Destra di Popolo.net

CHI PARLA DI FLAT TAX PRENDE SOLO PER I FONDELLI

Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile

ECCO COSA SUCCEDEREBBE: UN BUCO DA 100 MILIARDI

Il sito Lavoce.info ha analizzato tecnicamente la proposta di Lega e Forza Italia sulla Flat Tax: l’autore dell’articolo, Francesco Daveri, stima in 100 miliardi le minori entrate fiscali.
Che, tradotto, significa bancarotta o azzeramento dei servizi, specie per le fasce più deboli
Nell’Italia che ha smesso di crescere da troppi anni sotto il peso di un carico fiscale intollerabile la flat tax sembra l’uovo di Colombo.
Ma le proposte di flat tax non sono state per ora corredate di numeri.
Eccone qualcuno usando i dati del 2012.
Lo Stato italiano oggi incassa 163 miliardi dall’Irpef, a partire da cinque aliquote di imposta (23, 27, 38, 41 e 43 per cento) e da un reddito imponibile dichiarato di 800 miliardi di euro.
Prima di calcolare la tassa, dal reddito imponibile si tolgono varie voci, la principale delle quali (la cosiddetta no tax area) vale fino a 8mila euro per i lavoratori dipendenti e un po’ meno per le altre categorie di contribuenti.
Oltre all’imposta sui redditi personali, c’è anche quella sui redditi di impresa (Ires) che dà  entrate per 40 miliardi a partire da aliquote di imposta del 27,50 per cento a partire da redditi societari dichiarati pari a 155 miliardi.
La flat tax al 20 per cento (proposta di Forza Italia) sarebbe da applicare al reddito imponibile netto, cioè calcolato sottraendo dagli 800 miliardi di reddito lordo la parte corrispondente alla no tax area fino a 13mila euro.
I dati dell’Agenzia delle Entrate sulla distribuzione dei contribuenti per livello di reddito indicano che poco più del 60 per cento attesta un reddito di 13mila euro o più, mentre gli altri dichiarano meno di quella somma e quindi godrebbero solo parzialmente dello sconto di imponibile.
Da un calcolo approssimativo si ricava così che l’entità  complessiva delle deduzioni derivanti dalla no tax area a 13mila euro sarebbe di 417 miliardi.
L’imponibile Irpef netto sarebbe di 383 miliardi (800 meno 417) che — tassati al 20 per cento — porterebbero le entrate Irpef a 76,6 miliardi, cioè 86,4 miliardi di euro in meno rispetto agli attuali 163.
Per i redditi societari, l’aliquota del 20 per cento porterebbe lo Stato a incassare 31 miliardi dall’Ires (0,2 per 155 miliardi), con una perdita di gettito pari a 9 miliardi rispetto a oggi. In tutto, con la flat tax di Forza Italia le entrate da Irpef e Ires arriverebbero a 107,6 miliardi.
Verrebbero quindi a mancare 95,4 miliardi di entrate rispetto agli attuali 203 miliardi.
Nel caso della proposta della Lega, i conti sono più semplici.
Con 60 milioni di residenti, la deduzione di 5mila euro pro capite porta a una riduzione di reddito imponibile per 300 miliardi di euro, abbassando il reddito imponibile Irpef a 500 miliardi.
Le entrate dalla flat tax sui redditi personali sarebbero di 75 miliardi di euro (0,15 per 500) contro gli attuali 163.
Se a questi si aggiungono i 23,25 miliardi dell’Ires (da 155 miliardi di imponibile con aliquota al 15 per cento), si arriva a un totale di 98,25 miliardi di entrate complessive. Con la flat tax della Lega mancherebbero cioè 104,75 miliardi rispetto alle entrate attuali di Irpef e e Ires.
Per riassumere, non si sbaglia di molto se si conclude che le proposte di flat tax di Berlusconi e Salvini porterebbero un minor gettito di circa 100 miliardi a parità  di base imponibile.
IL RECUPERO DELL’EVASIONE
Come cambierebbero i calcoli se, grazie alla flat tax, davvero emergesse l’evasione e l’erosione come auspicato dai proponenti?
L’Italia non è la Russia (nè il Paraguay o le Seychelles, gli ultimi paesi ad avere introdotto la flat tax nel 2010-11), e così si possono solo fare congetture.
Al momento la stima prevalente indica una cifra variabile tra i 200 e i 230 miliardi di capitali evasi che sfuggono al fisco.
Se, ottimisticamente, tutti i 230 miliardi emergessero alla dogana di Lugano e lo Stato italiano potesse dunque tassarli al 20 o al 15 per cento con una maggiorazione, potrebbe arrivare a incassare un massimo di 50 miliardi.
Dunque anche nella più favorevole (ma anche irrealistica) delle ipotesi sul recupero dell’evasione, dall’introduzione della flat tax rimarrebbe comunque una perdita di entrate fiscali di almeno 45 miliardi nel caso della proposta Berlusconi e di almeno 55 miliardi nel caso della proposta Salvini.
Con ipotesi più pessimistiche sull’efficacia dei piani di rientro dei capitali, la riduzione delle entrate si scosterebbe invece di poco dai 95 o 105 miliardi iniziali.
In conclusione, così come discussa fino a oggi, la flat tax darebbe dunque una frustata semplificatoria all’ingarbugliato sistema fiscale italiano.
Ma solleverebbe un’esigenza tutt’altro che marginale di rimpiazzare le entrate fiscali venute meno con rilevanti tagli di spesa oppure con un drammatico aumento del deficit pubblico certamente difficile da spiegare in Europa e alle agenzie di rating.

