Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
IN CAMBIO AVREBBE ASSICURATO VANTAGGI E FAVORI… RESTA COMUNQUE INDAGATO ANCHE PER ASSOCIAZIONE MAFIOSA
Dall’inchiesta madre su Mafia Capitale scaturisce un rivolo che potrebbe portare presto alla sbarra
Gianni Alemanno.
In attesa che gli inquirenti decidano che fare dell’indagine a suo carico per associazione mafiosa, l’ex sindaco ha ricevuto la notifica di una nuovo capo d’accusa: corruzione in concorso con Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e il suo ex braccio destro Franco Panzironi, tutti imputati nel maxi-processo che si aprirà tra un mese.
La contestazione ad Alemanno riguarda il pagamento di almeno 125.000 euro, a fronte di promesse per cifre ancora maggiori «per la vendita della sua funzione» di primo cittadino, e «per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio».
Con l’aggravante del favoreggiamento al sodalizio mafioso per Buzzi, l’ex leader delle cooperative rosse romane che ha materialmente sborsato il denaro, e per l’ex estremista nero Carminati.
L’avviso di conclusione indagini – firmato dal procuratore Pignatone, dall’aggiunto Prestipino e dai sostituti Cascini, Ielo e Tescaroli, preludio di un’imminente richiesta di rinvio a giudizio – è uno stralcio del procedimento principale dal quale sono emersi i finanziamenti contestati dalla Procura.
Secondo gli inquirenti l’ex sindaco ha ricevuto tra il 2012 e il 2014 (quindi quando governava il Campidoglio ma anche dopo, in una sorta di saldo per i favori assicurati in precedenza), attraverso Panzironi che era d’accordo, 75.000 euro per cene elettorali, altri 40.000 alla fondazione Nuova Italia (che gli inquirenti considerano una sua «cassaforte», e dalla quale avrebbe a sua volta ricevuto soldi per sè), e almeno 10.000 euro in contanti, «a fronte di una originaria promessa di 40.000», che per l’accusa costituiscono anche una forma di finanziamento illecito all’esponente politico.
La contropartita che Alemanno avrebbe assicurato al duo Buzzi-Carminati comprende alcuni fatti ricostruiti in ogni passaggio nell’indagine principale.
Ecco allora il contributo di Alemanno nella nomina dell’avvocato Giuseppe Berti nel consiglio di amministrazione dell’Ama, la municipalizzata per la raccolta dei rifiuti, e di Fiscon come direttore generale della stessa società , due nomi sponsorizzati dal presunto clan; l’aver messo «strutture del suo ufficio a disposizione di Buzzi e Carminati», come quando il capo-segreteria di Alemanno, secondo il racconto di Buzzi, si decise a incontrarlo in tutta fretta solo dopo una telefonata di Carminati; aver favorito i pagamenti del Comune di Roma alla società Eur Spa, che servivano a onorare crediti di «soggetti economici riconducibili a Buzzi e Carminati».
Nella ricostruzione dei pubblici ministeri, Panzironi – recentemente condannato a cinque anni e tre mesi di carcere per lo scandalo «parentopoli» all’interno dell’Ama – non è soltanto colui che riceveva i soldi da Buzzi e poi li girava ad Alemanno; era anche un «consigliere del sindaco», del quale si sarebbe reso complice nella vendita della funzione.
Agli atti del Comune e ora del processo per Mafia Capitale, infatti, c’è una delibera del Giunta comunale guidata da Alemanno (il 2 luglio 2008, subito dopo le elezioni vinte dal centro-destra), nella quale Panzironi, in virtù dei «requisiti personali e professionali» e dei «rapporti eminentemente fiduciari» tra i due, viene nominato collaboratore del sindaco, per il quale «curerà le relazioni esterne e riferirà in via riservata all’onorevole Sindaco».
Il tutto «a titolo gratuito», ma secondo i pm i guadagni venivano garantiti attraverso altre vie.
Per esempio i finanziamenti di Buzzi alla fondazione di Alemanno, elargiti sia regolarmente che «in nero».
