Ottobre 12th, 2015 Riccardo Fucile
“IL PD E’ ORMAI RIDOTTO A UN DESERTO: TANTO POTERE CHE NESSUNO SA GESTIRE”
Aiuto! Al Pd sono spariti i candidati. Affogati nel ragù renziano, invisibili, declinanti prima ancora di aver tentato il decollo. Il giovanissimo e atletico centrosinistra di Matteo annaspa ovunque in Italia.
Non parliamo del centrodestra. Dei cinquestelle vale la regola della tripla al totocalcio: possono fare eleggere una nuova classe dirigente ma anche disperderla nella curva da ultras della rete.
Il Pd governa in un deserto. Ha così tanto potere e così poca gente che nelle città lo sappia gestire.
C’è Renzi e basta. La sua vittoria non si innesta in alcun pensiero forte, tiene il comando in questo presente alla guida di un corteo composto da amici, parenti, affini, qualcuno incontrato per caso in piazza. I ministri, nel senso etimologico della parola, gli portano la minestra. Ha dato alla Boschi, poco piuÌ€ che trentenne, il compito di riformare la Costituzione, saroÌ€ misericordioso.
Eppure nel dopo Tangentopoli, quando l’Italia fu svuotata dalla sua classe dirigente e onnipotente, nacque la stagione dei sindaci. A decine erano, e bravi, efficienti.
Dimentica che quella stagione fu promossa da una piccola grande rivoluzione: l’elezione diretta. Quel meccanismo fu una fionda, liberoÌ€ energie, attrezzoÌ€ nuove campagne elettorali, stimoloÌ€ tanta gente a partecipare
Quando ci siamo dati la zappa sui piedi?
Quando abbiamo ucciso il federalismo che avrebbe dovuto completare la riforma istituzionale. Trasformare le regioni in enti federati ed efficienti, smontare la burocrazia, la rendita parassitaria.
E la Lega di Bossi?
Ma per favore! La Lega eÌ€ stata la tomba del federalismo. Volevano la secessione e null’altro. Bossi eÌ€ stato una disgrazia.
Adesso non c’eÌ€ piuÌ€ niente da fare.
Adesso si trasforma il Senato invece di abbatterlo, chiuderlo, azzerarlo. Col risultato che tutto sarà uguale a prima.
E manca un partito che sia uno.
Renzi vince percheÌ€ rappresenta una novitas. C’era Bersani e quel mondo liÌ€, assolutamente indigeribile. PeroÌ€ rischia molto. A Milano lo sa solo Allah come andraÌ€ a finire, Roma eÌ€ tra le macerie, Napoli non pervenuta. Vogliamo parlare di Torino, di quel che c’eÌ€ a Bologna, di come si eÌ€ ridotta l’Umbria?
Zero carbonella.
Parliamoci chiaro. Quelli della prima Repubblica saranno stati anche fetenti, ma erano colti, leggevano libri. Ho conosciuto Chiaromonte, Amendola, Moro. Ricordo che con Fanfani si parlava di Max Weber e della scienza amministrativa.
Questi qua hanno avuto la play station.
Non c’eÌ€ passione, manca la cultura, la competenza. Il premier eÌ€ autocentrato, ha tanta cura per seÌ e un corteo che lo segue. Spero vivamente che quel corteo possa trasformarsi in qualcosa di meglio. Ma la vedo dura.
A Napoli è rispuntato Antonio Bassolino.
Qui c’entra la psicologia. Mi spiace per lui, percheÌ€ dimostra di essere un tossicodipendente della politica e purtroppo eÌ€ una condizione che appartiene a molti. Ma il fatto che sia rispuntato denuncia la desolazione, il nulla intorno. Se uno come Renzi deve accomodarsi sulle gambe di Vincenzo De Luca per vincere la Campania…
Il centrodestra invece?
Fin quando avrà tra i piedi Silvio Berlusconi (un altro tossicodipendente della politica) sbatterà il muso contro il muro.
Resta il movimento dei cinquestelle
Sta assumendo un rilievo meno ambiguo, riesce a portare in televisione gente che eÌ€ pure capace di raccontare qualcosa. Si avvia a prefigurare per seÌ funzioni di governo. Ha molte possibilitaÌ€ di fare bene, e molte altre di fare male.
E la velocità di questo nuovo tempo non è una qualità finora vilipesa?
Vero. Ma velocità e talento da soli non bastano. Il talento ha bisogno di una squadra, di una struttura che organizzi e spinga in avanti. Di un altro nome forte, almeno uno, che nasca in periferia.
