Agosto 26th, 2014 Riccardo Fucile
CONTINUA LA FARSA DI POLITICI E VIP IN CERCA DI NOTORIETA’ A BUON MERCATO
“Dille due parole, anche di circostanza, sulla ricerca scientifica”. 
Non ha riscosso molto successo l’Ice Bucket Challenge del ministro della Pubblica Amministrazione Marianna Madia.
Con il video diffuso sulla sua pagina facebook, il ministro ha dato il suo contributo alla causa – l’ormai famosa secchiata d’acqua gelata – per raccogliere e incentivare le donazioni per la ricerca scientifica contro la Sla, la Sclerosi Laterale Amiotrofica.
Ma nel filmato il ministro non rispetta le regole del “gioco”: non c’è ghiaccio nel secchio (in realtà la Madia usa una pentola), non nomina altre persone come consuetudine.
E soprattutto non fa cenno alla nobile iniziativa che, come ormai noto, non è un gavettone fine a se stesso ma nasce dalla volontà di incentivare le donazioni a favore della ricerca contro la Sla.
Il ministro non dice nulla: semplicemente si svuota addosso una pentola piena d’acqua.
“Ma non c’era il ghiaccio, non ha nominato nessuno, e non ha neanche detto che il gesto era a favore della ricerca sulla sla. è sconfortante che un ministro non capisce un giochino così semplice. Che coraggio”, protesta un utente.
Un altro: “Non ha neanche spiegato che il gesto era a favore della ricerca sulla Sla. Non ha nominato nessuno. Neanche due parole in croce. Ma invece di fare la figura dell’incapace (non riesce a fare un semplicissimo video correttamente), perchè non si impegna per la Ricerca in Italia? È un ministro”.
E via dicendo: “Molto divertente. Neanche un sorriso, neanche dire che è contro la SLA. Sembra che stai giocando. Ma sorridi dai!”
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 26th, 2014 Riccardo Fucile
VERTICE TRA IL PREMIER E IL MINISTRO DELL’ECONOMIA: NON CI SARANNO ALTRE RISORSE PER GLI INTERVENTI IN ARRIVO
La vera secchiata d’acqua gelida è arrivata ieri, nel primo incontro tra Renzi e Padoan al ritorno dalle ferie: non ci sono risorse aggiuntive, soldi freschi, tesoretti, fiche a sorpresa da puntare sulla ruota dell’anno in corso.
Il controllo della spesa, di qui a dicembre, deve essere ferreo.
Troppo grosso il rischio di sforare il 3% nel rapporto tra deficit e Pil, in pratica già raggiunto.
Troppo alta la probabilità di infrazioni europee, proprio ora che Bruxelles si avvia a concedere flessibilità ai paesi riformatori e virtuosi. Attenzione dunque ai cordoni della borsa
Una nota dolente per Renzi e i ministri Lupi e Guidi (Insfrastrutture e Sviluppo), a questo punto orientati a confezionare un decreto Sblocca-Italia asciutto, ricco di norme per semplificare e sburocratizzare, ma povero di entrate extra.
Dunque a costo zero. Si farà con i denari che già ci sono da rimettere in circolo: le somme stanziate a suo tempo per opere grandi e piccole poi bloccate, qualche residuo di fondo europeo.
E si proverà a coinvolgere i privati, con accordi di partenariato, grazie anche al supporto della Cassa depositi e prestiti.
Per questo, nel provvedimento atteso per venerdì, a traballare più degli altri è il pacchetto casa: ecobonus da stabilizzare e rafforzare per gli interventi antisismici, incentivi per chi compra un appartamento e poi l’affitta a canone concordato, agevolazioni fiscali per le permute immobiliari, se si acquistano abitazioni ad alto rendimento energetico.
Misure annunciate da Renzi, pubblicizzate da Lupi, a questo punto in forse.
Al momento «il capitolo è aperto», trapela dal ministero dell’Economia. D’altronde sugli ecobonus — si fa notare — non c’è urgenza. Per tutto il 2014 sono coperti (sia quello al 65% che l’altro sulle ristrutturazioni, assai popolare, al 50%). Per il 2015 c’è tutto il tempo. E il veicolo migliore è ancora la legge di Stabilità di ottobre
Il premier e il ministro dell’Economia si sono visti dunque ieri pomeriggio, per un’ora circa a Palazzo Chigi. E hanno fatto il punto sugli impegni a breve e a medio-termine del governo.