Per i quali gli inquirenti non credono alla versione fornita dal capo delle cooperative, e cioè che Alemanno sapesse poco o nulla dei soldi girati a Panzironi.
«Lei non è credibile», hanno insistito i pm, anche in considerazioni della diversa estrazione politica tra i due, uno di sinistra e l’altro di destra.
«Il sindaco si finanziava a prescindere dal colore», è stata la risposta di Buzzi.
La nuova imputazione contestata ad Alemanno certifica che la Procura non gli dà alcun credito, e ora considera l’ex sindaco un suo complice.
Giovanni Bianconi
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
“SI STANNO SUICIDANDO COME BALENE”… “RENZI E’ IL FIGLIO POLITICO CHE SILVIO AVREBBE VOLUTO AVERE”
Il consiglio è di quelli da ascoltare con attenzione, anche perchè proviene da chi di politica e alleanze se ne intende parecchio: Clemente Mastella.
“Pensate che Renzi possa fare una lista con Verdini in testa e voi? Ma non è possibile, resterete a casa”, suggerisce l’ex ministro della Giustizia in una intervista al Fatto Quotidiano ai componenti della nuova formazione capeggiata dall’ex plenipotenziario di Berlusconi.
Mastella, uomo di centro da una vita, cerca di mettere in guardia i suoi ex amici centristi. “Si stanno suicidando, come le balene. Mi chiamano, chiedono consigli, qualcuno piange. Ma che consigli dai a uno che ha deciso di ammazzarsi?”.
Quindi critica in particolare la scelta dei parlamentari Ncd.
“Stanno sbagliando tutto. Devono far modificare l’Italicum ora, quando la riforma sarà approvata non sarà più possibile. Con questa legge elettorale sono fregati.”
Sul premier, Mastella non risparmia critiche: “Vuole avere la riforma del Senato per avere mano libera, è il miglior allievo di Machiavelli” e aggiunge “è il figlio politico che Berlusconi avrebbe voluto ma non ha mai avuto, gliel’ho sempre detto a Silvio. Ha tentato di adottarlo, ma è andata diversamente”.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
FILIPPO FACCI E L’OSSESSIONE DEL BAVAGLIO
Filippo Chatouche è sfortunato. Ieri, su Libero che caritatevolmente lo ospita, ha scritto l’ennesimo
pezzo pro legge bavaglio e contro chi la contrasta (il sottoscritto e l’avvocato Caterina Malavenda) e pubblica intercettazioni penalmente irrilevanti (tipo De Girolamo, Maroni e altri, come sta facendo il Fatto a puntate).
Titolo: “Travaglio vuole libertà di sputtanare e pubblica intercettazioni irrilevanti”. Sono dieci anni che ci prova.Chiedeva di essere imbavagliato già nel 2006, ai tempi del bavaglio Mastella: non passò.
Ci riprovò due o tre anni dopo col bavaglio Alfano,quando tornò al governo l’amato Silvio, che l’ha in carico da vent’anni dopo la dipartita degli adorati Craxi e Pillitteri: invano.
Oggi che con Renzi & Orlando pare la volta buona, è tutto eccitato: finalmente i politici vieteranno ai giornalisti di pubblicare intercettazioni di personaggi non indagati e su vicende penalmente irrilevanti.
Ora, a parte il fatto che un giornalista gongolante perchè gli mettono la museruola è come un fornaio che invoca l’abolizione del pane, almeno si capisce quale mestiere non esercita Chatouche (e resta da comprendere quale eserciti).
Ma la sua posizione è bizzarra sotto altri profili.
1) Se un giornalista non vuole pubblicare notizie penalmente irrilevanti, può benissimo non farlo già oggi, senz’attendere che il governo glielo proibisca: il fatto che sia (ancora per poco) consentito, non significa che sia obbligatorio.
Ma Facci non si accontenta di fuggirle e scansarle come la peste bubbonica: vorrebbe che gli altri che, facendo i giornalisti, le pubblicano, venissero sanzionati con pene esemplari, affinchè non lo facciano più evitando così di creare una spiacevole distinzione tra giornalisti che danno le notizie e giornalisti (si fa per dire) che non le danno.