Lei crede che Renzi sia interessato a promuovere leadership alternative alla sua?
Anzitutto non eÌ€ detto che debbano essere alternative o concorrenti. E comunque deve correre il rischio. Non sa chi mettere a Roma, chi mettere a Milano. A Torino c’eÌ€ Chiamparino, uomo dei miei tempi, a Palermo ancora resiste Orlando, a Catania Enzo Bianco. Capisce il baratro che gli sta davanti?
S’era detto che avrebbe liberato energie.
SiÌ€, s’era detto.
Antonello Caporale
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 12th, 2015 Riccardo Fucile
ECCO I “NEMICI” CHE LO HANNO PORTATO ALLA CADUTA… DA MALAGROTTA ALLE MUNICIPALIZZATE, DAL SALARIO ACCESSORIO AI VIGILI AI VENDITORI AMBULANTI CACCIATI DAL CENTRO
“Credo che abbia fatto molte cose buone. Che abbia rotto meccanismi discutibili e incrostazioni
corporative che indebolivano la città ”.
L’epitaffio sull’esperienza in Campidoglio — e forse anche della vita politica — di Ignazio Marino è firmato Matteo Orfini.
Il presidente del Pd fotografa in campo lungo la parabola del sindaco di Roma, caduto per 19mila euro di spese fatte con la carta di credito del Comune su cui la Procura ha aperto un’indagine.
Ma l’ex chirurgo non è caduto soltanto per la storia degli scontrini, che è stata soltanto il casus belli di una defenestrazione a lungo rimandata e la firma in calce al suo curriculum di politico, ruolo cui leggerezze tali non possono essere perdonate.
La sua trincea, Marino, aveva cominciato a scavarsela fin dal primo giorno a Palazzo Senatorio: muovendosi come un elefante in una cristalleria, il “marziano” ha toccato fin dal principio piccoli e grandi equilibri a tutti i livelli — da Malagrotta alle municipalizzate, dal salario accessorio di vigili urbani e dipendenti comunali ai venditori ambulanti cacciati dal Centro — inimicandosi un ecosistema politico-amministrativo come quello romano, abituato a gestirsi le cose tra noantri.
Chiusa Malagrotta, fine del sistema Cerroni. E degli affari col Pd
La sinistra romana con Manlio Cerroni era andata d’accordo per 30 anni. Così, quando il 30 settembre 2013 Marino chiude Malagrotta, nei palazzi si diffondono i primi malumori.
Il 9 gennaio il proprietario della discarica più grande d’Europa finisce ai domiciliari con l’accusa di associazione a delinquere e 21 tra politici, dirigenti e imprenditori finisce sul registro degli indagati, il palazzo trema e le strade di Roma iniziano a riempirsi di rifiuti. Il sindaco cambia due volte i vertici dell’Ama e, mentre i romani protestano e l’opposizione scatena il putiferio, proroga di 4 mesi l’apertura di due discariche della Colari e va alla carica sui netturbini: “Troppo assenteismo — attacca il 9 luglio 2014 — cadranno delle teste”.
E il 13 rincara: “Su 8 mila dipendenti, circa 2 mila usufruiscono della legge 104, che dà la possibilità tre giorni al mese di assistere un familiare disabile e non andare al lavoro. E’ statisticamente difficile da capire”.
La tensione è alta, ma le trattative sono intavolate, il 10 luglio Comune e azienda raggiungono un accordo per un piano straordinario di raccolta e il 5 agosto arriva l’annuncio: “L’emergenza è finita”, spiega il sindaco.
Magicamente i cassonetti tornano a svuotarsi, i sacchetti spariscono dai marciapiedi. Perchè? I netturbini avevano ricominciato a lavorare.
“Abbiamo recuperato 152 operai ogni giorno — confermava Daniele Fortini, presidente e ad di Ama — sono 6.000 ore in più alla settimana di lavoro e si vede. Siamo passati dal 19% di assenteismo a gennaio a sotto il 15%“.
Mafia Capitale, la Metro C e il “vizio” di portare carte in Procura
Ai rapporti tra Marino e il Pd non ha giovato la frequentazione del sindaco con il portone più importante di piazzale Clodio.
Due esempi.
Il 10 dicembre 2014, 8 giorni dopo la deflagrazione della bomba di Mafia Capitale, il sindaco varcava la soglia della Procura per portare a Giuseppe Pignatone documenti dell’amministrazione considerati “utili” all’indagine.
