Settembre 1st, 2022 Riccardo Fucile
VALENTINA NAPPI FA IL RITRATTO DEI SOVRANISTI
La campagna elettorale in corso non si combatte solo tra leader di partito: molto si fa anche al di fuori dei confini strettamente politici, per così dire, specie quando il dibattito si accende per mano di personaggi dello spettacolo o influencer.
Questa volta a dire la sua è stata la pornostar Valentina Nappi, che sui social di certo non le ha mai mandate a dire.
Nota soprattutto per le sue uscite dissacranti e contrarie a ogni forma di “politicamente corretto”, l’attrice hard è oggi intervenuta esprimendo il proprio parere sulle elezioni del prossimo 25 settembre.
Nello specifico, Valentina Nappi si è espressa in modo neanche troppo velatamente critico verso certi valori promossi dal Centrodestra che, a suo dire, poco rispondono alla realtà dei fatti.
Valentina Nappi ha scritto su Twitter: “‘Dio, Patria, Famiglia’ ma sono tutti divorziati, evasori fiscali e cattolici con il culo degli altri”.
Un chiaro riferimento ai “valori” promossi dal Centrodestra a trazione meloniana, ma anche a quanto affermato appena qualche giorno fa dalla direttrice d’orchestra (e figlia di un dirigente di Forza Nuova) Beatrice Venezi, che aveva detto: “Mi vergognerei se avessi una madre come la Cirinnà, Dio, Patria, Famiglia sono i miei valori”. Una frase, questa, rilanciata pure da Fratelli d’Italia (di cui Venezi ha dichiarato sostanzialmente di essere sostenitrice), che l’ha pubblicata sui propri social e che ha fatto molto discutere.
(da agenzie)
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Settembre 1st, 2022 Riccardo Fucile
UN GOVERNO A TRAZIONE MELONI AVRÀ UN BISOGNO DISPERATO DEI MODERATI DEL CENTRODESTRA, NONOSTANTE I SONDAGGI INCHIODINO FORZA ITALIA AL 7%
In Forza Italia ha girato per qualche giorno un foglietto, nelle mani di pochi ma sulla bocca di molti, con la composizione del futuro governo Meloni e la quota riservata ai ministri azzurri: Esteri ad Antonio Tajani, Istruzione a Licia Ronzulli e Affari europei ad Anna Maria Bernini. Raccontano che giri già un altro prospetto dei ministri in cui cambiano le caselle ma non i nomi: sempre quei tre, fotografia della nuova linea di comando in Forza Italia dopo che Silvio Berlusconi ha dato via libera alla caduta del governo Draghi e dei tre ministri forzisti che la diarchia Ronzulli-Tajani, citata non in ordine alfabetico, considerava poco meno che abusivi come rappresentanti del partito.
Di foglietti e giri virtuali di poltrone, d’altra parte, è probabile che se ne accumulino molti da qui al 25 settembre.
Ma se non possono cambiare i rapporti di forza dentro a ciò che resta del partito berlusconiano, può cambiare eccome il peso che Forza Italia avrà nel probabile nuovo governo delle destre. Gli ultimi sondaggi, infatti, sono deprimenti e non autorizzano certezze sul numero e il peso dei ministeri che gli azzurri potranno rivendicare.
I numeri della sondaggista Alessandra Ghisleri, che negli anni d’oro di Forza Italia aveva spesso visto prima dei suoi colleghi le onde elettorali buone per il Cavaliere, sono impietosi: 7 per cento e sorpasso del polo Calenda-Renzi, quotato al 7,5.
Ma anche le rilevazioni di Antonio Noto, appena più generose, 8 per cento per FI, confermano la momentanea retrocessione dietro il cartello di Azione e Italia viva.
Se il voto confermasse questa previsione, Forza Italia diventerebbe il sesto partito a livello nazionale. È vero che i voti di Berlusconi resterebbero decisivi in Parlamento per la formazione del governo, come il Cavaliere ha voluto sottolineare nella sua ultima intervista, ma il ridimensionamento sarebbe netto
Non tale, comunque, da impedire al Cavaliere di perseguire il sogno di accaparrarsi la presidenza del Senato: difficile che gli alleati gli neghino la carica se davvero Berlusconi la chiederà a dispetto degli anni e dell’impegno necessario a ricoprirla.
