Settembre 27th, 2022 Riccardo Fucile
IL COLOSSO CONTROLLATO DA PINAULT CHIUDE UN CONTENZIOSO FISCALE CON UNO SCONTO CHE CI COSTA COME 125 MILA REDDITI DI CITTADINANZA PER UN ANNO. MA LA NOTIZIA È PASSATA IN SORDINA… SI ACCANISCONO CONTRO I POVERACCI CHE BECCANO 500 EURO AL MESE DI REDDITO MA PERDONO LA PAROLA DAVANTI ALLE FEROCI EVASIONI DEI GRANDI GRUPPI
La vera notizia della settimana della moda l’ha data il giornalista investigativo Stefano Vergine solo che – c’era da scommettersi – per il suo scoop non si è indignato nessuno.
Sarà che nel pezzo uscito su Il Fatto Quotidiano non c’è nessun povero da prendere a sberle, non ci sono furbetti da indicare come male endemico del Paese e non c’entra il maledetto Reddito di cittadinanza.
Si legge semplicemente che in Italia se si decide di evadere le tasse conviene farlo da ricchi perché i ricchi da noi godono di un’impunità luccicante e modaiola.
Gucci ha ottenuto uno sconto fiscale di 748 milioni di euro. Dice così l’accordo, nero su bianco, tra il fisco italiano e Kering, multinazionale controllata da François-Henri Pinault e proprietaria di marchi della moda come Gucci, Yves Saint Laurent e Bottega Veneta.
«Sette pagine top secret», scrive Stefano Vergine, «che hanno messo la parola fine al contenzioso fiscale iniziato nel 2017, con il colosso del fashion accusato dalle autorità italiane di aver evaso le imposte attraverso un trucco: la Lgi Sa, una società di diritto svizzero ma in realtà operante in Italia, utilizzata per incassare i profitti realizzati nel mondo grazie alle vendite di borse e cinture marchiate Gucci».
Fino a ieri sapevamo solo che l’esborso totale del gruppo sarebbe stato di 1,25 miliardi di euro, di cui 987 milioni erano le imposte da versare insieme a interessi e sanzioni.
Incrociando i documenti della Guardia di Finanza di Milano (che parlava di evasione di imposte in Italia per 1,39 miliardi di euro) e le 7 pagine dell’accordo il calcolo è presto fatto: sullo sconto di 494 milioni di euro basta calcolare le sanzioni e gli interessi non pagati per arrivare alla cifra di 748 milioni di euro.
Si tratta del più dispendioso accordo dell’Agenzia delle Entrate e si tratta di soldi pubblici. Se ci aggiungete che la notizia arriva sulla coda della campagna elettorale era lecito aspettarsi una reazione enorme da parte dei partiti e dei media. Nulla.
Badate bene, la cifra è tre volte la somma delle truffe dei “furbetti” del Reddito di cittadinanza, quei singoli casi di truffa allo Stato (l’1 per cento del totale) che negli ultimi mesi sono state quotidianamente sventolate nell’agone politico.
Restando sempre nel gioco delle proporzioni si potrebbe dire che lo sconto quasi miliardario al marchio del lusso costa come 124.666 redditi di cittadinanza per un anno.
Il caso è una perfetta metafora dell’aporofobia italiana: politici che si ergono a giustizieri tormentando i poveri per qualche centinaio di euro perdono improvvisamente la lingua in bocca quando si tratta di esprimere un’opinione sulle feroci evasioni dei grandi gruppi.
È lo stesso silenzio del resto che si è registrato sulla multa di 4 miliardi di euro a Google per posizione dominante una settimana fa inflitta dal Tribunale dell’Unione europea.
È lo stesso silenzio per i 19 milioni di italiani che evadono le tasse (dato non corretto eppure reso noto da Ernesto Maria Ruffini, direttore dell’Agenzia delle Entrate al Festival dell’Economia di Torino) che in campagna elettorale sono stati citati solo per promettere di sponda una qualsiasi forma di condono.
Nel 2017 (ultimi dati completi disponibili) il tax gap ammontava a oltre 108 miliardi di euro. Per poter fare confronti storici e internazionali, e soprattutto per avere un’idea dell’incidenza del mancato gettito sul bilancio dello Stato, è utile rapportare tale cifra al gettito teorico. Il rapporto così definito (tax gap/gettito teorico) misura, per l’appunto, la percentuale evasa del gettito teorico: nel 2018, il rapporto sfiorava il 29 per cento, escludendo i redditi da lavoro dipendente (dove evadere è praticamente impossibile) e i contributi sociali (per cui i dati non sono disponibili).
Funziona di più l’articolo sdegnato contro un poveraccio che incassa 500 euro al mese che un marchio del made in Italy che risparmia 748 milioni di euro. Anche evadere le tasse da noi è diventato un lusso.
(da tag43.it)
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Settembre 27th, 2022 Riccardo Fucile
L’UOMO POSSIEDE BENI IMMOBILI PER UN MILIARDO DI RUBLI, TRA CUI UNA VILLA, UN APPARTAMENTO E UN TERRENO SULL’ISOLA… LA FIGLIA DEL GENERALE È SPOSATA CON UN SICILIANO, E CON BENI INTESTATI A CAPACI AL NIPOTE DEL GENERALE
La penetrazione dei servizi russi in Italia si fa sempre più inquietante. Ed emergono sempre più dettagli allarmanti su quanto sia stata ramificata, e di quante complicità abbia goduto e quanto sia stata permeabile l’Italia a denaro russo su cui sarebbe stato forse meglio vigilare.
L’ultima inchiesta della Fondazione Anticorruzione di Alexey Navalny rivela che la famiglia di Alexei Sedov, il capo del secondo direttorato dell’FSB – quello incaricato formalmente della difesa della Costituzione e della lotta al terrorismo, in realtà della soppressione del dissenso interno – possiede beni immobili per un miliardo di rubli, tra cui una villa, un appartamento e un terreno in Sicilia.
Sedov possiede una casa di 5.000 metri quadrati a Serebryany Bor, quartiere molto benestante di Mosca, bosco privato e vista sulla Moscova, valore 900 milioni di rubli (circa 15,5 milioni di dollari).
Ma possiede anche un immobile e un terreno di grande pregio in Italia. In Sicilia. Nella zona di Capaci.