Una decisione per la quale nessuno al Nazareno avrà stappato bottiglie. Giusto 2 mesi prima, il 9 ottobre, il sindaco era già andato a trovare il procuratore capo per denunciare i ritardi nell’apertura del cantiere della Metro C, pozzo senza fondo di soldi pubblici cui da anni attingono a piene mani alcune dei maggiori potentati imprenditoriali capitolini e nazionali — l’appalto fu vinto nel 2006 da un raggruppamento composto da Astaldi, Vianini lavori gruppo Caltagirone, consorzio Cooperative costruzioni e Ansaldo Finmeccanica — dopo che la commissione sicurezza del Ministero dei Trasporti non aveva dato l’autorizzazione per l’apertura della prima tratta della metro, prevista per l’11 ottobre.
Dopo che i suoi costi sono lievitati passando da 3 a 3,7 miliardi. Una concatenazione infinita di ritardi che, il 17 luglio, avevano già portato lo stesso sindaco a decapitare i vertici di Roma Metropolitane, scelti da Gianni Alemanno, ritenuti “inaffidabili” e inadeguati a realizzare l’opera.
Municipalizzate: dismissioni, tagli ai cda e presidenti non romani
Le municipalizzate, altro nervo scoperto, causa di una continua frizione tra il modus operandi di Marino e il sistema di potere capitolino.
Il campanello d’allarme scatta dalla prima giunta: il 27 giugno 2013 Marino annuncia “un atto di indirizzo sulla governance delle municipalizzate”, terreno di caccia ai voti di politici di ogni colore e fonte inesauribile di appalti per consorterie di ogni sorta.
Il 24 luglio la giunta approva una delibera che definisce i criteri per le nomine: servirà un avviso pubblico internazionale chiuso a chi ha ricoperto nei precedenti due anni incarichi istituzionali.
E’ il primo di una lunga serie di segnali. Finite le logiche spartitorie? Certo che no, ma il metodo del sindaco non lascia tranquilli: chiede l’amministratore unico per tutte le società e cambia i vertici di quelle più importanti, spesso nominando presidenti e ad non romani, quindi in teoria esterni alle logiche di potere capitoline.
Un esempio: il 23 luglio 2013 al vertice dell’Atac arriva un milanese. Danilo Broggi diventa ad con il compito di guidare l’azienda di trasporti pubblici martoriata da Parentopoli (850 assunzioni tra amici e parenti di esponenti del centrodestra, dirigenti e sindacalisti, più altri 1.000 nell’Ama) e da un maxi buco di bilancio di 130 milioni. Il 5 luglio 2014 il Comune annuncia il piano: via 25 partecipate per recuperare 440 milioni.
E il 25 marzo 2015 arriva la delibera che prevede la vendita delle quote di giganti come Assicurazioni di Roma, Acea Ato2, Aeroporti di Roma Spa, Centrale del Latte Spa. Tutte poltrone in teoria perse alla politica romana.
Via gli ambulanti dal centro, guerra alla famiglia Tredicine
“Vi sembra normale che chi vende le caldarroste a Roma paghi come tassa di occupazione di suolo pubblico 3 euro al giorno, quando un sacchetto di caldarroste costa 4 euro?”, domandava Marino il 21 marzo 2014 in Commissione Bilancio alla camera, dove di discuteva il “Salva Roma”.
Gli aumenti annunciati (da 3 a 30 euro al giorno), erano stati annacquati in aula, ma alla fine la stangatina era arrivata.
Il Bilancio 2014, approvato in consiglio nella notte del 31 luglio, prevede che per i camion bar la tassa aumenti di 3,5 volte, di 3 volte quella imposta ai venditori di souvenir.
Sei giorni più tardi, in diretta su Radio Anch’io Marino annunciava di voler “liberare le piazze dai venditori abusivi, eliminare l’invasione illogica dei tavoli”.
Nuovo annuncio, nuovo nemico. A settembre il tavolo tecnico tra Campidoglio e Ministero dichiara incompatibile la collocazione di 43 urtisti (i venditori di souvenir), 70 camion bar e 11 fiorai in tutta l’area archeologica centrale, dai Fori al Circo Massimo.
A Roma gli ambulanti sono un potentato, anche in aula Giulio Cesare.
Perchè il vicepresidente dell’assemblea capitolina si chiama Giordano Tredicine, il rampollo della famiglia più potente della destra romana, nipote del mitico Donato, fondatore della dinastia dei caldarrostai di Roma e dell’impero dei camion bar: nel 2012 occupava oltre 40 dei 68 posti disponibili nel centro storico e controllava attraverso parenti e famiglie amiche centinaia di postazioni in tutta Roma.
E finito in carcere il 4 giugno nella seconda tornata di arresti di Mafia Capitale.
“Giustificare le indennità ”, dipendenti comunali in guerra
Le prime avvisaglie di tempesta con i 24mila dipendenti del Campidoglio erano arrivate nella primavera del 2014, l’11 aprile, quando una relazione del Ministero delle Finanze relativa al periodo 2009-2013 contestava l’erogazione a pioggia delle indennità non legate a premialità o produttività , bocciando la gestione del personale dell’era Alemanno.
“Non intendiamo realizzare l’equilibrio di bilancio riducendo le risorse spettanti al personale”, spiegava il sindaco il 24 aprile, chiedendo però ai lavoratori di giustificare gli indennizzi lavorando più ore o svolgendo mansioni aggiuntive.
Alcune indennità finivano poi nel mirino: ad esempio, quella la “manutenzione uniforme” ovvero per il lavaggio della divisa garantita ai vigili urbani; cui il sindaco contestava anche il turno notturno con inizio alle ore 16 anche d’estate e l’indennità di “effettiva presenza in servizio”, ovvero un premio in denaro per il semplice fatto di andare a lavorare.
Ma nell’elenco ci sono anche il bonus per i colloqui con i genitori o le affissioni degli avvisi in bacheca garantito alle maestre; o quella che premia i tecnici amministrativi per il rientro in ufficio al pomeriggio, obbligo già previsto dal contratto.
Oppure l’indennità “per l’attività di sportello al pubblico” o ancora quella “oraria pomeridiana”. Risultato: i dipendenti scendono ripetutamente in piazza e mettono nel mirino il sindaco.
La guerra dei vigili urbani contro la turnazione e la Panda rossa
In testa alle categorie più agguerrite, c’è quella dei pizzardoni. La scintilla nell’ottobre del 2013 era stata la nomina di Oreste Liporace a comandante della Polizia Municipale.
Colonnello dell’Arma con tre lauree, l’uomo di Marino aveva tre peccati originali: non avere 5 anni di esperienza da dirigente nella P.A. (cosa che ha fatto sfumare la sua nomina) ma anche non essere romano e non appartenere al corpo.
“Macchie” che si porta addosso anche il nuovo comandante, Raffaele Clemente, già capo della sala operativa della Questura.
La nomina di un altro “esterno” il 10 ottobre viene accolta dai 6.000 agenti della Capitale con la minaccia di uno sciopero per il 18 ottobre (giorno del corteo dei Cobas e della partita Roma-Napoli) e settimane di agitazione a macchia di leopardo.
Una tensione continua che dura da mesi e registra un nuovo picco agli inizi del novembre 2014, quando Clemente enuncia il principio della “discontinuità territoriale”: dopo 5 anni nello stesso gruppo per i funzionari e 7 per gli agenti, il personale sarà trasferito in altro municipio.
L’obiettivo: recidere i legami costruiti nel tempo con il territorio possono causare distorsioni. Solo il 21 ottobre, un vigile era stato arrestato mentre intascava 1.500 euro per “ammorbidire” una contravvenzione in un bar di Montesacro. L’annuncio di Clemente era arrivato il 5 novembre: due giorni dopo scoppiava lo scandalo delle multe alla Panda rossa.
Unioni civili durante il Sinodo sulla famiglia, l’ira del Vaticano nacque lì
La fine di tutto ebbe inizio sabato 18 ottobre 2014.
Quel giorno splendeva il sole sul Palazzo Senatorio, mentre nella sala della Protomoteca il sindaco procedeva alla trascrizione delle nozze di 16 coppie omosessuali sposate all’estero.
Fuori, ai piedi della scalinata che porta al Campidoglio, qualche decina di manifestanti targati Ncd e Forza Italia protestavano rumorosamente contro la decisione, contro la quale si scagliavano il prefetto Giuseppe Pecoraro (“Annullerò le trascrizioni”), il ministro dell’Interno Angelino Alfano (“Il sindaco firma autografi”) e l’altra sponda del Tevere:
“Una tale arbitraria presunzione messa in scena proprio a Roma in questi giorni non è accettabile”, tuonava la Cei, adirata perchè proprio in “questi giorni” in Vaticano si celebrava il Sinodo straordinario sulla famiglia.
