Settembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
FERRUCCIO DE BORTOLI METTE IN FILA TUTTI I PROBLEMI DEL NOSTRO PAESE: “UNA PARTECIPAZIONE AL LAVORO E UN GRADO DI ISTRUZIONE TRA I PIÙ BASSI D’EUROPA. UN’EVASIONE FISCALE CICLOPICA E UNO SQUILIBRIO TRA CHI PRODUCE E CHI BENEFICIA DI RISORSE CHE SEMBRATE ILLIMITATE. PRIMA SI FARÀ QUESTO BAGNO DI REALTÀ (E DI UMILTÀ) SARÀ MEGLIO PER TUTTI”
Qualunque sia il nostro orientamento politico, il giorno del voto è un giorno di festa della democrazia. Se ci siamo abituati o lo viviamo come una sorta di adempimento amministrativo, la colpa è solo nostra. E della nostra scarsa e purtroppo labile memoria storica. Chi fu privato, troppo a lungo, della libertà di esprimere la propria opinione, nel momento in cui nacque la Repubblica, fondata sui valori della Resistenza, trovò nel recarsi alle urne il senso più profondo di una cittadinanza vera e consapevole.
E lo fece anche pensando a chi non c’era più e non poté mai farlo. Non è un caso che il diritto di voto sia stato pensato dai costituenti anche come un dovere civico, il cui mancato rispetto sarebbe stato persino punito. Un sentimento via via appannatosi, negli anni del nostro benessere (economico e democratico), fino a non essere sentito più come tale da larghi strati della popolazione.
Dunque, qualunque sia il nostro orientamento politico, dobbiamo tutti augurarci che la partecipazione sia la più alta possibile. Una grande affluenza è segno di maturità, di comprensione della complessità dei problemi del Paese e della delicatezza del momento storico che stiamo vivendo. Sarà poi del tutto inutile discutere, da stasera in poi, sul voto di chi non vota. Non è una scelta. È la rinuncia ad esercitare un diritto-dovere. Un vuoto.
E ancora: qualunque sia la preferenza espressa – anche quella di non esprimersi – dovremmo essere tutti d’accordo nel considerare il governo che verrà nella sua piena legittimità e rispettabilità democratica.
«La sovranità appartiene al popolo – recita il fin troppo citato, ma solo a metà, articolo uno della nostra Carta – che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Chi vince ha il diritto-dovere di gestire il potere che gli viene conferito, ma all’interno di quelle forme e di quei limiti. La coscienza di quello che non si può fare – insieme alla responsabilità per l’urgenza di decisioni che riguardano l’intera comunità (e non solo le proprie coorti elettorali) – è la regola base di ogni buon governo. Le istituzioni non si occupano – è accaduto troppo spesso – bensì si rappresentano al meglio.
Con «disciplina e onore» – com’ è scritto sempre nella Costituzione. E con una adeguata preparazione, verrebbe da aggiungere. Il consenso non fa curriculum, né autorizza a negare l’esistenza di un principio di realtà. In campagna elettorale si eccede, un po’ da tutte le parti, nelle promesse. È normale, fisiologico (ma in modica misura). L’eventuale coalizione di governo dovrà fare i conti con la realtà (amara) dei numeri veri del nostro Paese.
Una comunità che invecchia ma non vuol sentirselo dire. Una partecipazione al lavoro e un grado di istruzione tra i più bassi d’Europa. Un’evasione fiscale ciclopica e uno squilibrio, insostenibile nel tempo, tra chi produce (e paga le tasse) e chi beneficia di risorse che, in campagna elettorale, sono sembrate illimitate. A parte il debito che appare un po’ a tutti leggero, etereo. Prima si farà questo bagno di realtà (e di umiltà) sarà meglio per tutti.
Nelle forme e nei limiti di cui parla la Carta, vi è anche il quadro delle nostre alleanze internazionali, l’appartenza all’Unione europea di cui siamo orgogliosamente fondatori, le regole che anche noi abbiamo contribuito a scrivere e che non ci sono state imposte da nessuno. Un Paese serio non ridiscute, ad ogni turno elettorale, gli impegni assunti dallo Stato come se non vi fosse alcuna continuità tra un governo e l’altro, pur di natura politica radicalmente diversa.