Secondo la fondazione Fbk, il generale non può comprare immobili del genere, visto che guadagna circa 8 milioni di rubli all’anno.
La casa di Mosca ha avuto di recente un cambiamento di intestatario, il nome del proprietario dell’immobile è stato modificato in “Federazione Russa”, e sarebbe stata acquistata da uno degli uomini più ricchi di Russia, il miliardario Vladimir Yevtushenkov, che è appaltatore del Ministero della Difesa e capo di “Sistema”, una società che tiene insieme una serie di cliniche.
Anche la moglie di Sedov, impiegata della Banca centrale russa, non ha uno stipendio che possa legittimare questi beni.
Esistono anche altre proprietà, che ci dicono molto su questa famiglia e sul legame tra intelligence e oligarchi. Di Sedov risulta un altro appartamento a Mosca nel quartiere Krasnaya Presnya (valore 35 milioni di rubli, circa 650mila euro).
Il figlio Roman ha anche lui un appartamento nel centro di Pietroburgo, dello stesso valore. Colonnello dell’Fsb a sua volta, si è poi spostato in Gazprom, dove ha un incarico che prevede emolumenti di circa 17mila euro al mese.
La villa in Italia appartiene, secondo i documenti visionati dalla Fondazione Fsk, al genero del generale, un cittadino italiano di cui si hanno le generalità – V. L.
Esistono anche un cottage a Sestroretsk e un appartamento a San Pietroburgo, che sono di proprietà di D. A. S., la figlia del generale, appunto: è lei che ha sposato l’italiano e ama la Sicilia. Dove anche il padre ha trascorso dei periodi. Anche se il luogo abituale delle sue vacanze è Mineralnye Vody. Nel settembre del 2018 la coppia ha avuto un figlio, che ha un nome di battesimo italiano, S., e a cui risulta intestato l’immobile.
Per capire chi sia Sedov, basti ricordare che il secondo servizio del Fsb – erede del malfamatissimo quinto direttorato del Kgb – potrebbe essere coinvolto anche in operazioni all’estero tra le più gravi della Russia di Putin in questi anni.
Secondo il collettivo investigativo Bellingcat, Vadim Krasikov, l’agente russo sospettato di aver commesso l’omicidio del Kleiner Tiergarten a Berlino (dove fu assassinato un ribelle ceceno-georgiano in pieno giorno), ha comunicato a lungo, nelle settimane precedenti l’omicidio, con Eduard Bendersky, un ex membro della sezione Spetsnaz dell’FSB, che era in viaggio di solito proprio assieme al direttore del secondo servizio dell’FSB, il generale Alexey Sedov. Il che lo fa fortemente sospettare di essere implicato in quella vicenda criminale.
(da La Stampa)
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Settembre 27th, 2022 Riccardo Fucile
MENTRE IL PARTITO ESPLODE DALLA RABBIA DOPO IL FLOP ELETTORALE, ZAIA SI LIMITA A CHIEDERE “ALMENO UN’ASSEMBLEA PROGRAMMATICA” E FEDRIGA SI LAGNA PER “I DISTRUTTORI DENTRO IL PARTITO CHE URLAVANO SEMPRE CONTRO” …INTANTO IL CAPITONE PRENDE TEMPO, RIMANDA IL CONGRESSO AL PROSSIMO ANNO E SPERA DI SFANGARLA
La rabbia leghista dilaga sui social. Mentre i governatori chiedono di riannodare i fili con i territori, Matteo Salvini corre ai ripari e convoca per oggi il consiglio federale e, senza troppa fretta, annuncia il congresso. La sconfitta nelle roccaforti storiche, Lombardia e Veneto, brucia come il fuoco. E all’indomani del giorno più difficile, il primo commento è di peso.
È Luca Zaia a dichiarare che «è innegabile come il risultato ottenuto dalla Lega sia assolutamente deludente, e non ci possiamo omologare a questo trovando semplici giustificazioni». Il governatore veneto cita Rousseau («Il popolo ti delega a rappresentarlo, quando non lo rappresenti più ti toglie la delega») e più tardi, alla riunione che Salvini convoca con tutti i governatori, chiede i congressi o, almeno, «un’assemblea programmatica». E invita il segretario a «non sottovalutare il clima nel partito». Salvini, in effetti, non lo fa: tutta la prima parte del suo commento al voto è un lungo omaggio ai militanti che si impegnano «senza chiedere niente».
I toni alla riunione, in ogni caso, non sono incendiari. Oltre a Zaia, prende la parola Massimiliano Fedriga che, secondo i presenti, pone il problema della definizione della linea e definisce «come non possibile che il nostro faticoso lavoro e i risultati nella negoziazione con il governo venissero vanificati da distruttori dentro il partito che urlavano sempre contro».
E il partito, là fuori, ribolle. Si parla di raccolta di firme per il congresso e c’è chi chiede dimissioni, come l’ex segretario lombardo Paolo Grimoldi: «Dignità impone dimissioni immediate. Basta con la barzelletta del regolamento, dei “congressini” e del covid. Serve un unico congresso: quello della gloriosa Lega Lombarda».
Niente da fare, in realtà: «Non ho mai avuto così tanta determinazione e voglia di lavorare», risponde Salvini, e osserva che il suo «mandato è in mano ai militanti, non in mano a due ex consiglieri regionali e un ex deputato». Per concludere, «se qualcuno ha altri progetti, non siamo mica una caserma. Fino a che i militanti lo vorranno, faccio il segretario».
Salvini forse minimizza. Basta leggere cosa scrive l’assessore veneto Roberto Marcato: « Stiamo parlando di un tracollo vero e proprio» ed è un «dato drammatico. Io ho il cuore a pezzi e sono arrabbiato». La richiesta, di nuovo, è «che si vada a congressi, non per finta ma veri».
La mobilitazione su internet è insidiosa. Del resto, la stagione di Umberto Bossi segretario finì proprio con la campagna social organizzata da Salvini per Roberto Maroni.
Gianluca Pini, ex segretario della Lega romagnola, ha rinnovato la richiesta (anche in tribunale) per consentire il congresso della Lega lombarda (cosa diversa dalla Lega per Salvini premier) e minaccia di «denunciare il commissario Igor Iezzi per truffa».