Dunque sul decreto Sblocca-Italia, all’esame del Consiglio dei ministri di venerdì prossimo, assieme alla riforma di scuola e giustizia.
Sul Consiglio europeo di sabato a Bruxelles. Ma anche sull’agenda dei Millegiorni che Renzi vuole annunciare quanto prima, per assegnare un ritmo e dunque un calendario alle riforme in cantiere
Il presidente Napolitano è stato chiaro con Renzi: non vuole un decreto omnibus.
E lo Sblocca-Italia — su cui i tecnici di Economia, Infrastrutture e Sviluppo hanno lavorato per tutto il mese di agosto — a questo punto dovrà asciugarsi.
Conterrà l’essenziale, già declinato da Renzi in dieci punti durante la conferenza stampa del primo agosto.
Le norme cioè per sbloccare i cantieri, le reti (banda larga e ultralarga, ma anche qui c’è un problema di risorse), i Comuni (2 mila le richieste dei sindaci giunte via mail al premier che valgono 1,3 miliardi da finanziare con il Fondo sviluppo e coesione), i porti (accorpamento delle autorità portuali), il dissesto idrogeologico, la burocrazia (con la riforma del codice dei contratti pubblici e forse anche quello dei beni culturali), l’export (il piano straordinario per l’internazionalizzazione delle imprese e l’attrazione degli investimenti stranieri).
In più, il piano Bagnoli e lo Sblocca-Energia per sviluppare risorse geotermiche, petrolifere e gas naturale.
I cantieri da rimettere in moto sono molti. Il ministro delle infrastrutture sta limando la lista, in cui compare l’alta velocità Torino-Lione e quella Napoli- Bari (già stanziati 2,9 miliardi), i collegamenti con Fiumicino e Malpensa, la ferrovia Catania- Messina-Palermo (già finanziata per 5,2 miliardi).
In tutto, dovrebbero essere 13-14 infrastrutture importanti, già a bilancio per 30 miliardi, ma ferme o non ancora partite.
Con le piccole opere, si arriva ai 43 miliardi da “movimentare” di cui parla il premier. Contribuirà anche il fondo revoche del ministero di Lupi con i suoi 1,3 miliardi.
Se lo snellimento delle procedure funzionerà , i tappi di Tar e burocrazie fatti saltare, le deroghe ai codici operative, il governa spera in 95 mila nuovi posti di lavoro, per un totale di 348 mila occupati.
Il ministro Padoan intanto ha messo in agenda per oggi la prima riunione con il suo staff, i viceministri e i sottosegretari.
Sul tavolo, i conti. Tra Def e legge di Stabilità .
Valentina Conte
(da “La Repubblica”)
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Agosto 26th, 2014 Riccardo Fucile
LA STRUTTURA E’ GERARCHICA, MA LA SUA OPACITA’ NON AIUTA I SERVIZI A INDIVIDUARNE I CENTRI NEVRALGICI
Se non fosse per quel ghigno da predoni medioevali dediti a razziare, stuprare, massacrare gli
“infedeli”, l’organizzazione dello Stato islamico (Is) è tale da scusare la congettura che dietro alle orde di Al Baghdadi vi siano menti dotate di fine acume strategico.
Le Intelligence, prese alla sprovvista dall’avanzata dell’Is, s’affannano a indagare la struttura operativa del «gruppo terroristico meglio armato e finanziato della storia». Da quel po’ che emerge, tuttavia, si tratta di una struttura articolata, concepita per la «lunga durata».
L’«opacità » dell’Is, conclamata dai servizi segreti, non aiuta a individuarne i centri nevralgici, primo bersaglio per la sua sconfitta.
Si sapeva quasi nulla persino di Abu Bakr al-Baghdadi, l’autoproclamatosi califfo «di tutti i musulmani» prima che l’ex predicatore «dall’aspetto mite e dalla voce gentile» cresciuto in un misero sobborgo di Samarra in Iraq uscisse dall’ombra in luglio con una rara apparizione nella moschea di Mosul.
Non viene in soccorso nemmeno l’uso di pseudonimi dal richiamo leggendario (Abu Bakr, come il primo Califfo dopo Maometto) fra i luogotenenti, pescati per la ferrea sudditanza: in primis dai Paesi del Golfo – sauditi e emirati – , dal Caucaso e dai ranghi degli iracheni ba’athisti, ex agenti dei servizi o dell’esercito di Saddam.
Lo stesso Al Baghdadi all’anagrafe è in realtà Ibrahim Awad Ibrahim al-Badri “Califfo” da appena due mesi (dal 29 giugno), Al Baghdadi ha ereditato una struttura rigorosamente gerarchica dal suo predecessore, Abu Omar al-Baghdadi.