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IL RITORNELLO NON CAMBIA: CAREZZE AGLI EVASORI E BASTONATE AGLI ONESTI

Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile

LE STRANE DIMENTICANZE DI RENZI

Domanda per i miei 24 (25 erano quelli di Alessandro Manzoni, è un fatto di modestia) lettori.
Considerato che:
1) L’Italia è uno dei Paesi più corrotti del mondo e la corruzione si fa con il “nero”, cioè con i soldi frutto dell’evasione fiscale;
2) L’Italia è sull’orlo della bancarotta da almeno 5 anni e, ogni anno, si tagliano servizi essenziali tra cui, in particolare, quelli sanitari e giudiziari; senza i quali un Paese smette di essere civile;
3) Il bottino rappresentato dall’evasione fiscale si aggira, secondo i calcoli di Corte dei conti, Agenzia delle Entrate, Eurispes e Camere di Commercio (queste ultime un po’ interessate al ribasso) tra i 90 e i 200 miliardi di euro;
4) Dovrebbe — pertanto — essere necessario recuperare il gettito fiscale evaso che, secondo il ministero delle Finanze (che non lo dice espressamente; lo si ricava — con fatica — dai dati on line), proviene, per il 90%, dal popolo dell’Iva e dalle piccole e medie imprese;
5) Gli accertamenti fiscali sono pari al 10% (scarso) delle dichiarazioni presentate; il che vuol dire che il contribuente italiano sa che, nel 90% dei casi, può scrivere “viva l’Italia” sulla dichiarazione dei redditi e nessuno gliene chiederà  conto;
6) la durata del processo tributario è — in media — di circa 8/10 anni, sicchè il progetto eversivo (anche evasivo ma eversivo esprime compiutamente il concetto) di pagare — se va male (magari si cade nel 10%) — le imposte a babbo morto diventa ragionevolmente molto vantaggioso: se non ti scoprono non paghi per niente; se sì, paghi il dovuto;
7) La percentuale di effettivamente riscosso sul definitivamente accertato non arriva al 12%, sicchè il progetto di cui al n. 6 è a maggior ragione fatto proprio dalla stragrande maggioranza dei contribuenti;
8 ) L’unico mezzo per indurre contribuenti, che hanno constatato nel corso di decenni la vantaggiosa fattibilità  dell’evasione, a smetterla di frodare lo Stato e di vivere alle spalle degli sfortunati che non possono seguire il loro esempio (lavoratori dipendenti e pensionati: a quelli le tasse gliele prendono, non gli chiedono di pagarle), è la prospettazione di un male gravissimo, tanto grave che la relativa improbabilità  di esserne colpiti non sia ragione di tranquillità : una severissima sanzione penale;
9) Questo sistema è proprio di tutti gli Stati civili, in particolare degli Usa, sicchè ogni dubbio sulla sua legittimità  e utilità  non ha ragion d’essere.
Tutto ciò considerato. Perchè:
a) Il “nero” (la forma di evasione più diffusa) è gratificato come “dichiarazione infedele”, reato punito da 1 a 3 anni, il che significa nei fatti niente carcerazione preventiva, niente intercettazioni e una pena ridicola tra i 5 e gli 8 mesi (niente carcere) ; invece che “frode fiscale”, reato punito da 1 anno e 6 mesi fino a 6 anni con conseguente possibilità  di carcerazione, intercettazioni e effettiva sanzione penale?
b) Considerato che fino a 4 anni di pena comunque in carcere non ci si va, non mettono allo studio una riforma per aumentare le pene per gli evasori fiscali?
c) Al contrario, stanno progettando di aumentare le soglie di punibilità ; che significa non considerare reato la frode o la dichiarazione infedele se l’imposta evasa è inferiore a una soglia variabile tra i 150.000 euro e i 400.000 euro?
d) Non hanno pensato che 150.000 euro equivalgono a ricavi per 300.000 euro e che 400.000 euro significano un “nero” di 800.000 euro?
d) Hanno solennemente dichiarato che l’elusione fiscale (il sistema praticato dalle grandi imprese per frodare il fisco) non è penalmente rilevante?
e) Non adottano il sistema di imputare in via diretta le somme sequestrate nel processo penale al pagamento delle tasse evase
Una volta riflettuto su queste domande, diciamo così, propedeutiche:
I) Perchè questo trattamento di favore agli evasori?
II) Sono incompetenti o venduti?

Bruno Tinti
(da “il Fatto Quotidiano“)

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EXPO, A FARINETTI SENZA GARA L’OSTERIA PIÙ GRANDE AL MONDO

Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile

LA CORTE DEI CONTI SEGNALA: TANTI APPALTI, POCHI CONCORSI… EATALY GESTIRà€ 20 RISTORANTI IN DUE PADIGLIONI DA 4 MILA METRI QUADRI SU INCARICO DIRETTO