Matteo Bianchi, già candidato sindaco a Varese, torna a parlare di nord: «Tanto tuonò che piovve! Le avvisaglie c’erano tutte: destrutturazione del partito sui territori, abbandono frettoloso dei temi sui quali la Lega è nata e cresciuta per andare in cerca di un facile consenso a latitudini in cui l’alta volatilità del voto è cosa nota».
Così come Antonello Formenti: «Gli elettori ci hanno detto chiaramente che non voteranno più la Lega se non torna a rappresentare il Nord». I congressi non devono essere «quelli delle piccole sezioni ma quelli regionali e nazionale!».
Duri anche altri consiglieri lombardi: per Gian Marco Senna «il voto appare indiscutibilmente come un chiaro momento di rottura di questo legame “sacro” tra la Lega e la propria gente», Ugo Parolo dice «basta con la politica del “decido tutto io” o “degli amici”», Simona Pedrazzi chiede che «chi in questi anni ha lavorato senza ascoltare è giusto che si prenda le responsabilità e se necessario si faccia da parte».
Per Toni Iwobi «i l confronto interno che non c’è stato ora è assolutamente necessario»
Ma Salvini come la vede? Entro la fine dell’anno si completeranno i congressi di sezione, nel 2023 «ci saranno quelli provinciali e regionali. Infine, «ma a quel punto saremo già da tempo al governo» ci sarà «un bel congresso federale con delle idee».
(da Corriere della Sera)
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Settembre 27th, 2022 Riccardo Fucile
DA BOSCHI A ROSATO, RIELETTI TUTTI I SUOI FEDELISSIMI
Eleggere 15 parlamentari, a Camere ridotte, con un partito che a stento arrivava al 2%, salvando sé stesso e tutti i fedelissimi e riuscendo a far contento anche qualcuno dei peones.
È l’oggettivo trionfo di cui si è reso protagonista Matteo Renzi, passato in poche settimane dal concreto incubo di non superare la soglia di sbarramento a un bottino elettorale di tutto rispetto, superiore a forze che godono nel Paese di un consenso ben maggiore.
La sliding door tra i due destini porta il nome di Carlo Calenda: su di lui il leader di Italia viva ha fatto un “all in” da esperto pokerista, facendo credere di essere pronto a correre da solo, ma contando sul fatto che prima o poi il suo ex ministro avrebbe fatto saltare il tavolo delle trattative con il Pd di Enrico Letta.
Così è puntualmente successo, e da quel momento Renzi ha vinto tutte le fiches. Il capo di Azione, venuto meno il cartello con +Europa che è rimasta nel centrosinistra, è stato costretto a rivolgersi a lui per avere a disposizione un simbolo elettorale esentato dalla raccolta firme, e in cambio ha dovuto concedere la metà dei posti sicuri in lista, nonostante nei sondaggi il proprio partito avesse più del doppio dei voti di Iv.
Così, mentre i vari Bonino, Paragone e De Magistris si mangiano le mani per non aver raggiunto il 3%, Renzi gongola festeggiando il massimo risultato ottenuto con il minimo sforzo.
Alla Camera gli eletti di Italia viva sono 10 su 21: a Montecitorio andranno tutti i fedelissimi del Giglio magico, da Maria Elena Boschi a Francesco Bonifazi, Davide Faraone, Luigi Marattin ed Ettore Rosato. Trovano posto anche l’ex ministra Elena Bonetti e il deputato Mauro Del Barba. Poi ci sono i subentrati: Bonifazi, eletto nel collegio Toscana 1 (dove la lista ha preso una percentuale minore, secondo quanto prevede il Rosatellum) lascerà il posto in Toscana 3 a Lucia Annibali. Boschi, eletta in entrambi i plurinominali di Roma, scatterà in quello più periferico, mentre nel collegio centrale al suo posto passerà Roberto Giachetti. Mauro Del Barba, eletto sia in Lombardia 2 – P02 che in Lombardia 4 – P01, lascia il posto nel primo collegio a Maria Chiara Gadda.
Al Senato, invece, oltre a Renzi passano Ivan Scalfarotto e Silvia Fregolent. Ma altri due seggi per Italia viva (per un totale di 5 su 9) scatteranno a causa dell’elezione di Carlo Calenda in tre diversi collegi: sarà proclamato in Sicilia, bloccando Teresa Bellanova, mentre al suo posto in Veneto passerà la senatrice Daniela Sbrollini e nel Lazio la deputata Raffaella Paita (che è ligure). Una pattuglia di tutto rispetto, dunque, che renderà Renzi perfettamente autonomo nelle mosse politiche che deciderà di intraprendere.
E lui non contiene la soddisfazione: nel post scriptum della sua ultima e-news, intitolato “L’angolo del sorriso”, sbertuccia “gli stessi che hanno detto per anni che non sarei mai più tornato in Parlamento, che non avremmo fatto il 3%, che nei sondaggi eravamo morti”, cioè quello che sarebbe successo se non fosse arrivato il soccorso di Azione.
E conclude: “Un abbraccio a chi ci ha considerato tante volte finiti: ci hanno seppellito più volte, non sapevano che siamo semi“. Con un sentito grazie a Calenda.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Settembre 27th, 2022 Riccardo Fucile
MARONI: “CI VUOLE UN NUOVO SEGRETARIO”
I malumori della fronda nordista per lo scarso risultato della Lega di Matteo Salvini iniziano a venire a galla in modo prepotente.
E l’umiliazione elettorale di Umberto Bossi – il cui seggio da capolista a Varese non è scattato a causa della débâcle – rischia di fare da casus belli per l’innesco della resa dei conti all’interno del partito. Anche perché lo stesso Bossi dice che “il popolo del Nord esprime un messaggio chiaro ed inequivocabile che non può non essere ascoltato”.
A farsi portavoce di questo messaggio è l’ex ministro ed ex segretario Roberto Maroni in un contributo pubblicato sul Foglio: “Il congresso straordinario della Lega ci vuole. Io saprei chi eleggere come nuovo segretario. Ma, per adesso, non faccio nomi. Stay tuned”.