2) Chatouche sostiene che già oggi è proibito pubblicare intercettazioni non penalmente rilevanti e cita un articolo del Codice di procedura penale a lui particolarmente caro: il 114, che vieta “la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto” fino al processo e consente soltanto “la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto”.
Cioè: si può riassumere il “contenuto” di atti depositati, ma non si può riportarli testualmente.
È una norma ambigua e assurda, che nasce dall’antico principio per cui il giudice, prima di decidere nel contraddittorio delle parti, non deve conoscere gli atti nel dettaglio,ma solo in sintesi.
Roba che poteva avere senso nel mondo arcaico, non nel villaggio globale dell’informazione immediata e totale.
Del resto, è interesse dei cittadini conoscere le parole esatte di atti e intercettazioni, senza che intervenga il giornalista a riassumerle secondo la sua soggettività . In ogni caso, l’art. 114 è sostanzialmente inapplicato perchè è punito con una piccola multa. Ma soprattutto perchè la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha stabilito infinite volte che l’interesse pubblico, specie quando ci sono di mezzo personaggi pubblici, è prevalente su tutto: e l’unico criterio a cui deve attenersi il giornalista è la verità dei fatti.
Dunque lo Stato che condanni un giornalista per aver pubblicato un atto autentico e interessante viene a sua volta condannato a risarcirlo. Chatouche però cita l’art. 114 senza conoscerlo: infatti lo tira in ballo a proposito delle intercettazioni penalmente irrilevanti, mentre il divieto di pubblicazione testuale le riguarda tutte: penalmente rilevanti e irrilevanti.
E allora: se è già vietato pubblicarle integralmente tutte, che bisogno c’è di vietare quelle irrilevanti?
Il problema è la sanzione, che oggi è irrisoria (una multa di 200 euro o giù di lì), e domani potrebbe essere ben più severa e dissuasiva.
Sarebbe incompatibile con la giurisprudenza europea, ma lasciamo andare, perchè c’è un altro punto che fa cascare l’asino.
3) Da che pulpito Chatouche ci insegna che il bavaglio è cosa buona e giusta e chi si oppone è un “passacarte” che vuole “sputtanare la gente tanto per sputtanarla”? Il pulpito è quello di uno che da 24 anni, da quando Di Pietro osò toccargli il suo Bettino e il suo Pillitteri, raccoglie dossier e scrive sempre lo stesso libro e lo stesso articolo contro Di Pietro, accusandolo di fatti penalmente irrilevanti (case, Mercedes, prestiti), dai quali infatti è stato sempre archiviato o prosciolto o assolto.
E pubblica intercettazioni penalmente irrilevanti, come quelle del 1995 fra l’ex pm e De Benedetti, Passera, Tremaglia e Veltri.
Ed è il pulpito di Libero diretto da quel Belpietro che nel 2006, quando guidava il Giornale, pubblicò la famosa telefonata tra Fassino e Consorte sul caso Unipol, rubata da un dirigente della ditta privata che l’aveva registrata per conto della Procura di Milano e portata in dono a Paolo e Silvio B.
Fu quest’ultimo —la Cassazione l’ha definitivamente accertato proprio l’altro ieri — a dare l’ok alla pubblicazione sul suo Giornale alla vigilia della campagna elettorale, per “sputtanare” — direbbe Chatouche — il leader avversario.
La telefonata rubata non era neppure stata trascritta nè depositata perchè penalmente irrilevante, dunque segreta.
Belpietro fece benissimo a pubblicarla, perchè era politicamente e moralmente rilevantissima, visto che dimostrava il pieno coinvolgimento del segretario Ds nella scalata Unipol-Bnl.
Ma sarebbe interessante conoscere la sua posizione, magari in un articolo su Libero con sei anni di ritardo dal titolo “Belpietro vuole libertà di sputtanare e pubblica intercettazioni irrilevanti”: mica vorrà far arrestare il suo direttore?