Come se si ricominciasse sempre daccapo, da una sorta di terreno verde, vergine. E una classe politica responsabile, che si candida a gestire la cosa pubblica, non contrabbanda poteri che non possiede. Sa che la rottura di legami profondi, specialmente nell’Unione europea (il cui diritto è stato legittimamente recepito nel nostro) non è priva di costi.
Serietà e credibilità sono le uniche armi con le quali gli interessi nazionali possono essere fatti valere concretamente sui tavoli internazionali. Il resto è propaganda. Un agitarsi inconsulto che in campagna elettorale genera curiosità, solleva applausi, ma poi, quando si è al governo, è controproducente e dannoso.
Ferruccio De Bortoli
(da il “Corriere della Sera”)
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Settembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
I METODI VANNO DALLA CORRUZIONE AL RICATTO FINO ALLA DISINFORMAZIONE… UNO DEI MESSAGGI E’: “SAREBBE MEGLIO USARE I SOLDI PER L’UCRAINA PER RISOLVERE I NOSTRI PROBLEMI”
«C’è il rischio che le armi consegnate a Kiev finiscano in mano ai terroristi». Oppure: «Sarebbe meglio usare quei soldi per risolvere i nostri problemi invece che armare l’Ucraina».
Sono slogan che si sono sentiti spesso nel nostro Paese, anche in campagna elettorale. Li hanno pronunciati politici e attivisti. Alcuni sicuramente in buona fede; altri un forse un po’ meno sinceri. E sulla posizione di questi ultimi adesso è stata pubblicata un’analisi allarmante. Si tratta di un saggio diffuso venerdì dal Rusi, il think tank della Difesa britannica.
Che Londra abbia una posizione assai determinata nel condannare l’invasione russa e sostenere la resistenza ucraina è cosa nota. Ma Jack Waitling, l’autore del testo, ha dimostrato nell’ultimo anno una capacità unica nell’esaminare le iniziative militari e soprattutto quelle dei servizi segreti di Mosca.
Waitling passa in rassegna come l’attività degli 007 si sia trasformata per affrontare gli sviluppi del conflitto. I tre apparati sulla carta hanno compiti diversi: l’Fsb, erede del vecchio Kgb, dovrebbe concentrarsi sulla sicurezza interna; il Gru si occupa di questioni militari mentre l’Svr ha la competenza sull’intelligence estera. Da anni però si sovrappongono quando si tratta di agire fuori dai confini nazionali, facendo a gara per assecondare le priorità indicate dal Cremlino e guadagnare meriti agli occhi di Vladimir Putin.
Per questo adesso tutta la potenza spionistica è stata convertita a un’unica missione.
«Nell’attuale situazione, in cui la Russia sta venendo militarmente sconfitta in Ucraina ma Kiev dipende completamente dagli aiuti occidentali, Mosca guarda l’Occidente come il punto di vulnerabilità.
La guerra economica sta venendo utilizzata per creare difficoltà, ma in questo contesto è chiaro che ci sono alcuni messaggi chiave che i russi tentano di diffondere tra le élite occidentali con misure attive». In pratica, l’impegno degli 007 è di sfruttare tutti i loro metodi di influenza, dalla corruzione al ricatto fino alla disinformazione, per imporre alcuni slogan nel dibattito politico della Ue e degli Usa.
L’analisi del Rusi ne evidenzia quattro. I più diffusi sono: «Sarebbe meglio usare quei soldi per risolvere i nostri problemi invece che armare l’Ucraina» e «C’è il rischio che le armi consegnate a Kiev finiscano in mano ai terroristi». Ma anche: «La guerra in Ucraina ci costringe a un impegno che non finirà e non può portare a una soluzione». E infine: «Armare l’Ucraina indebolisce l’Occidente e soprattutto la capacità americana di affrontare la Cina».
Quest’ ultimo tema è molto caro a una parte della destra Usa; gli altri si sono sentiti nella nostra campagna elettorale, ad esempio nei comizi di Giuseppe Conte e di Matteo Salvini ma anche a sinistra in quelli di Nicola Fratoianni. Secondo il think tank, rischiano così di assecondare il Grande Gioco del Cremlino.