Il profilo più immediato è quello del governatore veneto Luca Zaia, che ieri ha parlato di un “risultato deludente” e della necessità di “un’analisi seria sulle cause”. §
Ma un cavallo alternativo potrebbe essere il presidente del Friuli-Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, che ha più esperienza romana.
Il caos rischia peraltro anche di far deflagrare la “pax” siglata nel 2014, quando Bossi e Salvini firmarono una scrittura privata che – tra l’altro – impegnava Salvini a non querelare i membri della famiglia Bossi per l’appropriazione indebita di centinaia di migliaia di euro di fondi del partito usati per spese personali.
Castelli: “Finita la stagione del Salvini premier”
Intanto le voci critiche nei confronti di Salvini, anche da parte degli eletti, iniziano a moltiplicarsi. “Oggi c’è il Consiglio federale. Forse al primo punto dell’ordine del giorno dovrebbe esserci l’ipotesi di cambiare nome al partito. Mi pare che Lega-Salvini premier non sia più attuale”, dice Roberto Castelli in un’intervista all’Huffington post.
“Raccogliamo i frutti di una linea politica sbagliata“, sostiene l’ex ministro della Giustizia, riferendosi al sostegno al governo di Mario Draghi. “La Lega è passata dall’essere un partito no Euro, nel 2018 – se li ricorda i nostri validi economisti, Enrico Borghi e Alberto Bagnai, che dicevano che dovevamo uscire dall’Euro? – al finire nel governo più europeista che potesse esserci. Questa giravolta in molti non l’hanno capita. Mettendo da parte l’autonomia, hanno votato pensando al caro bollette, alla guerra, alle sanzioni. E hanno visto in Giorgia Meloni una persona più affidabile”.
Ma Salvini dunque dovrebbe dimettersi? “Non so cosa deciderà il consiglio federale della Lega – spiega Castelli – La stagione del ‘Salvini premier‘ è finita. Se decide lui di andare avanti, sulla base di quale politica può farlo? Quella del ritorno alle origini? E con quale credibilità?”.
E allora chi sarebbe un successore adeguato? “I nomi – dice l’ex ministro – sono, lì, sul tavolo. Sono i nomi di chi incarna, anche fisicamente, il messaggio autonomista. Mi riferisco ai tre governatori: Luca Zaia, Attilio Fontana, e Massimiliano Fedriga. Quest’ultimo, beato lui, governa una regione che ha già l’autonomia. Credo che il successore sia da trovare tra uno di loro. Sempre che ne abbiano voglia”.
Molto critico anche Paolo Grimoldi.
“La dignità imporrebbe dimissioni immediate. L’unica via da percorrere per uscire da questo disastro e ricostruire il nostro movimento e la credibilità è andare subito a congresso: serve subito il congresso della gloriosa Lega Lombarda”, ha detto ieri il deputato, che oggi ha lanciato una raccolta di firme per la convocazione del congresso della Lega Lombarda.
“Le avvisaglie c’erano tutte: destrutturazione del partito sui territori, abbandono frettoloso dei temi sui quali la Lega è nata e cresciuta per andare in cerca di un facile consenso a latitudini in cui l’alta volatilità del voto è da sempre cosa nota”, ha scritto invece in un duro post su Facebook il deputato varesino Matteo Bianchi, vicinissimo a Giancarlo Giorgetti.
“Non si può pensare di ricondurre le responsabilità del disastro a Draghi e un partito non può reggersi sulla fede, sui commissariamenti e sulla criminalizzazione del dissenso. Noi siamo nati per far crescere i nostri territori: per questo invito i militanti a chiedere la convocazione immediata dei congressi tramite i propri segretari/commissari di sezione”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Settembre 27th, 2022 Riccardo Fucile
ADDIO PROMESSE DELLA CAMPAGNA ELETTORALE
Il nuovo governo di Giorgia Meloni si troverà sul tavolo un conto da 40 miliardi. A politiche invariate, nel senso che la somma servirà solo per confermare aiuti e bonus del governo Draghi.
E questo significa che almeno per la prossima legge di bilancio sarà difficile realizzare qualcuno degli impregni presi con gli elettori durante la campagna.
Mentre l’agenzia di rating Standard & Poor’s fa sapere che l’esecutivo entrante si troverà davanti scelte difficili, con la recessione alle porte e il debito che rischia di implodere.
E il deficit sopra al 5% riduce di 20 miliardi gli spazi fiscali. Gli interventi obbligati sono quelli su energia, cuneo fiscale, pensioni e lavoratori statali. Ovvero proprio le categorie che hanno votato Fratelli d’Italia alle elezioni. Ma nella lista ci sono anche la Legge Fornero, la flat tax e le modifiche al Pnrr.
La resa dei conti
Il primo impegno del nuovo governo Meloni sarà confermare il decreto energia di Draghi. I soldi, spiega oggi Il Sole 24 Ore, arriveranno dall’extragettito e dalla nuova tassa sugli extraprofitti delle imprese energetiche. Da versare entro il 30 novembre.
Per la legge di bilancio l’Italia chiederà un rinvio all’Unione Europea. Anche perché per il varo del nuovo esecutivo si pensa di arrivare alla fine di ottobre. Le previsioni della Nadef (la nota di accompagnamento al Documento Economico Finanziario del governo) porterà un prodotto interno lordo allo 0,7% di crescita rispetto al Def di aprile.
Ma sia Fitch che S&P hanno pronosticato invece una crescita negativa per il 2023. Intanto il deficit tendenziale arriverà al 5%. L’inflazione viaggerà al 4,5%. I conti sono impietosi.
Il quotidiano spiega che i crediti di imposta sugli acquisti energetici delle imprese allargati dal decreto Aiuti-ter, primo impegno normativo del nuovo Parlamento con la legge di conversione, costano poco più di 14 miliardi a trimestre.
Nella prossima legge di bilancio si dovrà poi completare il percorso di adeguamento delle pensioni all’inflazione. Tre punti sopra alle stime di aprile significano un esborso di 8-10 miliardi.
La conferma del taglio del cuneo fiscale nelle buste paga invece comporterà una spesa di 3,5 miliardi. Cinque miliardi invece è la cifra che serve per cominciare il rinnovo dei contratti pubblici. Che a regime, con l’adeguamento dell’inflazione, potrebbero arrivare a 16.