La “scomunica” inflittagli da Papa Francesco il 28 settembre sul volo di ritorno dagli States (“Io non ho invitato il sindaco Marino, chiaro? Ho chiesto agli organizzatori e neanche loro lo hanno invitato”, ha risposto Bergoglio a un cronista che gli domandava dell’origine del viaggio del marziano a Philadelphia) partiva quindi da molto lontano.
In quel momento, però, è diventato tutto chiaro: la fine di Marino era arrivata.
Marco Pasciuti
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 12th, 2015 Riccardo Fucile
SILVIO OFFRIREBBE A SALVINI IL CANDIDATO A MILANO, SE SI TROVASSE
Berlusconi fiuta aria di rivincita, anzi non vede l’ora, e la prospettiva di rivotare a Roma lo ingolosisce.
«Vincere è un obiettivo alla nostra portata», garantisce ai suoi seguaci di Anzio, sul litorale romano, dove sbarcarono gli americani (di qui uno spericolato parallelo storico con l’Italia di oggi che invece andrebbe «liberata» da Renzi).
«Abbiamo la possibilità di tornare a guidare la Capitale», si sbilancia Silvio, e questa sua fiducia non è tanto per tirar su il morale alle truppe: deriva da qualcosa di più concreto, da una lunga telefonata giovedì scorso con Alfio Marchini, al quale il Cav ha offerto un appoggio senza sentirselo rifiutare.
«Arfio» è pronto a correre col centrodestra per la poltrona di sindaco e smentisce che Renzi o chi per lui l’abbia chiamato per fargli cambiare idea («Tutte voci false»).
In altri tempi, la discussione su Roma si sarebbe chiusa lì, con quella telefonata.
E sarebbe seguito immediatamente l’annuncio che «il candidato del centrodestra sarà Marchini».
Ma ormai non è più come una volta, quando Berlusconi decideva per tutti senza nemmeno consultarsi.
Adesso l’uomo deve fare i conti con Salvini, al quale la scelta non piace perchè da vero padano lui disprezza Alfio e tutti i «palazzinari», gli piacerebbe qualcuno che mettesse in riga i romani e i loro costumi da basso impero, per cui finora non ha dato il via libera della Lega.
L’ex premier deve pure vedersela con la Meloni, che vuole essere tenuta da conto, e perfino con i capricci imprevedibili del suo «cerchio magico» femminile dove Marchini, a quanto risulta, conta pochissime ammiratrici come politico e come uomo. Per cui l’orientamento di Berlusconi rimane quello, la parola data per ora non cambia; però si tratta di convincere tutti coloro che remano contro perchè, se nel centrodestra anche uno solo dovesse sfilarsi, addio speranze di «liberare» Roma dalle sinistre. Sintetizza l’«azzurro» Tajani, berlusconiano, insieme con Gasparri tra i più convinti sostenitori della candidatura Marchini: «Dobbiamo iniziare un percorso che ci porti a un accordo complessivo».
Dove la chiave sta proprio in quel «complessivo». Che nel linguaggio di ogni giorno significa: su Roma decidiamo noi di Forza Italia, mentre magari a Milano l’ultima parola spetterà alla Lega.
Il guaio è che Salvini, a Milano, non sa chi piazzare.
Lui rifiuta di gettarsi personalmente nella mischia ma Del Debbio, che avrebbe visto bene come candidato, preferisce restare in tivù a fare il conduttore.
L’ultima idea è quella di lanciare in pista «un milanese normale, non conosciuto dai media ma con le idee chiare e tanto amore per Milano».
Non occorre, precisa Salvini, che si tratti di un «super-eroe».
Ugo Magri
(da “La Stampa”)
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Ottobre 12th, 2015 Riccardo Fucile
IL PREMIER REPLICA ALLE ACCUSE MA FA PIU’ AUTOGOL CHE ASSIST, SBAGLIA DATE E NON FORNISCE LE PROVE… LA CORTE DEI CONTI: “GRAVI ANOMALIE”
Ieri mattina Matteo Renzi, dopo aver letto l’intervista in cui uno dei suoi ristoratori fiorentini
preferiti, Lino Amantini, racconta al Fatto di suoi pranzi e cene a spese della Provincia e del Comune di Firenze, si è messo in contatto con il nostro giornale.