Non è chiaro quanto Berlusconi sia consapevole del possibile tracollo del partito. L’ex presidente del Consiglio conta di fare una campagna elettorale vera, anche in presenza nelle piazze nelle ultime due settimane, almeno per quanto sarà possibile. Per ora ci sono i programmi e i tg di Mediaset a trainare, in attesa dello sbarco su Tik tok.
Si vocifera molto in Forza Italia della volontà di fare massa insieme alla Lega dopo il voto, per arginare lo strapotere di Meloni.
Tuttavia, se le stime elettorali non sono sballate, il rischio che Forza Italia e Carroccio restino nettamente dietro a Fratelli d’Italia anche sommando i rispettivi consensi, e magari facendo gruppi comuni in Parlamento, appare una ragionevole certezza.
Con Matteo Salvini, al momento, Berlusconi è federato solo nel rischio comune di uscire da sconfitto in una tornata elettorale trionfale per la coalizione. L’ipotesi, invece, che Forza Italia possa smarcarsi dal centrodestra dopo le elezioni per convergere su un nuovo esecutivo di ispirazione centrista sembra pura fantapolitica, tanto più se il vantaggio del centrodestra in Parlamento sarà quello previsto da sondaggi.
Lo smottamento di FI sul territorio è in corso da anni, una transumanza continua, prima verso la Lega, quando Salvini pareva destinato a essere il nuovo padrone della coalizione, negli ultimi mesi anche in direzione di FdI e ovviamente di Azione, dove sono approdate le ministre Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna con il loro pacchetto di consensi personali. I risultati di questa emorragia saranno visibili soprattutto in alcune regioni, Lombardia e Campania su tutte.
Senza le filiere di consenso sul territorio, FI rischia di rimanere appesa al voto d’opinione, quello sul quale ha più perso terreno negli ultimi anni, basta dare un’occhiata ai dati delle grandi città.
Le liste compilate da Ronzulli e Tajani hanno lasciato tanti scontenti, due figure di grande peso in passato come Valentino Valentini e Sestino Giacomoni sono state candidate in posizioni defilate, a molti esclusi è stato promesso un posto da sottosegretario, in qualche caso da Gianni Letta in persona, sebbene pure il potere dell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio si sia molto ridotto nella nuova stagione.
Ai tanti scontenti è rimasta nell’orecchio la battuta con cui si è congedato dal partito il senatore Andrea Cangini, che a luglio votò la fiducia a Draghi ed è ora candidato con Calenda: «La famiglia – diceva Cangini – ha dato a Ronzulli due mandati, liquidare la Pascale e liquidare Forza Italia. Mi sembrano realizzati entrambi ».
(da Dagoreport)
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Settembre 1st, 2022 Riccardo Fucile
LA RETROMARCIA DELLA LEADER DI FRATELLI D’ITALIA SPIAZZA LA DESTRA TOSCANA E METTE IN IMBARAZZO IL SINDACO FERRARI: “MELONI PERDERÀ TANTISSIMI VOTI SU QUESTA STORIA”
«Qui rischiamo di apparire quelli che non appena intravedono il governo voltano le spalle a Piombino» è il tam tam nelle chat e nelle telefonate tra dirigenti e quadri toscani dei Fratelli d’Italia.
Il sindaco di Piombino Francesco Ferrari, astro nascente del partito e fin qui paladino del no, prova a sfoggiare aplomb, a dire che Meloni non ha proprio detto sì al rigassificatore in città: «Che una leader di partito in odore di governo del Paese si dica disponibile, senza che si allunghino i tempi, a prendere in considerazione altre sedi, apre uno spiraglio» scrive sui social. Ma sotto tutti a rimbrottarlo: «Ma dai, chi ci crede?».