Infine, tre miliardi servono per l’azzeramento degli oneri di sistema delle bollette e per il gas. E altri tre per il taglio delle accise su benzina e gasolio. Da finanziare anche le missioni internazionali, le armi all’Ucraina, gli aiuti ai profughi della guerra. Ed ecco che il conto di 40 miliardi è pronto.
Il governo Draghi e la legge di bilancio
Il governo Draghi, in carica per gli affari correnti, ha già fatto sapere di non voler affrontare la legge di bilancio. Il ministro dell’Economia Daniele Franco si è limitato a invitare i successori a restare sugli obiettivi del Def.
Molto dipenderà in ogni caso dai tempi per la formazione del nuovo esecutivo. Se, come l’esito delle urne suggerirebbe, si dovesse fare in fretta, chi arriverà potrà contare su un margine informale di qualche giorno di tolleranza o sulla richiesta formale di una proroga un po’ più lunga. Solo se, viceversa, si ripetesse lo scenario vissuto a inizio della scorsa legislatura potrebbe essere questo esecutivo a farsi carico anche di presentare il Dpb.
Magari in una versione light, da integrare non appena effettuato lo scambio della campanella. Il documento che arriverà in Cdm dovrebbe intanto certificare la performance del Pil superiore alle aspettative per quest’anno, con un +3,3%, ma anche un netto rallentamento nel 2023, che potrebbe fermare l’asticella tra lo 0,6 e lo 0,7%, con una crescita più che dimezzata rispetto al 2,4 ipotizzato in primavera. Un quadro che si complica e che, senza ricorrere a scostamenti, lascia pochi margini di azione. Qualunque sarà l’esecutivo cui toccherà l’onere di andare avanti.
(da agenzie)
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Settembre 27th, 2022 Riccardo Fucile
ALTRO CHE UOMINI VERDI DI BUONA VOLONTÀ, SONO MERCENARI BELLI E BUONI CHE FANNO IL LAVORO SPORCO CHE LE TRUPPE REGOLARI NON POSSO FARE… IL FONDATORE DELLA BRIGATA WAGNER È DIVENTATO UN MINISTRO-OMBRA MAL SOPPORTATO DAL MINISTRO DELLA DIFESA, SHOIGU
Non che non l’avessimo capito. Solo due giorni fa, dal podio dell’assemblea generale dell’Onu, il colonnello golpista maliano Abdoulaye Maiga era salito a ringraziare pubblicamente i mercenari di Wagner che Putin ha inviato in Africa, «esemplare e fruttuosa collaborazione fra Mali e Russia». E in Siria la stampa araba parla di «vuoto russo», da quando il Cremlino ha richiamatogli uomini di Wagner per spostarli nel Donbass.
E nel Donetsk che domani verrà annesso alla Russia coi finti referendum, nelle acciaierie ucraine Yenakiieve e Steel Works, 500 operai sono stati arruolati a forza e portati ad addestrarsi con gli istruttori di Wagner. Non che non si sapesse. Però a dircelo ieri è stato l’uomo che ha fondato Wagner, Evgeny Prigozhin, 61 anni, il famoso «cuoco di Putin», che per la prima volta l’ha ammesso pubblicamente: i miei soldati, altro che semplici patrioti, altro che omini verdi di buona volontà, sono mercenari bell’e buoni. E dipendono direttamente dal Cremlino.
«E ora, una confessione», ha detto Prigozhin. La domanda gliel’ha fatta un giornalista che s’ era stupito del video circolato giorni fa, dove si vedeva l’amico di Putin arringare un gruppo di detenuti d’un carcere per convincerli a combattere: Evgeny Viktorovic, gli ha chiesto, non neghi più d’essere l’arruolatore per conto del Cremlino? Ebbene, ha ammesso lui, «nel 2014 ho fondato il Gruppo tattico Wagner proprio per poter inviare soldati capaci nel Donbass».
Come andò? «Il primo maggio, nacque il primo gruppo di patrioti. Questi ragazzi hanno difeso i russi dal genocidio, il popolo siriano dagli altri arabi, hanno combattuto i demoni africani e latinoamericani. Sono diventati il pilastro della nostra patria». Un lavoro da imprenditore, lo descrive lui: «Nel 2014 andai nei centri d’addestramento dei nostri cosacchi, per investire soldi e reclutare uomini armati che potessero muoversi rapidi a protezione dei russi. Ma vidi che i cosacchi non funzionavano. Allora formai un gruppo mio, andando in un poligono e rimboccandomi le maniche. Gettai via le vecchie armi, selezionai le persone che potessero aiutarmi. E in poco tempo fummo pronti a liberare l’aeroporto di Lugansk e a cambiare il destino del Donbass».
L’ammissione ha un suo peso. Il legame fra il «cuoco» e Putin dura dai tempi di San Pietroburgo, da quando Prigozhin accoglieva nel suo ristorante il futuro presidente.
In questi otto anni, i due son sempre stati ben attenti a tenere il Cremlino fuori dalle attività di Wagner: a Mosca c’è una sede ufficiale, si pubblicano bandi d’arruolamento, ma ai media finora era vietato nominare il gruppo armato.
Figurarsi indagare. Qualche «cane giornalista» che l’ha fatto, «sputando, cercando elementi negativi, trovando i panni sporchi» (parole di Prigozhin), è morto.
Alle famiglie dei mercenari caduti, il silenzio viene pagato da Putin fino a 50 mila dollari. Le decorazioni sono conferite con cerimonie segrete. E pochi mesi fa, lo Zar negava quel che tutti sanno: che gl’invisibili di Prigozhin fanno ovunque il lavoro sporco che le truppe di Mosca non possono rivelare.
«Se prima facevamo tutti finta che non esistessero – svela Special Task Channel, un blog vicino al Cremlino -, ora è diverso. Loro non sono più indefiniti volontari che combattono. Sono gli uomini di Wagner!». Le sconfitte di queste settimane stanno lasciando ferite. E se il leader ceceno Ramzan Kadyrov contesta la strategia, qualcosa sembra muoversi anche nei palazzi: il responsabile della Difesa, Sergej Shoigu, soffre il ruolo del «cuoco», ormai il ministro-ombra della campagna militare. Prigozhin s’ è conquistato i meriti sul campo, «ho difeso gl’interessi del Paese e protetto gli svantaggiati» dal Centrafrica al Venezuela, dalla Libia alla Crimea, sollevando spesso invidie e sospetti.
All’inizio dell’Operazione speciale – rivela un corrispondente militare russo – i generali moscoviti avevano tagliato fuori i mercenari di Wagner, pensando di prendere Kiev in pochi giorni: «Quando però è iniziata la guerra di trincea, sono dovuti ricorrere» a loro. E anche ora che le cose si complicano, i wagneriani vengono indicati, citati, esaltati. «Sono i primi musicisti della nostra orchestra!», dice un po’ retorico un inviato tv di Rossiya1: chiamati a cambiare spartito
(da il Corriere della Sera)
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Settembre 27th, 2022 Riccardo Fucile
I FLUSSI ELETTORALI RACCONTANO DUE ITALIE SEMPRE MENO CONCILIABILI: IL NORD VA A DESTRA E UN SUD IMPOVERITO CHE SI E’ AFFIDATO A CONTE (IN ASSENZA DI UNA VERA SINISTRA)… MORALE DELLA FAVA: VOLETE TOGLIERE IL REDDITO DI CITTADINANZA? PORTATE LAVORO E SVILUPPO AL SUD
Chissà se c’entra davvero la maledizione del 1799 per il massacro degli illuministi napoletani, come pensava Raffaele La Capria. O se il suo destino di eterna patria dei lazzari sia solo figlio di miserie tutte contemporanee, senza nobiltà.
Di sicuro, se un cittadino su due non va a votare e, tra chi vota, quattro su dieci si mostrano devoti al sussidio di Stato, Napoli si pone come caso nel caso, vera capitale d’una disunità d’Italia che da domenica mostra qualche linea di faglia più profonda.
Semplificando: pil e sviluppo al Nord, reddito di cittadinanza e assistenza al Sud.
«È la vecchia foto che riappare, con un dettaglio più drammatico: chi può, ormai, scappa dal nostro Meridione», sospira il politologo Mauro Calise. I flussi elettorali raccontano due Paesi sempre meno conciliabili, quasi in «conflitto di nazionalità», avrebbe detto Gramsci poco meno di un secolo fa.
La rimonta pentastellata (dall’estinzione annunciata alla conquista del terzo polo nazionale) ha radici in un Sud spaventato e marginale, con tassi di disaffezione dalle urne patologici in Campania, Sardegna e Calabria (a San Luca d’Aspromonte, record di abbandono della democrazia, ha votato appena il 21%).
Ma proprio a Napoli la remunta da contiana ha la sua fioritura, con un 42% di consenso in città e picchi del 64% in quartieri disagiati come Scampia. «Hanno preso tutti i collegi maggioritari, abbiamo perso undici a zero», dice lo sconfitto Stefano Caldoro, anima e memoria del centrodestra.
Napoli è a sinistra rimpianta per il campo largo, di cui il sindaco Manfredi era stato espressione vincente: e dunque distilla veleni contro il segretario Pd Letta che l’ha archiviato dopo la caduta di Draghi provocata da Conte. Ma è anche la città dove a destra perfino la trionfatrice di domenica, Giorgia Meloni, deve accontentarsi della metà dei consensi nazionali.
«Conte ha usato lo slogan comunicativo di maggior successo, facile, comprensibile e di applicazione immediata: reddito di cittadinanza. S’ è ripreso il partito con parole d’ordine che dovrebbero essere della sinistra», medita Calise.
La rinnovata dialettica Cinque Stelle-Pd pare insomma sovrapporsi alla divisione geografica del voto e all’identità stessa dell’elettorato progressista. «Destra a Nord e sinistra a Sud, se tieni a sinistra anche i Cinque Stelle, ecco la prima spaccatura», riflette Domenico De Masi, sociologo di riferimento del grillismo: «Il Pd non è più di sinistra ma dice di esserlo, i Cinque Stelle sono di sinistra ma non lo dicono: ecco la seconda spaccatura. Ora, non è che a Nord hai 30 milioni di lettori di Adam Smith e al Sud 30 milioni di seguaci di Carlo Marx. Ma a Nord prevale il neoliberismo e il Sud si ritrova a essere keynesiano a sua insaputa. Nelle crisi si riscopre lo Stato. Il reddito di cittadinanza è stato un mood . Ma è un mood mondiale. Non è solo economia, è ideologia, vivaddio».
Ma non appare certo semplice per chi s’ accinge a governare tenere assieme una «Nuova Italia» nella quale (secondo le analisi di Paolo Perulli e Luciano Vittoretto) le élite si sviluppano soprattutto a Nord-Ovest e il Sud presenta una concentrazione massima (al 62%) di «neoplebe», «non più protetta dai sistemi assicurativi e di welfare, mescolata a fenomeni diversi come l’evasione fiscale e il lavoro nero o grigio». Luca Bianchi dice che il caso Napoli «è choccante: si sono allineate un’offerta tutta assistenziale e una domanda altrettanto di basso livello».
Secondo il direttore di Svimez, autore di una preziosa analisi sul «divario di cittadinanza», il modello «da terremoto dell’Irpinia» non riflette una società che sta cambiando e ha elementi di vitalità «che nessuno intercetta». Può derivarne una lettura meno negativa dell’astensionismo meridionale.
Un pragmatico come Antonio D’Amato, presidente della Fondazione Mezzogiorno e già leader degli industriali napoletani, ha pubblicato un anno fa un rapporto che legava lo sviluppo nazionale a quello meridionale, invocando una crescita del tasso di occupazione di almeno 15 punti in dieci anni al Sud. Era il tempo di massima spinta del Pnrr a trazione draghiana. Ora D’Amato rilancia: «Il Nord è saturo, il potenziale di sviluppo è tutto qui». Sostiene però Calise che il problema vero non siano i soldi ma chi li gestisce.
La grande fuga dei giovani cervelli meridionali è ormai inarrestabile, con la sparizione di ciò che lui chiama middle management , quei quadri intermedi che innervano un’azienda: «Come fai a investire al Sud se il middle management è andato altrove? Ti restano solo politiche redistributive». «Sì. Pesa il voto di scambio fatto coi soldi dei contribuenti», ammette D’Amato: «Ma sono anche fallite le politiche di convergenza tra il Sud e il resto del Paese. Regioni come Campania e Puglia sono state inadempienti nell’uso dei fondi strutturali, e hanno aggravato la crisi di civiltà del Sud. Abbiamo il serbatoio di intelligenze più ricco d’Europa.