Anche la Corte dei conti ha avuto da ridire sul fatto che molti appalti Expo sono stati assegnati senza gara.
Il più clamoroso è lo spazio dato a Oscar Farinetti, grande amico e sostenitore di Matteo Renzi: la sua Eataly sarà  presente all’esposizione universale 2015 di Milano con due padiglioni da 4 mila metri quadrati ciascuno, in cui funzioneranno 20 ristoranti, uno per regione italiana.
Italy is Eataly: sarà  il nome di quello che è stato presentato come “il più grande ristorante che mente (e pancia) umana abbia mai pensato”.
Incarico diretto, per Farinetti, che nei sei mesi dell’evento prevede di servire 2,2 milioni di pasti, in collaborazione con l’Università  delle Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
“L’esperienza di Eataly nel settore della gastronomia è uno dei migliori biglietti da visita con cui possiamo presentare il nostro Paese durante l’esposizione universale”, ha spiegato l’amministratore delegato di Expo spa, Giuseppe Sala, quando ha presentato il progetto.
Farinetti ha aggiunto che “Eataly non solo è lieta, ma è anche orgogliosa di partecipare da protagonista alla vita di Expo 2015. Basta con i gufi di Expo: i visitatori saranno più dei 20 milioni previsti, saranno almeno 30 milioni, un terzo dei quali stranieri. Sarà  l’occasione di fare uno scatto e raddoppiare esportazioni e turismo. Expo cambierà  Milano e l’Italia come le Olimpiadi hanno cambiato Torino”.
Non solo: “Nel futuro del nostro Paese”, ha aggiunto Farinetti, “per non soccombere, bisogna puntare sull’incremento delle esportazioni di agroalimentare di qualità  e sulla crescita del numero di turisti stranieri. Sono le nostre due principali vocazioni, abbiamo prodotti alimentari, paesaggi e un patrimonio di opere d’arte incomparabili. Expo 2015 è un appuntamento fondamentale per favorire questi obiettivi e sicuramente non li mancherà ”.
Meno lieti i concorrenti di Farinetti.
Piero Sassone, presidente di Icif (Italian Culinary Institute for Foreigners) — che già  ha presentato al presidente dell’Autorità  anticorruzione, Raffaele Cantone, un esposto in cui denuncia presunte irregolarità  nella gara per la ristorazione al padiglione Italia — si chiede: “Ma è possibile che a Eataly siano stati dati due padiglioni senza gara? Cantone e il Bureau International des Expositions non hanno niente da eccepire?”.
I 20 ristoranti di Italy is Eataly saranno gestiti a turno, un mese ciascuno, da 120 ristoratori italiani, a cui andrà  il 70 per cento degli incassi.
Il resto a Farinetti, che nei suoi 8 mila metri quadrati si propone di “esaltare la biodiversità  della cucina e dei nostri prodotti agroalimentari, il nostro vero primato nel mondo”.
Tra i ristoratori italiani è già  partita la gara (sotterranea) per essere presenti: ma con quali criteri saranno decisi i sommersi e i salvati?
Con quale discrezionalità ? Ottenendo in cambio che cosa?
A Farinetti, ex distributore di elettrodomestici (Unieuro), è stato regalato un potere immenso: quello di scegliere i ristoranti e i ristoratori che dovranno rappresentare l’Italia di fronte al mondo.
Così Expo, che inizialmente doveva essere la manifestazione planetaria della biodiversità  e della sostenibilità , si trasformerà  in una grossa sagra postmoderna della gastronomia.
E non c’è solo Eataly. Anche Coop ha (senza gara) un grande spazio nell’esposizione: come official premium partner”, dietro versamento di 12,4 milioni di euro, sta mettendo in piedi una delle cinque aree tematiche dell’esposizione, il Future food district, 2.500 metri quadrati di supermercato digitalizzato del futuro.
Sono una decina i marchi del settore alimentare e della distribuzione che figurano come partner o sponsor di Expo.
Da loro, la società  di Sala, in cambio della visibilità  e degli spazi assegnati, riceve denaro e forniture di beni o servizi.
Le entrate previste per Expo spa sono di 400 milioni.
Chi paga di più, almeno 20 milioni, è official global partner (Telecom, Fiat, Intesa, Samsung e anche, a dimostrazione che per cercare di far quadrare i conti non si va per il sottile, Selex Es, società  del settore difesa, cioè armamenti e affini).
Chi sgancia tra i 10 e i 20 milioni, come Coop, è invece official premium partner.
Si è infine official partner con un investimento tra i 3 e i 10 milioni: tra questi, Moretti (gruppo Heineken), Coca-Cola (che avrà  nel sito un intero padiglione), San-Pellegrino (gruppo Nestlè), Ferrero, Illy, Martini & Rossi (Bacardi), Algida (Unilever) e San He Tea. Sopra tutti, Farinetti, che nel 2015 è destinato a diventare il padrone della ristorazione italiana.

Gianni Barbacetto e Marco Maroni
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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ALTRO CHE OLIMPIADI, A ROMA C’E’ L’INCOMPIUTA DA 260 MILIONI

Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile

LA “CITTA’ DELLO SPORT” DI CALATRAVA E’ IL TEMPIO DELLO SPRECO

La vela bianca di Calatrava si innalza come un’unghia puntata verso il cielo di Roma. La Città  dello Sport lasciata fallire a Tor Vergata è un monumento solenne alle disfatte di Stato.
Ieri l’Assemblea capitolina ha fatto mancare il numero legale nella seduta che avrebbe potuto dare il via libera al nuovo stadio dell’As Roma.
Il giorno prima Matteo Renzi aveva lanciato la Capitale per le Olimpiadi del 2024. Mentre si sognano nuovi impianti e nuovi appalti, la Città  dello Sport rimane un villaggio fantasma, un progetto monumentale lasciato a metà , completamente abbandonato.
Uno scheletro di cemento che è costato quasi 260 milioni di euro: soldi pubblici
Il cantiere è annunciato da insegne scolorite, rinchiuso dietro a una recinzione piena di buche.
Qui non c’è nessuno: non un operaio, non una gru, nemmeno un custode.
La casupola del guardiano è deserta da chissà  quanto tempo, la porta d’ingresso è tenuta chiusa col fil di ferro.
Fango, erbacce e un silenzio surreale.
Il progetto originale di Santiago Calatrava era tanto affascinante quanto ambizioso. Una maxi struttura per lo sport in un’area di cinquanta ettari.
Due palazzetti, uno per il nuoto da quattromila posti e uno polifunzionale da ottomila, per basket, pallavolo e concerti. Ognuno dei due stadi avrebbe avuto la sua cupola bianca, un guscio formato da un reticolato di cemento e una copertura di vetro.
Le conchiglie, nel disegno, erano tenute insieme da un arco centrale lungo 130 metri. Poi una piscina olimpionica esterna con gradinate da 3 mila spettatori, una pista d’atletica, migliaia di parcheggi auto, spogliatoi e uffici
La città  dello sport era nata per i mondiali di nuoto del 2009. L’incarico all’architetto valenziano era stato conferito dal sindaco Walter Veltroni nel 2006. In origine, un progetto da 60 milioni di euro.
All’assegnazione dell’appalto sono già  raddoppiati: 120 milioni.
Tra 2006 e 2007 l’avanzamento dei lavori è risibile, ma le previsioni di spesa continuano a moltiplicarsi: il costo dei lavori arriva a 240 milioni di euro.
Il cantiere è affidato alla Vianini Lavori del Gruppo Caltagirone, la gestione dei fondi è della Protezione civile di Guido Bertolaso: l’opera è nella lista dei Grandi Eventi.
A capo del progetto viene incaricato Angelo Balducci. Lo scandalo della cricca degli appalti sarebbe scoppiato qualche anno più tardi
Nel cantiere, a pieno regime, dovrebbero lavorare fino a 300 operai al giorno per centrare l’obiettivo e consegnare l’impianto in tempo per i mondiali di nuoto.
Già  nel 2008 il Coni si arrende e sposta la manifestazione al Foro Italico (che ha comunque bisogno di altri 45 milioni di euro per “rifarsi il trucco”).
L’obiettivo per cui era nata la Città  dello Sport è già  fallito, ma si continua a lavorare (e spendere).
Roma è candidata per le Olimpiadi del 2020: l’opera potrebbe tornare utile. L’ambizione è stoppata sul nascere dal governo Monti. Nel 2011, l’ultimo preventivo: per completare i lavori secondo il progetto iniziale si arriverebbe a una spesa totale di 660 milioni di euro.
Undici volte la stima iniziale. Si parla di coinvolgere sponsor privati, ma non si fa vivo nessuno.
Di fatto nel cantiere di Tor Vergata non si muove più nulla da tre anni.
La Città  dello Sport non esiste, lo Stato ha rinunciato: il suo nome non compare nemmeno nel censimento del Ministero delle Infrastrutture, che ha elencato 671 opere incompiute italiane.
Il bilancio parziale è impietoso: in otto anni sono andati in fumo 256 milioni di euro. Sono serviti a edificare uno spettacolare altare in cemento armato, un mausoleo degli sprechi, dell’approssimazione, della soggezione del pubblico nei confronti dei privati, del disastro amministrativo di una città  e di un Paese.
Secondo l’assessore all’Urbanistica del Comune di Roma, Giovanni Caudo, per completare l’opera ci vorrebbero altri 400 milioni. “Ma oggi non ci sono le condizioni. ”
Poi aggiunge: “Vogliamo finire almeno la prima vela, a cui manca la copertura in vetro. L’idea è trasferirci la facoltà  di Scienze naturali dell’Università  di Tor Vergata. Servono una settantina di milioni. ”
Nel frattempo l’unica acqua nella vasca di Calatrava è quella piovana.
Nella penombra, in un silenzio inquietante, le fondamenta disegnano un affascinante dedalo di cemento.
Il reticolato bianco della cupola comincia a scrostarsi.
Se l’annuncio di Renzi dovesse aver seguito, è qui che andrebbe issata la bandiera della candidatura olimpica di Roma: in cima alla vela arrugginita.

Tommaso Rodano
(da “il Fatto Quotidiano”)

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“GLI APPALTI ATAC DECISI DALLA CUPOLA”: LE MANI DEL CLAN SUI BUS DI ROMA

Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile

GLI AFFARI DI CARMINATI CON L’AZIENDA… “MANCINI PARTECIPAVA ALLE RIUNIONI A NOME DI ALEMANNO”

