Agosto 22nd, 2016 Riccardo Fucile
BLITZ E MANIFESTAZIONI CONTRO IL COLOSSO CASEARIO
Dopo l’inverno sulle barricate degli allevatori italiani, l’estate bollente nelle strade di Francia. Se un anno fa i produttori di latte protestavano contro lo Stato, l’Unione europea e i grandi gruppi caseari, senza fare differenza tra di loro, oggi il settore è di nuovo in subbuglio.
Ma l’obiettivo dei raid contro stabilimenti o supermercati, stavolta, è solo uno. E si chiama Lactalis, il numero uno mondiale nel settore, che nel nostro Paese controlla Parmalat, Galbani e Invernizzi.
L’appuntamento è per questa sera, davanti alla sede del colosso, a Laval.
In un contesto di prezzi bassi per il latte in generale, i produttori ce l’hanno in particolare con Lactalis, fondata nel 1933 dalla famiglia Besnier che, dicono, paga ancora meno (molto meno) degli altri.
In un certo senso si sta rompendo un tabù, perchè nessuno aveva osato mai sfidare il gruppo, all’origine del 20% degli acquisti di latte in Francia e del 10% in Italia.
Il velo sui conti
La multinazionale è efficiente e ramificata, ma considerata troppo misteriosa: non è quotata e neppure pubblica i suoi conti.
La proprietà è salda nelle mani di una dinastia, che ancora vive a Laval, la città di origine, nella Mayenne.
«Il signor Besnier, tredicesimo nella classifica dei francesi più ricchi, è invisibile – attacca Franck Guyot, presidente della Fnpl (la Federazione dei produttori di latte) nella Loire-Atlantique, uno dei dipartimenti più importanti per quest’attività -. Ebbene, deve mostrarsi, accettare una buona volta di dialogare con gli allevatori. E pubblicare i suoi conti». In Italia, dopo le grandi manifestazioni, ci sono state prove di accordo.
Ma è durato poco, attacca la Coldiretti. «Siamo coscienti delle difficoltà attuali degli allevatori — ha sottolineato nei giorni scorsi Michel Nalet, portavoce di Lactalis, al quotidiano Le Figaro -. Ma il nostro modello economico ci obbliga a pagare questi prezzi». Il gruppo ha puntato il dito anche contro «il discorso irresponsabile del sindacalismo agricolo francese».
Il nodo dei prezzi
Se si prendono le tariffe applicate dal gruppo nella Bassa-Normandia, altro dipartimento dalla forte produzione lattiera, si tratta di 25,596 centesimi di euro al litro, che è molto meno dei 30,305 pagati da un piccolo gruppo come Maà®tres Laitiers du Cotentin, una cooperativa.
Ma è al di sotto anche dei 27,183 di una multinazionale come Danone.
Da questa parte delle Alpi, il tono è sostanzialmente lo stesso. La compagnia si era accordata per pagare il latte tricolore 4 centesimi in più rispetto alla media europea.
È durato poco, e a ora si viaggia sotto i 30 centesimi, sotto la «soglia di sopravvivenza».
«Lactalis? È il peggior pagatore del Paese» dice Giorgio Apostoli, responsabile di settore della Coldiretti che, oltretutto, lamenta «costi di produzione troppo alti a causa di energia, costo del lavoro e complicazioni burocratiche».
La tregua è fragile, agosto è un mese complicato – meno latte, dunque i prezzi dovrebbero salire – e presto potrebbero ripartire le manifestazioni.
I blitz
Alle accuse sui pagamenti, l’azienda replica che è quanto può sborsare in funzione dei margini che realizza. Ma gli allevatori rispondono che quei margini non si sa a quanto ammontino.
Prima della manifestazione di lunedì (un’occupazione che, nelle intenzioni degli allevatori, «durerà nel tempo») vari blitz si sono succeduti dinanzi agli stabilimenti di Lactalis in tutta la Francia.
Nei campi, soprattutto nella Mayenne, appaiono sempre più numerosi ampi cartelli con queste parole: “Lactalis ladri”.
E i produttori di latte entrano nei supermercati, dove, sui prodotti del gruppo, dal camembert alle bottiglie di latte, appiccicano autoadesivi con scritte del tipo: «Questo prodotto crea disoccupazione».
La mediazione sembra sempre più lontana.
Leonardo Martinelli
(da “La Stampa”)
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Agosto 22nd, 2016 Riccardo Fucile
BENE I TIRI E LE SQUADRE, DISASTRO ATLETICA E PUGILATO
Restiamo nel G10 dello sport. Il verdetto di sedici giorni olimpici ci regala ancora un posto nell’èlite mondiale grazie agli 8 ori conquistati (gli stessi di Londra e Pechino): le medaglie sono 28, un bottino totale uguale a quello di Londra, una in più di otto anni fa.
I Giochi di Rio confermano dunque la nostra dimensione, noni nel medagliere. Che tradotto nei premi pagati dal Coni fa 5 milioni e 400 mila euro lordi.
Le premesse alla seconda settimana, storicamente in salita per l’Italia, questa volta ci avevano ingolosito, invece, dopo l’ultimo oro arrivato a Ferragosto con Viviani, più nulla («l’ultima giornata è stata un po’ la fotografia della nostra Olimpiade, ma io sono soddisfatto, abbiamo fatto una bella figura” chiosa il presidente del Coni, Giovanni Malagò), anche se c’è la soddisfazione di aver portato tre squadre su quattro a podio e due di queste (volley maschile e Setterosa) fino all’argento.
E proprio il rendimento delle squadre rimarrà uno dei vanti di questa spedizione (la migliore dopo Atene 2004, dove però partecipavano otto squadre. Formidabile quell’anno).
Russia e Cina hanno perso in tutto 50 medaglie, noi siamo rimasti lì, attaccati alla nostra cifra. Gli sport dell’acqua e i tiri sono stati la nostra miniera, un soffio indietro che la scherma, deludente in un paio di punte. Patrinieri e Campriani i fenomeni indiscutibili.
E questa è la cornice. Poi c’è da avvicinarsi e scoprire le tinte che, insieme, danno il quadro. Siamo andati a medaglia in undici discipline, quattro in meno di Londra, due in meno di Pechino. Dal paniere olimpico sono usciti arco e canoa, ma sono entrati beach volley e lotta.
Rispetto al 2012 non abbiamo avuto ricambi per ginnastica, boxe, atletica e taekwondo.
Il taekwondo a Rio non aveva convocati, il buco nero è lo zero alle voci pugilato, ginnastica e atletica.
Soprattutto dal ring non sono venute le risposte che aspettavamo, è il peggior risultato da Atlanta 1996 e non aver assicurato un ricambio alla generazione d’oro (Russo, qui peraltro il migliore), Cammarelle e Valentino ci presenta il conto.
Sette pugili e neanche un podio, forse la più grande delusione di questa spedizione.
L’Italia della ginnastica è difficile da criticare, il quarto posto di Vanessa Ferrari è figlio di un suo errore, quello delle Farfalle sta più negli umori dei giudici che con noi, guarda un po’, sono sempre nerissimi.
Ci è mancato Tamberi
E poi c’è il vuoto assordante dell’atletica. Era dal 1956 che non arrivava uno zero. Cinque finalisti su 47 discipline sono una miseria se paragonati ai 38 convocati.
Oddio, a Londra ci salvò il bronzo di Donato, 37 anni, qui l’assenza di Tamberi ci ha tolto pure l’unica chance di salire sul podio.
I conti non tornano: siamo alle solite, i Giochi non sono una gita premio e se nessuno dei presenti ha migliorato il proprio personale (tolti le staffettiste della 4×400 e Giupponi nella marcia) significa che molto è da rifare, se non tutto.
La danese Petersen ha vinto l’argento nei 400 ostacoli femminili e la Danimarca ha tanti pregi, ma quanto a tradizione è messa peggio di noi. Con la tradizione ormai, però, non vai da nessuna parte, mica basta il Colosseo per stare al passo con il mondo.
Il presidente federale Giomi parla finalmente di cambio generazionale dal prossimo giro, il miglior risultato è della marciatrice Palmisano (quarta) e lei, in effetti, è una di quelle che ha il futuro in mano.
Il mondo dell’atletica non finisce mai di allargarsi, emergere è un’impresa.
Affondare però, per un Paese come l’Italia, anche.
Paolo Brusorio
(da “La Stampa”)
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Agosto 22nd, 2016 Riccardo Fucile
LA MEDAGLIA D’ARGENTO A RIO HA FATTO IL GESTO DELLE MANETTE PER DENUNCIARE LA POLITICA DEL SUO GOVERNO
La maratona è da sempre la gara principe delle Olimpiadi, la più ambita e la più seguita dal pubblico di tutto il mondo.
Quale migliore occasione, allora, per mostrare al mondo le proprie opinioni, le proprie rivendicazioni, i propri ideali?
Un ragionamento molto simile deve aver fatto Feyisa Lilesa, l’atleta etiope che ha scelto la 42 chilometri di Rio 2016 per supportare una causa politica inerente al suo Paese. Ma la sua rimostranza potrebbe costargli la galera.
Arrivato secondo al rush finale della gara, Lilesa ha aspettato proprio l’arrivo al traguardo per alzare le braccia e incrociarle nel classico gesto delle manette, così come ha poi replicato durante la cerimonia di premiazione.
Un segno apparentemente innocuo ma che ha un significato politico profondo.
Si trattava infatti di una decisa protesta verso gli usi del governo dell’Etiopia, che sta uccidendo molti membri della minoranza etnica degli Oromo.
Gli stessi Oromo, che nei mesi passati si sono resi protagonisti di numerose manifestazioni di protesta, hanno eletto come lo simbolo il gesto delle manette, utilizzato dal maratoneta d’argento in mondovisione.
Del resto, è stato lo stesso Lilesa a sciogliere la riserva sul segno delle mani incrociate: “Il governo etiope sta uccidendo la mia gente, per cui ho incrociato le mani a X”
“I miei parenti sono in prigione e se si mettono a parlare di diritti democratici verranno ammazzati” ha continuato poi l’atleta.
Che ha aggiunto: “Se torno in patria, rischio la vita. E se non vengo ucciso, potrei finire in prigione. Non ho ancora deciso cosa fare, ma forse andrò direttamente in un altro Paese”.
L’opportunità di scappare dall’Etiopia era stata presa in considerazione da Lilesa già in passato.
Ora, però, sembra un passo inevitabile.
(da “La Repubblica”)
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