Giugno 5th, 2022 Riccardo Fucile
GLI ESPERTI SONO CONCORDI: “CI VORRANNO ANNI PER BILANCIARE IL CROLLO DELLE IMPORTAZIONI. NON CI SONO FATTORI CHE POSSANO RISOLLEVARE L’ECONOMIA”
La bella stagione ha riportato manciate di colore nelle aiuole di Mosca
ma Pavel Kanygin, giornalista della “Novaja Gazeta”, dubita di ritrovare quei tulipani l’anno prossimo: i bulbi sono importati dai Paesi Bassi, se non li fermano le sanzioni lo faranno le restrizioni su trasporti e pagamenti bancari, o i relativi rincari.
E mentre immagina il futuro verso cui è incamminata la Russia, tra le conseguenze del muro che si è creato con l’Occidente e del crollo delle importazioni Kanygin elenca l’alta velocità Mosca-Pietroburgo, con gli elettrotreni Sapsan prodotti da Siemens; si interroga sulla copertura di un sistema sanitario che faticherà a trovare apparecchi per le radiografie o reagenti per gli esami di laboratorio. Anche l’agricoltura dipende per i suoi macchinari dalle importazioni: «Nessuno – conclude Kanygin – avrebbe pensato che la Mosca del 2022 sarebbe tornata indietro di 40 anni».
In un supermercato della catena Perekrjostok, un cliente monitora la disponibilità di pasta, biscotti, vino: «Non mi sembra che manchino i prodotti occidentali – spiega -. Magari sono più cari, ma ci sono».
Lo stesso sui siti di vendita online, dove pure gli aumenti dei prezzi riflettono l’allungamento del percorso da compiere per arrivare in Russia – via nave dalla Turchia e poi dal porto di Novorossiisk, per esempio, o via terra dalla Bielorussia. Le prime assenze si notano tra i prodotti più sofisticati, per le componenti elettroniche bloccate dalle sanzioni di Europa e Stati Uniti.
Dove ci si appoggia alle scorte, la preoccupazione riguarda il momento in cui saranno esaurite: ben prima che i vari settori industriali russi riescano a lanciare catene produttive chiamate a provvedere a tutto, dai semiconduttori alla manutenzione degli aerei.
«Per rilanciare l’economia e assicurare una crescita stabile ci vorranno alcuni anni, e un lavoro collettivo molto serio – constata Andrej Klepach, vicepresidente e chief economist di VEB, banca per lo sviluppo controllata dallo Stato -. Per ora le perdite da compensare sono gravi, anche se l’economia russa ha comunque dimostrato la propria tempra, rispetto alle previsioni apocalittiche fatte all’inizio».
Intervenuto a un incontro con GIM-Unimpresa, l’Associazione degli imprenditori italiani in Russia, Klepach vincola le proprie previsioni all’incertezza in cui si muove l’economia mondiale e naturalmente al calo di vendite e produzione di petrolio e gas, miliardi di entrate in meno per il budget russo.
La recessione prevista da VEB per il 2022, un -10,2% vicino al -10,4% stimato dalla Commissione Ue, è più grave del -7,8% ipotizzato dal Governo russo. Che tuttavia già trasferisce il segno meno anche al prossimo anno.
Per la Russia che tenta di compensare il crollo dell’import con produzioni locali, la missione da compiere è arginare il calo di potere d’acquisto, redditi e domanda interna. Il Governo lavora a un pacchetto di misure di sostegno sociale – indicizzazione delle pensioni, aumento del salario minimo – ma Klepach chiede più coraggio, estendendo gli aiuti ai dipendenti del settore privato a sostegno dell’occupazione.
In particolare, secondo il capo economista della VEB è importante annullare, e non semplicemente rinviare all’anno prossimo, parte dei contributi sociali dovuti dalle imprese, liberando fondi a sostegno della produzione, della ricostituzione delle scorte e degli investimenti.
Maggiore impegno per crescita e occupazione è chiesto anche alla Banca centrale russa, secondo Klepach troppo concentrata in questi anni sul target dell’inflazione. «Il rublo (balzato a 120 nel cambio con il dollaro all’inizio della guerra in Ucraina e riportato a quota 60 dalle restrizioni imposte da Bank Rossii, ndr) ha sorpreso tutti, ma Dio non voglia che si rafforzi ancora – osserva Klepach -. Abbatterlo di colpo da 120 a 60 non è ciò che serve all’economia. Al business serve un corso relativamente moderato, secondo noi 70/80 rubli sul dollaro».