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
PD 35%, M5S 25,1%, LEGA 14,3%, FORZA ITALIA 9,6%, SEL 4,6%, FDI 3,3%, NCD-UDC 2,8%
Rimane stabile al 31% la fiducia in Matteo Renzi, secondo l’istituto Ixè di Roberto Weber, in esclusiva per Agorà .
Sergio Mattarella raccoglie quasi il doppio di fiducia (61%). In testa, tra le istituzioni, Papa Francesco all’85%.
Sul fronte dei partiti, invece, “da diverse settimane” il Pd cresce nei sondaggi dell’istituto Ixè, fino a toccare oggi quota 35% (+0,3% rispetto a 7 giorni fa).
Balzo in avanti anche del M5s, che dal 24,2% passa al 25,1%. 
Sul fronte del centrodestra, invece, flessione sia per la Lega Nord (14,3%, -0,3%) sia per Forza Italia (9,6%, -0,7%).
Se si votasse oggi, l’affluenza sarebbe al 63%.
Quanto alla situazione di Roma, Ignazio Marino dovrebbe dimettersi per il 48% degli intervistati.
Alta la percentuale (44)% anche di chi, al contrario, pensa che il sindaco di Roma debba proseguire nel suo incarico.
Italiani spaccati in due sull’eterna Questione del ponte sullo stretto di Messina. Il 49% è contrario, il 41% favorevole mentre il 10% non si è espresso.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
PAGHE PIU’ ALTE CHE ALLA CASA BIANCA…. PER PROMUOVERE IL PAESE SOLO CENTINAIA DI MIGLIAIA DI EURO
Elmetto e baionetta, i 78 dipendenti italiani dell’Enit sono in trincea. E diffidano il governo: altolà alla nascita della «nuova» agenzia per il turismo.
C’è da capirli: quasi uno su due è «quadro» o dirigente e la busta paga è più alta che alla Casa Bianca. Così, mesi dopo gli squilli di tromba sulla svolta, tutto è fermo.
È da un anno e passa che il vecchio Enit, fondato 96 anni fa, è stato affidato a un commissario, Cristiano Radaelli, incaricato di dare una sistemata ai costi (vedi un taglio del 29% sugli affitti) e avviare la conversione dell’ente statale in un’agenzia per il turismo, inquadrata come ente economico regolato da contratti di tipo privatistico.
È da maggio che Renzi ha scelto come presidente Evelina Christillin, la «testona sabauda» (autoritratto) già alla testa dell’organizzazione per le Olimpiadi invernali di Torino, del Teatro Stabile, del Museo egizio.
Ed è da metà giugno che il passaggio viene dato per fatto.
Di più: ai primissimi di luglio Dario Franceschini ha firmato anche le nomine dei due consiglieri, Antonio Preiti e Fabio Lazzerini, che per rilanciare il nostro turismo lascerebbe la Emirates dove è direttore generale per l’Italia.
Il ministro era raggiante: «L’Italia ha ora uno strumento snello, efficiente ed efficace in grado di affrontare le grandi sfide e cogliere le enormi opportunità rappresentate dalla crescita esponenziale del turismo internazionale».
Sì, ciao… Anche la data del 1° ottobre, che registrava già un ritardo, è saltata.
Contro il passaggio piovono ricorsi sia dei dipendenti Enit che non vogliono perdere il loro status sia dei precari di PromuoviItalia che, avviato il fallimento societario, chiedono di esser recuperati all’interno del settore pubblico.
L’ultima diffida è stata appena inviata da uno studio di avvocati per conto di due delle 7 sigle sindacali interne (sette per 78 dipendenti: una ogni 11 persone!) e intima a tutti, da Palazzo Chigi ai nuovi consiglieri, a non fare un passo avanti.
Immaginatevi Matteo Renzi! Furibondo.
Il punto è che una storia come quella di Enit non poteva che finire così, farraginosamente.
Al di là anche della dedizione e della professionalità di molti. Si è visto di tutto, negli ultimi anni. Sedi estere (un centinaio di dipendenti stranieri per 23 «filiali») megalomani come quella di New York al Rockefeller Center che, prima di venir spostata dal commissario all’Istituto italiano di cultura, costava 400.000 euro l’anno. Uffici come Vienna capaci di spendere in un anno 20.000 euro di giornali, pari a 77 euro a giorno lavorativo.