Mai psicodramma più amaro aveva agitato la destra toscana da mesi come quello aperto dalle parole di Giorgia Meloni sul rigassificatore: «Se non ci sono alternative si fa a Piombino» ha detto martedì aggiungendo già che ci sarà da parlare delle compensazioni per la città, quelle su cui da mesi battaglia il governatore- commissario, il Pd Eugenio Giani, e di cui Ferrari non ha mai nemmeno voluto ragionare.
La coriacea disciplina di partito meloniana spinge il segretario Fdi piombinese Danilo Dilio a negare subbugli e rivolte: «Se ci verrà davvero chiesto il sacrificio del rigassificatore da un nostro governo ci occuperemo della sicurezza, essenziale».
E però i comitati del no, fin qui a braccetto con Ferrari, si rivoltano: «Meloni perderà tantissimi voti su questa storia» avverte la dirigente Roberta Degani.
Ai gazebo della destra a Piombino e dintorni maldipancia e delusione dei militanti fioccano. Ferrari, imbarazzato e spiazzato, ci mette 24 ore a partorire una dichiarazione che concorda passo passo con Meloni e alla fine quasi si mostra più cauto: «Il Comune tutelerà la sua comunità e la sicurezza, consapevole dell’emergenza energetica del Paese». Dieci giorni fa aveva giurato che «Meloni è d’accordo con me, qui il rigassificatore non si deve fare», adesso chi ci ha parlato in privato lo descrive «nero ».
Addirittura con qualcuno si sarebbe spinto a minacciare di lasciare il partito se un governo a guida Meloni non garantisse massimo impegno su un’altra location per la nave gasiera Snam.
Pure gli alleati del centrodestra, Lega e Forza Italia, sono in tilt: «Meloni alla fine ha detto sì? Ovviamente…dire di no è impossibile » taglia corto il coordinatore dei berlusconiani Massimo Mallegni, sempre stato abbastanza favorevole.
«La Meloni? Beh, ha espresso cautela. Il prossimo governo comunque si troverà tante cose già fatte…» prova ad arrampicarsi sugli specchi il deputato ricandidato del territorio Manfredi Potenti, uno che girava con le bandiere del no alle manifestazioni.
Dicono gli strateghi di Meloni che lei non sta bluffando, è già a caccia di alternative, pensa ad un rigassificatore bis a Ravenna per salvare la città toscana: «Noi facciamo sempre quel che reputiamo giusto, mica quello che è più semplice, altrimenti avremmo appoggiato sia Conte che Draghi» rivendicano. «Positivo il passo avanti di Meloni. Piombino è l’alternativa migliore» si gongola Giani mentre sul Pd fin qui diviso calano le parole di Letta: «Va fatto a Piombino. La resistenza va capita. Le bonifiche vanno fatte».
(da agenzie)
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Settembre 1st, 2022 Riccardo Fucile
LA PENOSA “OPERAZIONE GIOVANI” DEI LEADER DI PARTITO
“Operazione giovani”: possiamo definirla così la corsa a Tik Tok che negli ultimi giorni vede come protagonisti i principali leader di partito in vista delle elezioni del 25 settembre.
Video in primo piano, fare da “amiconi” e quel velo di simpatia che non guasta mai: questa è la ricetta perfetta dei filmati pubblicati dai politici sul social dei giovanissimi.
Anche se spesso il risultato è, per usare un eufemismo, ai limiti del cringe. E oggi, dopo Carlo Calenda, hanno fatto il loro ingresso su Tik Tok anche Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Incredibile a dirsi, ma è proprio così.
“Ciao ragazzi, eccomi qua! Vi do il benvenuto sul mio canale ufficiale di Tik Tok”, così ha esordito il non rodatissimo sui social Silvio Berlusconi nel suo primo video. “Su questa piattaforma i ragazzi sono oltre 5 milioni e il 60% ha meno di trent’anni. Soffro un poco di invidia ma mi faccio ugualmente tanti complimenti…Per questo ho voluto aprire questo canale, per parlare dei temi che più stanno a cuore a FI e a me e vi riguardano da vicino”, ha spiegato il Cav.