Da Berlino, l’economista russo Vladislav Inozemtsev risponde alla domanda posta dal Zentrum Liberale Moderne: c’è un futuro per l’economia russa dopo la guerra? Le sue stime calcolano per il 2022 una recessione più profonda (-14/-18%), ma soprattutto la estendono al 2023 e 2024: «Non vedo alcun fattore che possa risollevare l’economia – spiega Inozemtsev, direttore del Centro Studi post-industriali di Mosca -, non ci sono stimoli alla crescita. In questi anni la crescita è stata trainata dai consumi, l’economia non si è mai veramente industrializzata come la Cina, la Russia non ha mai creato prodotti hi-tech».
Ora la domanda, priva di sostegni adeguati, rallenterà: «L’economia resterà indietro rispetto alle altre, il divario si allargherà». E non sarà mai più possibile tornare ai livelli precedenti le crisi del 2008 e del 2014: così l’economia paga la decisione politica di tornare al passato. «La Russia vuole essere più autarchica, ce la farà – dice Inozemtsev -. Ma sarà un’economia in declino, senza risorse per progredire».
(da il Sole 24 Ore)
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Giugno 5th, 2022 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE SI SCAGLIA CONTRO “IL FASCINO INDISCRETO” DEI REGIMI AUTORITARI: “MENTRE PUTIN ERA ANCORA RELATIVAMENTE ‘TRANQUILLO’ NELLE SOCIETÀ OCCIDENTALI SI FACEVA STRADA L’IDEA CHE L’AUTORITARISMO ACCENTRATO NON FOSSE UN SISTEMA DISPREZZABILE”
Dagli anni dello Stato-padrone a quelli del mercato scatenato fino alla pandemia, e ora la guerra, che rilanciano in modo prepotente il peso dello Stato. E, soprattutto, riaffermano il ruolo delle democrazie. «Da anni sostengo la forza della democrazia contro il fascino indiscreto dei regimi autoritari», ragiona Giuliano Amato.
«Certo, oggi la democrazia è resa forte più che altro dall’inaccettabilità dell’autoritarismo, ma le sue fragilità restano». Intervistato dal direttore de La Stampa Massimo Giannini al Festival dell’economia di Torino, il presidente della Corte Costituzionale riflette sull’onda lunga che ha portato il mondo, e l’Occidente in particolare, dal fronteggiare una pandemia e i suoi strascichi sociali all’immergersi in un conflitto nel cuore dell’Europa.
Presidente, che lezione ci sta insegnando questa guerra e come cambierà il corso degli eventi, il modo di vivere, pensare, produrre?
«Mentre Putin era ancora relativamente “tranquillo” nelle società occidentali si faceva strada l’idea che l’autoritarismo accentrato, la sua rapidità decisionale ed efficienza non fossero un sistema disprezzabile rispetto alla fatica delle democrazie».
Poi è arrivato il conflitto e ci ha fatto comprendere qualcosa che forse non avevamo capito.
«Si può definire una guerra operazione speciale, si possono negare alle madri i corpi dei figli morti, si può sostenere che per un soldato che ha occupato un territorio le donne che incontra si possono stuprare perché sono bottino di guerra? Mentre i giornalisti di tutto il mondo lo documentano, in Russia tutto ciò viene negato e chi osa parlarne viene arrestato. Giornali come la Novaja Gazeta hanno preferito sospendere le pubblicazioni dato che l’unica alternativa era raccontare la non-verità di regime. Ecco cosa abbiamo capito: la democrazia è fondata sul fatto che nessuno possiede la verità; ci sono i fatti e la discussione su come fronteggiarli».
È giusto e risponde ai valori e principi della Costituzione armare il popolo ucraino che sta resistendo?
«Secondo Per l’articolo 11 l’Italia ripudia la guerra come mezzo per risolvere le controversie, ma non ripudia la guerra in assoluto. La Costituzione prevede il sacro dovere di difendere la patria. E poi ci sono i vincoli assunti in sede europea e internazionale: il dovere alla solidarietà verso i membri dell’Unione europea aggrediti da altri e la clausola di solidarietà tra i Paesi membri della Nato».
L’Ucraina non è un paese dell’Ue e nemmeno della Nato.
«La carta delle Nazioni Unite prevede l’obbligo di intervenire a fianco di Paesi aggrediti in attesa che l’Onu agisca, cosa che non accade mai, non essendosi dotato di una propria forza militare. È una norma poco chiara perché prevede una transitorietà dell’autodifesa, anche assistita, in attesa di un intervento dell’Onu che storicamente non si è mai verificato. E allora qui mi attengo al senso che gli italiani attribuiscono ai principi della nostra Costituzione: la solidarietà, valore fondamentale della Repubblica, il rispetto per la dignità della persona, l’uguaglianza, valgono solo nei nostri confronti? Il confine della solidarietà umana dev’essere segnato dai trattati o dalla coscienza?».
E qui torniamo al valore delle nostre democrazie ma anche alla loro fragilità.
«Viviano un’epoca di ritorno dello Stato dopo la crisi finanziaria di dieci anni fa e la pandemia. L’onda neoliberista ha generato un nuovo bisogno di Stato, sproporzionato. Tra gli effetti negativi della stagione neoliberista c’è la crescente rincorsa della finanza ai ritorni a breve termine, che ha prodotto danni all’economia reale. Così lo Stato è tornato non per limitare genio e sregolatezza del mercato quanto per fornire al privato le risorse per gli investimenti a medio termine».
Con quali rischi?
«Replicare antichi vizi del passato ma non solo. Si rischia il “bossy state”, lo Stato padrone che attraverso l’erogazione delle risorse può porre le condizioni verso un autoritarismo accentratore».
L’Helicopter money, il distribuire risorse a pioggia per sostenere famiglie e imprese durante la pandemia, è stato dunque un errore?
«Era una questione di sopravvivenza. Nel nostro ordinamento le persone vengono prima dello Stato. Non siamo carne da macello. Però non possiamo vivere eternamente abbracciati all’idea di uno Stato pagatore di ultima istanza».
Scostamenti di bilancio, bonus, sussidi, sostegni, ristori: stiamo abituando i cittadini al fatto che prima o poi passa l’elicottero e distribuisce soldi a pioggia?
«Già da tempo è così. Ogni tanto mi chiedo se oggi Nino Andreatta, un grande italiano che nel 1981 ottenne che si celebrasse il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, e che governi e Parlamento non potessero più attingere alle risorse con una certa facilità e a un tasso d’interesse simbolico, chiederebbe il divorzio tra le tesorerie e le banche centrali».
E che risposta si dà?
«Che l’avrebbe chiesto da tempo. L’idea che una cosa chiamata scostamento di bilancio non abbia nulla a che fare con il debito è stata favorita dal fatto che da anni il sistema delle banche centrali pompa i titoli pubblici degli Stati. Poi un giorno arriva l’inflazione: usualmente per combatterla si alzano i tassi d’interesse ma ora ci si stupisce che al solo parlarne lo spread, di cui ci eravamo quasi dimenticati, riemerga».
Abbiamo però un gigantesco problema di equità sociale che l’inflazione e la guerra fanno riesplodere. Ma se lo Stato deve tenere a terra l’elicottero come si evita che a pagare siano i più fragili?
«Tra i fattori di debolezza della democrazia questo è il principale. Ha bisogno di coesione sociale, che si realizza con il consenso di tutti verso obiettivi comuni ma a patto che le distanze in termini di reddito e opportunità non superino un certo livello di tollerabilità. In Italia questo tema è aggravato dal fatto che mentre in altri paesi i divari sono cresciuti per il vertiginoso innalzamento dei redditi e dei patrimoni alti, da noi si è verificato anche un abbassamento dei redditi medio-bassi».
Chi deve intervenire?
«Chi è parte dell’economia reale ha la responsabilità di una crescita adeguata dei redditi di tutti. Lo Stato ha il dovere e il diritto di dire alle imprese che la crescita non è solo loro; è del Paese e dei suoi cittadini. La crescita salariale non è una responsabilità dello Stato. Sarebbe sbagliato. E non credo esistano rischi di spirale salari-prezzi. Non vado orgoglioso di tantissime cose fatte ma sicuramente lo sono dell’accordo siglato nel 1992 in Banca d’Italia con Ciampi davanti a un piatto di spaghetti al pomodoro. Definimmo il tetto di crescita dei salari, Carlo Azeglio mi disse: ora succeda quel che deve succedere sui mercati valutari ma siamo al sicuro. La lira svalutò fino al 25% in autunno, ma nel 1993 il tasso d’inflazione interna non crebbe».
Sembra suggerire un grande patto sociale come nel ’92-’93. Vede un clima politico e sociale fecondo?
«Si dice che non è più possibile un compromesso sociale perché il mercato del lavoro interno si è sfrangiato e non c’è più una rappresentanza nazionale e dall’altra parte la componente datoriale si è sovranazionalizzata. Questa asimmetria esiste ma se si fotografa l’Italia di oggi i sindacati e le organizzazioni datoriali conservano una forza rappresentativa».
Manca la politica?
«Le parti sociali da sole non ce la fanno. Ci sarà anche un terzo giocatore a quel tavolo».
Il futuro delle democrazie è in pericolo?
«Se facciamo la somma dei fattori negativi e di quelli positivi la bilancia pende dal lato negativo. Tra i fattori aggreganti prevalgono quelli regressivi: la difesa del suprematismo bianco, dei valori tradizionali rispetto a quelli innovativi, di chi c’è già rispetto a chi arriva da lontano. A questo dobbiamo aggiungere la polarizzazione radicale dei sistemi politici. D’altra parte non possiamo ignorare la qualità generata dalle nostre società che prima non esisteva: solidarietà, indignazione verso discriminazioni e atrocità, il sapere e la sensibilità dei giovani, il lavoro degli insegnanti. Dalla cucina escono cibi e profumi nuovi. L’altro giorno ho incontrato una classe elementare, ho raccontato loro che nell’anno in cui sono nato una legge ha stabilito che i bambini ebrei non potevano più andare a scuola. Una bimba ha alzato la mano e ha detto: come Anna Frank. Conosceva la storia. Mi sono commosso e ho pensato che c’è una speranza. E di quella viviamo».
(da agenzie)
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Giugno 5th, 2022 Riccardo Fucile
L’ARMATA RUSSA È CADUTA IN TRAPPOLA A SEVERODONETSK, HA RAGGIUNTO IL LIMITE DELLE PROPRIE CAPACITÀ ? ESERCITO UCRAINO E VOLONTARI STRANIERI NEI CENTRI ABITATI STANNO CAUSANDO PESANTI PERDITE E RUSSI E CECENI
Siamo nel pieno della guerra d’attrito: un giorno si guadagna un
chilometro e il successivo lo si perde. Nel Donbass i russi avanzavano con un ritmo lento ma costante, avevano aggiustato parte degli errori che li avevano frenati nella prima fase e, almeno fino a venerdì, sembravano aver ormai preso buona parte di Severodonetsk.
Già sabato mattina, però, la situazione era notevolmente mutata: gli ucraini hanno lanciato dei contrattacchi e hanno ripreso parte della città industriale.
La progressione dell’invasore ha subito un brusco rallentamento qui e in altre località. I duri combattimenti strada per strada potrebbero anche aver limitato la potenza di fuoco di Mosca: è devastante in campo aperto ma, accorciandosi le distanze, lascerebbe agli ucraini una maggiore capacità di manovra. Inoltre i difensori sono su posizioni più elevate e dunque avrebbero un punto a loro vantaggio.
Fonti separatiste aggiungono che gli ucraini avrebbero impiegato anche volontari stranieri, ben addestrati, mentre altri osservatori parlano di perdite pesanti tra i ceceni e la compagnia Wagner schierati dai russi. È tuttavia fondamentale che i difensori riescano a tenere aperta la via dei rifornimenti, in modo da alimentare la loro azione.
La dinamica a elastico ha scatenato molte interpretazioni. L’esperto americano Trent Telenko è arrivato a ipotizzare che l’Armata abbia raggiunto il «culmination point», il limite delle proprie capacità, e dovrà ora sospendere l’offensiva: se gli ucraini hanno riconquistato parti di Severodonetsk dove Mosca schierava 25 Battaglioni tattici – benché più sguarniti di quel che si pensava – allora, afferma, tutto il Paese è a portata di mano.
Appena due giorni fa, il governatore della regione Sergey Gaidai sosteneva che i russi avessero ormai in pugno il 70% della città, ma già nella notte fra venerdì e sabato quella percentuale è calata al 50% grazie alla controffensiva.
Proprio il tipo di conflitto in corso invita tuttavia alla cautela: prematuro affermare che vi sia una svolta positiva in favore di Kiev. Molte certezze sono state messe in discussione fin dall’inizio dell’invasione: spesso non è facile avere un quadro preciso, in quanto le notizie sono mescolate a propaganda e segnali confusi.
Da un paio di settimane, il presidente Zelensky aveva invertito narrativa avvertendo che la situazione nella regione era difficile, che le sue truppe perdevano fra i 60 e i 100 uomini al giorno e contavano centinaia di feriti. I soldati schierati a difesa di Severodonetsk erano con le spalle al muro, tanto che il governatore Gaidai aveva suggerito una ritirata tattica dalla città.
Sembrava, insomma, che la caduta fosse ormai imminente. Persino l’intelligence britannica – sempre ottimista nei suoi bollettini pro-Kiev – ammoniva che l’intera regione di Lugansk, già per il 90% in mano russa, sarebbe stata conquistata entro metà giugno: dopo Severodonetsk, a Mosca mancherebbe soltanto la vicina Lysychansk, sull’altra sponda del fiume Siverskyi Donets, per avere il pieno controllo della regione.
Invece, ha scritto il consigliere presidenziale Aleksey Arestovich, si trattava di una trappola: l’esercito ucraino avrebbe attirato gli invasori nelle zone abitate fingendo un ripiegamento. La mossa, sostiene, avrebbe spiazzato lo Stato maggiore russo che si trova ora a fronteggiare una missione ad alto rischio.
«I difensori dell’Ucraina stanno liquidando i commilitoni russi», afferma il consigliere presidenziale, camminando su quella linea sottile che separa realtà e propaganda.
Di certo, il duello evidenzia l’importanza strategica e simbolica della città: se i russi la dovessero prendere, sarebbero vicini alla «liberazione del Donbass» promessa da Putin; se gli ucraini dovessero respingere il nemico, si tratterebbe invece di una vittoria che darebbe ancora più morale e coraggio.
(da la Repubblica)
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Giugno 5th, 2022 Riccardo Fucile
AD AVIANO MALUMORE PER LA VISITA DEL CAPITONE
Arriva “l’amico di Putin”, e nel cielo di Aviano si alza una nuvola di malumore. E a guardare bene, sopra c’è scritto un “fuck you” bello grosso. È che nei tre bar della piazzetta del duomo ci sono più americani che italiani, e quindi di leghisti.
«Qui c’è la base americana più importante del Sud Europa», sta giusto spiegando il sindaco agli elettori: la Aviano Air Base, la sede dell’aeronautica statunitense, come del resto tutti i presenti sanno benissimo, perché qui di questo si vive: «È l’attività economica più importante di tutto il Pordenonese».
Con lui il governatore del Friuli, Massimiliano Fedriga, che qualcuno all’interno del partito vedrebbe e vorrebbe come successore di Salvini. «Io leader? Mi piacerebbe rifare il presidente della Regione, se la gente mi voterà», ha detto ieri mattina, sprizzando modestia da tutti i pori.
Ma certo che lo voteranno, perché tutti i friulani lo amano, così come i veneti amano Zaia.
Salvini? È diverso, e poi «viene da Roma», il che fa diffidare i rocciosi leghisti nordici, i primi, quelli veri insomma, che si riconoscono nelle parole di Fedriga: «La nostra regione è stata molto colpita dalla pandemia, ma non ha perso lo spirito del terremoto» e – secondo concetto molto importante – «la Regione ha avuto la maggiore crescita nell’export, e adesso siamo i secondi », dopo il Veneto.
Piccoli applausi, anche perché in piazza ci saranno 80 persone, infatti quelli del bar Sport hanno preparato 50 bicchieri e 6 bottiglie di prosecco, non di più.
Fedriga lo introduce: «Da ministro è finito sotto processo, oggi viene criticato perché difende la pace. Ma noi difendiamo il nostro Capitano!». Salvini ricambierà alla fine del suo. Sembra tutto un atto dovuto, io ringrazio te e tu ringrazi me, per il resto ognuno per la sua strada, niente a che vedere con passate campagne elettorali sul territorio, e lasciamo perdere le folle adoranti, ma anche nei rappresentanti locali c’era un filo in più di entusiasmo, o forse faceva solo troppo caldo.
Del resto, Salvini stesso appare imbronciato, come chi deve aprire bocca davanti al dentista, invece che davanti a un manipolo di fedeli elettori che sono anche suoi. Dopodiché, selfie separati, Fedriga da una parte e lui dall’altra, poi Salvini ha preso il suo broncio e se ne è andato
(da agenzie)
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Giugno 5th, 2022 Riccardo Fucile
“MA SERVE AUMENTARE LA PRODUTTIVITA'”
«Il salario minimo? Se ben studiato, è una buona cosa. Ma bisogna
aumentare la produttività e crescere di più, perché se si cresce di più i salari aumentano».
Sono le parole di Ignazio Visco a margine del Festival dell’Economia di Torino. Secondo il governatore di Bankitalia, infatti, «il salario minimo ha vari effetti positivi», ma può avere anche delle ricadute negative. Il punto focale, a detta del governatore, è però un altro: «L’importante – ha sottolineato Visco – è non legare salario minimo ad automatismi che successivamente potrebbero avere un impatto sui costi».
Per esemplificare, il governatore ha aggiunto: «Un salario minimo che ha piena indicizzazione ai prezzi al consumo, se diventa il modello di riferimento per tutti i salari e per tutte le contrattazioni, incorpora direttamente quel meccanismo automatico».
Parlando invece dei nuovi assetti economici e finanziari a seguito della guerra russa contro l’Ucraina, il governatore di Bankitalia ha ribadito che «la situazione economica è molto incerta: anche nelle Considerazioni finali i due termini che più ho utilizzato sono “Ucraina” e “incertezza”.
È sempre difficile fare previsioni e valutazioni, ma non è questa la sede in cui farle». E il numero uno di Bankitalia ha poi aggiunto: «La situazione è sicuramente più sfavorevole di quello che avevamo anticipato a gennaio scorso. Sulla guerra abbiamo sbagliato: le valutazioni di allora si basavano sulla forza del Pnrr».
(da agenzie)
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Giugno 5th, 2022 Riccardo Fucile
UN TENTATIVO PER AMMORTIZZARE IL FLOP
Per Lega e Movimento 5 Stelle non sono certo i tempi più splendenti sul fronte dei sondaggi. In questo momento il Movimento 5 Stelle è al 13 per cento, mentre la Lega al 15 per cento.
Risultati ben lontani dai picchi registrati nelle rilevazioni degli anni scorsi, quando sia il M5s sia la Lega hanno superato anche il 30 per cento nelle intenzioni di voto espresse dagli elettori.
Numeri davanti a cui risulta chiaro il rischio di andare verso un flop alle prossime amministrative del 12 giugno. E per attutire l’impatto del possibile urto, Matteo Salvini e Giuseppe Conte potrebbero aver scelto la stessa strategia: mimetizzare i loro candidati. A raccontarlo è un’inchiesta del quotidiano la Repubblica, dove viene mappata la presenza (diradata) dei candidati dei due schieramenti.
Il primo dato è quello sul simbolo della Lega.
In tutto il Sud andranno al voto 102 comuni di varie dimensioni. In tutti questi solo otto presenteranno il nuovo simbolo della Lega: «Prima l’Italia!». Uno slogan che peraltro richiama a un motto che apparteneva a un’altra Lega: «Prima il Nord!».
In tutti gli altri comuni i candidati vicini al partito di Salvini si sarebbero presentati con liste civiche che mascherano il simbolo originale.
La Repubblica cita come esempio il caso di Castellana Grotte, un comune di quasi 20 mila abitanti, dove l’ex candidato della Lega per le regionali Domenico Ciliberti è candidato a sindaco con la lista “Con”, il movimento che appoggia il governatore pugliese Michele Emiliano, e la lista “Prima Castellana” che invece riprende il logo di «Prima l’Italia».
Storia simile per il Movimento 5 Stelle.
A Verona, ad esempio, non compare il simbolo dello schieramento. Gli attivisti pentastellati sarebbero candidati solo nella civica “Rete – Damiano Tommasi sindaco”, che sostiene l’ex calciatore come candidato. A Jesi, nella provincia di Ancona, il simbolo del Movimento 5 Stelle c’è, ma è all’interno di un altro logo. I pentastellati qui corrono insieme ai Verdi per la lista civica Jesi Respira, e hanno scelto di fondersi insieme in un unico logo con in alto la bandiera della pace e in basso lo slogan per il candidato: «Fiordelmondo sindaco».
(da agenzie)
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Giugno 5th, 2022 Riccardo Fucile
LE INDAGINI DEL COPASIR
Le ricerche sono entrate nel vivo: dai social network alle televisioni ai
giornali, il gruppo si attiva nei momenti più caldi del conflitto con tecniche e strategie precise
Parlamentari, manager, giornalisti e lobbisti. Questa, secondo le indagini del Copasir, sarebbe la rete italiana di Vladimir Putin, l’arma propagandistica di cui il presidente russo si serve per orientare e condizionare l’opinione pubblica.
Dai social network alle televisioni ai giornali, il gruppo si attiva nei momenti più caldi del conflitto, attaccando i politici schierati con Kiev, sostenendo tutti coloro che si mostrano favorevoli alla Russia.
Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica continua a indagare su una realtà in Italia ben radicata: dai gruppi ai battitori liberi, la rete filo putiniana si serve delle piattaforme più conosciute come TikTok, Instagram, Telegram e Facebook ma anche di quelle meno in voga come Parler ed ExitNews. Un gioco di controinformazione che il Copasir sta studiando anche e soprattutto nelle sue tempistiche e strategie.
Nelle indagini tuttora in corso emergono alcuni dei nomi più rappresentativi della rete italiana pro Putin.
Tra gli esponenti politici c’è Vito Petrocelli, senatore espulso dal M5S e destituito dal ruolo del presidente della Commissione Esteri del Senato . Laura Ruggeri, freelance, scrive articoli sulla rivista filo Putin Strategic Culture Foundation.
Poi ci sono Alessandro Orsini, docente di Sociologia del terrorismo, spesso ospite di trasmissioni televisive e dibattiti politici, Maurizio Vezzosi, analista e reporter freelance, Giorgio Bianchi, fotoreporter che gestisce un account da oltre 100 mila iscritti.
E ancora: Claudio Giordanengo, dentista nel 2019 candidato con la Lega; Manlio Dinucci, promotore del Comitato «No Guerra No Nato»; Alberto Fazolo, economista e pubblicista che ha combattuto in Donbass.
Uno dei temi più caldi delle ultime settimane di guerra è senza dubbio l’invio delle armi da parte dei Paesi occidentali all’Ucraina, e in particolare dall’italia.
In proposito, secondo quanto studiato dal Copasir, la campagna filorussa diffonde via social l’immagine delle bolle di spedizione dei dispositivi militari, facendo notare la data dell’11 marzo: una settimana prima dell’approvazione del decreto in Parlamento del 18 marzo.
In prima linea nell’attacco c’è la giornalista russa Maria Dubovikova. Uno dei suoi bersagli è Pietro Benassi, rappresentante diplomatico italiano presso l’Ue ed ex consigliere diplomatico di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi
Poi l’attacco diretto è per Mario Draghi. «Non in mio nome» è il motto lanciato su decine di profili filorussi dell’estrema destra che contestano a Palazzo Chigi di aver spedito le armi «senza il consenso del popolo italiano». Da lì frasi come «ci mandano in guerra mettendo a rischio la sicurezza nazionale», «lo fa solo per l’ambizione di diventare segretario generale della Nato» e ancora «è il responsabile dell’aumento dei costi di cibo ed energia».
Lo scorso 3 maggio il premier Draghi durante una conferenza stampa criticò duramente l’intervista rilasciata dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a Rete4. Tra gli aspetti contestati, il contraddittorio assente. In quel caso, come in molti altri secondo il Copasir, Twitter ha fatto da «enorme cassa di risonanza di fake news». Decine i tweet contro il premier: «Non tutela gli interessi italiani e ha un’impostazione dittatoriale» la versione principale, ribadita dalla portavoce di Lavrov Maria Zakharova intervenuta accusando «i politici italiani di ingannare il loro pubblico».
Manlio Dinucci ha 84 anni, è un geografo e scrittore promotore del comitato «No Guerra No Nato». Un suo articolo sostiene che «l’attacco anglo-americano a Russia e Ucraina era stato pianificato nel 2019».
Un testo che presto è diventato una specie di manifesto per i filorussi. Le tesi di Dinucci sono state riprese da Giorgio Bianchi, fotoreporter, e da Alessandro Orsini, il docente licenziato dall’Università Luiss dopo le sue dichiarazioni in televisione. N
el gruppo c’è anche Maurizio Vezzosi, reporter freelance che racconta il conflitto dall’Ucraina e invita «a informarsi non rimanendo alle notizie in superficie perché molti ucraini pensano che Zelensky sia responsabile della situazione, molti lo ritengono un “traditore”».
Agli inizi di maggio, quando il grillino Petrocelli si rifiuta di lasciare la presidenza della commissione Esteri nonostante gli ultimatum espliciti del suo partito, la rete di Putin si mobilita per un bombardamento di mail verso indirizzi di posta elettronica del Senato.
In prima linea ci sono canali Telegram No vax e pro Russia tra cui @robertonuzzocanale, @G4m3OV3R e @lantidiplomatico. Tra i più attivi sulla piattaforma anche la freelance Laura Ruggeri. Vive a Hong Kong e scrive su Strategic Culture Foundation, ritenuta dagli analisti «rivista online ricondotta al servizio di intelligence esterno russo Svr» e che, insieme a Russia Today, è artefice di una campagna massiccia contro le sanzioni.
La tesi della portavoce Zakharova per cui «l’Ue è la vera vittima delle misure contro la Russia» viene, secondo le indagini Copasir, periodicamente rilanciata dal «noto giornalista e diffusore di disinformazione» Cesare Sacchetti, con un canale Telegram di oltre 60mila iscritti. «L’Ue è costretta a tornare sui propri passi e a pagare il gas in rubli», scrive.
(da agenzie)
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Giugno 5th, 2022 Riccardo Fucile
COINVOLTI 16 PAESI E OLTRE 4.000 SOLDATI
Comincia oggi, 5 giugno, l’esercitazione militare della Nato nel Mar Baltico. Le operazioni proseguiranno fino al 17 giugno.
A prendervi parte sono 16 Paesi, incluse Svezia e Finlandia in qualità di Stati partner. L’esercitazione ha come obiettivo «quello di prepararsi a garantire la difesa collettiva e l’attuazione di una politica di deterrenza». Con più di 4.000 militari coinvolti, oltre 60 aerei, 40 navi di varie classi e truppe d’assalto marittimo, l’esercitazione chiamata Baltops è una delle principali nel Nord Europa.
Nelle acque della Lettonia saranno condotte diverse operazioni che coinvolgono navi, aerei e veicoli blindati appartenenti alla Nato. Le manovre tattiche invece si svolgeranno nel Mar Baltico e nello spazio aereo della regione per concludersi poi a Kiel, in Germania.
A prendere parte alle esercitazioni anche la Uss Kearsarge, la nave d’assalto anfibia degli Stati Uniti che ospita 26 aerei da guerra e 2.400 tra marines e marinai.
«Nessuno a Stoccolma può ignorare che c’è questa grande nave qui nella nostra città», ha detto Micael Byden, il comandante supremo delle forze armate svedesi, durante una conferenza stampa a bordo raccontata dal New York Times.
«La Uss Kearsarge», scrive il giornale statunitense, «è uno dei mezzi messi in campo dagli Usa dopo la promessa di garantire la sicurezza di Svezia e Finlandia nel periodo fra la loro richiesta di entrare nella Nato e il via libera, su cui incombe ancora il veto turco. Ma è anche un monito ai due Paesi nordici sui loro potenziali obblighi in caso di conflitto».
E a confermarlo è lo stesso capo di stato maggiore Usa Mark Milley: «La Russia ha la sua flotta baltica ma anche la Nato avrà la sua presenza nel Baltico una volta che Svezia e Finlandia entreranno nell’Alleanza. Da una prospettiva russa, questo sarà molto problematico, militarmente parlando».
(da agenzie)
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Giugno 5th, 2022 Riccardo Fucile
IL BABY ATTACCANTE CHE HA DEBUTTATO IERI CON GLI AZZURRI
Un debutto meraviglioso quello di Wilfried Gnonto, che è stato
sicuramente il protagonista della partita Italia-Germania servendo un assist spettacolare a Pellegrini.
Gli Azzurri di Roberto Mancini hanno brillato contro la Germania, nonostante il pareggio (il match si è concluso 1-1), e il baby attaccante dello Zurigo è stato senza dubbio decisivo.§
Gnonto, infatti, dopo aver esordito in Nazionale nella ripresa, ha subito servito l’assist a Pellegrini e poi è stato protagonista di una buona prestazione. “E’ stata una settimana un po’ strana ed emozionante. Il mister mi ha dato un’occasione e penso di averla sfrutta al massimo – ha spiegato il baby azzurro, classe 2003 e attualmente in forza allo Zurigo -. Oggi sono qua. Ho fatto una buona partita e sono contento”.
Poi ha aggiunto ai microfoni di Rai Uno: “Va tutto molto veloce, mi godo il momento e ogni allenamento. Essere qua è un privilegio per me”.
Il baby attaccante è nato a Verbania il 5 novembre 2003; sua madre fa la cameriera mentre suo padre è un operaio.
“Ai miei genitori devo tutto, da quando ero piccolo hanno fatto tanti sacrifici per me”. Gnonto è un talento italiano che sta avendo molto successo all’estero.
Dopo aver militato dal 2012 nelle giovanili dell’Inter, dove è rimasto per otto anni, il giovane ha avuto il coraggio di lasciare la sua ‘comfort zone’ per spostarsi in Svizzera, dove gioca dal 2020. §
E solo nell’ultima stagione ha firmato ben otto reti con la maglia dello Zurigo. In azzurro è un pilastro dell’Under 19, con cinque gol in dieci presenze.
(da agenzie)
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