Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
TRA IL 25 E IL 31 MAGGIO QUASI 260.000 UCRAINI HANNO LASCIATO L’UE PER RIENTRARE A CASA – IN TOTALE, 2,3 MILIONI DI UCRAINI SONO TORNATI NEL LORO PAESE DALL’INIZIO DELLA GUERRA
Quando il 24 febbraio Vladimir Putin diede l’ordine ai suoi generali di attaccare l’Ucraina, la piccola Kira era appena nata. Figlia di una giornalista ventisettenne di Odessa, una città che in fondo non è neppure tra le più sfigurate di questa feroce guerra, morì insieme alla madre durante un attacco missilistico che colpì, il 23 aprile, il palazzo in cui abitava.
Kira aveva appena tre mesi e la sua è solo una delle tante tragedie che ci consegnano questi primi cento giorni di guerra. La sua foto, con la madre che le dà il latte, è struggente, ma purtroppo non è l’unica: ci sono le immagini del teatro di Mariupol, usato come rifugio, dove sotto le macerie sono rimaste almeno 600 persone; le donne incinte in fuga dall’ospedale della stessa città bombardata; le foto sconvolgenti dei cadaveri per strada a Bucha, alle porte di Kiev: civili uccisi dall’esercito russo come confermato anche dalle immagini satellitari.
Certo, anche i numeri parlano: 4.000 sono i morti ufficiali tra i civili, ma quelli reali sono molti di più, visto che nella sola Mariupol si ipotizzano almeno 22.000 vittime.
Secondo quanto dice Zelensky, 100 soldati ucraini muoiono ogni giorno nel Donbass e circa il 20 per cento del territorio è stato preso dai soldati di Mosca (o delle due repubbliche autoproclamate fedeli al Cremlino). E Stoltenberg, segretario Nato, avverte: «La guerra durerà ancora a lungo».
Restano città sventrate dopo cento giorni di guerra: a Mariupol è danneggiato il 90 per cento degli edifici, nella non lontana Severodonetsk il 60 (in questo centro del Donbass 800 persone si sono rifugiate nei bunker antiaerei dei sotterranei della fabbrica chimica Azot). Sfigurate le vite di chi ci abitava e che, nella migliore delle ipotesi, è riuscito a fuggire. Si calcola siano stati 5,3 milioni gli ucraini che hanno raggiunto Paesi dell’Unione europea.
Oggi sta succedendo qualcosa di straordinario: sono più gli ucraini che tornano in Patria di quelli che scappano. Lo dice l’ultimo bollettino di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere: tra il 25 e il 31 maggio quasi 260.000 ucraini hanno lasciato l’Ue per rientrare a casa. «In totale, 2,3 milioni di ucraini sono tornati nel loro Paese dall’inizio della guerra». Nel bilancio di questi cento giorni vanno anche considerate le perdite dei russi, a partire dai 31mila soldati morti (dati dello Stato maggiore ucraino). Era il 24 febbraio quando le truppe russe entrarono in Ucraina.
Per mesi il Cremlino aveva smentito ciò che la Casa Bianca aveva ampiamente preannunciato, ma la realtà, purtroppo, diede ragione a Biden. Da quella notte inizia anche una danza linguistica dei russi che non parlano di guerra, invasione e aggressione, ma di «operazione militare speciale» e «smilitarizzazione e denazificazione». Il 24 febbraio il Cremlino e l’opinione pubblica russa pensano che l’Ucraina si arrenderà rapidamente. Vengono diffuse fake news (le prime tra le tante): Zelensky è in fuga a Leopoli.
Non è vero. Mosca vuole insediare un governo collaborazionista. I feroci mercenari della Wagner puntano su Kiev per uccidere il presidente ucraino. L’esercito si avvicina con una lunga colonna alla Capitale. Più a Sud cade Kherson, le truppe sbarcano a Mariupol. Ma gli ucraini si difendono, Zelensky vieta agli uomini che hanno meno di 60 anni di lasciare il Paese.