(da agenzie)
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Settembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
SONO GLI STESSI CHE FINO A TRE GIORNI FA APPICCICAVANO LA “Z” SULL’AUTO E ORA CHE DEVONO PARTIRE PER IL FRONTE SI DANNO ALLA MACCHIA… PIU’ CHE UNA CHIAMATA ALLE ARMI SEMBRA UN RASTRELLAMENTO
La domanda che circola, in varie forme, nelle chat di quelli che stanno fuggendo verso il confine è «devo togliere l’adesivo della Z dal parabrezza?». Le code ai valichi di frontiera lungo tutto il perimetro della Russia – Finlandia, Georgia, Kazakhstan, Mongolia – si stanno allungando per chilometri, i biglietti aerei sono andati esauriti: la grande fuga dalla mobilitazione alla guerra in Ucraina continua, ma stavolta a scappare a migliaia non sono dissidenti e oppositori.
È la fuga dei sostenitori di Vladimir Putin, di quelli che fino a tre giorni prima appiccicavano la Z simbolo dell’invasione in Ucraina sull’auto, e chiedevano di «asfaltare Kyiv» nei social. Come con la riforma delle pensioni nel 2018, stavolta il padrone del Cremlino ha dato una martellata proprio al suo popolo.
A Mosca circolano voci di un divieto di espatrio per uomini e donne con obbligo militare, ed è evidente che la guerra ora riguarda tutti: da tutte le regioni russe a cominciare dalla finora intoccabile Mosca arrivano notizie di uomini reclutati direttamente per strada, nei loro letti di notte, alla scrivania in ufficio, in quella che assomiglia sempre di più non a una chiamata alle armi, ma a un rastrellamento.
La brutalità con la quale il regime ha trasformato i suoi fedelissimi in carne da cannone ha avuto un effetto choc, e al Cremlino stanno aspettando con ansia l’esito dei primi sondaggi «per uso interno».
Intanto la tirata di orecchie pubblica ai militari, per l’«eccesso di zelo» nella coscrizione, è il segnale che qualcuno si è reso conto dell’impatto devastante di decine di migliaia di uomini strappati alle famiglie.
In alcune regioni, dopo le proteste e le denunce dei media locali, i padri con prole numerosa, i malati, gli studenti e gli anziani sono stati rilasciati dalle caserme, ma difficile che la tendenza generale possa invertirsi.
Le gerarchie, poco preparate e molto corrotte, continueranno a reclutare chiunque gli capiti a tiro, anche perché l’unica regola della «verticale di potere» costruita da Putin è quella di avere più paura di una strigliata dall’alto che di qualunque altra conseguenza.
Il capo vuole i numeri, e i numeri avrà, e se dietro ai numeri ci sono persone che non vogliono e non possono combattere, e che verranno gettati sotto i colpi ucraini senza alcuna preparazione, e con dei fucili arrugginiti, non è un problema del commissario militare della Buriazia o di Samara.
Mentre mani ignote continuano a lanciare molotov contro i commissariati militari (impossibile procedere alla mobilitazione con gli archivi inceneriti), Russia Unita e comunisti ieri hanno proposto alla Duma una legge su 300 mila rubli (poco più di 5 mila euro) da pagare ai neosoldati, che vedranno tutelato anche il loro posto di lavoro e sospeso gli eventuali mutui, cancellati in caso di morte.
Soldi che andrebbero ad aggiungersi a quelle spese militari che, secondo indiscrezioni raccolte da Bloomberg nel governo russo, dovrebbero costituire dal 2023 il 40% del bilancio russo. In altre parole, i russi potrebbe presto trovarsi a scegliere tra la trincea e la miseria.
Ieri a Omsk le neoreclute hanno aggredito gli agenti della Guardia nazionale – la polizia politica che Putin ha creato e affidato alla sua ex guardia del corpo Valery Zolotov proprio per reprimere il dissenso – che cercavano di spingerli sui pullman dell’esercito: «Perché non venite a combattere insieme a noi?», gridavano.