Ripetuti ricorsi ai giudici come quello che ha permesso all’unico giornalista di farsi riconoscere la qualifica di «direttore».
Per non dire dei «manager» piazzati via via da questo e quel governo. Su tutti il «brambilliano» Paolo Rubini, nominato direttore generale pur avendo nel curriculum, come scrisse Emanuele Fittipaldi su l’Espresso , «solo la vice-presidenza della StemWay Biotech, un’azienda specializzata nel congelamento di cordoni ombelicali». Un campo vicino al turismo quanto Carugate a Tokio.
Come dimenticare poi la selezione di dirigenti mandati all’estero? Per conquistare il mercato cinese, come già abbiamo raccontato, fu mandata ad esempio a Pechino l’ex segretaria comunale di Zeme, Velezzo, Lardirago, Bascapè, Affile, Labico e Campagnano romano…
«E se la cavò perfino meglio di altri…», ammicca uno che l’Enit lo conosce bene. Quanto a un suo collega inviato in Brasile, non riuscì a ottenere il visto e se ne restò a conquistare i possibili turisti brasiliani da Buenos Aires. Un capolavoro.
Lo status di tutti, poi, era appena inferiore a quello di un ambasciatore e le indennità varie, stando ai documenti, potevano arrivare a ventimila euro netti al mese più lo stipendio.
Per un totale di oltre trecentomila euro puliti l’anno. Fatti rientrare tutti a Roma dal commissario Radaelli, i sei «distaccati d’oro» hanno fatto tutti causa.
Perdendo. Risparmio finale da un anno all’altro: un milione e 900mila euro. Oltre trecentomila a testa di sole indennità e spese varie.
C’è poi da stupirsi se l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli aveva inserito il carrozzone Enit al secondo posto, dopo il Cnel, tra gli enti pubblici da chiudere?
Lo stesso «Piano strategico per lo sviluppo del turismo in Italia», forse lo studio più serio degli ultimi anni, voluto dall’allora ministro Pietro Gnudi con la collaborazione di Boston Consulting Group, era chiarissimo.
E dopo avere denunciato la «graduale marginalizzazione dell’Enit» usava parole tombali: «L’Agenzia Nazionale del Turismo è percepita come legata più a logiche burocratiche che di mercato».
Dopo un anno passato a tagliare e battagliare (a volte a dispetto della scarsa collaborazione di pezzi dello Stato, come l’Avvocatura che non gli ha mai fornito un esperto per il passaggio dei contratti da pubblico a privato), Cristiano Radaelli avrebbe confidato agli amici di sentirsi la coscienza a posto: «Quello che potevo fare l’ho fatto».
Compresa la definizione delle strategie del «nuovo» Enit (a partire dal web dove il famigerato italia.it che è migliorato ma è ancora in 6 lingue contro le 10 della Gran Bretagna o le 16 della Norvegia!) e la futura pianta organica: otto dirigenti, 31 quadri, 101 dal quarto al secondo livello
Il passaggio dal vecchio organismo statale al nuovo «ente economico», però, non sarebbe indolore per i dipendenti. Anzi.
Status a parte, col nuovo contratto del turismo c’è chi perderebbe il 45% dello stipendio. Va da sè che nessuno, potendo essere spostato in un altro ministero, abbia voglia di andarci a rimettere.
Col rischio che l’Agenzia, e sarebbe un peccato, perda alcune professionalità che anche nei momenti peggiori hanno consentito all’Enit di dare un contributo.
Il guaio è che anche il nuovo ente, ammesso che fili tutto liscio, avrebbe difficoltà a distribuire i vecchi stipendi.
Il bilancio dell’Enit che riceve dallo Stato 17,6 milioni l’anno (contro i 50 di un tempo) riserva alla promozione vera e propria «alcune centinaia di migliaia di euro». Briciole, rispetto alla settantina di milioni che mediamente spendono la Francia, la Gran Bretagna o la Spagna.
Da noi se ne va quasi tutto nelle spese di gestione e nel personale. Basti dire che, nonostante i tagli (proseguiti anche quest’anno) i 78 dipendenti italiani sono costati nel 2014 la bellezza di 6,7 milioni. Pari a 85.897 a testa.
Oltre ventimila euro più di quanto hanno mediamente guadagnato (62.363 euro) i dipendenti della Casa Bianca.
Contro i «gufi», Evelina Christillin si è attrezzata con una collezione di centinaia e centinaia di gufi e civette di ceramica, di pietra, di peluche…
Auguri.
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
L’IMPORTO DELLA PENSIONE FUTURA ARRIVERA’ A CASA PER POSTA
Se il principio “Occhio non vede, cuore non duole” valesse anche per la propria pensione, i cuori dei
più giovani – e non solo – presto potrebbero soffrire, e non poco.
Tra qualche settimana arriverà infatti, secondo quanto ha spiegato ieri il presidente dell’Inps Tito Boeri, la cosiddetta “Busta arancione”, ovvero la simulazione dell’Istituto di previdenza sull’importo della propria futura pensione.
E per molti non sarà una buona notizia visto che come è noto le somme che le nuove generazioni incasseranno sarà di gran lunga inferiore a quanto incassato dagli attuali pensionati.
Un’operazione molto cara all’economista della Bocconi, che auspica che in questo modo i più giovani possano prendere coscienza per tempo dell’importo basso della propria pensione, cominciando così ad accantonare risorse nei fondi pensione privati, così da poter contare nella vecchia su una somma almeno dignitosa.
La novità però è tale soltanto a metà .
Tanto per cominciare per il momento il servizio riguarda soltanto una fetta dei lavoratori, quelli con contribuzione versata al Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti, alle Gestioni Speciali dei Lavoratori Autonomi (Artigiani e Commercianti, Coltivatori diretti, coloni e mezzadri), e alla Gestione separata.
Soltanto dal prossimo anno il servizio sarà esteso alla cospicua fetta di dipendenti pubblici.
Inoltre, la simulazione è già attiva dal maggio di quest’anno, e vi si può accedere dal sito dell’Inps, per coloro che sono dotati del pin rilasciato dall’Istituto di previdenza per i servizi online.
Una procedura che per quanto semplificata ha tagliato inevitabilmente fuori chi ha poca dimestichezza con il computer.
Con la busta arancione inviata a casa l’Inps verrà quindi incontro proprio a queste categoria.
“Abbiamo superato la soglia di un milione di persone che hanno fatto la simulazione online”, ha sottolineato Boeri, spiegando che adesso le lettere verranno inviate a casa “a tutti coloro che non hanno fatto la simulazione online, perchè vogliamo incoraggiarli a prendere il Pin sul sito”, necessario per effettuare una previsione sulla prestazione futura.
Prestazione che rappresenta soltanto una possibilità visto che inevitabilmente l’importo della pensione dipenderà infatti da molte variabili come, anni di contribuzione, dinamiche di carriera e livello delle retribuzioni future.
Tutti dati che è possibile modificare online, all’interno del simulatore.
L’Inps fornisce quindi una sorta di scenario di base con informazioni in ogni caso molto preziose come l’importo della pensione, la data del pensionamento, la retribuzione al termine della propria carriera e il tasso di sostituzione, cioè il rapporto tra l’ultimo reddito da lavoro annuo e il primo assegno previdenziale.
Una curiosità . Il nome “Busta arancione”, deriva dalla scelta cromatica utilizzata dal primo Paese, la Svezia, che anni fa ha scelto di spedire a casa dei contribuenti l’importo della pensione futura.
Anche in Italia, come ha mostrato Boeri, il colore della lettera che arriverà a casa sarà proprio arancione.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 2nd, 2015 Riccardo Fucile
GABINETTO DI GUERRA A PALAZZO CHIGI PER SMINARE LE INSIDIE ALLE PSEUDO-RIFORME
“Il governo è terrorizzato dai voti segreti”. Nei corridoi di Palazzo Madama l’affermazione rimbalza di senatore in senatore.
Neanche il tempo di incassare il sì al canguro firmato dal senatore Roberto Cociancich, ma presentato dal segretario generale di Palazzo Chigi Paolo Aquilanti (172 sì, 108 contrari e 3 astenuti), che si ricomincia.
Obiettivo: sminare le votazioni pericolose. Il gabinetto di guerra è riunito per tutto il pomeriggio. C’è il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, con il Sottosegretario Pizzetti, in prima linea.
C’è la presidente della Commissione Affari costituzionali, Anna Finocchiaro e ci sono i capi gruppo di maggioranza, Luigi Zanda (Pd) in testa.
E poi, i senatori Giorgio Tonini e Francesco Russo.
Passa il presidente della Commissione Cultura, Andrea Marcucci. Matteo Renzi è in contatto perenne tra telefonate e WhatsApp.
Aquilanti a disposizione per consulenze.
I nervi sono tesi: la soluzione perfetta non c’è.
Alle 19 parte l’esame dell’articolo 2. Previsti 6 voti segreti. Alcuni particolarmente insidiosi.
Due in particolare, a firma Candiani sulle minoranze linguistiche, che di fatto reintrodurrebbe tout-court l’elettività del Senato.
Per tutto il pomeriggio, le menti governative si spaccano la testa.
La prima soluzione individuata è quella di presentare un emendamento per evitare il voto segreto su questa modifica.
Il ragionamento si arena quando diventa chiaro che anche l’emendamento in questione dovrebbe passare a scrutinio segreto.
La minoranza del Pd manda segnali di pace. E il pallottoliere ufficiale conta solo 20 franchi tiratori (e da 5 a 10 senatori di Forza Italia pronti a uscire per abbassare il quorum).
E allora? Ncd è in totale disgregazione: non hanno votato l’articolo 1 Campagna, Azzollini e Giovanardi.
I centristi vedono decisamente male il soccorso di Verdini, quell’Ala pigliatutto che potrebbe renderli inutili. Per le riforme adesso basta un voto in più, ma ormai senza verdiniani la maggioranza (che in Senato è di 161 voti) non c’è più.
Spia ne è proprio il voto di ieri: ai 171 ci si arriva con i loro 13 sì e 3 dei tosiniani.
Il governo non vuole rischiare .
Ecco allora, che si pensa a un’altra soluzione: rimettersi all’Aula. Ovvero, non dare un parere sui voti segreti, ma lasciare liberi i senatori.
In maniera che se alla fine si dovesse andare sotto, non ci sarebbe nessuna conseguenza.
La discussione si trascina per tutto il pomeriggio. Fino a quando, e manca ormai poco alle 19, l’ora “x”, Grasso chiama la Boschi.
Ha letto dell’emendamento taglia voti segreti ed è pronto a dichiararlo inammissibile. E allora, prima ancora che il ministro arrivi da lui, il governo smentisce.
Da Palazzo Chigi ci tengono a far sapere che quella delle minoranze linguistiche è una “questione tecnica”,che ai fini della riforma “è indifferente”.
Si minimizza, volutamente: “Un emendamento del governo caricherebbe la questione di significato politico e dovrebbe costringere il governo stesso a un voto segreto o a porre la questione di fiducia”.
Tutte possibilità che evidentemente sono state prese in considerazione. In prima linea la Boschi, che sorprese non ne vuole.
Il Ministro e Grasso si parlano per pochi minuti.E poi arriva il soccorso al governo: gli emendamenti a voto segreto vanno rivisti e riformulati.
Sui due Candiani, annuncia il Presidente di Palazzo Madama, tra le proteste delle opposizioni, ci sarà uno voto per parti separate, con lo scrutinio palese per la parte che reintroduce l’elezione diretta del Senato, e lo scrutinio segreto per quella riguardante le minoranze linguistiche.
Candiani lo cambia e lo riduce a 1.
Altri tre devono essere riformulati: ne risulterebbe che i senatori delle minoranze linguistiche sarebbero a vita.
Un sesto emendamento, di Roberto Calderoli, sarà messo ai voti così come è.
Wanda Marra
(da “il Fatto Quotidiano”)
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