L’Atac, azienda dei trasporti più disastrata d’Europa e insieme metafora dell’abisso di una città , aveva una sua “sede operativa” nel cuore del Mondo di Mezzo.
Una cabina di regia che, alla bisogna, si sistemava ora nei pressi di via Portuense, ora in via Volterra, a due passi dalla Basilica di San Giovanni.
Al Portuense, Riccardo Mancini, ambasciatore e tasca dell’ex sindaco Alemanno, sodale “a stecca para” di Massimo Carminati, riceveva in un appartamento dove alti dirigenti di Atac arrivavano a comando per prendere ordini sulle gare.
A san Giovanni aveva e ha invece sede la “Segni di qualità ”, società  – vedremo – di un qualche peso nell’indagine Mafia Capitale, controllata al 100% dall’ex-consigliere di amministrazione di Atac, Andrea Carlini, e legalmente rappresentata da Pierpaolo Pedetti, uno degli esponenti della segreteria regionale del Pd del Lazio.
La torta da spartire, quella di sempre.
Gli appalti generosi che Atac riconosceva e ha sempre riconosciuto in perfetto spirito consociativo. Naturalmente, nel disinteresse della trasparenza e tenuta dei conti e dei bilanci, dove è stato possibile lavorare a mano libera.
Fino a trasformare l’Azienda in un carrozzone con un debito da 1,6 miliardi di euro e un deficit annuo che quest’anno chiuderà  a 219 milioni. E tuttavia – tanto per ricordarne qualcuna – capace di sottoscrivere l’acquisto di una nuova sede da 120 milioni in piena crisi finanziaria e di assumere oltre 850 persone senza concorso nel periodo dell’amministrazione Alemanno. Ma vediamo dunque che accade
L’UOMO DI MARRONI
Il 19 febbraio scorso Salvatore Buzzi e Massimo Carminati attraversano la città  a bordo dell’Audi Q5 del patron della Cooperativa 29 Giugno.
Un’ambientale del Ros dei carabinieri ne ruba la conversazione. «Ieri mi chiama Carlini, l’uomo di Marroni (Umberto, deputato Pd e membro della commissione Giustizia della Camera, ndr) – dice Buzzi – me gira intorno e dice: “ah, c’ho sti due appartamenti che ti devi comprà ”.
Allora premesso che non sono un immobiliarista, due te li ha regalati Marronaro, a me che mi frega di comprarti i due appartamenti?».Carminati gli dà  ragione: «Per quale motivo dovrei? Che me stai a fa un’estorsione?»Buzzi: «Allora gli ho detto: “Ma il capo la sa ‘sta storia? Allora ho chiamato subito Umberto. Gli ho detto: “Ma tu la sai sta cosa?” E lui mi fa: “Ah, io pure vivo modestamente, c’ho una barca e un cavallo».Carminati si fa ironico: «Vivono modestamente, capito?»Buzzi torna a raccontare: «A Marroni ho detto: “Guarda, se tu me lo chiedi io l’appartamento glielo compro. Ma il favore lo faccio a te”».E il veicolo chiave, appunto, è la società  “Segni di qualità ”, utile strumento – annotano gli inquirenti – per raccogliere denari da destinare alla politica in cambio degli appalti di Atac. Come del resto spiega Buzzi a Carminati: «Hai capito come funziona? Questa è una società  di consulenza che raccoglieva i fondi per la campagna elettorale… tanto è vero che quando abbiamo vinto l’Atac ci hanno chiesto l’uno per cento».E di cui è prova, un sms che, il 26 febbraio, Marroni invia a Buzzi. «Aspetta per vicenda Carlini e Pedetti».
Buzzi obbedisce e aspetta.
A CASA DI MANCINI
Sappiamo dalle carte dell’inchiesta che Riccardo Mancini è «il pubblico ufficiale a disposizione dell’associazione di Massimo Carminati nei rapporti con l’amministrazione comunale tra il 2008 e il 2013».
E sappiamo anche che è lui l’uomo degli appalti. Ma quello che ne documenta il ruolo “nero” in questa storia è che Mancini è «l’uomo dei trasporti» senza che il suo ruolo in Atac abbia uno straccio di giustificazione formale.
Mancini dispone infatti liberamente dei suoi manager. Che convoca ora nell’appartamento sulla Portuense, ora direttamente in un ufficio a lui riservato all’interno dell’assessorato alla Mobilità  del Campidoglio, sullo stesso corridoio dell’assessore.
Che è poi dove riceve anche gli imprenditori per fissare il prezzo d’ingresso alle gare. Ricorda oggi uno di quei manager dell’Azienda: «Mancini partecipava a tutte le riunioni sulla mobilità . Si presentava come l’uomo del sindaco. Come quello che sedeva a capotavola e prendeva le decisioni».
Testimonianza che trova conferma nell’informativa del Ros dei carabinieri lì dove documenta le dichiarazioni spontanee rilasciate da Lorenzo Cola (facilitatore di Finmeccanica finito in carcere nel 2010), sulla tangente per i filobus della Laurentina. «Mancini mi si presenta come molto vicino al sindaco Alemanno e mi dice che ne è lui il plenipotenziario a Roma per quanto riguarda tutti gli appalti sui trasporti ».
Del resto, a Massimo Carminati, Mancini serve nelle partite che contano. A dirigere il traffico dei grandi affari legati alla mobilità , metropolitana e Atac. Appalti che muovono circa un miliardo di euro all’anno. Troppi, per girarsi dall’altra parte.
BUZZI IN ATAC
Accade così che Buzzi &co facciano bingo in Atac con la gara 28/2011, quella per la fornitura dei servizi di pulizia.
Un maxi appalto triennale assegnato dall’azienda alla stratosferica cifra di 95 milioni di euro. A vincere è un’associazione temporanea di imprese formata da “Cometa” e dalla “Cns,” il consorzio compagno di avventure di Buzzi in molti appalti e diretto a Roma da Salvatore Forlenza. La gara solleva i dubbi del sindaco di Atac, Renato Castaldo, che denuncia come sul mercato lo stesso servizio venga garantito con un ribasso medio del 24,69%.
Non solo: la Cns per i medesimi servizi si è aggiudicata la gara a Roma bandita dalla società  Grandi Stazioni con un ribasso del 33,3%.
Epperò, nonostante il bilancio sia un colabrodo, l’azienda non chiede sconti. Paga. E paga bene. Così come fa quando, il 14 febbraio scorso, chiama la “29 Giugno” per pulire le stazioni delle metropolitane di Roma.
O quando, ancora la 29 Giugno, si aggiudica l’appalto per lo smaltimento dei rifiuti umidi.

Daniele Autieri e Carlo Bonini
(da “La Repubblica”)

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INTERVISTA ALLA FIGLIA DEL “CHE”: “PER CUBA E’ UN GIORNO DI IMMENSA FELICITA'”

Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile

ALEIDA, ATTIVISTA E MEDICO SULLE ORME DEL “CHE”: “SE POTESSI IN QUESTO MOMENTO VORREI FARE SOLO UNA COSA: ABBRACCIARE FIDEL”

Aleida Guevara March, non è solo la figlia del “Che”.
A Cuba è famosa soprattutto per la sua attività  di pediatra. Che pratica seguendo l’esempio del padre: «Se solo potessimo seguire il suo esempio, il mondo sarebbe un posto migliore».
Attivista per scelta e medico per missione, assiste bambini e disabili negli ospedali del suo e di altri Paesi.
Per questo, la Fondazione Foedus, presieduta da Mario Baccini, ha deciso di conferire alla figlia del guerrigliero simbolo della Rivoluzione cubana il Premio alla solidarietà  per il 2014.
L’abbiamo incontrata all’Hotel Valadier, a due passi da Piazza del Popolo.
Cosa pensa degli sviluppi tra Usa e Cuba?  
«Io l’ho sempre detto che siamo todos americanos, anzi siamo tutti un’unica nazione. È un giorno di grande felicità  e immensa gioia per tutti. Se potessi in questo momento vorrei fare solo una cosa: abbracciare Fidel».
Suo padre voleva cambiare il mondo, ad oltre 40 anni dalla sua morte cosa resta della sua esperienza?  
«Negli ultimi quarant’anni il mondo è cambiato molto, ma non in ciò che davvero conta. Le differenze tra ricchi e poveri sono sempre più marcate».
Chi era Ernesto Che Guevara?  
«Ai miei figli ho raccontato che era un uomo con una grande capacità  di amare. Un rivoluzionario, del resto, deve essere innanzitutto un romantico».
Suo padre morì quando lei aveva sei anni (oggi ne ha 57). Qual è l’ultimo ricordo che conserva di lui?
«Di mio padre vivo ho pochi ricordi. L’ultima sua immagine è legata a un momento di grande tenerezza. Mia madre teneva in braccio il mio fratello più piccolo, lui si avvicinò con la sua uniforme e lo accarezzò dolcemente».
È in Italia per ritirare un premio alla solidarietà  per il suo impegno come pediatra
«In questo momento, ci sono a Cuba tanti professionisti che lavorano in diversi Paesi del mondo. Sono orgogliosa di essere un medico cubano. Stiamo collaborando, tra l’altro, con “El Alba” boliviana. È un grande impegno, ma anche un grande piacere sapere di essere utili ad altre persone».
È la sua rivoluzione moderna?  
«Fidel Castro diceva sempre che la rivoluzione è cambiare tutto quello che deve essere cambiato. Ci sono molte cose nel mondo che devono ancora cambiare. Noi lo facciamo con il nostro impegno. A Tucuman, un villaggio dell’Argentina, abbiamo visitato 812 pazienti in un solo giorno. La nostra rivoluzione è la salute, l’educazione e la vita delle persone».
La sua giornata tipo?  
«Scelga un giorno della settimana».
Facciamo mercoledì?
«Inizia al Centro studi Che Guevara, alla scuola “Solidariedad con Panamà¡”, dove ci occupiamo di bambini con problemi e patologie motorie. Poi organizziamo conferenze e pianifichiamo l’attività  del centro».
Qual è oggi la condizione del suo popolo?  
«Il popolo cubano è un popolo bloccato dalle iniziative del Nord America, ma la solidarietà  che riceviamo, anche dall’Italia, ci aiuta ad andare avanti».
La stampa italiana ha scritto di recente di un’iniziativa singolare di suo fratello minore Ernesto: un tour per turisti facoltosi (costo da tre a seimila dollari) sulla strada della rivoluzione cubana.
Che ne pensa?  

«So che lavora con un’associazione argentina che promuove il turismo. A me, personalmente, il turista straniero interessa solo per una cosa: le donazioni che riusciamo a raccogliere per finanziare la nostra attività . Per il resto non ho la minima idea di cosa stia organizzando mio fratello».

Antonio Pitoni
(da “La Stampa“)

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LA REVOLUCION SI RIVOLUZIONA E USA E CUBA SI DANNO LA MANO

Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile

MEZZO SECOLO SPAZZATO VIA, GLI INVESTITORI USA ESULTANO PER I GROSSI AFFARI IN VISTA

Venti forti agitano il Caribe, e sono forti davvero perchè è come se mezzo secolo di storia venisse spazzato via da queste folate che soffiano giù da Washington: a partire da oggi le 90 miglia che separano la punta “imperialista” di Key West, territorio degli Stati Uniti d’America, dalla spiaggia “socialista” del Malecòn, territorio della repubblica di Cuba, si stanno assottigliando che quasi si toccano.
Obama, infatti, ha appena annunciato uno smantellamento progressivo dell’embargo che da 50 anni inchioda alle proprie difficoltà  l’isola del comunismo tropicale, con un provvedimento che intanto definisce la prossima riapertura dell’ambasciata americana all’Avana, e poche ore prima il governo cubano annunciava la liberazione di un cittadino americano da 5 anni in galera in uno scambio con la liberazione di 3 “spie cubane” detenute in un carcere americano.
La Revoluciòn resta in piedi, Fidel Castro continua a farne il nume tutelare e continua a chiudere le sue lunghe orazioni con lo slogan di sempre: “Socialismo o muerte!”. Resta in piedi ma si è svuotata, perchè intanto il fratellino Raùl ha provveduto a portar via, poco alla volta, tutto quanto stava raccolto dentro i panni fiammeggianti della Revoluciòn e a cambiarne natura e identità .
La rigida e chiusa economia centralizzata ha cominciato a fare sempre più spazio all’iniziativa privata, e ristoranti, tassisti, barbieri, lavoratori agricoli, aggiustatori di biciclette, guide turistiche, alberghi – è tutto un fiorire di “cuentapropistas” che si fanno i loro affari, prendono dollari dai turisti, costruiscono case, si ingegnano in nuovi mestieri, e fanno libera concorrenza allo Stato.
Il modello di riferimento potrebbe essere quello cinese, libertà  all’economia e repressione dura alla libertà  politica.
E’ una vera rivoluzione, che stava cambiando l’isola senza volerne dare l’impressione. Ora l’apertura che arriva da Washington accelera bruscamente il ritmo del cambio, e potrebbe anche metterne in crisi il corso.
Lo vedremo a breve. Intanto, però, teniamo conto del ruolo svolto dalla Chiesa cubana: in questo cambiamento, ha svolto riservatamente il ruolo di interlocutore del potere castrista e di mediatore diplomatico tra l’Avana e Washington.
Papa Francesco può esserne contento, e i grandi investitori americani che stavano impazienti al porto di Miami ora saranno ancor più contenti di lui.
Grossi affari sono in vista, altro che “Socialismo o muerte!”