Putin si trova ora di fronte a un dilemma irrisolvibile: mandare al fronte i suoi pretoriani, riempiti di soldi e privilegi per renderli leali, o rischiare di polverizzare il poco consenso popolare che gli resta mandando padri di famiglia al fronte e manganellando ragazze alle manifestazioni. È probabile che gli toccherà fare entrambe le cose, per tentare di vincere una guerra che ritiene fatale perdere.
(da La Stampa)
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Settembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
“È LA RELIGIONE DELL’AVERE E DELL’APPARIRE, CHE SPESSO DOMINA LA SCENA DI QUESTO MONDO, MA ALLA FINE CI LASCIA A MANI VUOTE SEMPRE”
“Il nostro futuro eterno dipende da questa vita presente: se scaviamo adesso un abisso con i fratelli e le sorelle, ci ‘scaviamo la fossa’ per il dopo; se alziamo adesso dei muri contro i fratelli e le sorelle, restiamo imprigionati nella solitudine e nella morte anche dopo”. Lo ha detto il Papa nell’omelia della Messa a Matera che chiude il Congresso eucaristico nazionale della Cei.
“E’ doloroso vedere che questa parabola – ha detto Papa Francesco commentando il Vangelo di oggi – è ancora storia dei nostri giorni: le ingiustizie, le disparità, le risorse della terra distribuite in modo iniquo, i soprusi dei potenti nei confronti dei deboli, l’indifferenza verso il grido dei poveri, l’abisso che ogni giorno scaviamo generando emarginazione, non possono lasciarci indifferenti”.
Dio allora chiede “un’effettiva conversione: dall’indifferenza alla compassione, dallo spreco alla condivisione, dall’egoismo all’amore, dall’individualismo alla fraternità”.
Anche oggi spesso domina “la religione dell’avere”. Lo ha detto il Papa nell’omelia della Messa a Matera che chiude il Congresso eucaristico nazionale della Cei.
“Com’è triste anche oggi questa realtà, quando confondiamo quello che siamo con quello che abbiamo, quando giudichiamo le persone dalla ricchezza che hanno, dai titoli che esibiscono, dai ruoli che ricoprono o dalla marca del vestito che indossano. È la religione dell’avere e dell’apparire, che spesso domina la scena di questo mondo, ma alla fine ci lascia a mani vuote sempre”, ha sottolineato il Pontefice commentando il Vangelo di Oggi.
Papa Francesco ha aggiunto: “Se adoriamo noi stessi, moriamo nell’asfissia del nostro piccolo io; se adoriamo le ricchezze di questo mondo, esse si impossessano di noi e ci rendono schiavi; se adoriamo il dio dell’apparenza e ci inebriamo nello spreco, prima o dopo la vita stessa ci chiederà il conto. Sempre la vita ci chiede il conto. Quando invece adoriamo il Signore Gesù presente nell’Eucaristia, riceviamo uno sguardo nuovo anche sulla nostra vita: io non sono le cose che possiedo e i successi che riesco a ottenere; il valore della mia vita non dipende da quanto riesco a esibire né diminuisce quando vado incontro ai fallimenti e agli insuccessi. Io sono un figlio amato, ognuno di noi è un figlio amato; sono benedetto da Dio”.
(da agenzie)
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Settembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
DRAGHI HA SPINTO PER L’INVIO ANTICIPATO DEL MEGA ASSEGNO “LIBERANDO” LA PROSSIMA MAGGIORANZA DALLA NECESSITA’ DI CONTRATTARE CON BRUXELLES
Sei ore di telefonate, scambi di documenti e limature. Un venerdì di vigilia elettorale di lavoro intenso, che tiene occupato Mario Draghi lungo l’asse Roma-Bruxelles. Alla fine, l’atteso via libera della Commissione europea alla seconda tranche di fondi del Pnrr.
Che permette al premier di garantire all’Italia un “ombrello” di un paio di mesi, liberando la prossima maggioranza dalla necessità di dover contrattare in piena formazione del nuovo esecutivo l’erogazione delle risorse del Recovery.