La difesa regge, anche con l’aiuto delle armi e delle informazioni dell’intelligence americana. Comincia a costruirsi l’epopea e la propaganda ucraina: Zelensky che registra video dai bunker, ma anche dalle strade di Kiev, nonostante i bombardamenti; i soldati ucraini, che difendono la base della Snake Island, sul Mar Nero, rispondono ai russi che intimano la resa con un «andate a quel paese» (la frase è più colorita e finirà su un francobollo).
Si trascina la fase dell’impantanamento. Putin, insoddisfatto, inizia a rimuovere i generali. Il 29 marzo la lunga colonna militare russa alle porte di Kiev torna indietro, il Cremlino cambia strategia e concentra le forze a Est. Il 4 aprile, sul Mar Nero, i missili ucraini affondano la Moskva, l’ammiraglia della flotta di Putin: i russi sembrano in affanno eppure nei giorni successivi infliggono perdite dolorose nel Donbass agli ucraini.
Il 17 maggio c’è la resa degli ultimi soldati ucraini, in gran parte del battaglione Azov, che si erano asserragliati nelle acciaierie di Mariupol. Più a Nord, a Severodonetsk, l’esercito russo prende buona parte della città e prova a isolare una parte delle forze nemiche. Stallo. Dai porti bloccati non parte più il grano, c’è il rischio di un’emergenza alimentare planetaria. La strada dei negoziati appare ancora irta di ostacoli. Sarà una lunga guerra, annuncia la Nato. Ci stiamo abituando e stiamo dimenticando chi, ogni giorno da cento giorni, muore in Ucraina.
(da il Messaggero)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
DIETRO I COMPORTAMENTI DEL DITTATORE VESTITO DA PREMIER SI NASCONDE UNA GRANDE FRAGILITA’: ORBÁN HA UN DISPERATO BISOGNO DEI FONDI DEL RECOVERY CHE LA COMMISSIONE GLI HA NEGATO FINCHÈ NON FARÀ LE RIFORME DEMOCRATICHE RICHIESTE
Mai fidarsi di Viktor Orbán. Il premier ungherese ha offerto in queste ore
l’ennesima prova della sua totale inattendibilità: ha prima dato il via libero all’embargo europeo sulle importazioni di petrolio russo, al prezzo di vantaggiose eccezioni per il suo Paese che potrà continuare ad acquistarlo.
Poi ha disfatto la tela faticosamente tessuta il giorno prima insieme ai partner dell’Ue e posto un nuovo veto sull’intesa ancora fresca d’inchiostro. Infine, ha preteso e ottenuto che il nome del patriarca russo Kirill fosse tolto dalla lista delle sanzioni, chiara captatio benevolentiae all’indirizzo di Vladimir Putin.
Ben oltre il tema specifico, la nuova impennata di Viktor Orbán pone in termini ancora più urgenti il problema di un leader politico e di un Paese sempre più imprevedibili e incompatibili con lo spirito e la lettera del patto comunitario.
Al potere dal 2010, Orbán ha trasformato l’Ungheria in una democrazia illiberale, dove il suo partito, il Fidesz, occupa di fatto lo Stato, libero da vincoli e controlli. Gli uomini di Orbán non controllano solo i ministeri e la burocrazia, ma i tribunali, i teatri, le università, gli ospedali, i giornali.
Mentre una rete di imprenditori amici fa la parte del leone negli appalti pubblici, fin qui generosamente finanziati dai fondi europei. Ufficialmente non c’è censura in Ungheria, ma poiché non esiste più alcun giornale che non sia di proprietà degli amici del premier, chi critica il Fidesz e la verità ufficiale, semplicemente perde il posto di lavoro.
Poco da stupirsi, visto che dei suoi avversari non si è vista traccia o quasi in televisione o sui giornali. Sicuramente libera, non è stata una elezione equa, come hanno notato gli osservatori internazionali indipendenti che l’hanno seguita da vicino.
Eppure, ad appena due mesi dal voto, Orbán si è fatto prolungare i poteri speciali, che detiene dallo scoppio della pandemia. «La guerra», ha motivato su Facebook, senza nemmeno premurarsi di annunciarlo al Parlamento.