Questi era stato, fino alla morte nel 2010, il leader dello Stato islamico d’Iraq creato nel 2006, l’antesignano dell’Is.
Gli embrioni del “califfato” erano già abbozzati.
Al vertice siede il “califfo”, con poteri assoluti sui consigli del governo, e di vita e di morte sui sottoposti.
Il braccio “operativo” è il Consiglio della Sharia, composto da sei membri come quello del califfo Omar ai tempi di Maometto.
Retto da tre “Mufti”, due sauditi e un salafita del Bahrain, controlla l’osservanza delle norme da parte degli organi governativi. Una Shura riunisce i ministri incaricati di dirigere la “pubblica amministrazione”, dalla guerra alle finanze con la pubblicazione, nientemeno, di un bilancio annuale.
Il Consiglio militare conta fra gli otto e i tredici membri; per capo ha un ceceno, Omar al-Shishani, noto per l’algida crudeltà .
Il Consiglio di sicurezza raccoglie gli aguzzini inviati ad abbattere rivali e dissidenti, e a formare gli “inghimassi”, guerriglieri kamikaze.
I Comitati della Sharia applicano la sanguinosa “giustizia” – decapitazioni, flagellazioni, amputazioni – nonchè la “promozione della virtù e la prevenzione dei vizi”, sul modello dell’Arabia Saudita.
Quel che più distingue Al Baghdadi dai suoi empi pari, ad ascoltare gli esperti, è la sinistra abilità nel trasformare un ramo cadetto di Al Qaeda fino al 2010 sull’orlo del disfacimento, in un’organizzazione globale dalla notevole capacità militare, dal forziere miliardario, e con schiere di mujaheddin.
Insediati i propri governatori nelle regioni conquistate, i propri imam nelle moschee, una cassa unica dove accumulare i bottini di guerra, tra furti dei tesori delle banche, tasse e taglieggi, saccheggi e sequestri, il “califfo” ha imposto il proprio regno del terrore in una regione transnazionale che conta già otto province a cavallo della Siria e dell’Iraq mentre procede verso Aleppo e i confini con la Turchia, già assestato sulle frontiere di Libano e Giordania.
Si racconta che al Baghdadi, prigioniero al Bucca Camp, il carcere Usa in Iraq, il giorno del rilascio abbia salutato il colonnello Kenneth King con queste parole: «Ci vediamo a New York». King ha confessato al Daily Beast di «non aver colto la minaccia, quel giorno».
Una distrazione davvero costosa.
Alix Van Buren
(da “La Repubblica”)
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Agosto 26th, 2014 Riccardo Fucile
MARINA: “IL PARTITO NON PUO’ OSTACOLARE I NOSTRI INTERESSI, SE DIVENTA UN PESO MEGLIO LIBERARSENE”… PAROLA D’ORDINE: APPOGGIARE RENZI SENZA COINVOLGIMENTO DIRETTO
«Silvio, la situazione peggiora. L’economia non riparte. Per noi è fondamentale che il governo vada avanti. Tu devi aiutare Renzi, sostenerlo».
Villa San Martino, il board aziendale si trasforma nell’ufficio politico di Forza Italia.
Per due volte in pochi giorni Fedele Confalonieri e Ennio Doris, Gianni Letta, Marina e Piersilvio Berlusconi si alternano di fronte al Capo nel corso di summit riservati che interrompono relax e vacanze.
I top manager del berlusconismo indicano al Cavaliere la rotta. Avanti con l’esecutivo, senza un coinvolgimento diretto.
E l’ex premier, dopo qualche settimana di inconfessate tentazioni antigovernative, ammette che non esiste altra strada: «Se è quello che serve alle aziende, sosterremo Matteo ». Contestualmente, ordina ai suoi anche il black out delle polemiche: «Smettetela di attaccare Palazzo Chigi».
Da una parte Forza Italia, dall’altra alcune delle principali imprese del Paese: l’intreccio, come al solito, è inestricabile. «Il partito non può ostacolare i nostri interessi — è la linea di Marina — perchè se diventa un peso è meglio liberarsene…».
Anche le oscillazioni azionarie invitano alla prudenza. E impongono ai timonieri delle aziende di suggerire all’ex Cavaliere di procedere con i piedi di piombo.