Ma che rappresenta anche un segnale chiaro inviato a Roma dall’esecutivo continentale: se rispettate gli impegni, i risultati arrivano. Se invece scegliete lo scontro, la musica cambia.
È venerdì pomeriggio. Il premier, appena rientrato dagli Stati Uniti, si mette al lavoro. Il dialogo con Ursula von der Leyen va avanti da settimane, il messaggio è chiaro: l’Italia ha fatto i compiti, chiudiamo la partita della seconda tranche. I documenti, d’altra parte, erano già stati inviati a giugno. Il parere positivo sembrava pronto a fine luglio. L’agenda della Commissione prevedeva l’invio del “bonifico” entro fine settembre. Il premier ha atteso per settimane, senza esito. Fino al 23 del mese, a quarantotto ore dal voto. E ha deciso di accelerare.
L’interlocutore principale, oltre a von der Leyen, è il commissario all’Economia Paolo Gentiloni. Telefonate, contatti incrociati, nuovi colloqui.
Gli altri protagonisti della missione sono i tecnici del ministero dell’Economia. Capitanati dal dirigente della Ragioneria dello Stato Carmine Di Nuzzo – messo a capo dell’unità di missione del Mef a cui il governo ha affidato il compito di gestire la partita – scambiano le ultime informazioni e limano gli ultimi dettagli da consegnare al gruppo di esperti che a Bruxelles segue il dossier del Recovery italiano.
A Palazzo Chigi, negli stessi minuti, si muove anche il sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli, che segue sviluppo e implementazione dei progetti sul territorio nazionale. L’esito è la nota informale con cui fonti europee fanno sapere che la Commissione approva l’erogazione dei fondi ed è impegnata a finalizzarne il parere positivo.
La comunicazione arriva dopo le 18 di venerdì, sotto forma di notizia lasciata trapelare alle agenzie. È una modalità non del tutto ortodossa, che racconta dello sforzo politico e personale di Draghi per tagliare questo traguardo. L’ultimo atto simbolico di un governo uscente. Ma anche pratico, visto si parla di ventuno miliardi di euro. Risponde a una promessa fatta dal premier subito dopo la caduta del governo: favorire comunque una transizione ordinata.
L’obiettivo è triplice. Il primo è costruire un “ombrello” che metta al riparo le risorse del Recovery dal caos post-elettorale. La maggioranza che verrà – anche fosse di destra sovranista; dunque, con ogni probabilità destinata a una frizione con Bruxelles – potrà spendere settimane nel tentativo di costituire un nuovo esecutivo senza la pressione di una tranche ancora da ottenere. Un passaggio di consegne ordinato e leale passa anche da questi dettagli.
Il secondo scopo di Draghi è quello di mettere al riparo anche se stesso – e la propria credibilità – dai tempi che verranno. Il premier vuole lasciare Palazzo Chigi senza macchiare sul traguardo il proprio percorso.
E senza esporsi a eventuali recriminazioni di chi gli succederà, per di più su un dossier – quello del Pnrr – fondativo del governo di unità nazionale. Né, d’altra parte, avrebbe gradito di dover trattare con la Commissione a urne chiuse, con il concreto rischio di finire risucchiato da eventuali tensioni tra l’Italia e l’Unione europea. Infine, il terzo obiettivo, condiviso con von der Leyen: spiegare ai governi che solo il rispetto degli impegni assicura le risorse promesse.
È il punto più delicato. Per settimane, Giorgia Meloni ha ipotizzato una riscrittura del Recovery. Poi, negli ultimi giorni, si è assestata attorno a un concetto più blando: quello della messa a punto del piano. Bruxelles non intende concedere stravolgimenti. Ed è evidente che il rapporto con Roma passerà dal grado di collaborazione di un eventuale esecutivo sovranista con le istituzioni Ue. Dovesse scegliere lo scontro frontale, le prossime tranche del Pnrr sarebbero a rischio.
Ma queste sono valutazioni future. Nell’immediato c’è la corsa al fotofinish per i ventuno miliardi promessi. Nelle stesse ore, viene pubblicato in Gazzetta ufficiale il terzo decreto aiuti, come a chiudere il cerchio delle cose da fare. Il resto toccherà ai vincitori delle elezioni. E non mancheranno i problemi, visto che la manovra dovrà essere scritta in pochi giorni da un governo appena insediato.
(da La Repubblica)
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Settembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
IL CASO DELLA SELEZIONE PER DIVENTARE ISPETTORE DEL LAVORO: MENO DELLA METÀ DEI VINCITORI SI E’ POI PRESENTATA PER FIRMARE IL CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO…PESANO GLI STIPENDI TROPPO BASSI E LE SCARSE POSSIBILITA’ DI CARRIERA
La sequenza è più o meno questa. Ci si candida al concorso, si studia, ci si presenta il giorno degli esami e, se va bene, si finisce in una posizione in graduatoria che dà diritto al posto.
Fisso in questo caso, perché i concorsi di cui parliamo sono quelli pubblici. Finita questa trafila l’amministrazione che ha messo a bando il posto manda una lettera e indica il giorno in cui bisognerà presentarsi per firmare il contratto di assunzione e prendere servizio.
Ebbene, sempre più candidati arrivati al fatidico momento di mettere la sigla in calce all’assunzione a tempo indeterminato nella Pubblica amministrazione, si tirano indietro. Non si presentano.
L’ultimo caso, eclatante, è quello del concorso per gli Ispettori del lavoro dell’Inl. Più di 1.500 posti in tutta Italia. A Roma, ha rilevato la Flp, la Federazione dei lavoratori pubblici, su 52 posti assegnati si sono presentati in 15.
A Milano e Lodi su 76 posti a prendere servizio sono stati solo 33, meno di uno su due. A Torino 9 su 39, a Padova 6 su 17. Persino al Sud, dove il lavoro pubblico ha sempre avuto un bacino ampio di aspiranti, non è andata meglio. A Bari solo 3 dei 16 vincitori del concorso si sono presentati a firmare il contratto. A Napoli 19 su 32.
Quello dell’Ispettorato del lavoro non è un caso isolato. Qualche giorno fa i sindacati, in una nota congiunta, hanno rivelato che all’Inail, l’Istituto nazionale contro gli infortuni sul lavoro, solo 304 vincitori, meno della metà dei posti messi a concorso, si sono presentati a prendere servizio.
Il ministero dell’Istruzione aveva bandito un concorso unico per 159 posti. È riuscito ad assumere soltanto 110 persone
Qualche settimana fa un grido di allarme era arrivato dal ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini.
Anche lui aveva dovuto prendere atto di un clamoroso flop del concorso per assumere giovani nelle Motorizzazioni civili. C’è sicuramente un tema di retribuzioni. La Pubblica amministrazione ha difficoltà a reperire soprattutto i profili più specializzati
«Bassi salari e scarse prospettive di carriera», spiega Marco Carlomagno, segretario generale di Flp, «spingono i laureati a rinunciare a un impiego sicuro nella pubblica amministrazione». La difficoltà di reperire dipendenti, riguarda soprattutto i profili più specializzati.
Secondo Bruno Giordano, direttore dell’Inl, a pesare è anche «la concomitanza di molti concorsi pubblici.
Le graduatorie», spiega, «sono gonfiate da candidati che sono risultati vincitori in più selezioni e questo gli consente di scegliere il posto meglio retribuito e più vicino alla propria residenza».
(da agenzie)
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Settembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
LA CAMPAGNA ELETTORALE SUI SOCIAL SERVE SOLO AD ACCENDERE LA PASSIONE DEI PROPRI ELETTORI. I LEADER PARLANO ALLA LORO BOLLA E PROVANO A MOBILITARLA. DIFFICILE SPINGERSI OLTRE…POTREBBE ESSERCI UN FORTE FLUSSO DI ELETTORI TRA PARTITI DELLA STESSA AREA”
Chi resta a casa per protesta, chi perché, in fondo, non ha scelta. L’astensione si fa e si subisce anche, spiega Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos.
Saranno urne piene?
«La sensazione è che il partito dell’astensione sia cresciuto. Ma bisogna attendere i dati ufficiali».
Perché le file del non-voto si ingrossano?
«Per diverse ragioni. In questo caso, c’è una quota di elettori che non ha capito fino in fondo il motivo della caduta del governo Draghi».
A cui è seguita una campagna lampo, in piena estate, e una rincorsa su TikTok. Serve a qualcosa?
«La campagna online serve solo ad accendere la passione dei propri elettori. I leader parlano alla loro bolla e provano a mobilitarla. Difficile spingersi oltre».
Cosa spinge gli elettori a stare a casa?
«Ci sono diversi tipi di astensione. Una è fisiologica, anzi fisica. Ci sono circa 2 milioni di italiani anziani o con difficoltà motorie che non riescono a recarsi all’urna».
A cui si aggiungono i fuori-sede.
«Tra i 4 e i 5 milioni. Elettori che vivono a più di 150-200 chilometri di distanza dal comune di residenza e faticano a tornare».
“Alle prime elezioni politiche nel 1948 gli astenuti erano il 7,8%. L’ondata antipolitica seguita a Tangentopoli ha dato il la. Dal 2013, un’ascesa inesorabile. Fino all’ultimo picco, nel 2018, con il 27,1% di astenuti».
(da agenzie)
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Settembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
AL SEGRETARIO DEL CARROCCIO VIENE RIMPROVERATA UNA LINEA NON-SENSE, DA ALCUNE PRESE DI POSIZIONI AUTONOME SULLA PANDEMIA ALLE MATTANE IN POLITICA ESTERA, CON IL SUO RAPPORTO CON LA RUSSIA
La Lega al bivio più difficile della sua storia recente. Mentre Matteo Salvini si arrovella in attesa di sapere se la sua defatigante campagna elettorale (trentamila chilometri in un mese e mezzo) sarà servita davvero a risalire la china, l’ala istituzionale del partito – rappresentata in particolare dai governatori del Nord-Est – si prepara a una resa dei conti che potrebbe portare a un cambio della guardia.
In perfetta sintonia con i vertici di Fratelli d’Italia. È una manovra a tenaglia, quella che rischia di stritolare il segretario del Carroccio nelle prossime ore.
Tutto ruota attorno al risultato leghista: sotto il 12 per cento sarebbe una sconfitta per Salvini, sotto il 10 sarebbe un tracollo.
Il leader, che negli ultimi giorni ha battuto in ritirata dal Sud per concentrarsi su temi cari al tradizionale elettorato settentrionale (primo fra tutti l’autonomia), finirebbe sotto processo soprattutto dal “tribunale” del Nord, da iscritti e dirigenti di più o meno antica militanza pronti a rimproverargli un dato addirittura inferiore a quello del miglior Bossi, che nel 1996 – con un bacino di voti concentrato su sole quattro regioni – riuscì a prendere il 10,4 per cento.
A quel punto ciò che si attenderebbero gli esponenti dell’ala moderata (a partire da Luca Zaia e Massimiliano Fedriga) sarebbero le dimissioni da parte di Salvini o più facilmente l’annuncio della convocazione di un congresso. In caso contrario, si apprende, il congresso sarebbe chiesto dai territori.
Al segretario viene rimproverata una linea ondivaga, non concordata con il consiglio federale, e nello specifico alcune prese di posizioni autonome: come il dichiarato pentimento rispetto al sì fornito dalla Lega alle restrizioni anti-Covid.
«Ma con chi ne ha parlato?», dice un autorevole esponente leghista. Sono pronti a riaffiorare antichi malesseri, solo in parte sedati al momento della composizione delle liste.
Le perplessità sull’azione di Salvini dalle misure anti-Covid (con le strizzatine d’occhio ai No Vax) si sono spostate alla “politica estera” del numero uno della Lega: a marzo la figuraccia rimediata con il sindaco di Przemysl che gli ha mostrato a mo’ di sfottò la maglia di Putin, poi il fallito blitz a Mosca non concordato con il governo (e neppure con il partito), fino all’ultima retromarcia: «Su Putin ho cambiato idea», ha detto il senatore milanese.
In questo clima, al Capitano con i galloni sbiaditi non basterebbe il riconoscimento dell’enorme mole di lavoro quotidiano su e giù per l’Italia per attenuare gli effetti di una performance negativa della Lega. E si avvierebbe un chiarimento interno che potrebbe portare a un Carroccio “desalvinizzato”.