I deputati, ormai del tutto ai suoi piedi, glieli hanno concessi senza fiatare. Il tribuno magiaro continuerà dunque a governare per decreto, come ormai fa da quasi tre anni: è un uomo solo al comando.
La misura, di cui non aveva bisogno vista la maggioranza di cui dispone, tradisce nervosismo e insicurezza. Orbán è in difficoltà e lancia un messaggio: l’Ungheria sono io. La Commissione europea continua infatti a trattenere i fondi del Next Generation EU destinati all’Ungheria, dove il premier e il suo governo fanno scempio dello Stato di diritto.
Ma di quel denaro Orbán ha urgente bisogno: ha fatto troppi regali elettorali a debito durante la campagna (ecco un’altra ragione della vittoria) e ora le casse pubbliche sono vuote. Ma l’uomo nero di Budapest non mostra alcuna intenzione di fare le riforme, a cominciare dalla giustizia, che gli chiede Bruxelles. Al contrario.
Di recente, come ha raccontato il giornale HVG, il ministro della Difesa si è comprato, con un credito statale, un’importante quota di un’azienda che fabbrica aerei ed è tra i fornitori del ministero. Insomma, è diventato «committente di se stesso». È come se il ministro della Difesa italiano diventasse azionista di Leonardo.
L’altro problema di Orbán è il suo crescente isolamento. La guerra in Ucraina ha fatto saltare l’entente cordiale con la Polonia, capofila dello schieramento anti-Putin. Orbán, infatti, non solo evita di criticare il Cremlino e cerca di mantenere buoni rapporti con la Russia, da cui acquista il 60% del suo petrolio e l’85% del suo gas, ma durante la campagna elettorale ha anche definito Zelensky uno dei suoi grandi nemici.
Il suo atteggiamento di freno sulle sanzioni gli ha alienato molte simpatie nel Centro e nell’Est Europa: «Se continua così – dice un diplomatico europeo – finirà che anche la Polonia approverà la procedura dell’articolo 7», riferendosi all’azione disciplinare dell’Ue contro l’Ungheria per violazione dei diritti fondamentali, finora bloccata dal rifiuto di Varsavia. Fino a quando a Orbán sarà permesso di abusare della pazienza della Ue?
(da il Corriere della Sera)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
MA ATTENZIONE A LETTA E MELONI: POTREBBERO, CIASCUNO PER LA SUA PARTE, “CREARE” UNA STAMPELLA CENTRISTA PER NON RESTARE SCHIACCIATI UNO DAI GRILLINI L’ALTRA DA SALVINI-BERLUSCONI
Ad ogni finale di legislatura c’è sempre chi tenta di sfatare la maledizione del centro e mira a rompere quel tetto di cristallo che da quasi trent’ anni lo tiene imprigionato nel bipolarismo. Ci provano anche stavolta e sono in tanti. Vivono in un arcipelago di piccole formazioni politiche poste al confine dei due schieramenti.
Rappresentano una forza di interposizione eterogenea che ha numeri rilevanti nel Palazzo ma non nel Paese, a leggere i sondaggi. In potenza lo spazio per realizzare il disegno ci sarebbe, vista la condizione in cui versano i due blocchi. Solo che – per dirla con il governatore ligure Toti – c’è da dare prima risposta a una domanda: «Il centro riuscirà a unirsi e a creare una massa critica autonoma, o al dunque i partitini sceglieranno di aggregarsi alle coalizioni, sapendo a quel punto di essere sostanzialmente residuali?».
C’è tempo per sciogliere il quesito, visto che (quasi) tutti sono convinti che si voterà a maggio del 2023. Ma questa è la scommessa. E per ora la situazione appare bloccata, non tanto perché sarà necessario analizzare il voto delle Amministrative, ma perché bisognerà capire quali effetti produrrà nei prossimi mesi la crisi internazionale sulla politica nazionale: con le loro sconcertanti iniziative sul conflitto in Ucraina, Salvini e Conte stanno mettendo a rischio la tenuta dei due schieramenti.