“Discuteremo del vostro futuro, vi racconterò di come voglio rendere l’Italia un Paese che possa dare nuove opportunità e deve realizzare i vostri sogni. A presto e ancora ciao. Su Tik Tok”, conclude il leader di Forza Italia ondeggiando curiosamente la testa a destra e a sinistra mentre nomina il social network. Un tentativo di strappare qualche sorriso? Forse, ma probabilmente non riuscitissimo.
La voglia di giovani deve aver fatto breccia anche nel cuore di Matteo Renzi, che è sbarcato su Tik Tok proprio oggi in contemporanea al Cav. Anche lui ha scelto un linguaggio giovanile e accattivante per conquistare le preferenze dei ragazzi. E anche lui sostiene di averlo fatto per “trovare nuovi modi di dialogare”.
Il leader di Italia Viva ha detto: “Per molti di voi io sono un esperto di “First reaction shock” o di “Shish”, linguaggi quasi più complessi del corsivo. Altri mi conoscono come ex presidente del Consiglio, il più giovane della storia repubblicana, ma soprattutto come sindaco della città più bella del mondo, di Firenze. Altri magari non conoscono pagine che per me sono state fondamentali per la mia vita: essere stato arbitro di calcio o capo clan, non camorra, boyscout. Quello che è fondamentale è che io sono stato e sono soprattutto un politico, uno che crede nella politica. E se vi va, qui ci siamo”, ha concluso. Operazione giovani riuscita? Troppo presto per dirlo, quel che è certo è che, tra risate e perplessità, i ragazzi sembrano tutt’altro che colpiti.
(da agenzie)
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Settembre 1st, 2022 Riccardo Fucile
ECCO TUTTI I MINIMI COSTI REALI: CANONE MENSILE 6,6 EURO, COMMISSIONE SU SINGOLA TRANSAZIONE 1,6%
Secondo l’Osservatorio ConfrontaConti.it e SOStariffe.it, nel corso degli ultimi 5 anni si è registrato un crollo del costo del POS in Italia con la spesa iniziale che si riduce a 22,82 euro (-66,5%) e il canone mensile che scende a 6,60 euro (-63,6%).
A partire da giugno scorso, con l’introduzione delle sanzioni per esercenti e professionisti che non accettano pagamenti con carta dai loro clienti, la questione del “POS obbligatorio” è diventata di grande attualità.
La nuova normativa prevede una sanzione pecuniaria di 30 euro che viene aumentata del 4% del valore della transazione per chi rifiuta un pagamento con carta.
Lo studio in questione ha lo scopo di far luce su quelli che sono i reali costi da sostenere da parte di esercenti e professionisti per munirsi del POS. L’indagine ha preso in considerazione tre profili diversi: il libero professionista, il negoziante che vende prodotti al dettaglio e il ristoratore.
Lo studio sui costi del POS in Italia ha preso in considerazione tutte le principali opzioni che aziende, esercenti e professionisti hanno per munirsi di un POS andando a evidenziare sia i costi fissi, come la spesa iniziale e il canone periodico per mantenere attivo il POS, sia le commissioni applicate sulle transazioni.
I risultati dell’indagine sono poi stati confrontati con le rilevazioni del 2017.
I dati raccolti dall’Osservatorio confermano un drastico calo dei costi del POS per gli esercenti italiani nel corso degli ultimi cinque anni.
Per esempio, i costi fissi del POS in Italia sono in netto calo: la spesa iniziale si riduce del 66,5% rispetto ai dati del 2017. Stando ai dati raccolti dallo studio, infatti, la spesa media iniziale da sostenere per il POS è di 22,82 euro. C’è una differenza di poco più di 7 euro per quanto riguarda la spesa iniziale per un POS Mobile (26,53 euro) e quella per un POS Fisso (19,11 euro).
In diversi casi, inoltre, il POS non prevede alcuna spesa iniziale e gli esercenti possono ottenere il dispositivo senza alcun esborso ma sottoscrivendo un abbonamento mensile.
Anche per quanto riguarda i costi periodici del POS si registra un sostanziale calo rispetto ai dati raccolti dalla precedente rilevazione.