Mimmo Cà¡ndito
(da “La Stampa“)

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TANGENTIADI 2024

Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile

SI CORRE, GIA’ PRONTO IL PROGRAMMA DETTAGLIATO

A parte i soliti gufi, l’idea di candidare la città  di Mafia Capitale per le Olimpiadi del 2024 è stata accolta con il dovuto giubilo dalla stampa nazionale (quella internazionale seguirà ).
La manifestazione, checchè se ne dica, parte sotto i migliori auspici.
La macchina organizzativa è già  quasi pronta e solo la proverbiale ritrosia del premier Renzi agli annunci ha fin qui impedito agl’italiani di conoscerla nei dettagli e, come dice lui, di “tornare a sognare”.
Comitato promotore.
Per garantire un’edizione davvero virtuosa dei Giochi, si pensa a un presidente al di sopra di ogni sospetto. I nomi che girano sono quelli di Luca di Montezemolo (ex Italia 90, ex Fiat, ex Ferrari, ex tutto, ora presidente della nuova Alitalia), di Corrado Passera (leader del partito “Corrado Passera”, dal nome dell’unico elettore) e di Franco Frattini (che già  organizzava gare sportive invece di fare il ministro degli Esteri).
Ma all’ultimo potrebbe spuntare, a sorpresa, il classico outsider: Luciano Moggi.
Ha le conoscenze giuste e a gennaio, se tutto va bene, dovrebbe uscire come nuovo dal processo di Calciopoli con la prescrizione in Cassazione, dopo le condanne in primo grado e in appello per associazione per delinquere e frode sportiva.
Insomma è libero, con tanta voglia di ben figurare.
Calcio.
Gli stadi italiani risalgono ai Mondiali di Italia 90, costati la modica cifra di 620 milioni di euro (con una lievitazione di appena l’84% rispetto ai preventivi, più i mutui ancora da pagare: 60 milioni di euro all’anno), e sono ormai obsoleti.
Bisognerà  rifarli ex novo, ma gli imprenditori italiani — i nuovi “eroi del nostro tempo” secondo il premier — non sono certo tipi da arrendersi dinanzi a questa sfida che rilancerà  la crescita e l’occupazione per un nuovo boom economico.
Per le aree, si pensa agli attuali campi rom della coop 29 Giugno, ribattezzata per l’occasione 29 Giugno- 29 Luglio 2024.
Salvatore Buzzi ci sta già  lavorando a Rebibbia.
In un’intercettazione di stamane, confida al compagno di cella: “Cumpà , tu c’hai idea quanto ce guadagno sulle Olimpiadi? Er traffico de droga e i zingari rendono de meno”.
Nuoto.
La Capitale può già  disporre di impianti avveniristici: le piscine avviate per i Mondiali di Nuoto 2009, costate appena 200 milioni, ma opportunamente non completate cinque anni fa, anche per via di qualche errore di calcolo sulle misure che le rendeva inadatte anche per fare il bagnetto ai bebè.
Grazie alla preveggenza dei dirigenti del Coni, saranno quasi certamente pronte con qualche ritocco per il 2024, nuove di zecca, evitando così ulteriori spese di ristrutturazione e manutenzione.
Nel caso in cui non si facesse in tempo, tornerebbero comunque utili per Roma 2040.     Boxe, lotta e tiro al piattello.
Un tempo appannaggio dei campioni italiani, le tre virili discipline mancano da anni nel Palmarès tricolore. Ma i Nar e la Banda della Magliana dispongono ancora di ottimi picchiatori e tiratori scelti e sono pronti a metterli a disposizione in cambio di modesti sconti di pena.
Calcoli attendibili assicurano che lo stesso Massimo Carminati, per il 2024, dovrebbe essere prescritto o comunque già  fuori.
Pronto a scendere in campo con tutta la sua esperienza.
Nuove discipline.
Al posto del curling, che non ha incontrato i favori del pubblico, è allo studio in via sperimentale l’introduzione di un nuovo sport olimpico che potrebbe regalare all’Italia grandi soddisfazioni sul podio: il “fracturing bones” (letteralmente: spezzare ossa a piacere).
Anche per non disperdere il talento di un potenziale campione come Matteo Calvio, detto Spezzapollici, che intanto si allena a nell’ora d’aria di Rebibbia con le guardie.     MosExpo2024.
Come giustamente rivendicato dagli amministratori locali, le gare olimpiche verranno spalmate sul territorio delle Cento Città .
La pallanuoto toccherà  a Genova, e sarà  “open”, senza bisogno di piscine: il governatore Burlando garantisce esondazioni del Bisagno anche in piena estate.
Milano si aggiudicherà  il basket, con palasport nuovi di zecca a cura della Federmazzette di Greganti, Frigerio & Grillo (quello buono, Luigi), già  collaudata in precedenti manifestazioni.
Torino e Venezia sono in corsa per il calcio. Torino ha più stadi che spettatori, quindi è perfetta. Venezia invece avrà  un nuovo stadio galleggiante e semovente, un capolavoro avveniristico di architettura e ingegneria affidato a Calatrava che sorgerà  sulle paratie del Mose (tanto, assicurano i neocommissari Galan e Orsoni, “col cemento ci siamo tenuti abbondanti”).
Alla peggio, tornerà  utile per il nuoto acrobatico.
Catering e diritti tv.
Nell’à mbito del rinnovato Patto del Nazareno, il catering della kermesse — come del resto quello di Expo — sarà  appaltato a Eataly di Oscar Farinetti, amico del premier Renzi, mentre i diritti televisivi saranno assegnati di diritto a Mediaset Premium. Naturalmente senza gara, come recita il nuovo motto della manifestazione, che rottama quel vecchio gufo di De Coubertin nella migliore tradizione del made in Italy: “L’importante è non partecipare, ma vincere lo stesso”.
Nuovi posti di lavoro.
Più che per i cantieri, perlopiù affidati a extracomunitari in nero, migliaia di assunzioni si renderanno necessarie per rimpolpare gli organici della magistratura, della polizia giudiziaria e soprattutto penitenziaria.

Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”)

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NAPOLI: I PRECARI CHE SALVARONO LA BIBLIOTECA GIROLAMINI RISCHIANO IL LICENZIAMENTO

Dicembre 17th, 2014 Riccardo Fucile

LA LORO DENUNCIA FERMO’ IL SACCHEGGIO DEI LIBRI… NAPOLITANO LI HA NOMINATI CAVALIERI, MA ORA STANNO PER PERDERE IL POSTO

Lo Stato dovrebbe avere un motivo tutto speciale per non licenziare e non umiliare Mariarosaria e Piergianni Berardi e Bruno Caracciolo.
Perchè questi tre bibliotecari sono gli eroi borghesi che hanno salvato la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, una delle 46 biblioteche statali italiane
«L’ingratitudine è un’ingiustizia crudelissima, una vera morte della virtù»: queste parole della più grande virtuosa del Seicento italiano, Isabella Andreini, andrebbero intagliate in lettere cubitali sulla facciata del Collegio Romano, sede del ministero per i Beni culturali.
Pochi giorni fa, infatti, la direttrice generale per le Biblioteche Rosanna Rummo ha chiesto ufficialmente alla direzione dei Beni culturali della Campania se sia davvero «necessaria la prosecuzione della collaborazione dei signori Berardi e Caracciolo ».
E, nel caso che proprio non se ne possa fare a meno, se non sia almeno «possibile una riduzione dell’orario».
Un banale episodio dell’attuale macelleria sociale applicata al patrimonio culturale? Sì, purtroppo.
Ma lo Stato dovrebbe avere un motivo tutto speciale per non licenziare e non umiliare Mariarosaria e Piergianni Berardi e Bruno Caracciolo.
Perchè questi tre bibliotecari sono gli eroi borghesi che hanno letteralmente salvato la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, una delle 46 biblioteche statali italiane, quella in cui andava a studiare Giovan Battista Vico.
Il 25 marzo del 2012 ricevetti un’inquietante lettera di Filippomaria Pontani, filologo classico dell’Università  di Venezia.
Mentre stava studiando ai Girolamini, i fratelli Berardi gli avevano confidato, disperati, che il nuovo direttore Marino Massimo De Caro stava sistematicamente saccheggiando quel che avrebbe dovuto custodire.
Ciò che io stesso vidi tre giorni dopo superò ogni immaginazione.
E anche a me Piergianni Berardi disse che la sera venivano staccati gli allarmi, mentre automobili cariche di volumi lasciavano i cortili della biblioteca.
Nonostante la solitudine e il terrore, il bibliotecario sperava di far filtrare qualcosa all’esterno.
Ma come? Chi avrebbe potuto credere a due dipendenti, precari da decenni (assistiti da un avvocato della Cgil in un contenzioso col ministero da cui dipendevano), che avessero osato insinuare dubbi sul direttore, che era anche dell’allora ministro Lorenzo Ornaghi (dopo esserlo stato di Giancarlo Galan), e soprattutto braccio destro di Marcello Dell’Utri?
Eppure l’indignazione e la voglia di reagire avevano vinto la paura e la rassegna- zione: e fu da quella conversazione che cominciò tutto
La reazione di De Caro alla mia denuncia pubblica fu violenta: specialmente nei confronti dei Berardi, dei quali intuiva il ruolo.
Malgrado tutto, il 5 aprile i biblioconsigliere tecari scrissero una coraggiosissima lettera alla Direzione generale romana, esprimendo la loro contrarietà  ad aprire il sancta sanctorum della biblioteca, che fino a quel punto erano riusciti a difendere.
E cosa fece la Direzione? Ingiunse ai Berardi di consegnare le chiavi a quel De Caro che oggi è condannato a sette anni in appello per il saccheggio della Biblioteca.
E mentre l’esemplare inchiesta condotta dal procuratore Giovanni Melillo, e oggi continuata dalla sostituta Antonella Serio, scoperchiava il più grande traffico illecito di beni culturali nella storia della Repubblica, la stessa Direzione generale (sebbene guidata da un altro direttore) si “dimenticava” di costituirsi parte civile al primo processo
Ebbene, oggi è ancora quella Direzione a valutare il licenziamento dei bibliotecari: la cui nomina a Cavalieri, voluta dal presidente Giorgio Napolitano nel gennaio 2013, rischia ora di suonare come una beffa.
Nel giugno scorso, dopo lo sconcerto suscitato dall’ennesima minaccia di licenziamento, una nota del Mibact assicurava che si stava «lavorando per garantire la continuità  del lavoro» dei Berardi.
Ma oggi quell’impegno appare carta straccia. Se la Biblioteca dei Girolamini esiste ancora, non è per merito dei soprintendenti, dei rettori, del vescovo o del sindaco di Napoli: che nemmeno si esposero a firmare l’appello promosso da Francesco Caglioti per la destituzione di De Caro.
Il merito è, invece, di due comunissimi cittadini: due impiegati che credevano nel “loro” Stato, nonostante tutto.
Oggi quello Stato non può tradirli.
Non è possibile che nei tanti cassetti del Mibact, o magari in quelli della legge Bacchelli, non si trovi il modo di riconoscere ai salvatori dei Girolamini ciò a cui avrebbero diritto anche solo per il loro lavoro quarantennale.
Su questo, il ministro Dario Franceschini si gioca davvero la faccia.

Tomaso Montanari
(da “La Repubblica”)

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