I numeri parlano chiaro: dopo una primavera di curve ascendenti, ai primi di agosto Mediaset è precipitata ai livelli più bassi da un anno — se si esclude lo strappo di dicembre con il governo Letta — salvo recuperare qualcosa negli ultimi giorni.
Lo stesso vale per Mondadori, che ha perso posizioni in Borsa ed è inchiodata ai valori di settembre 2013.
Mediolanum, poi, ha risalito solo qualche gradino dopo più un mese in picchiata. «Serve stabilità premono Confalonieri e Doris altrimenti si fa dura»
L’”accerchiamento” aziendale non capita per caso. Un caldissimo luglio di battaglia sulle riforme ha mostrato tra i senatori azzurri una sacca di resistenza preoccupante, poco interessata ai diktat dei vertici.
Poi, in un agosto un po’ noioso — ma libero dall’incubo Ruby — l’ex premier ha addirittura valutato la pazza idea di stravolgere i piani, ribaltando il tavolo: «Renzi non sta rispettando quanto promesso. Se lo faccio cadere, si torna al voto. E noi, assieme al Pd, costruiamo un vero governo di larghe intese ».
Solo una suggestione? Probabile. Ma nel dubbio i figli maggiori — capitanati da Marina l’hanno preso sul serio: «L’esecutivo deve restare in piedi».
Il “come” l’ha suggerito Gianni Letta, impegnato come sempre a coltivare il dialogo con i vertici istituzionali: «Non è necessario entrare nell’esecutivo, basta aiutare Renzi quanto basta per non farlo cadere. E aspettare tempi migliori».
In fondo, Forza Italia si è già mostrata decisiva e non vede l’ora di continuare a farlo già di fronte all’ingorgo parlamentare di settembre e ad eventuali incidenti del governo sul dossier economico.
L’obiettivo di lungo periodo, però, resta quello di pesare soprattutto nel momento in cui si deciderà il successore di Giorgio Napolitano al Colle
Si procede così, allora. E gli umori della corte brianzola lo dimostrano.
«Come al solito toccherà al Presidente risolvere i problemi dell’Italia — ragionava qualche giorno fa l’ormai potentissima Maria Rosaria Rossi — e se davvero si prospetta un autunno caldo per il governo, beh, vorrà dire che ci toccherà aiutare Matteo… ».
Non a caso, dal quartier generale berlusconiano si dicono certi che Berlusconi sarà ricevuto da Renzi molto presto, alla ripresa dei lavori parlamentari di settembre.
Per discutere ufficialmente di riforme. Per ribadire, in realtà , la centralità di FI oltre lo steccato dell’opposizione .
Anche chi vive con disagio l’era renziana, come Renato Brunetta, si allinea e sulla Stampa arruola gli azzurri nel campo della coesione nazionale.
E pure una dura come Licia Ronzulli annuncia su Twitter: «FI non usa politica del “tanto peggio tanto meglio”, se ci sono misure utili per lo sviluppo e la crescita Paese, il dialogo è aperto». Raffaele Fitto, invece, continua a tessere silenziosamente la tela dell’opposizione interna, sostenuto dall’ala meridionale del partito. «Con il Presidente avremo altri incontri, ci confronteremo…»
Strategie e distinguo che interessano poco all’ex premier, allarmato per lo stato di salute delle aziende. Qualche ora libera, invece, preferisce investirla sul giocattolo che lo diverte di più, il Milan, nonostante anni amari e avari di vittorie.
La cessione di Mario Balotelli al Liverpool l’ha come sollevato, dopo che un Mondiale da incubo ha rischiato di “svalutare” l’attaccante: «E invece l’abbiamo venduto bene (20 milioni di euro, ndr) e ci siamo liberati del suo ingaggio. Sono felice — ha spiegato nelle ultime ore — finalmente è andato via. Non è uomo da Milan, è ingestibile. Anzi, è uno che distrugge lo spogliatoio. Non è altro che un “Cassano due”…».
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica”)
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Agosto 26th, 2014 Riccardo Fucile
UN DEDALO DI RIMPALLI, RIMANDI, COMMI E CAVILLI: IL PALLEGGIO CAMERA-SENATO SOPRAVVIVE
Questa volta Calderoli ha esagerato per difetto. 
La schiforma costituzionale approvata l’8 agosto dal Senato non è una merdina, come graziosamente l’ha definita nelle sue vesti di relatore, cioè di esperto. È una merdaccia sesquipedale.
E non solo per il contenuto (i senatori non più eletti dai cittadini, ma nominati dai consigli regionali, l’immunità , l’innalzamento delle firme per le leggi popolari da 50 a 150 mila).