Nel corso del 2022, infatti, il canone mensile medio del POS che professionisti e esercenti devono sostenere è di 6,60 euro. Nel corso degli ultimi 5 anni il canone mensile del POS si è ridotto del 63,6%.
Calano anche i costi delle commissioni sulle transazioni
Le commissioni applicate dagli istituti alle transazioni effettuate con un POS sono in calo. Considerando le carte di pagamento che utilizzano il circuito PagoBancomat, ad esempio, si registra una commissione media pari all’1,40%, dato inferiore rispetto a quello fatto registrato nel 2017, quando un pagamento tramite il circuito PagoBancomat comportava una commissione media pari all’1,92%.
I dati medi rilevati dall’indagine, infatti, certificano una commissione pari all’1,66%. Si tratta di un calo di quasi un punto percentuale rispetto a quanto rilevato nel 2017, quando la commissione media era pari a 2,56%. Per le commissioni, il pagamento tramite POS fisso continua ad essere la scelta più conveniente per gli esercenti: la commissione media applicata, in questo caso, è pari all’1,61% con un calo di oltre un punto percentuale rispetto ai dati della precedente rilevazione.
(da Giornalettismo)
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Settembre 1st, 2022 Riccardo Fucile
LA MELONI STREPITA, MA SA BENE CHE IL DESTINO DELL’EX ALITALIA (SU CUI LO STATO HA BUTTATO 15 MILIARDI NELL’ULTIMO MEZZO SECOLO) È SEGNATO… LA SORPRESA DI GIORGETTI E IL SILENZIO DI SALVINI
A Palazzo Chigi si augurano non sia la replica di un film già visto. Aprile 2008: poco prima di restare senza maggioranza, il governo di Romano Prodi stringe l’accordo con Air France-Klm per la vendita di Alitalia alla cordata franco-olandese.
Prima ancora di andare al voto, Silvio Berlusconi sentenzia che la compagnia deve restare in mani italiane. L’epilogo è noto: il nuovo premier organizza la cordata dei capitani coraggiosi e nel giro di pochi mesi Alitalia brucia un aumento di capitale da un miliardo di euro.
Anche questa volta, complici i ritardi burocratici del Tesoro, l’ennesima operazione di vendita è arrivata sul filo di lana con il governo già dimissionario. Per questo Mario Draghi, deciso a lasciare il tavolo sgombro dal dossier, ha recapitato ai partiti di centrodestra e in particolare a Giorgia Meloni un messaggio molto preciso: «Abbiamo impostato un lavoro che può dare una prospettiva alla compagnia. L’esperienza ci insegna che l’unica possibile è quella di un’alleanza con un grande gruppo».
In apparenza le dichiarazioni della leader di Fratelli d’Italia dopo l’annuncio del Tesoro sembrano una risposta poco convinta: «Ritenevo che l’attuale governo non dovesse andare avanti in una materia così strategica. Non ho in mano il dossier, ma è un altro pezzo di Italia che se ne va».
La scelta del condizionale e alcune telefonate di riscontro alla prima linea del partito raccontano una verità diversa. La Meloni sa bene che Alitalia non ha speranze di sopravvivere senza un partner forte. Informata dei termini dell’operazione, sa che l’offerta della cordata americana e franco-olandese fornisce molte più garanzie di quella tedesca: promette di investire di più, lascia al governo italiano il 40 per cento del capitale e la scelta del presidente di Ita.
Spiega un esponente del partito sotto stretto anonimato: «Lufthansa in Europa può contare già su almeno cinque hub, fra cui Francoforte, Monaco e Zurigo. Air France e Klm ne hanno solo due, a Parigi e Amsterdam. È evidente che le opportunità di crescita per Alitalia sono migliori nella seconda ipotesi».
Non solo. La Meloni è consapevole che ripartire da zero significherebbe dover investire tempo ed energie nell’ennesima operazione di salvataggio. Da novembre – se i sondaggi non si sbagliano – avrà ben altro a cui pensare: la guerra, la crisi del gas russo, l’inflazione a due cifre, i tassi in crescita, una Finanziaria da votare a tempo di record pena l’esercizio provvisorio e la punizione dei mercati.