Via sms: “Io —ci ha scritto – ho messo online tutte le spese, per primo in Italia. E tutte le volte che ho mangiato con mia moglie e la mia famiglia ho pagato di mio, come è ovvio. Sia da Lino che da altri. Peraltro tutte le mie spese dal 2004 al 2013 sono state al vaglio nome per nome, pranzo per pranzo, di Pm e Corte dei conti. Non è possibile che Lino dica che il Comune pagava le mie cene con mia moglie (che poi saranno stati tre o quattro pranzi quando lei insegnava in città ). Perchè lui voleva offrirmeli e io proprio per questo insistevo per pagarli. Io certe cose non le faccio. E comunque ci sono le ricevute del Comune e le mie personali. Mai fatto tavolate con moglie e amici. Quando ero con mia moglie, ero con lei – prosegue il premier – Tra l’altro, il pranzo che viene citato era nel 2006, quando non ero ancora neanche in Comune. A questo punto faccio fare una nota ufficiale, lo dico a Filippo Sensi”.
Non sappiamo se l’ha poi detto al suo portavoce Filippo Sensi. Ma la “nota ufficiale” non è mai arrivata.
Quindi registriamo quanto ci ha informalmente dichiarato il premier.
E —siccome non è ancora stata approvata la “riforma ” che vieta ai giornali di rispondere alle lettere di rettifica — facciamo notare che Renzi ha scarsa memoria.
1) Il pranzo di cui abbiamo chiesto a Lino Amantini non risale al 2006, ma al 5 giugno 2007. Il conto era di 1.050 euro, come risulta dai documenti della Corte dei Conti che ha messo in fila gli scontrini per le “spese di rappresentanza” dell’allora presidente della Provincia.
2) Per i soli pasti, in cinque anni, l’attuale premier fece spendere alla Provincia quasi 600 mila euro. Sarà sicuramente vero che a nessun pasto prese parte anche sua moglie. Abbiamo però riportato quanto dice il suo amico ristoratore Lino, che ricorda tavolate con amici e parenti, con relative fatture inviate al Comune.
3) Ignazio Marino ha dettagliato i nomi dei suoi commensali, e sette volte è stato smentito, ragion per cui Renzi ne ha preteso le dimissioni.
Può Renzi essere così cortese da fare altrettanto?
E anche quelli dei suoi viaggi all’estero?
Per esempio: con chi andò a Washington nel 2008?
Con chi era a Boston, quando gli bloccarono la carta di credito della Provincia per raggiunto limite di spesa?
4) È vero che all’epoca Renzi era ancora in Provincia. Ma non è vero che le spese di rappresentanza della Provincia e del Comune le abbia messe online per primo in Italia, come ci ha scritto.
Quelle note sono state raccolte dalla Corte dei Conti e dalla Procura di Firenze su indicazione del Tesoro, che vi aveva riscontrato “gravi anomalie”, relativamente al priodo della provincia.
Quindi le spese passate al setaccio — per il momento e a quanto è dato sapere —si riferiscono al 2005-09.
Utile riportare i rilievi della Corte dei Conti, che nel 2010 scrisse: “L’organo di revisione riscontra anomalie connesse con l’utilizzo delle carte di credito per le spese di rappresentanza… e una carenza di motivazione sui fini istituzionali soprattutto in relazione alle spese di rappresentanza che sono generiche e non in grado di dimostrare l’utilità per l’ente”.
Ma la Provincia, annotavano i giudici contabili, “precisa che dal 2009, a seguito del rinnovo degli organi di governo, l’uso delle carte di credito è cessato ”.
Renzi nel frattempo era passato a Palazzo Vecchio.
5)Il dettaglio delle spese di rappresentanza sostenute negli anni di Renzi sindaco non è possibile conoscerlo.
Non solo online non si trova, salvo alcune voci generiche e prive di dettagli sulle spese. Ma alcuni consiglieri comunali di opposizione hanno più volte chiesto al Comune di Firenze il rendiconto voce per voce, e si sono visti negare l’accesso agli atti.
Le domande sono state presentate nel 2013 e nel 2014, quando Renzi era sindaco; e anche nel 2015, sotto la sindacatura di Dario Nardella.
Mercoledì scorso sono tornati alla carica con una nuova richiesta di accesso agli atti, e attendono una risposta.
Che sia questa la volta buona? Renzi può pregare l’amico Nardella di aprire l’archivio di tutti i suoi scontrini e pubblicarlo finalmente sul sito del Comune?
Davide Vecchi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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