E qui l’obiettivo si salda con quello di Fratelli d’Italia, destinato a diventare prima forza della coalizione, che crede sia più presentabile come alleata una Lega guidata da Zaia o Fedriga.
Giorgia Meloni ha soprattutto un problema: spiegare a Salvini che dovrà rinunciare ai suoi desiderata e non potrà fare il ministro dell’Interno. Difficilmente il capo dello Stato Sergio Mattarella, è il ragionamento, affiderebbe l’incarico a un esponente politico sotto processo per sequestro di persona nel caso Open Arms.
Ma il problema sarebbe di più facile soluzione con un Salvini depotenziato dal risultato elettorale o comunque sub iudice nel suo partito in attesa di un congresso. «Se la Lega va sotto il 10 cambia tutto negli equilibri interni e difficilmente potrà accampare grandi pretese», è la tesi esposta da uno dei collaboratori di Meloni.
A patto, è chiaro, che nel frattempo Fdi arrivi quasi a triplicare il risultato salviniano.
Non sono mancati i contatti, negli ultimi tempi, fra lo stato maggiore di Fratelli d’Italia e i governatori leghisti Zaia e Fedriga, peraltro sospettati da via Bellerio di avere contribuito poco alla campagna elettorale (dopo non aver partecipato alla formazione delle liste).
Due settimane fa, ad esempio, Guido Crosetto – uno dei fondatori del partito di Meloni – è stato in Veneto, ha avuto una cena con alcuni imprenditori, e ha avuto modo di parlare con Zaia.
Viene smentito che si sia affrontato il tema del futuro della Lega. Ma è solo uno dei tanti indizi: circola con forza il sospetto di un’intesa anti- Salvini fra i meloniani e una parte del Carroccio, di trame intessute ancor prima che si aprano le urne.
In palio, oggi, c’è il destino del segretario, ma anche la fisionomia di un eventuale governo del centrodestra.
(da la Repubblica)
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Settembre 25th, 2022 Riccardo Fucile
I CENTRI MILITARI DI RECLUTAMENTO, INVECE DI MILITARI ESPERTI, STANNO ARRUOLANDO POVERI DISGRAZIATI CHE NON HANNO VOGLIA DI MORIRE AL FRONTE
La mobilitazione parziale voluta da Putin, che dovrebbe rafforzare la linea del fronte dopo il contrattacco ucraino, forse è già fallita.
Un dossier dell’Isw (Institute for the study of war) offre un quadro impietoso del pantano.
«La mobilitazione probabilmente non riuscirà a produrre le forze di riserva anche di bassa qualità che il piano di Putin avrebbe voluto generare, a meno che il Cremlino non aggiusti rapidamente alcuni problemi fondamentali e sistemici».
Putin e il ministro della Difesa, Shoigu, avevano annunciato la mobilitazione di riservisti «pronti al combattimento» al fine di stabilizzare la linea del fronte e riprendere l’iniziativa sul campo di battaglia.
I blogger militari scrivono però che centri militari di reclutamento, ufficiali e amministrazioni locali stanno arruolando uomini che non corrispondono ai criteri alla promessa di Shoigu di dare priorità a militari esperti.
Oppositori e canali Telegram avvertono che il Cremlino punta a completare la mobilitazione parziale per il 10 novembre e vuole arruolare 1.2 milioni di uomini, e non i 300mila dichiarati pubblicamente.
I blogger denunciano pratiche illegittime di arruolamento. Utenti social lamentano che anziani, studenti, dipendenti di industrie militari e civili senza esperienze sul campo «stanno ricevendo chiamate illegali alle armi».
I reclutatori stanno «assegnando a uomini già esperti specializzazioni molto diverse da quelle in cui hanno servito, e altre fonti registrano l’arruolamento di persone con malattie croniche». Gli addetti alla mobilitazione sono spesso «demotivati e sottopagati». E c’è il rischio che i riservisti vengano mandati allo sbaraglio senza alcuna preparazione.
(da agenzie)
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