Ce n’è la prova già nel centrodestra, dove si notano i primi smottamenti. Sul territorio e persino nel governo, con lo strappo del ministro forzista Gelmini che ha accusato il suo partito di «ambiguità» nel posizionamento sulla guerra e ha preso a dialogare con Calenda: «Sto riflettendo», ha detto a chi l’ha consultata.
Tuttavia il leader di Azione, che si è federato con +Europa, non appare oggi intenzionato ad allearsi con altri: teme che un simile rassemblement venga visto dagli elettori come un’unione di reduci e punta in solitudine a diventare la terza forza, determinante per il governo nella prossima legislatura. Renzi riconosce che «per ora sono in corso discussioni tra sordi e incontri tra ciechi. A settembre si capirà meglio e si vedra anche cosa farà il Pd con i grillini». Intanto insiste perché si crei un contenitore europeista di stampo macroniano, «unito sulla politica estera e sulla politica economica, plurale sui temi etici e disposto ad affidare a un papa straniero la rappresentanza di tutti».
È un’idea simile a quella di Toti e Quagliariello, secondo cui «se il centro deve nascere attorno a una persona, non nasce». E a forza di trovarsi d’accordo, stanno immaginando di organizzare insieme una convention a luglio, con tanto di documento che serva da contributo al progetto centrista unificato. Sia chiaro, nessuno degli attori è interessato a un cambio della legge elettorale né si fa illusioni sulla fine delle coalizioni: «Il centrodestra – ha detto Renzi a un incontro – andrà unito al voto. E da Forza Italia si staccherà solo chi avrà la certezza di non venire rieletto.
Se il centro nascerà, sarà perché avrà saputo sfruttare gli errori altrui». In questo senso Salvini e Conte sono considerati «formidabili alleati». Questa mossa però è una subordinata rispetto al disegno iniziale. Con l’avvento di Draghi a Palazzo Chigi, infatti, i centristi videro nel premier una sorta di moltiplica politica, punto di riferimento di un soggetto che avrebbe scardinato i poli e seppellito la parentesi populista.
Lo scenario non si è realizzato, anche se il «partito di Draghi senza Draghi» resta un fattore per far presa su un Paese che reclama competenza, dopo anni trascorsi tra pulsioni russe, tentazioni cinesi e infatuazioni per i gilet gialli. Se il centro non riuscisse a diventare «una massa critica autonoma» – è opinione diffusa tra chi sta lavorando al progetto – sarebbero Meloni e Letta a tentare di realizzare due centri.
La leader di FdI e il segretario del Pd, impegnati a consolidare un patto costituzionale che non prevede(rebbe) poi un patto di governo, lavorano ognuno per la propria parte a un’area che li sostenga. In quel caso a destra prenderebbe corpo l’idea che Crosetto ha affidato alla Meloni: per non restare schiacciata nella morsa di Salvini e Berlusconi, potrebbe triangolare con i centristi della coalizione, sostenerli nelle trattative per i seggi (visto che il suo partito è l’unico ad aver margini per farlo) e averli dalla sua parte nella sfida interna.
(da il “Corriere della Sera)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
“FINO A 20 PERSONE POSSONO TROVARSI ALL’INTERNO DELL’EDIFICIO, AL SESTO E SETTIMO PIANO” – IL MINISTERO HA FATTO SAPERE DI AVER SALVATO IN TUTTO FINORA 120 PERSONE
Fino a 20 persone sono intrappolate nel complesso di uffici Grand Setun
Plaza, in un quartiere occidentale di Mosca, a causa di un incendio scoppiato oggi: lo ha detto una fonte dei servizi di emergenza all’agenzia Tass.
«Fino a 20 persone possono trovarsi all’interno dell’edificio, al sesto e settimo piano. Una è intrappolato al settimo, le altre potrebbero essere al sesto», ha precisato la fonte.
Da parte sua il ministero delle Emergenze ha reso noto che finora sono state tratte in salvo oltre 120 persone.