Ora ci vuole una visione unitaria dello sviluppo italiano se no si fa default. Meloni non ha alternative». L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà: doveva essere un auspicio quando Mazzini lo scriveva. Da Napoli, tante pagine di storia dopo, pare quasi una minaccia.
(da il Corriere della Sera)
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Settembre 27th, 2022 Riccardo Fucile
SENZA CONTARE CHE IN PRIMAVERA 2023 SCADONO I VERTICI DI ENI, ENEL, LEONARDO, POSTE, TERNA, AMCO, CONSIP: GIRANO GIÀ LE PRIME LISTE, CON IL BORSINO DI CHI SALE E CHI SCENDE
Il suo principale pregio, a questo punto, è di essere finita. La più scontata, statica, vacua, povera, campagna elettorale che la storia repubblicana abbia celebrato lascia adesso il posto a una questione che, visto l’andazzo trionfale, è avanzata a passo di leone nel corso delle settimane.
Una questione che occupa i pensieri della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e, con le dovute proporzioni, del suo cerchio magico o «bunker» (in Fdi c’è chi lo chiama così) e occupa i pensieri della leader assai più di quanto non facciano gli atti della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, le polemiche per i contestatori in piazza, e forse persino la spericolata difesa d’ufficio del premier ungherese Viktor Orbàn (eseguita forse non sapendo la differenza tra una democrazia liberale e una illiberale o, peggio, sapendola benissimo).
Una questione che suona così: adesso il potere come lo distribuisco?
«Ci sono centinaia e centinaia di poltrone da occupare», sussurra tra il preoccupato e il goloso uno dei consiglieri occulti della regina o meglio del re (Meloni si fa chiamare «il presidente di Fdi», vorrebbe fare «il premier» non ama la declinazione al femminile, le parrebbe di essere discriminata). Si stendono dunque liste, a cento nomi si arriva in un attimo.
Di governo, sottogoverno, per la burocrazia, per le partecipate: uno spoils system di tutto rispetto. Anche perché, oltre a tutte le nomine politiche, per la primavera 2023 è previsto un pozzo di nomine generosissimo per la scadenza dei vertici di Eni, Enel, Leonardo, Poste, Terna, Amco, Consip, Consap, Sogin, Enav, giusto a citare i maggiori: oltre cinquecento poltrone da assegnare tramite Tesoro e Cdp, qualcosa di talmente ampio da aver fatto pensare ai maligni, prima dell’estate, che Mario Draghi o chi per lui sarebbe stato disposto ad allungare artatamente di qualche mese il governo al solo fine di poterle decidere.
Ma tant’ è: per il futuro, giusto ad anticipare qualche nome, appare già ben posizionato l’ad Claudio Descalzi, per una riconferma all’Eni, l’ad di Terna Stefano Donnarumma, già visto a Milano alla Conferenza programmatica di FdI in primavera, mentre gira anche il nome di Paolo Gallo di Italgas e dell’ex ceo di Fincantieri Giuseppe Bono.
Andrea Abodi, ad del Credito sportivo, il nome che Meloni aveva fatto per il Comune di Roma, potrebbe andare a Sport e Salute spa o, secondo altri, alla presidenza del Coni. E si potrebbe proseguire, stile Pagine gialle, per chi se le ricorda.
La destra s’ avanza, come mai prima nella storia d’Italia. E il mazzo è in mano a Fratelli d’Italia, mai accaduto sin qui. Bisognerà vedere gli effetti di questa rivoluzione di settembre, di questa Marcia su Chigi.
Già se ne possono indovinare i volti, proviamo a fare dei nomi. Tanti da un giorno all’altro si ritroveranno parecchi amici di cui non sapevano niente, come accadde a Gianni Alemanno quando conquistò il Campidoglio, come alla fine accade sempre, ovunque piombi il potere: compagni di classe e di scuola, compagni di scout e di nuoto, vicini di casa, amici dei genitori, parenti fino al terzo grado.
Attestati di stima e amicizia che cadranno a palate sugli amministratori di oggi: Marco Marsilio in Abruzzo, Francesco Acquaroli governatore delle Marche devastate dal fango, sul sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi.
Le banche d’affari stanno già facendo i conti con il nuovo governo, e puntano il dito sulle tante promesse elettorali (taglio delle tasse) che potrebbero far esplodere i conti pubblici, mentre il Pnrr potrebbe essere rimesso in discussione, con le riforme che rischiano di finire a gambe all’aria.
Insomma Meloni dovrà chiarire abbastanza presto in che senso, come in piazza Duomo a Milano, «la pacchia è finita», posto che come ha fatto notare in un tweet, fra gli altri, Carlo Cottarelli, «nel 2020-21 abbiamo ricevuto 350 mld dalla Bce a altri arrivano, 20 mld dallo Sure, 200 mld dal recovery plan (in parte già incassati) e ci siamo permessi di dire no al Mes».
In effetti che sia finita la pacchia è verosimile, bisognerà vedere chi gestirà l’ingrata fase. Personaggio chiave è dunque il ministro dell’Economia, casella per la quale Meloni sin dall’inizio punta su Fabio Panetta. Banchiere centrale, in Bankitalia dal 1985 fino a diventare direttore generale, carriera con Ciampi, Fazio, Draghi e Visco, politicamente vicino alla destra, abituato a masticare di politica perché suo padre è stato capo di gabinetto di un ministro di Spadolini, sarebbe la persona giusta. Ci sarebbe stato anche un colloquio diretto con Meloni nel mese d’agosto.
Piccolo problema: Panetta aspira a diventare governatore della Banca d’Italia e, come osserva un’alta fonte, «se non fa niente, se resta fermo dove è, lo diventa». È chiaro quindi che servirà, nel caso, un qualche ulteriore alto pressing per smuoverlo: un discorso analogo vale anche per Roberto Cingolani, il ministro alla transizione ecologica che Meloni farebbe di tutto per tenersi, ma che ancora deve essere convinto a rimandare il ritorno al suo mondo, alla sua carriera.