A meno di colpi di scena, Draghi farà dunque procedere la vendita il più rapidamente possibile, nella speranza di arrivare ad un protocollo di intesa con i compratori entro i primi giorni di novembre. Fra i vertici del fondo americano che ha preparato l’offerta c’è consapevolezza del fatto che il nuovo governo potrebbe chiedere condizioni più stringenti.
Solo dopo le elezioni si capiranno gli effettivi rapporti di forza dentro il centrodestra, e questo peserà anche sulla chiusura dell’operazione. Ieri, non appena ricevuta la notizia sulla trattativa in esclusiva, il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti ha cercato la Meloni per dire che lui avrebbe preferito la soluzione tedesca.
«La notizia dell’avvio del negoziato in esclusiva ha colto di sorpresa la Lega», dice oggi in un’intervista al Secolo XIX di Genova. «Con questa ipotesi manca un futuro per la compagnia e i suoi lavoratori».
Il leader Cinque Stelle Giuseppe Conte ha chiesto di «chiarire le ragioni che hanno spinto a privilegiare l’offerta americana». Non ha detto nulla invece Matteo Salvini, a conferma dell’impressione che questa volta il destino della compagnia è segnato: ormai è troppo piccola e troppe sono state le volte in cui la politica ha fallito. Negli ultimi quarant’anni l’astratta difesa nazionalista, dei posti di lavoro, il dibattito attorno al dualismo Roma-Milano hanno lentamente distrutto la compagnia alla modica cifra di quindici miliardi di euro. Nel 2008 l’Alitalia tricolore di Berlusconi ripartiva con quasi duecento aerei. Oggi sono cinquantadue.
(da agenzie)
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Settembre 1st, 2022 Riccardo Fucile
DINAMICA SIMILE: VENGONO TROVATI MORTI IN CASA O SUICIDATI (DOPO AVER ESPRESSO CRITICHE A PUTIN)
«Il vice presidente di Lukoil Ravil Maganov è saltato già da una finestra al sesto piano dell’ospedale centrale di Mosca. L’uomo è morto successivamente a causa delle ferite riportate».
Così viene annunciata la morte, avvenuta oggi, dell’oligarca 67enne che dal 1993 faceva parte della maggiore compagnia petrolifera russa dall’agenzia stampa russa Tass.
Una versione diversa appare invece nel comunicato di Lukoil, che parla di un decesso «a seguito di una grave malattia», prima di ricordare i successi di Maganov «nello sviluppo del settore russo dei combustibili e dell’energia».
La compagnia petrolifera era notoriamente schierata contro l’invasione dell’Ucraina. A marzo scorso la società aveva diffuso un comunicato nel quale si diceva pronta a «sostenere una rapida fine del conflitto armato e la sua risoluzione attraverso un processo di negoziazione e mezzi diplomatici».
Quello di Maganov, insomma, potrebbe essere un suicidio, ma potrebbe anche non esserlo. Sono ben 9, infatti, gli oligarchi e imprenditori russi morti dallo scoppio della guerra lo scorso 24 febbraio.
Tra questi c’è anche Yury Voronov, impresario russo vicino a Gazprom trovato morto a luglio nella piscina della sua villa di San Pietroburgo.
Su di lui era chiaro il segno di uno sparo alla testa.
A fine febbraio, invece, era toccato all’oligarca Mikhail Watford, magnate dell’energia il cui cadavere è stato rinvenuto nella sua casa nel Surrey, collinare contea dell’Inghilterra a sud ovest di Londra. Una morte che la polizia britannica aveva definito «inspiegabile».
A marzo era stato il turno del miliardario Vasily Melnikov, proprietario di MedStorm, azienda di forniture mediche. Lui e la sua famiglia sono stati trovati morti nella loro abitazione di Nizhny Novgorod.
Secondo i media russi non ci sono indizi che puntino ad un’irruzione all’interno della casa. La pista più accreditata – almeno ufficialmente – è quella del suicidio successivo alla strage di moglie e figli. Sbocciata la primavera, ad aprile, la morte di Vladislav Avayev e della figlia tredicenne, rinvenuti nel loro appartamento da oltre due milioni di euro al tredicesimo piano di un elegante palazzo di Mosca.
Avayev era stato vicepresidente di Gazprombank e funzionario del Cremlino, e anche nel suo caso l’ipotesi avanzata è quell’omicidio della figlia e successivo suicidio. Gli amici dell’oligarca, però, storcono il naso, dichiarando che l’uomo era a conoscenza di alcuni segreti finanziari di Mosca.
Tra i casi anche un avvelenamento
Sempre ad aprile una sorte simile a quella di Avayev era toccata a Sergey Protosenya, ex presidente dell’azienda di gas Novotek. L’uomo, che aveva un patrimonio stimato di 400 milioni di euro è stato trovato appeso a un cappio nella sua villa di Barcellona. Anche in questo caso moglie e figlia morte completavano il quadro.
La versione ufficiale è che sia stato lui a ucciderle, ma secondo il figlio, è una ricostruzione impossibile. A maggio è arrivato il decesso di Andrei Krukovski: era manager di un villaggio turistico di proprietà di Gazprom, è «caduto da una scogliera» a Sochi.
A fine giungo Polina Palanta ha trovato il padre, il milionario Yevgeny Palant, nudo e la madre Olga colpiti da numerosi coltellate. Infine, anche l’ex manager di Lukoil Alexander Subbotin è morto in circostanze misteriose a maggio. Recatosi da degli sciamani per risolvere la sua dipendenza dall’alcol è morto avvelenato, e pare che i santoni al posto di chiamare i soccorsi lo abbiano sedato in attesa della morte.
(da agenzie)
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Settembre 1st, 2022 Riccardo Fucile
LA GRANDE RIMONTA DI BIDEN SU ECONOMIA E DIRITTO ALL’ABORTO
Il 47 per cento degli elettori che si recheranno alle urne negli Stati Uniti il prossimo novembre per il voto di medio termine ha intenzione di scegliere il Partito democratico, contro il 44 per cento a favore del Partito repubblicano.
Lo indica un nuovo sondaggio del “Wall Street Journal”, che segnala un importante recupero da parte dei democratici rispetto ai primi mesi dell’anno, quando appariva quasi certo che in autunno avrebbero perso la maggioranza al Congresso.
Un recupero, scrive il quotidiano, basato soprattutto sulle intenzioni degli elettori indipendenti, sul giudizio sull’operato del presidente Joe Biden e sull’entusiasmo dei sostenitori del diritto all’aborto.
“I repubblicani – si legge – hanno alimentato il loro consenso fin quando il dibattito è rimasto centrato sull’economia e sul tasso d’inflazione più alto da quattro decenni a questa parte”. Oggi, però, quasi due terzi degli elettori registrati afferma di non avere un giudizio negativo sullo stato dell’economia.
Così, se lo scorso marzo i repubblicani apparivano in vantaggio di cinque punti percentuali sui democratici, adesso sono questi ultimi a poter vantare un margine del tre per cento sugli avversari.
Il sostegno per il Partito democratico è aumentato tra gli elettori indipendenti, tra le donne e tra i più giovani. La comunità afroamericana e quella ispanica, tradizionalmente a favore dei dem, sembrano inoltre pronte a sostenere con più decisione il Partito democratico rispetto a qualche mese fa.
Tra gli elettori indipendenti, il 38 per cento oggi voterebbe per i dem, il 35 per cento per i repubblicani. Sei mesi fa, nella stessa categoria di elettori i repubblicani apparivano in vantaggio di ben 12 punti.
Una chiave di volta è, certamente, la sentenza della Corte suprema che lo scorso giugno ha cancellato gli effetti della sentenza Roe contro Wade del 1973, che per quasi 50 anni ha garantito il diritto federale all’aborto negli Stati Uniti.
Secondo il sondaggista repubblicano Tony Fabrizio, autore della rilevazione assieme al democratico John Anzalone, quella decisione “è stata una sorta di defibrillatore per i democratici”. Oggi il 60 per cento degli elettori afferma che l’aborto dovrebbe essere legale, in aumento di cinque punti rispetto a marzo scorso. Oltre metà degli intervistati, inoltre, dichiara di essere motivato a votare proprio dalla pronuncia della Corte suprema.