Non si conoscono per ora le cause dell’incendio.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
SI TRATTA DEI PREDATOR ARMATI CON MISSILI HELLFIRE
Dopo i lanciarazzi multipli di precisione, gli Usa si preparano a consegnare all’Ucraina i droni modello Predator armati con i missili Hellfire. Se la notizia anticipata dalla Reuters verrà confermata, dimostrerà una chiara escalation nell’impegno militare americano contro l’aggressione russa.
E i motivi sono almeno due: primo, Washington vuole fermare l’offensiva lanciata da Mosca nel Donbass, che sta facendo progressi verso il controllo dell’intera regione; secondo, ritiene possibile una controffensiva di Kiev, per ricacciare indietro le forze del Cremlino nella zona meridionale di Kherson, e nell’intera regione sudorientale.
Il tutto nell’ottica della strategia illustrata dal presidente Biden con l’editoriale sul New York Times, che punta a costringere Putin alla trattativa e a mettere Zelensky nelle migliori condizioni sul terreno per affrontarla.
Fornire quattro batterie di Himars agli ucraini ha lo scopo di metterli in condizione di colpire i russi da una distanza di sicurezza, con una precisione assimilabile a quella dei raid aerei.
Per capire la differenza, i 108 obici Howitzer consegnati hanno una gittata di circa 20 miglia con munizioni da 18 pound di esplosivo, mentre i nuovi lanciarazzi hanno cariche da 200 pound con un raggio doppio.
Possono sparare sei missili in pochi secondi ed essere ricaricati automaticamente, mentre gli equivalenti Smerch russi vanno ricaricati manualmente.
Londra aiuterà questo rafforzamento delle difese di Kiev, aggiungendo ai quattro Himars un numero imprecisato di M270 con caratteristiche simili. Secondo la Reuters, però, il Pentagono sta considerando un ulteriore passo in avanti, vendendo all’Ucraina quattro MQ-1C Gray Eagle, la versione dell’esercito del Predator.
Si tratta di grandi droni capaci di volare per oltre 30 ore, armati con 8 missili Hellfire.
Kiev ha già i Puma americani e i Bayraktar turchi, ma il salto di qualità sarebbe enorme. Perché fra gli Himars e i Gray Eagle, gli ucraini guadagnerebbero la capacità di colpire i russi come farebbero i raid aerei, a lunga distanza e con la precisione offerta dall’alta tecnologia.
Se la Casa Bianca approverà la fornitura, da pagare con i 40 miliardi già stanziati dal Congresso, il Parlamento potrebbe ancora bloccarla, ma appare improbabile.
Il motivo dell’accelerazione non sta solo nella necessità di bloccare l’offensiva nel Donbass, anche perché servirebbero almeno tre settimane per far arrivare le armi e completare l’addestramento. L’obiettivo è facilitare la controffensiva, perché il Pentagono è convinto che le forze russe stiano facendo il loro sforzo massimo, e dopo diventeranno vulnerabili, come dimostrano le notizie del Wall Street Journal sulle diserzioni di massa. Le nuove armi potrebbero così diventare l’elemento che spezza la tenuta di Mosca.
(da la Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
LA RUSSIA HA AVANZATO ALLA CINA RICHIESTE SEMPRE PIÙ PRESSANTI DI NUOVI AIUTI ECONOMICI E FINANZIARI. MA LA RISPOSTA E’ STATA: ATTACCATEVI ALLA BALALAIKA
Nelle ultime settimane, durante i colloqui con Pechino, i funzionari russi
hanno avanzato richieste sempre più frustrate per un maggiore sostegno, chiedendo alla Cina di essere all’altezza della sua affermazione di una partnership “senza limiti” fatta settimane prima dell’inizio della guerra in Ucraina.
Ma la leadership cinese vuole espandere l’assistenza alla Russia senza incorrere nelle sanzioni occidentali e, secondo i funzionari cinesi e statunitensi, ha posto dei limiti a ciò che farà. E’ quanto sostiene il Washington Post in un articolo in cui cita sotto anonimato funzionari cinesi e statunitensi.
In almeno due occasioni, secondo il quotidiano Usa, Mosca ha fatto pressione su Pechino affinché offrisse nuove forme di sostegno economico – scambi che un funzionario cinese ha descritto come “tesi”.
