, Mancini & C.) non rischiano più nulla, visto che i loro proscioglimenti sono definitivi e nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato, tolga il segreto di Stato sul caso Abu Omar.
Così finalmente sapremo la verità su chi nel 2003 autorizzò e aiutò la Cia a sequestrare un egiziano con regolare diritto d’asilo per torturarlo in un carcere del Cairo.
Chissà , magari si potrebbe scoprire che fu qualche attuale padre costituente.
E ci sentiremmo tutti più tranquilli.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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