Negli ultimi giorni per le caselle del Mef sono spuntate altre due opzioni: da una parte lo spacchettamento, come ai tempi d’oro di Silvio Berlusconi.
Dall’altra il nome di Domenico Siniscalco, che nei primi anni Duemila si diede la staffetta con Giulio Tremonti. Ecco: se Siniscalco è in ascesa, Tremonti no. Nota è la sua ambizione di tornare a sedere nella poltrona che lo vide superministro: altrettanto improbabile che si realizzi, a meno di non voler fare la mossa più antidraghiana che esista, posto fra l’altro che super-Giulio spende i tre quarti delle sue dichiarazioni in punzecchiamenti all’ex presidente della Bce.
Di qui la sua candidatura con Fratelli d’Italia: una specie di premio di consolazione proprio per poter sventolare il nome di Tremonti senza poi trovarselo in casa.
Un paradossale destino tra la vecchia gloria e la bella statuina che coinvolge anche un altro big delle liste: Marcello Pera. L’ex presidente del Senato, data l’età e le condizioni generali, sarebbe visto meglio come presidente di una qualche bicamerale, se mai si farà.
Per le caselle dell’esecutivo si assiste infatti a questo particolare fenomeno: scarsa disponibilità a mettersi in gioco, viste la difficile prospettiva e la credibilità non esattamente granitica di cui godono Meloni e il suo apparato.
Insomma anche per chi non concorda con i timori alla Bernard-Henry Lévy e per chi non teme la calata dei lanzichenecchi neofascisti sul Palazzo, lanciarsi nell’impresa e rischiare, magari rinunciando a ottime posizioni o offerte di lavoro, è un’opzione non esente da dubbi.
Vale non solo per Panetta o Cingolani. Persino uno come Guido Crosetto, per dire. Cofondatore di Fratelli d’Italia, consigliere ascoltatissimo della principessa (del principe?), indicato per varie caselle di peso tipo flipper (ministro? sottosegretario alla Presidenza?) dovrà tuttavia lasciare la presidenza dell’Aiad, incarico di potere, di prestigio e di remunerazione che ha già preferito a quello in Parlamento. Farlo gli costa.
In compenso, ci sono frotte di «pronti», come da slogan elettorale, magari dopo una lunga attesa. Ci sarà sicuramente un posto per Giovanbattista Fazzolari, l’uomo del programma, il consigliere per le questioni spinose, il fan di soluzioni non lisce come quella del blocco navale. Ci sarà un posto da ministro per Raffaele Fitto, l’uomo che ha aperto le porte dei Conservatori europei e che può con questa occasione concludere il suo dorato esilio di Bruxelles, dopo averci provato invano nel 2019 con la corsa per la Regione Puglia.
Ci sarà per Fabio Rampelli, primo inventore e promotore di Meloni, anche se probabilmente non la presidenza della Regione Lazio che sarebbe stata tra i desiderata del vicepresidente della Camera, appena un gradino sotto quella di sindaco (già negatagli un anno fa).
Del resto questa tendenza a non accontentare più di tanto compagni, fedelissimi e luogotenenti appare abbastanza spiccata in Meloni: ci sarà infatti sicuramente un posto per Francesco Lollobrigida, detto il Cognato, ma a quanto pare nulla di ministeriabile: egli continuerà pare a fare il capogruppo alla Camera. Visto l’andazzo c’è bisogn
Per il governo si preferisce pescare appena fuori: così l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata si gioca il ritorno alla Farnesina contro l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, già Alto rappresentante civile Nato in Afghanistan. Per l’Interno, invano desiderato da Matteo Salvini, ci sono l’ex vicecapo della Polizia Giuseppe Pecoraro, già prefetto di Roma (nominato da Maroni), e l’attuale prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, che fu capo di gabinetto e di fatto facente funzioni del ministro quando al Viminale c’era il leghista. Una poltrona importante dovrebbe averla Adolfo Urso, presidente del Copasir, fin troppo accurato in questi giorni nella sua funzione di rassicurazione oltreoceano circa l’affidabilità di Fratelli d’Italia.
Non è ancora chiaro in che mani finirà la Cultura: dopo lo scivolone su Peppa Pig è però assai più probabile che Federico Mollicone finisca a stampare francobolli che non al posto di Dario Franceschini.
Ci sarebbe Luca Ricolfi, editorialista di Repubblica, il quale a sua volta nel partecipare in collegamento alla Conferenza programmatica di Fratelli d’Italia si era però di fatto candidato all’Istruzione. Poi, con questi intellettuali, vai a sapere.
Piacerebbe assai una collocazione per Giovanni Orsina, politologo e docente Luiss, che viene consultato da Meloni per i rinforzi all’identità conservatrice, una per Luigi Di Gregorio, docente di Scienze politiche all’Università della Tuscia, che viene ascoltato con discrezione per le questioni di campaign management e comunicazione.
Cerca un ruolo Riccardo Pugnalin, già socialista e forzista, ex Sky italia, poi Vodafone, che ora dà consigli sulle nomine.
Anche Francesco Filini, il coordinatore Ufficio studi FdI, dovrebbe accedere a un ruolo meno invisibile. Gli intellò della destra del resto non sono tanti. Resta ascoltatissimo Angelo Mellone, che si dice sia pure il ghost writer di Io sono Giorgia. Non manca mai Alessandro Giuli, editorialista di Libero e ormai anche volto tv.
Ci saranno sicuramente i volti che aleggiano sulla Rai da tempo immemore: il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, quello di Rainews24 Paolo Petrecca. E Giampaolo Rossi, l’ideologo del manifesto dei conservatori, che già si sente talmente in parte da raccontare come sarà la Rai di destra guidata da lui («faremo gli stati generali della tv pubblica») e da offrire consigli sui prossimi palinsesti via comoda intervista sul Foglio: «In questi giorni sto guardando una fiction spagnola molto divertente e coraggiosa. È ambientata durante la guerra civile, ma franchisti e repubblicani si alleano per combattere contro una invasione di zombie», racconta. Bellissima idea, davvero: ancora non è cominciato niente e già sembra di stare in un film di Nanni Moretti.
(da l’Espresso)
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