Secondo le fonti, le richieste includevano il mantenimento di “impegni commerciali” precedenti all’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio e il sostegno finanziario e tecnologico ora sanzionato dagli Stati Uniti e da altri Paesi.
“La Cina ha chiarito la sua posizione sulla situazione in Ucraina e sulle sanzioni illegali contro la Russia”, ha dichiarato una persona a Pechino a conoscenza diretta delle discussioni. “Comprendiamo la situazione di Mosca. Ma non possiamo ignorare la nostra situazione in questo dialogo. La Cina agirà sempre nell’interesse del popolo cinese”, sarebbe la tesi di Pechino.
Il presidente Xi Jinping ha incaricato i suoi più stretti consiglieri di trovare il modo di aiutare la Russia finanziariamente, ma senza violare le sanzioni. “È stato difficile”, ha dichiarato un alto funzionario statunitense. “Ed è insufficiente dal punto di vista russo”.
“Quello che la Cina sta cercando di fare è stare con la Russia, segnalare pubblicamente la neutralità e non essere compromessa finanziariamente”, ha detto il funzionario statunitense. “Molti di questi obiettivi sono contraddittori. È difficile realizzarli allo stesso tempo”.
(da Il Messaggero)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
ENTRA IN VIGORE LA COSTITUZIONE APOSTOLICA “PRAEDICATE EVANGELIUM”: LE PAROLE D’ORDINE SONO INCLUSIONE, ATTENZIONE AI POVERI E DECENTRALIZZAZIONE, PIU’ SPAZIO ALLE DONNE E AI LAICI NEI DICASTERI
Domenica prossima, giorno di Pentecoste, in Vaticano entrerà in vigore una nuova costituzione. Si tratta della spallata finale di Papa Francesco al vecchio modello della curia romano-centrica che si è sviluppata ed è andata avanti negli ultimi cinquant’ anni fino ad oggi.
Già dal titolo – Praedicate Evangelium – si capisce che l’indirizzo operativo individuato da Bergoglio per il futuro della sua macchina di governo si dovrà sviluppare più all’esterno che non all’interno, più sul fronte pastorale che non su quello dogmatico, privilegiando la via della decentralizzazione, della inclusione, della razionalizzazione con un occhio ai poveri. Insomma, l’attesa rivoluzione di Bergoglio che ha preso forma.
Il testo promulgato il giorno di San Giuseppe 19 marzo è stato sottoposto a quasi otto anni di revisioni e riscritture ed è considerato una pietra miliare del suo pontificato, anche perché quando venne eletto, nel marzo 2013, ricevette in conclave il mandato esplicito di riformare la burocrazia d’Oltretevere afflitta da scandali e, a detta di molti elettori, troppo bizantina e troppo italiana. Nel preambolo si sintetizza in poche battute l’obiettivo: «Armonizzare meglio il servizio della curia col cammino di evangelizzazione che la Chiesa, soprattutto in questa stagione, sta vivendo».
È chiaro che non si tratta solo di una riforma burocratica o amministrativa ma una mossa strategica più ampia pensata per accelerare il passaggio della Chiesa alla missionarietà, all’andare alle periferie culturali e non solo geografiche. Il cardinale indiano Oswald Gracias, uno dei membri del consiglio che ha affiancato Bergoglio in questi anni, ha spiegato che ora si stratta di far cambiare la mentalità a chi vi lavora dentro, perché il processo di innovazione della burocrazia richiede un «atteggiamento di servizio» da parte di tutti.
«Sin dall’inizio del pontificato è stato chiaro agli elettori che la riforma della curia non poteva essere un tassello a parte, ma avrebbe dovuto riflettere quello che era stato deciso nelle riunioni pre conclave dei cardinali». Non più, quindi, una realtà che di fatto spesso faceva da filtro tra il Papa e i vescovi del mondo, ma uno strumento aperto alle Chiese locali. La prospettiva di un tempo viene ribaltata.
