Aprile 16th, 2015 Riccardo Fucile
IL GIURISTA PELLEGRINO: “BERLUSCONI NON PUO’ USARLO, CONGRESSO MAI FATTO E QUINDI NON HA TITOLO”… PERSINO “LIBERO” AMMETTE: SCHITTULLI VOLA AL 35%… E FORZA ITALIA CROLLA ALL’8%
Raffaele Fitto si prepara a presentare la lista con il simbolo di Forza Italia alle Regionali e Berlusconi
ripete che è pronto a cacciarlo dal partito, peccato non ne abbia titolo.
Ormai si va verso una battaglia legale a tutto tondo, forse persino nei Comuni dove si vota.
Attraverso un’iniziativa popolare, promossa da un migliaio di iscritti ed eletti di Forza Italia negli enti locali, che hanno raccolto altrettante firme, è stato chiesto ieri al noto giurista Gianluigi Pellegrino un parere giuridico sulla possibilità di utilizzo del simbolo, anche in vista del lavoro di verifica che a breve dovranno fare gli uffici elettorali.
«Forza Italia – ha spiegato Pellegrino – è un partito ai sensi dell’articolo 49 della Costituzione. E i partiti funzionano secondo un metodo democratico, in base al quale le liste e i simboli dei partiti possono essere utilizzati solo dai rappresentati dei partiti investiti sulla base dello statuto».
Sostenere «che Mariarosaria Rossi o lo stesso Berlusconi possano presentare simboli e liste per Forza Italia è come affermare che Prodi e sua delegata lo facciano a nome del Pd. Questo perchè Berlusconi è solo il fondatore del partito e deve operare secondo le regole democratiche».
Quando si è sciolto il Pdl, «l’intenzione era quella di ripartire da FI indicendo un congresso che non è mai stato fatto. E’ stato fatto il tesseramento, ma dopo bisognava convocare un congresso e nominare l’amministratore nazionale per utilizzare simbolo e liste».
Ora, continua Pellegrino, «i tempi sono stretti: liste e simboli devono essere presentati entro il 30 aprile e non so se entro quella data c’è il tempo per convocare d’urgenza un congresso su base nazionale, regionale e locale e svolgere le procedure legate al simbolo. Ma in mancanza di tale passaggio, nessun ufficio elettorale può accertare, come presentati da FI, un simbolo e una lista da soggetti legittimati. Chiunque potrebbe impugnare la lista».
Tramontata ogni possibilità di una ricomposizione fra le parti in contesa con una candidatura terza a governatore, si complica la composizione delle liste per il coordinatore regionale, Luigi Vitali: «chi si candiderà a rischio di non essere nemmeno ammesso?», chiosano dalle fila dei fittiani.
Un precedente pericoloso che potrebbe essere utilizzato dai Ricostruttori anche in altre regioni.
Intanto, ieri, sono arrivati altri sondaggi – questa volta on line – dal quotidiano «Libero».
«Il fittiano Schittulli è dato al 35,5%, se Berlusconi arrivasse all’accordo con Fitto – è spiegato – Schittulli potrebbe creare problemi al favorito, Michele Emiliano. Emiliano può vincere a mani basse solo se il centrodestra corre diviso”.
E secondo sondaggi in mano a Berlusconi, Forza Italia in Puglia è sprofondata all’8%, siamo al limite per entrare in Consiglio regionale.
Un voto sotto c’e’ il suidicio di massa del Cerchi magico che ha voluto fare la guerra Fitto.
(da “il Corriere della Sera“)
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Aprile 16th, 2015 Riccardo Fucile
CINQUE INCARICHI GIRATI A TIZIANA MICELI, CONSORTE DI ALFANO…ANDREA GEMMA, FEDELISSIMO NCD, VINCE UN BANDO DA 630.000 EURO
Che Angelino Alfano sia un ministro miracolato (dal caso dell’espulsione illegittima della dissidente Alma Shalabayeva alle manganellate della polizia agli operai delle acciaierie di Terni, in due anni appena il Parlamento ha già votato – e respinto – due richieste di dimissioni) è cosa nota.
Meno nota, invece, è la rete di “relazioni pericolose” del titolare dell’Interno, e l’intreccio di interessi politici e economici che “L’Espresso” in edicola venerdì è in grado di raccontare per la prima volta.
Partendo dalla moglie del ministro dell’Interno Angelino Alfano, Tiziana Miceli, che ha appena avuto cinque consulenze dalla Consap, la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata dal ministero dell’Economia che fornisce servizi al ministero dell’Interno e a quello dello Sviluppo Economico.
In una dichiarazione firmata il 24 febbraio 2014 la Miceli dichiara di essere già «titolare di incarichi di assistenza legale conferiti da Consap», ma tra fine 2014 e l’inizio del 2015 lo studio della Miceli (il poco conosciuto RM-Associati, di cui risulta socio anche Fabio Roscioli, avvocato di Alfano) ha ottenuto altri cinque incarichi, l’ultimo a fine gennaio.
La moglie di Angelino è stata assunto grazie a una delibera firmata da Mauro Masi, amministratore delegato della Consap ed ex direttore generale della Rai ai tempi del governo Berlusconi, boiardo vicino al centro destra che il governo di Matteo Renzi ha persino promosso qualche mese fa, confermandolo sulla poltrona di ad e concedendogli anche quella da presidente.
«Gli importi» della consulenza della Miceli, si legge nelle determine, «saranno quantificati all’esito delle attività ». Speriamo, per le casse pubbliche, non siano troppo alti.
Non è tutto. La Miceli in passato ha ottenuto altri incarichi da alcune amministrazioni pubbliche siciliane (dalla provincia di Palermo all’Istituto autonomo case popolari di Palermo) sempre controllate dal centro destra, mentre nel 2014 la moglie di Angelino risulta aver difeso anche gli interessi di una società (la Serit) insieme al collega Angelo Clarizia.
Non un avvocato qualsiasi, Clarizia: è infatti socio in affari di Andrea Gemma, amico storico di Alfano e altro vertice di peso della sua rete relazionale, in passato consigliere ministeriale a cachet e oggi membro del cda dell’Eni e commissario liquidatore di aziende importanti come la Valtur.
Gemma e Clarizia sono legatissimi: i loro studi hanno di recente anche vinto un appalto per i servizi legali dell’Expo (da 630 mila euro) e, in barba a qualsiasi conflitto di interessi potenziale, “L’Espresso” ha scoperto che da poco i due hanno difeso anche gli interessi del Nuovo Centro Destra, il partito del ministro dell’Interno.
Emiliano Fittipaldi
(da “L’Espresso”)
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Aprile 16th, 2015 Riccardo Fucile
IL SONDAGGIO IPSOS (PRIMA CHE LA PAITA FOSSE INDAGATA) COMMISSIONATO DAL PD E TENUTO RISERVATO: PAITA 30,5%, TOTI 30,1%, SALVATORE 23,5%, PASTORINO 15,3%
Non bastasse l’avviso di garanzia per l’esondazione del Bisagno, c’è anche un sondaggio a stretto uso
interno del Pd ad agitare le acque della sinistra ligure.
Se il Pd a livello nazionale è dato dalla Ipsos al 35%, in Liguria è sceso al 33%.
Salgono a passo veloce i Cinquestelle al 25% ligure, contro il 22% nazionale.
Forza Italia è al 13% (contro il 13,4% in Italia), stabili la Lega al 14% e Fdi al 3,8%.
In rialzo Sel al 5% ligure (contro il 3,8% nazionale), crolla Ncd-Udc dal 4,8% nazionale e al 3% regionale.
Ma a creare ancor più preoccupazione sono i dati sul candidato governatore, più che Toti a salire è la Paita a scendere: 30,1% contro il 30,5% della candidata renziana che paga l’affermazione alla sua sinistra di Pastorino, salito al 15,3%.
La candidata grillina Alice Salvatore è al 23,5%.
Va tenuto presente che il sondaggio non tiene conto di due elementi: i riflessi dell’avviso di garanzia alla Paita e la discesa in campo di Enrico Musso e della sua lista di centrodestra Liguria Libera che punta a un 5% di consensi.
A questo punto la partita potrebbe essere a tre: tra Paita, Toti e Salvatore, con Pastorino e Musso guastatori.
Ed è ormai probabile che nessuno raggiunga il 37% che farebbe scattare il premio di maggioranza: chi vince avrà metà dei seggi ma non potrà governare senza alleanze.
(da “il Secolo XIX“)
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Aprile 16th, 2015 Riccardo Fucile
LA SOLITA SCENEGGIATA: VOTA NO IN DIREZIONE PER POI ADEGUARSI IN PARLAMENTO… SE NON PENSASSERO ALLA POLTRONA, RENZI SAREBBE A CURARE IL GIARDINO DA MESI
“Basta toni da Armageddon. La vita del governo e la legge elettorale sono strettamente collegati”. Matteo Renzi va avanti come un treno. L’aveva detto e l’ha fatto.
E sulla sua strada, ieri sera travolge il capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza. “Non sono nelle condizioni di guidare questa barca. Rimetto all’assemblea il mio mandato”, dice lui, intervenendo subito dopo.
Scelto (anzi praticamente imposto) da Pier Luigi Bersani era stato confermato da Renzi. Ed era diventato l’ufficiale di collegamento tra lui e le minoranze.
L’uomo del compromesso, con il compito di portare al segretario-premier voti e deputati necessari.
Con le sue dimissioni, la minoranza si divide, anzi si frantuma sempre di più. Nessuna mediazione sull’Italicum, ancora una volta. Nessuna richiesta di modifica accettata.
Nè nei toni, nè nei contenuti. Ieri sera davanti al gruppo del Pd riunito a Montecitorio Renzi ha ribadito la sua posizione. Senza se e senza ma.
Solo una promessa al futuro: “Possibili modifiche in Senato sulla riforma costituzionale”.
A nulla sono servite le lettere, gli appelli. “Il governo precedente non è stato mandato a casa da un golpe: il Pd ha fatto una scelta in conseguenza del fatto che quel governo sulle riforme era bloccato”, ha ricordato il premier.
A nulla è servita neanche la telefonata con Speranza ieri pomeriggio. L’ormai ex capogruppo a Montecitorio, portando avanti le ragioni di Areariformista, aveva chiesto qualche apertura.
Altrimenti, andava dicendo da giorni, la minoranza bersaniana avrebbe votato no. In assemblea, però. Pronta a dire di sì in Aula, come lo stesso Speranza andava assicurando al segretario premier.
Ma la posizione non era compatta neanche tra i suoi. Ieri per tutto il giorno Speranza e Nico Stumpo hanno cercato di portare sul fronte del no i deputati della loro corrente: non ci sono riusciti. Ha vinto l’area del non voto.
E allora a Speranza non è rimasto altro che rimettere il mandato, diventato minoranza della minoranza. “Quando siamo partiti c’era tutta la maggioranza e Forza Italia, oggi siamo solo noi. Per questo Renzi avrebbe dovuto ascoltare di più il partito”.
Le dimissioni sono definitive? Si vedrà .
Intanto, ieri alla minoranza che chiedeva di interrompere la riunione per questo, Renzi ha chiesto di andare avanti. La posizione di Speranza sarà valutata in un’altra assemblea. Gli oppositori hanno minacciato di lasciare la sala. Ma l’hanno fatto solo alcuni. Poi è intervenuto Bersani.
Sull’Italicum, adesso, la partita passa in Aula. Renzi ha minacciato il voto di fiducia. Scenario estremo, ma l’unico che potrebbe “costringere” la minoranza a dire di sì, ostentando cause di forza maggiore.
Ed evitare sorprese nel voto segreto, che porterebbe a modifiche insostenibili. In particolare, il premio di lista, sostituito dal premio di coalizione magari con
un’imboscata della minoranza Pd insieme a Forza Italia.
Oppure sulla questione degli apparentamenti tra forze politiche per il secondo turno. Questioni più delicate di quella dei capilista tanto sbandierata.
Per evitare il voto segreto, Renzi deve mettere non una, ma quattro fiducie, su tutti gli articoli, in modo da far decadere voti segreti ed emendamenti.
Dopo i voti di fiducia (da regolamento della Camera) ci sarebbe il voto sul provvedimento: che può essere segreto.
Ma a quel punto, nessuno scommette su troppi no.
Sullo sfondo, resta l’ombra delle elezioni. Perchè se Renzi dice e fa dire ai suoi che basta un solo incidente sull’Italicum perchè salti tutto, un “combattente” della minoranza ieri nel cortile di Montecitorio la metteva così: “Non è il caso nè per il Pd, nè per l’Italia di votare. Ma se proprio accadesse, con il Consultellum, Renzi fa tutte le liste? Vuoi che la mia direzione regionale non mi candidi?”. Una sfida.
Anche perchè che il segretario-premier non controlli il partito locale è storia quotidiana.
Non a caso ieri ha annunciato una direzione per il 27 aprile proprio su questo.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 16th, 2015 Riccardo Fucile
SOLO IN CAMPANIA FORZA ITALIA E’ AL 20%… IN VENETO 10%, IN PUGLIA 8%, IN LIGURIA 6%, IN TOSCANA 5,5%… FITTO APPOGGIA CALDORO MA CON LISTA PROPRIA E SI PREPARA ALLA CLASS ACTION PER L’USO DEL SIMBOLO
Pronti via, si parte, ed è già un disastro annunciato. Alla sede di Forza Italia di San Lorenzo in
Lucina vengono recapitati i sondaggi riservati sulle regioni più importanti in cui si vota il 31 maggio.
E il quadro va oltre le più fosche previsioni. Quasi ovunque l’asticella si fermerebbe sotto la soglia di sopravvivenza delle due cifre.
Mentre Raffaele Fitto muove ora la guerra del simbolo e al Senato gli ormai ex Sandro Bondi e Manuela Repetti votano a favore della fiducia posta dal governo sul decreto anti terrorismo.
Il pallottoliere delle regioni, dunque. Fa eccezione la Campania, dove grazie al traino della lista Caldoro, governatore uscente, Forza Italia ancora raggiunge il 20 per cento. Altrove, va molto peggio: nel Veneto della Lega pigliatutto il partito si ferma al 10, in Liguria la lista varrebbe il 6, nella Puglia della faida con Fitto l’8 per cento, fanalino di coda la rossa Toscana col 5,5.
L’ex Cavaliere, consapevole della situazione, la addebita a chi «sta rovinando tutto», anche se sperava in un quadro complessivo leggermente migliore.
Se finisse così, Salvini avrebbe vita facile nella scalata alla leadership.
«Ma vedrete che una cosa sono i sondaggi, quando ancora la campagna non è iniziata, altra i voti reali», spiegava ieri Berlusconi ai vari parlamentari andati a trovarlo a Palazzo Grazioli, fino al coordinatore della tormentata Puglia, Luigi Vitali, ultimo in serata.
Comunque sarà una corsa in salita, non c’è tempo da perdere, ecco perchè il capo ha convocato per oggi a pranzo tutti i coordinatori delle regioni interessate dal voto e la commissione per le regionali: Denis Verdini, Altero Matteoli, Giovanni Toti, Licia Ronzulli.
Dovrà chiudere sulle alleanze nelle piazze ancora in bilico, a cominciare dalla Toscana di Verdini e Matteoli, cercando di ricucire col primo (o rompere del tutto) nella sua regione, dopo mesi di gelo.
In ogni caso, la decisione finale sulle alleanze e la composizione delle liste sarà portata entro fine mese all’Ufficio di presidenza e messa ai voti.
«Chi non ci starà si metterà automaticamente fuori dal partito» è la linea dettata dall’ex premier con chiaro riferimento a Fitto.
Sta di fatto che proprio Raffaele Fitto non intende deporre le armi.
Oggi altra conferenza stampa, ci sarà una sua lista distinta da Fi (anche se in supporto a Caldoro) anche in Campania, mentre un migliaio di suoi simpatizzanti lavora a una sorta di class action per contestare uso del simbolo e liste da parte dei vertici del partito.
È stato chiesto un parere all’avvocato Gianluigi Pellegrino, che ha così risposto: «Berlusconi è solo il fondatore del partito», il congresso previsto dopo la rifondazione del 2013 «non è mai stato indetto » e ora «sostenere che Mariarosaria Rossi o Berlusconi stesso possano presentare simboli e liste per Fi è come affermare che Prodi e una sua delegata presentino liste e simboli a nome del Pd».
Come dire, non hanno l’esclusiva.
Il leader ignora la battaglia legale, intende replicare sul campo.
Candiderà tutte donne capolista in Puglia, professioniste e imprenditrici locali (stile Renzi alle Europee), quindi si prepara a sbarcare nella regione più tormentata, con probabile puntata al santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, del quale la madre Rosa era devota.
A caccia di una rimonta che richiede un miracolo.
«Il consiglio che darei al presidente è di prendersi un anno sabbatico, andare dove vuole, anche ad Antigua, rigenerarsi allontanandosi dai tanti nemici interni che lo assediano – racconta a Montecitorio la fedelissima Michaela Biancofiore – Dopo, tornerebbe più forte e motivato di prima».
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Aprile 16th, 2015 Riccardo Fucile
“FU UNO SCEMPIO, MA IL MO REPARTO NON C’ENTRA, NELLA SCUOLA C’ERANO CENTINAIA DI AGENTI”
La casa dell’assistente capo della Polizia di Stato Fabio Tortosa guarda il mare di Ostia. Un appartamento al secondo piano di una palazzina di recente costruzione, «ipotecato da un mutuo che si estinguerà tra 27 anni».
Quelli che aveva la notte del 21 luglio 2001, quando fece irruzione nella Diaz con il VII Nucleo.
Il thread della collera e della vergogna – «In quella scuola rientrerei mille e mille volte»; «Spero che Carlo Giuliani faccia schifo anche ai vermi» – è stato scritto tra queste mura.
E ne ha già pagato le conseguenze Antonio Adornato, comandante del Reparto mobile di Cagliari, il primo ad aggiungere il suo “like”, rimosso dal comando con effetto immediato e trasferito all’ufficio ispettivo di Roma
Il pc ora è spento ed è su un mobile basso, sotto un grande televisore a muro incorniciato da vetrinette.
In un angolo del salotto, i cesti con i giochi delle figlie, 3 e 5 anni.
«Sono a scuola e stamattina non le ho viste perchè ero di turno di notte al Reparto Mobile. Meglio. Comunque non avrei chiuso occhio».
Il cellulare non smette di squillare di telefonate di “solidarietà ” di decine di poliziotti. Tortosa, 42 anni, pantaloni della tuta e una felpa dei “Lazio Marines”, la squadra di football americano «che è l’altro pezzo della mia vita» e di cui è vicepresidente – «Ho letto che saremmo dei nazisti, mentre tra i miei, ci sono ragazzi ebrei e di colore» – sistema nel lavello della cucina le tazze della colazione delle figlie, infila in uno scaffale il barattolo di Nesquik.
Visto che lei è anche un padre oltre che un poliziotto, come si fa a concepire quel che ha scritto di Carlo Giuliani?
«Quello che ho scritto di Giuliani non è da uomo e non è da me. Me ne vergogno. Per quel che può servire, chiedo scusa ai suoi genitori. E chiedo scusa a mia madre, che ha 78 anni, perchè ha conosciuto la tragedia di sopravvivere alla morte di un figlio. Uno dei miei due fratelli. Aveva 15 anni. Spero mi perdoni da dov’è anche mio padre, che era un meccanico dell’Atac, e che per quello che mi ha insegnato nella vita si vergognerebbe. Il mio sbaglio è stato troppo grande da non dire anche un’altra cosa. Mai più si dovrà dire di Giuliani “si certo è morto, ma…”. Non so cosa mi sia successo. O forse lo so. Ero furioso».
Per la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo? Per quella parola usata, “tortura”?
«Io non sono un torturatore. Non lo siamo stati noi del VII Nucleo. E solo per questo motivo ho scritto che sarei tornato alla Diaz. Perchè non ho nulla di cui chiedere scusa per quanto feci quella notte».
Un commento di un suo collega al suo post inneggiava ai «torturatori con le palle».
«Avrei dovuto avere la lucidità di capire a quel punto che la discussione era fuori controllo. E interromperla. Purtroppo non l’ho avuta».
Ma, a suo giudizio, la violenza alla Diaz fu tortura o no?
«Chi fa violenza su un inerme, commette un atto di tortura. Dunque, alla Diaz fu tortura. Ma io, in 22 anni di polizia, non ho mai torturato nessuno. Per questo ho gridato dopo quella sentenza».
Che giudizio dà di quella notte?
«Fu uno scempio. Che fece 159 vittime. I 79 nella scuola che vennero massacrati nel corpo e nella testa, e gli 80 di noi del VII, perfetti capri espiatori di quanto era accaduto».
Ci sono delle sentenze della magistratura passate in giudicato. E lei, da poliziotto, dovrebbe rispettarle. Si legge invece nel suo thread di indagini condotte dal pm «Zucca e dai suoi sgherri».
«Io non voglio mancare di rispetto a nessuno. E se potessi tornare indietro farei quello che non feci 14 anni fa quando mi avvalsi della facoltà di non rispondere e non andai all’interrogatorio fissato dai pm».
Perchè non andò?
«Perchè questa fu la scelta che ci venne comunicata dai nostri avvocati e a quella scelta si attenne l’intero reparto. Fu un errore».
Cosa avrebbe detto ai pm? Quale “altra verità ”?
«Quello che i processi hanno per altro accertato. Che quella notte, io e il mio reparto restammo nella scuola 5 minuti. E che mentre raggiungevamo i piani alti, decine, centinaia di colleghi con le pettorine e in borghese si accanirono su chi era nella palestra. Una delle vittime lo ha raccontato. Era stata fermata dal nostro sovrintendente Ledoti e venne trascinata via da due poliziotti che poi la massacrarono. Le dico di più. Quella notte, usciti dalla scuola, l’allora vicecapo della Polizia Andreassi ci raggiunse alle Caravelle per dirci che era fiero di noi. Che in quarant’anni di Polizia non aveva mai visto un Reparto comportarsi come noi. Lo avrebbe detto di un manipolo di torturatori psicopatici?».
Lei riconobbe qualcuno di questi suoi colleghi?
«No. Ma perchè sia chiaro quello che penso, le dico che, in questi 14 anni, l’infamia cui mi ribello, che mi ha fatto finire dove sono e di cui sono stati due volte vittime anche gli innocenti della Diaz, ha anche il volto di chi è stato responsabile di quel pestaggio e non ha avuto il coraggio di fare un passo avanti. Ha il volto di chi doveva identificare gli autori del pestaggio e non lo ha fatto. Purtroppo, gli uni e gli altri portano la mia stessa divisa».
In Parlamento c’è chi chiede una commissione parlamentare di inchiesta.
«Ne sarei felice. Sarebbe l’unico modo per uscire dalla logica del capro espiatorio. Io non ne ho paura. Su altri non potrei scommettere ».
Altri chi?
«Se lo sapessi lo direi».
Nella sua storia c’è una militanza giovanile nel Fuan, nella destra sociale e anni di sindacato di destra. Oggi lei è un dirigente del Consap.
«Ho militato nel Fuan ma alle ultime elezioni ho votato Pd. Non vedo la contraddizione. Mia moglie, che è la persona che amo, è una donna di sinistra da sempre».
E quel linguaggio da gioventù del Littorio? “Onore”, “vigoria giovanile”? O da fascismo di strada, “zecche”?
«L’ho detto prima. La discussione si è infilata nella logica amico- nemico. “Poliziotto fascista”, “antagonista zecca”. Non serve a niente. Ma capisco anche che dirlo ora può sembrare solo una giustificazione tardiva Quanto a “onore”, “gioventù”, “lealtà ”, “fratellanza”, sono termini che accomunano tutte le comunità di uomini che sono uniti da un vincolo di lealtà a dei valori, a un’idea ».
Lei però ha giurato sulla Costituzione. E la Costituzione non è il Corano, libero all’interpretazione dei fedeli.
«Sono d’accordo con lei. E proprio perchè ho giurato sulla Costituzione sono pronto ad assumermi tutte le responsabilità di quel che ho detto. Mi difenderò nel procedimento disciplinare. Ma una cosa so. Che se pensano che per chiudere la ferita della Diaz e venire a capo dei sentimenti che l’hanno attraversata in questi anni sia sufficiente liberarsi del sottoscritto e di qualche altro collega, si sbagliano».
Carlo Bonini
(da “La Repubblica”)
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Aprile 16th, 2015 Riccardo Fucile
I PM: “QUELLA SERA CI FU UN BUCO FATALE, LO DICONO I TABULATI”
Perchè Genova, tre anni dopo il disastro del Fereggiano, è stata travolta da un altro fiume di fango? 
Soprattutto: quando sono stati commessi, gli errori determinanti?
E quali riscontri hanno trovato i pm, nell’inchiesta condotta fino a ieri?
Solo rispondendo a queste domande si può trovare la spiegazione alla svolta giudiziaria impressa con l’avviso di garanzia a Raffaella Paita.
Per orientarsi serve una premessa.
Il protocollo di sicurezza in caso di criticità prevede tre attori fondamentali: il centro meteo di Arpal (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente), che elabora e aggiorna le previsioni; la Protezione civile regionale, che sulla base di quelle indicazioni decide se diramare l’allerta; la Protezione civile comunale, che in presenza di pericolo «ufficiale» stabilisce quali provvedimenti adottare, dalla chiusura delle strade agli sgomberi.
Le previsioni sbagliate
La piena fatale del Bisagno avviene alle 23,15 del 9 ottobre 2014.
E il primo dato certo fissato dai pubblici ministeri Paola Ciccarese e Gabriella Dotto, è che le previsioni del tempo sono sclerotiche per ore, incanalandosi solo dopo le 22 verso lo scenario peggiore.
Alle 13, per esempio, si danno le piogge «verso levante, con piena del Bisagno in attenuazione».
Alle 14,55 Arpal parla di «torrenti decrescenti» e alle 18 un bollettino determinante: l’agenzia descrive un «graduale indebolimento» e la Protezione civile della Regione sbaracca.
Raffaella Paita (assessore con delega specifica) a quell’ora chiede un report ai suoi e le viene risposto in modo lapidario: «Tutto sotto controllo, vada pure a casa».
Arpal sbaglia quindi le previsioni, la Protezione civile regionale non dirama alcuna allerta, il referente politico viene rassicurato.
E il Comune, titolato ad agire materialmente in città ? Confortato da questi resoconti pubblica un tweet alle 18,50, con cui annuncia la disattivazione d’un numero verde.
E invece è proprio da lì che inizia l’escalation.
Il temporale non si allontana, anzi. Torna su Genova, dalle 20,30 si trasforma in nubifragio e Arpal cerca di metterci una pezza. Ore 22,20, la comunicazione che ribalta tutto: «Dopo indebolimento, perturbazione riprende forte vigore: a rischio Polcevera, Bisagno, Trebbia e Scrivia».
«Si poteva intervenire»
Eccoci al momento clou, per come l’hanno circoscritto gli inquirenti.
Secondo la Procura c’era comunque il tempo per intervenire. E la dichiarazione d’allerta, ancorchè a un ‘ora dalla piena fatale, avrebbe consentito dal Comune di attivare misure minime, ma sufficienti a impedire la morte di Antonio Campanella e almeno parte del disastro.
Il problema fondamentale, lo rivela lo screening delle telefonate compiuto dagli investigatori, è che la Protezione civile è sguarnita, quando i meteorologi dicono che la situazione sta precipitando.
Il funzionario Stefano Vergante non è alla centrale operativa, ma nella sua casa del quartiere Molassana in Valbisagno, e non riesce a muoversi causa maltempo.
Telefona a Raffaella Paita – questo certifica agli occhi di chi indaga il suo filo diretto con la Protezione civile stessa – per dirle che il quadro è cambiato, informa altri superiori pure a livello nazionale.
Ma viene diramata l’allerta? No. O meglio: c’è una telefonata «informale» fra Elisabetta Trovatore (meteorologa Arpal) e Monica Bocchiardo, responsabile Protezione civile del Comune, che aspetta un input per agire.
Troppe contraddizioni
La prima dice alla seconda, in modo generico, che «peggiora tutto». E però non può dare l’allerta poichè Arpal, ricordiamolo ancora, è cosa diversa dalla testa della Protezione civile, che può certificare formalmente l’emergenza.
È l’impasse finale: niente allerta – solo telefonate confuse – niente semaforo verde all’amministrazione comunale per chiudere le strade.
E Il Bisagno alle 23,15 esonda, seminando (di nuovo) morte.
Alle 23,25 scatta la chiamata ufficiale della Regione al Comune, mentre Raffaella Paita giunge a Genova da Albenga che lo scempio s’è compiuto.
Nelle settimane successive Vergante, e con lui la Protezione civile regionale, prova a giocare sui tempi, dice di aver preparato al peggio il Comune già dalle 22.
Ma l’incrocio dei tabulati racconta, a parere di chi indaga, un’altra storia.
Fino agli avvisi di garanzia.
Matteo Indice
(da “il Secolo XIX”)
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Aprile 16th, 2015 Riccardo Fucile
IN REGIONE LIGURIA TRA I RINVIATI A GIUDIZIO PER LE SPESE PAZZE SONO BEN 12 QUELLI CHE VERRANNO RIPRESENTATI: 4 DEL PD, 1 EX DI SEL, 1 DI NCD, 3 DI FORZA ITALIA, 2 DELLA LEGA E 1 DI FDI… E ANCHE LA PAITA, CANDIDATA PRESIDENTE RENZIANA E’ DA IERI INDAGATA… IN CASO DI CONDANNA DECADRANNO PER LA LEGGE SEVERINO
Gli appartenenti al Consiglio regionale in caso di condanna in primo grado per peculato, sono automaticamente sospesi, in base alla legge Severino.
Eppure tra i nomi dei candidati alle elezioni di maggio in regione Liguria è quasi certo che compariranno ben 12 rinviati a giudizio per le spese pazze relative alla legislatura corrente.
In un altro Paese, oltre a essere spernacchiati per strada, sarebbero stati cacciati dai rispettivi partiti di appartenenza o, nel caso migliore per loro, invitati a farsi da parte e saltare un giro, in attesa del processo e della relativa sentenza.
Rieccoli invece ripresentarsi come se nulla fosse, in nome della presunzione di innocenza, come se l’opportunità politica e l’etica personale non esistessero.
Ben sapendo che il processo inizierà tra circa un anno e si concluderà forse entro due e che in caso di condanna decadranno automaticamente.
In quel caso pensate che restituiranno gli 8.800 eurini al mese, circa 100.000 l’anno a testa che per due anni fanno 200.000 eurini più relativi contributi, illecitamente percepiti?
O pensate che qualcuno glieli chiederà mai indietro?
Cominciano con fare nomi e cognomi degli interessati: Renzo Guccinelli, Antonino Miceli, Massimo Donzella e Armando Capurro del Pd, Matteo Rossi ex Sel, Gino Garibaldi Ncd, Marco Melgrati, Marco Scajola, Raffaella Della Bianca di Forza Italia, Edoardo Rixi e Francesco Bruzzone della Lega e Matteo Rosso di Fratelli d’Italia.
Equamente divisi: sei di area centrosinistra, sei di area centrodestra.
Impossibile non ricordare che una volta esisteva la “destra della legalità “, quella dell’onore e del servizio alla nazione, dell’etica pubblica e della moralità .
Oggi siamo decaduti nella destra dell’omertà : ne prendiamo atto, ma denunciamo come una vergogna il riproporre candidati di cui abbiamo potuto leggere come hanno utilizzato i fondi pubblici regionali, al di là dell’aspetto penale che ci interessa relativamente.
E puntiamo il dito contro le segreterie di partito che straparlano ogni giorno di legalità da ripristinare nelle strade, quando non riescono nemmeno a garantirla all’interno delle loro sedi e nei confronti dei loro esponenti.
Il suq illegale non è solo in piazza Raibetta, cari vecchi tromboni della sedicente destra genovese, lo sconcio mercato lo avete accanto a voi e da omertosi fingete di non accorgervene.
E quella sinistra che una volta rivendicava giustizia sociale, solidarietà e uguaglianza dove è finita?
Tra i mancati allarmi delle alluvioni in arrivo e gli scontrini fasulli dei vostri consiglieri, mentre migliaia di lavoratori sono rimasti senza lavoro?
Perchè tutti, destra e sinistra, non firmate un assegno a garanzia di almeno 200.000 euro che, in caso di condanna, determini la restituzione degli stipendi illecitamente percepiti per due anni, se non di più?
Forza, uomini di onore e della legalità , dimostrate di avere le palle: mal che vada avrete prestato servizio gratuito alla Regione per due anni.
Dato che notoriamente fate politica per passione, per voi non sarà certo un sacrificio.
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Aprile 15th, 2015 Riccardo Fucile
RENZI TIRA DRITTO CON LA SOLITA ARROGANZA:”NESSUNA MODIFICA”… BERSANI: “NON DISPONIBILE AD ANDARE AVANTI COSI'”… UNA SETTANTINA I DISSIDENTI
“Il governo è legato a questa legge elettorale, nel bene e nel male: si è fatto promotore di un
documento firmato dalla maggioranza convinta. In quel documento c’era lo scambio tra l’abbassamento delle soglie e il premio alla lista, anzichè alla coalizione”. Parla così Matteo Renzi dinanzi all’assemblea dei deputati Pd.
Un avviso alla minoranza dem che insiste nel chiedere meno capilista nominati al fine di trovare un’intesa da portare nell’aula di Montecitorio il 27 aprile.
Ma il premier non molla. La resa dei conti è iniziata, il redde rationem all’interno del Partito democratico si gioca sull’Italicum.
E’ un braccio di ferro carico di tensione.
Il capogruppo dem Roberto Speranza arriva a rimettere il proprio mandato: ‘Area riformista’, corrente dell’opposizione interna di cui lui è a capo, non intende cedere e annuncia di non voler votare – al termine dell’incontro – una legge elettorale ‘blindata’. Ma il premier-segretario dem non intende più perdere tempo: a suo parere sono già state fatte molte modifiche e ora è il momento di andare avanti con le riforme costituzionali. “Questo non è il Monopoli”, aveva già ammonito ieri.
“La legge elettorale perfetta non esiste da nessuna parte – ha rincarato la dose stasera-. Chi voterà la proposta della segreteria parte dalla consapevolezza che non esiste la legge perfetta. Chi deciderà di votare contro dovrebbe comunque riconoscere un lavoro di mediazione e di cambiamento lungo 14 mesi”.
Lo ‘strappo’ del capogruppo
Per tutta risposta, la minoranza del Pd stasera non partecipa al voto del gruppo: si tratterebbe di una settantina di deputati su un totale di 310 parlamentari eletti alla Camera. Speranza, tuttavia, non rinuncia a prendere la parola dopo l’intervento iniziale di Renzi.
E dice: “Sull’Italicum esprimo profondo dissenso”.
Poi annuncia il proprio passo indietro rispetto all’incarico di capogruppo: “Non sono nelle condizioni di guidare questa barca perciò con serenità rimetto il mio mandato di presidente del gruppo e non smetto di sperare che questo errore che stiamo commettendo venga risolto. Credo nel governo, credo nel Pd e nel gruppo – ha aggiunto – ma in questo momento è troppo ampia la differenza tra le scelte prese e quello che penso”.
“Sarò leale al mio gruppo e al mio partito – prosegue Speranza – ma voglio essere altrettanto leale alle mie convinzioni profonde. Non cambiare la legge elettorale è un errore molto grave che renderà molto più debole la sfida riformista che il Pd ha lanciato al Paese. C’è una contraddizione evidente tra le mie idee e la funzione che svolgo e che sarei chiamato a svolgere nelle prossime ore. Per queste ragioni rimetto il mio mandato di presidente del gruppo a questa assemblea che mi ha eletto due anni fa”.
Parte della minoranza lascia assemblea.
Alla fine, l’assemblea del gruppo Pd continua nonostante l’annuncio dato da Speranza. La maggioranza vota contro la sospensione invocata dalla minoranza.
Renzi, infatti, aveva chiesto un voto sulla legge elettorale, ma parte della minoranza ha deciso comunque di lasciare la riunione del gruppo.
Gianni Cuperlo aveva rivolto un appello a Renzi a sospendere la riunione. Avrebbero lasciato l’assemblea, tra gli altri, Bindi, Miotto, Fassina, Civati, Meloni, Lattuca. Hanno votato contro la prosecuzione dell’assemblea circa 20 deputati.
Tuttavia, non tutti i dissidenti hanno abbandonato l’aula: mentre parla Dario Franceschini, sono seduti in assemblea Bersani, Stumpo e D’Attorre.
Ma a ruota anche D’Attorre abbandona la riunione e dice: “Che non si sia deciso di fermarsi e discutere delle dimissioni del capogruppo, andando avanti come se nulla fosse, è una scelta sconcertante che lacera ancora di più il senso di comunità nel Pd”.
Il dissenso dell’ex segretario
“Se volete andare avanti così, sappiate che io non ci sto. Qui non si parla di legge elettorale bensì di un sistema democratico”, dice Pier Luigi Bersani prendendo la parola.
L’ex segretario ha quindi invitato Renzi a riaprire i termini per la modifica dell’Italicum. “Se volete andare avanti – ha ribadito – sappiate che io non sono convinto”.
Per Bersani non è solo in gioco la legge elettorale ma nel combinato disposto con il ddl costituzionale “c’è in ballo il futuro dei nostri figli. La legge – ha detto riferendosi all’Italicum – va fatta mandando il film avanti di qualche anno, senza pensare a cosa succede domani. Non sono cose da ridere”.
E ancora: “Non è questione di coscienza nè di disciplina ma di responsabilità di ogni singolo parlamentare. Non mi dite che non si trova la maggioranza al Senato: se si vuol fare, si può fare”. Poi, come chiosa: “Un partito che davanti alle dimissioni del capogruppo va avanti come se niente fosse ha un problema”.
(da “La Repubblica”)
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