Ma anche per la forma. Che, com’è noto, è anche sostanza: una prosa che pare uscita dalla penna di un malato di mente in avanzato stato di ubriachezza, in un dedalo di rimandi, rimpalli, commi, cavilli, circonlocuzioni, supercazzole burocratesi che deturpano anche l’estetica della Costituzione, nota finora per la cristallina chiarezza e la sintesi tacitiana.
Prendiamo solo tre dei 47 articoli “riformati” da questi squilibrati: il 70, il 71 e il 72, che illustrano l’iter di formazione delle leggi.
L’attuale articolo 70 conta 9 parole: quello nuovo 363.
L’art. 71 quadruplica, da 44 a 171 parole.
Il 72 le raddoppia: da 190 a 379.
Roba da regolamento condominiale, non da Carta costituzionale.
Si dirà : ma d’ora in poi finisce il bicameralismo perfetto. Sì, buonanotte: il palleggio Camera-Senato (e di nuovo Camera e di nuovo Senato, in caso di leggi emendate strada facendo) sopravvive “per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di tutela delle minoranze linguistiche, di referendum popolare, per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, secondo comma, lettera p), per la legge di cui all’articolo 122, primo comma, e negli altri casi previsti dalla Costituzione”.
E le altre leggi? “Sono approvate dalla Camera dei deputati”. Quindi il Senato non le tocca più? Magari: “Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata”.
Cioè la Camera, a maggioranza semplice, può infischiarsene delle modifiche proposte dal Senato. Ma non sempre: fanno eccezione “i disegni di legge che dispongono nelle materie di cui agli articoli 114, terzo comma, 117, commi secondo, lettera u), quarto, quinto e nono, 118, quarto comma, 119, terzo, quarto, limitatamente agli indicatori di riferimento, quinto e sesto comma, 120, secondo comma, e 132, secondo comma, nonchè per la legge di cui all’articolo 81, sesto comma, e per la legge che stabilisce le forme e i termini per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”: in questi casi, per snobbare le indicazioni del Senato, la Camera deve votare a maggioranza assoluta.
Senza dimenticare che “i disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione.
Per tali disegni di legge le disposizioni di cui al comma precedente si applicano nelle medesime materie e solo qualora il Senato della Repubblica abbia deliberato a maggioranza assoluta dei suoi componenti”.
E non è mica finita, perchè “il Senato della Repubblica può, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, richiedere alla Camera dei deputati di procedere all’esame di un disegno di legge. In tal caso, la Camera dei deputati procede all’esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi dalla data della deliberazione del Senato della Repubblica”.
Tutto chiaro, no?
Quindi, ricapitolando. Il disegno di legge parte dalla Camera, che lo approva. Il Senato può metter becco su richiesta di almeno 1/10 dei senatori entro 10 giorni. Poi può votarlo uguale o emendarlo entro 20 giorni. A quel punto la Camera lo riapprova come pare a lei (recependo o ignorando le modifiche del Senato) a maggioranza semplice. Ma non sempre: per una lunga serie di materie, se vuole fregarsene del Senato deve farlo a maggioranza assoluta.
Per chi fosse sopravvissuto fin qui, c’è poi il caso delle leggi di bilancio e dei rendiconti annuali: il Senato ha solo 15 giorni per rimaneggiarli, e deve farlo a maggioranza assoluta; nel qual caso la Camera, per ignorare le modifiche senatoriali, vota a maggioranza assoluta, mentre per recepirle le basta quella semplice.
Sempre più difficile: che succede ai ddl di conversione in legge dei decreti del governo? Il Senato deve cominciare a esaminarli entro 30 giorni da quando arrivano alla Camera, pure se questa non ha ancora finito di vagliarli: anche perchè il governo può imporre alla Camera di votarli entro e non oltre 60 giorni, all inclusive.
Tutto questo, si capisce, allo scopo di snellire, semplificare e accelerare secondo i dettami del pie’ veloce Matteo.
Otto giorni fa il Sole 24 Ore ha tentato di illustrare graficamente il nuovo percorso delle leggi: ne è uscito una specie di gioco dell’oca per repartini psichiatrici che, se tutto va bene, moltiplicherà i tempi, paralizzerà le procedure, arroventerà le risse e aumenterà i contenziosi fra governo e Parlamento e fra Camera e Senato.
L’Ucaf, Ufficio Complicazione Affari Semplici, ha colpito ancora.
Chiamate l’ambulanza.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”)
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