I dicasteri a livello apicale dovranno aprirsi maggiormente ai laici e anche alle donne, viene creato un centro per le risorse umane, un po’ come accade nelle multinazionali, le risorse economiche saranno solo gestite dall’Economia, vengono razionalizzati e accorpati i ministeri (ce ne saranno 16). Le parole d’ordine sono sinergia, decentramento, servizio ai poveri, ascolto. Nasce poi un super dicastero per la Carità anche se la novità maggiore è che la Congregazione della Dottrina della Fede per secoli il ministero numero uno scende di un gradino nella scala del potere per fare salire la Congregazione della Evangelizzazione dei Popoli, il nuovo cuore pulsante della curia che accorpa anche il pontificio consiglio della Nuova Evangelizzazione. Le redini di questa struttura saranno nelle mani del Papa e non dei due pro-prefetti (il cardinale filippino Tagle e Rino Fisichella).
La Segreteria di Stato viene spogliata di diverse prerogative incaricata però di fare da cinghia di trasmissione tra tutti. Infine, il turn over dei preti che lavorano nelle amministrazioni: il loro mandato sarà quinquennale, poi dovranno tornare in diocesi. Infine sul tema degli abusi è stato deciso che la Commissione per la prevenzione dovrà lavorare ed essere consultata in pianta stabile alla Congregazione della Dottrina della Fede.
Per la fine di agosto Papa Francesco ha convocato a Roma i cardinali per affrontare il passaggio storico della nuova curia. In passato gli erano arrivate molte lamentele perché durante le fasi preparatorie della Praedicate Evangelium Bergoglio aveva evitato di raccogliere il parere dei cardinali attraverso il concistoro. Qualcuno però si sta lamentando perché, in quel periodo, ci saranno 40 gradi all’ombra. «Meno male che nell’Aula nuova del Sinodo c’è l’aria condizionata».
(da Il Messaggero)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
OSPITI LA PORTAVOCE DI LADROV E ALTRI CRIMINALI RUSSI?
Dopo aver trasmesso in diretta dalle strade di Odessa, ora Massimo Giletti
vuole portare Non è l’Arena in Russia.
La puntata di domenica potrebbe avere luogo nella Piazza Rossa di Mosca: l’organizzazione sarebbe stata avviata da tempo, non senza difficoltà.
Sarà fatto un tentativo per avere come ospite in diretta Marija Zakharova, la portavoce del ministro degli Esteri Sergej Lavrov, braccio destro di Putin in questa guerra.
La donna – un megafono della propaganda del Cremlino – è sulla lista nera delle sanzioni dell’Unione europea “per aver promosso il dispiegamento di forze russe in Ucraina”.
Rachele Fontanesi, produttrice esecutiva del programma, ha commentato le indiscrezioni di queste ore: “Giletti vuole fare questa puntata e tutto è pronto, ma siamo ancora in alto mare con gli ospiti. Abbiamo fatto un lungo lavoro dall’Italia, ma la mancanza di un riferimento diretto a Mosca non aiuta. Gli imprenditori italiani, poi, temono contraccolpi negativi. La trasmissione è pensata sulla Piazza Rossa, ma non in esterna. Noi, certo, vorremmo il conduttore a Mosca, ma eviteremmo volentieri una situazione in cui si trovasse da solo in trasferta e con gli ospiti da intervistare tutti nello studio romano. Sarebbe surreale. Domani alle 11, dopo la riunione con gli autori, scioglieremo ogni dubbio”.
Giletti avrebbe già pronto il visto, al momento si trova in Italia ed evita di commentare. La sua scelta di condurre da Odessa gli aveva attirato numerose critiche da parte di chi lo accusava di voler spettacolarizzare la guerra.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Giugno 3rd, 2022 Riccardo Fucile
CORRISPONDONO IN EFFETTI AGLI ELETTORI SOVRANISTI, PROTETTI CON CONDONI CONTINUI
Diciannove milioni di italiani con almeno una cartella esattoriale: 16 milioni di persone fisiche e 3 milioni di società, ditte, partite iva.