Le altre quattro questioni considerate più importanti dagli elettori statunitensi risultano, nell’ordine, l’inflazione, la sicurezza delle frontiere, il controllo delle armi e l’indagine sull’ex presidente Donald Trump a proposito dei documenti classificati sequestrati nella residenza di Mar-a-Lago, in Florida.
Il sondaggio conferma che potrebbe rivelarsi più difficile del previsto, per i repubblicani, strappare ai democratici il controllo del Congresso. Attualmente i dem dispongono di una leggera maggioranza alla Camera dei rappresentanti e controllano il Senato (dove i due partiti si equivalgono con 50 seggi ciascuno) solo grazie al diritto di voto della vice presidente Kamala Harris.
Generalmente le elezioni di medio termine sono considerate anche una sorta di referendum sull’inquilino della Casa Bianca, ma quest’anno sul voto sembra pesare soprattutto la figura dell’ex presidente Trump, in particolare dopo la perquisizione nella sua residenza di Mar-a-Lago. Oggi, scrive il “Wall Street Journal”, in un’ipotetica ripetizione delle elezioni del 2020, il presidente Joe Biden si assicurerebbe una maggioranza del 50 per cento di voti contro il 44 per cento di Trump.
A marzo, invece, i due erano appaiati allo stesso livello di consenso. Ancora una volta, a incidere sembra essere la volontà degli indipendenti, il 46 per cento dei quali sceglierebbe oggi Biden contro il 38 per cento a favore di Trump. Quanto ai partiti, i democratici sono visti favorevolmente dal 44 per cento degli elettori, i repubblicani dal 40 per cento.
(da Wall Street Journal)
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Settembre 1st, 2022 Riccardo Fucile
E’ LA PRIMA DEMOCRATICA DELL’ALASKA ELETTA AL CONGRESSO DAL 2008
Incredibile ma vero, l’ex governatrice dell’Alaska Sarah Palin ha perso la sfida per un seggio rimasto vacante alla Camera dei rappresentanti Usa a causa della morte del deputato repubblicano Don Young.
La sconfitta è stata contro Mary Peltola, prima democratica dell’Alaska eletta al Congresso dal 2008. A nulla è servito il sostegno dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, anche se Palin sarà candidata ancora una volta alle elezioni di midterm fissate per l’8 novembre.
Sarah Palin è nota per essere stata candidata alla vicepresidenza Usa nel 2008, quando corse in tandem con John McCain contro Barack Obama e l’allora suo vice Joe Biden.
Mary Peltola, l’avversaria che ha battuto Palin, è la prima donna e la prima persona con origine nativa americana dell’Alaska a vincere un seggio al Congresso. Fatto, questo, che di certo ha una sua rilevanza, come sottolineato da Peltola stessa in un’intervista al Washington Post dopo la vittoria: “È travolgente. Ed è un’ottima sensazione. Sono molto grata che il popolo dell’Alaska abbia riposto la sua fiducia in me”. Secondo i conteggi comunicati dall’ente elettorale dell’Alaska mercoledì sera, con il 51,5 per cento delle preferenze Peltola era in vantaggio di circa 5mila voti su Palin, ferma al 48,5 per cento.
Mary Peltola è una Yupik, fa quindi parte di uno dei due principali gruppi etnici di eschimesi che abitano tra Alaska, Canada, Groenlandia e Siberia (l’altro gruppo è quello degli Inuit).
Tra i temi principali sostenuti dalla vincitrice del seggio in Alaska figurano, tra le altre cose, il diritto all’aborto, l’attenzione nei confronti della crisi climatica e la tutela delle comunità locali rispetto agli interessi delle grosse aziende per lo sviluppo del territorio.
Dato che il mandato del defunto Young scadrà a gennaio 2023, Peltola dovrà comunque contendersi il mandato successivo nelle elezioni previste per il prossimo novembre, sfidando di nuovo Palin e il candidato arrivato terzo, Nick Begich III.
(da agenzie)
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