Evasori, cittadini che devono dei soldi allo Stato per tasse, contributi e multe non pagate. Persone che dovrebbero lavorare “fino a ripagare la collettività”.
Numeri (e soluzione) sono detti a chiare lettere dal direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini.
“Li abbiamo individuati”, ha spiegato al Festival internazionale dell’Economia il numero uno dell’agenzia fiscale ragionando attorno agli strumenti per portarli a saldare il debito e al suo “sistema ideale” per la lotta all’evasione. “Il mio è quello in cui i cittadini sanno che chi non paga viene intercettato e l’azione viene punita. Chi è poi così autolesionista da evadere?”, si è chiesto.
“La pena detentiva per chi non paga le tasse non mi ha mai convinto – ha detto – Preferisco mettere in carcere l’evasore così poi fallisce l’attività o farlo lavorare finché non ripaga la collettività? Sono 19 milioni le persone che non pagano le tasse.
Nel conteggio di Ruffini rientrano tutti coloro che hanno una cartella esattoriale, quindi anche persone con multe non pagate. “Hanno fatto i maramaldi per tanti anni, usiamo strumenti che li facciano rientrare in carreggiata. Li abbiamo individuati”, ha spiegato Ruffini.
“Le tasse sono uno strumento per avere uno stato democratico. Pagare le tasse non fa piacere a nessuno e farle pagare fa ancora meno piacere, ma – ha aggiunto Ruffini in un’intervista a La Stampa – è la cartina di tornasole dell’inciviltà di un Paese perché si fanno pagare le tasse ad esempio per retribuire gli stipendi ai medici che ci salvano la vita”. Lo Stato, ha detto ancora, “ha ha dovuto tagliare la spesa sanitaria perché non ci sono abbastanza risorse”. In questa situazione, “dobbiamo essere consapevoli delle nostre scelte, invece si fa finta di nulla, negli anni con la complicità della politica”, avverte.
Già negli scorsi giorni, Ruffini aveva spiegato che nel cosiddetto “magazzino” ci sono circa 1.100 miliardi di euro fra tasse, imposte e contributi da riscuotere. Una cifra monstre solo in parte davvero recuperabile: “Qualche decina di miliardi, o comunque sotto i cento. La stragrande maggioranza dei crediti in magazzino non è riscuotibile”, aveva detto a SkyTg24 specificando che tra quei 19 milioni di soggetti iscritti a ruolo “solo 3 milioni hanno aderito alle diverse rottamazioni e al saldo e stralcio da cui si sono ricavati 20 milioni di euro”.
Una lotta che negli ultimi anni, complice il Covid e il rallentamento della riscossione, ha subito un rallentamento. Ma adesso, aggiunge il numero uno delle Entrate, “la macchina fiscale è tornata alla normalità” e “siamo pienamente operativi perché il legislatore così ci ha chiesto di essere”. Nel 2020 e 2021 “abbiamo sospeso la nostra attività”, quindi “ci è stato detto di ricominciare, abbiamo rimodulato l’attività dividendo nel 2022 il pregresso, abbiamo decine di milioni di atti e stiamo procedendo”. Ora in programma “c’è l’attuazione degli istituti della rateizzazione, c’è il completamento della rottamazione in corso”.
Ruffini è soddisfatto dell’andamento delle dichiarazioni dei redditi precompilate, per l’anno fiscale 2021 ‘attive’ dagli scorsi giorni: “Procedono bene, i cittadini acquisiscono familiarità con questo strumento”. Le prossime tappe? “Stiamo già precompilando i registri dei soggetti commerciali, l’anno prossimo partirà la precompilata Iva”. Quanto alla riforma fiscale “la cosa che mi aspetto – afferma – è la riorganizzazione delle norme. La confusione è enorme”.
La priorità è “fare ordine, poi si può vedere quali regole si possono cambiare”, altrimenti “si fa altra confusione”. Sul punto Ruffini era stato chiaro in autunno, quando aveva spiegato che “con 800 leggi il sistema è giungla in cui l’evasore si nasconde” e aveva quindi chiesto al governo un intervento sulla privacy.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »