Settembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
IL MECCANISMO ELETTORALE E’ DOPATO, GARANTENDO SEMPRE LA VITTORIA A ORBAN, E LE OPPOSIZIONI SONO STATE CREATE A TAVOLINO
Tentare di entrare nella testa di Viktor Orban e nel cuore della sua Ungheria può essere un viaggio affascinante e spaventoso allo stesso tempo. Affascinante perché nessuno può negare la sua eccezionale abilità politica, un miscuglio raffinato di calcolo e creatività che ha trasformato l’Ungheria nel primo laboratorio illiberale d’Europa. Spaventoso, perché i risultati della sua fame di potere sono inversamente proporzionali agli spazi democratici rimasti in un Paese in cui, in dieci anni, il perimetro di libertà si è stretto come un cappio.
Eppure «Orban è diventato un influencer globale, un’icona pop a cui le destre si ispirano» spiega lo storico e saggista Stefano Bottoni, professore associato all’Università di Firenze, uno dei massimi esperti del mondo magiaro contemporaneo.
Par già di sentire chi urla che Orban è stato democraticamente eletto, e che dimentica, o vuole dimenticare, che in Ungheria il sistema «è basato su un consenso elettorale dopato». Del resto anche in Russia si vota.
Distratti dallo sdegno per i muri anti-migranti, per le leggi che vogliono le donne a casa a fare figli e i bambini protetti dagli omosessuali, ci siamo persi la raffinatezza con cui nel frattempo Orban costruiva il suo regno e metteva in atto il suo schema.
In molti Paesi europei il consenso liberale post Guerra Fredda si è incrinato, ma «in Ungheria è diventato un nuovo sistema politico, un regime in cui il governo di destra non può essere sconfitto alle elezioni», dice Bottoni, che spiega come alcuni scomodi elementi identitari di Fidesz siano stati “esternalizzati”: «Orban ha creato a tavolino Mi Hazánk, un partito che formalmente è all’opposizione, ma che porta avanti i temi più estremi, come le battaglie anti rom e anti migranti e le posizioni no vax.
Il terzo partito del Paese è un’opposizione finta, insomma», simbolo di un sistema politico «fatto da clienti, in senso medievale, di Viktor Orban». Perdere le elezioni, così, è impossibile.
Anche la stangata dell’Unione Europea non lo coglie impreparato: «C’è un trucco che potrebbe trasformare l’affondo della Ue in un compromesso al ribasso perché Budapest non fa parte della Eppo, la procura europea». Per evitare i tagli Budapest ha promesso 17 misure specifiche. La più rilevante è l’istituzione di un’autorità anti-corruzione indipendente e con ampi poteri di scrutinio: «In questo modo Orban creerà una propria commissione, un’autorità ungherese, così il controllo rimane nelle sue mani. Se Bruxelles avesse voluto mettergli i bastoni tra le ruote l’avrebbe costretto ad entrare nell’Eppo».
Orban deve agire in fretta e non può commettere errori, soprattutto in un momento tragico per l’economia.
Dal primo novembre l’Ungheria entrerà di fatto in un lockdown economico non dichiarato, dove, anche per i costi dell’energia, molte attività dovranno chiudere temporaneamente: «Le casse sono vuote, Orban ha dovuto anticipare i fondi Ue congelati da sei mesi e ora non c’è più nulla da raschiare». Da treno economico a ronzino con crescita zero è stato un attimo. E se la crisi morde le alleanze sono cruciali.
Il conservatorismo valoriale è il collante di amicizie di lunga data, ma è a Giorgia Meloni che ora il teorico della democrazia illiberale guarda: «A Berlusconi era legato da anni, ma come leader lo giudica troppo anziano. Anche Salvini è uscito dal suo carnet, quando nel 2019 ha capito che non era all’altezza. Ma nel 2020 Orban ha iniziato ad avvicinarsi a Meloni, ha visto che è una leader che studia, che ha un modo di fare politica più strutturato, più compatibile al suo».
Lo scotto da pagare è che chi si allea ad Orban, oltre al pesante fardello illiberale, si porta sulle spalle anche un orizzonte pericolosamente vicino a quello di Putin, quello di un Paese in cui la propaganda russa è il cuore del sistema mediatico: «L’Ungheria – come la Russia e la Serbia – ha un passato imperiale mal digerito. Orban vuole controllare i territori pre trattato di Trianon, anche se da un punto di vista non territoriale, ma culturale ed economico».
Una forma più “gentile” del Russkiy mir di Vladimir Putin. «Come Vucic e Putin condivide l’idea di essere vittima di un’egemonia occidentale a cui bisogna opporsi». Orban è riuscito a depotenziare il sentimento storicamente antirusso della destra ungherese, trasformandolo anzi in pulsione antioccidentale e antiucraina.
Un capolavoro politico la cui prima arma è stato il controllo totale della cultura: «Intendo continuare la mia offensiva culturale», diceva dopo l’ultima vittoria elettorale. Il suo populismo pragmatico si è tradotto in centinaia di miliardi investiti per controllare le università, l’editoria, l’istruzione, i centri di ricerca, i think tank: «Se la destra italiana impara anche solo una parte di questo ricettario la sinistra è finita, sarà una tabula rasa».
Il premier magiaro affascina leader ed elettori per aver rispolverato la sovranità della politica, in un epoca «in cui governi tecnici e ruoli marginali dei leader sono la norma. Lui è il simbolo del dirigismo forte e del corporativismo, con Orban non sono le multinazionali a decidere l’economia, ma il suo protezionismo selettivo. Le banche, le grandi aziende, le assicurazioni sono “statali”, controllate dai suoi oligarchi. La politica è sovrana, è lei che detta il ritmo all’economia, non il contrario».
Ma c’è di più: Orban non è solo un modello per l’oggi, ma anche per il domani: «Viktor è stato chiaro, quando l’Ungheria diventerà contribuente netto dell’Unione si rivedranno i rapporti». Ovvero, quando non sarà più conveniente, potrebbe decidere, assieme alla Polonia, di uscire dal club. Il sogno di un’Europa unita dai valori, e non dai soldi, è un’utopia pericolosa, «perché con i valori non si è mai motivato nessuno».
(da la Stampa)
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Settembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
L’ANALISI DEI DUE QUOTIDIANI BRITANNICI
“Chi è la vera Giorgia Meloni?” chiede e scrive il Financial Times in un editoriale dal titolo “I tanti volti del probabile nuovo premier italiano”. “La politica italiana è in difficoltà da decenni. Ora si sta dirigendo verso un nuovo minimo”, commenta invece il quotidiano britannico The Guardian, aggiungendo che “se Giorgia Meloni salisse al potere alla testa di una coalizione di estrema destra, le conseguenze economiche e sociali potrebbero essere terribili”.
“Una sobillatrice di estrema destra, una conservatrice che difende i valori della famiglia, una strenua difensora dell’Ucraina o una minaccia per l’Ue in uno dei suoi momenti più cruciali? Meloni è abile nel presentare volti diversi, in patria e all’estero, nella ricerca dell’identità di quello che sarebbe il primo premier donna in Italia se, come si prevede, le elezioni generali di domenica dovessero portare alla vittoria della coalizione di destra guidata dal suo partito Fratelli d’Italia”, scrive il Financial Times in un editoriale non firmato, quindi espressione della redazione .
Ft: la differenza tra Meloni e Salvini
E ancora. “Tra i tanti personaggi poco attraenti della destra italiana, il meglio che si possa dire di Meloni è che non è Matteo Salvini della Lega. Fortunatamente per Bruxelles – che deve presentare un fronte unito contro la guerra della Russia in Ucraina e gestire l’impennata dei prezzi dell’energia – Meloni non condivide le posizioni filo-Cremlino” di Salvini, prosegue il foglio della City nell’editoriale.
“Tuttavia – si legge nell’articolo – permangono gravi riserve su Meloni, in particolare nel momento in cui un’ondata di partiti di dura destra sta vivendo una preoccupante rinascita in tutta Europa”. “Il rovescio della medaglia” della leadership di Meloni “è la sua inesperienza in un momento in cui la credibilità dell’Italia a Bruxelles e sui mercati finanziari è fondamentale”.
Il quotidiano britannico, tuttavia, osserva come “nonostante la competenza di Draghi, l’Italia non potrà essere governata per sempre da tecnocrati. L’Ue dovrebbe incoraggiare questo passo democratico, per quanto sfumato. Evitare un governo Meloni, con tutte le sue posizioni illiberali, non farebbe altro che spingerlo verso gli angoli più bui del nazionalismo condiviso dall’Ungheria di Viktor Orbán”. “Scopriremo presto chi è veramente Meloni. Gli italiani, e Bruxelles, devono sperare che la sua maschera relativamente più moderata non cada”, è la conclusione dell’editoriale.
The Guardian
L’articolo del The Guardian inizia raccontando il video – diventato virale – di Alessio Di Giulio, il consigliere fiorentino della Lega, in cui passeggia per il centro storico del capoluogo toscano quando incontra una donna di origini rom. “Fermandosi sulle sue tracce, il candidato si sporge verso la telecamera e implora il suo pubblico di ‘votare la Lega per non vederla mai più’, frase che ripete tre volte per effetto retorico”, si legge. Un video che “segna il punto più basso di quella che è stata una delle campagne elettorali italiane più grottesche degli ultimi tempi”, riporta l’articolo del quotidiano inglese.
Aggiungendo: “Se Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni vincerà le elezioni di questa settimana, come previsto, persone come lui avranno presto l’opportunità di plasmare l’agenda politica”. Il discorso si sposta proprio su Meloni “abile sia nel corteggiare che nel prendere le distanze da tali estremisti ogni volta che le fa comodo”. E viene ricordata la visita in Spagna della leader di FdI che ha pronunciato “un discorso ai sostenitori del partito di estrema destra Vox in cui ha celebrato i “patrioti” e la “famiglia naturale” mentre attaccava “la lobby LGBT” e i “nemici della civiltà”. In Italia, al contrario, ha recentemente pubblicato video di gatti e selfie pesantemente aerografati per coltivare un’immagine blanda e vacua progettata per conquistare i moderati.
Colpisce anche il fatto che, a differenza di alleati come Matteo Salvini, che è sinonimo del suo disegno di legge draconiano sulla sicurezza, o Silvio Berlusconi, che da anni spinge per una flat tax a favore della ricchezza, Meloni non ha una politica di punta. L’intervento più drammatico del suo partito nella campagna finora è stato un boicottaggio proposto del cartone animato per bambini Peppa Pig, sulla base del fatto che un nuovo episodio che presenta genitori dello stesso sesso costituisce ‘indottrinamento di genere'”, scrive The Guardian.
Che parla poi delle frasi di Meloni sull’aborto e la decisione presa nelle Marche dove “l’amministrazione ha limitato l’interruzione delle gravidanze alle prime sette settimane. Sebbene Meloni affermi di non avere intenzione di rendere illegale la procedura, ha stretti legami con gruppi di pressione anti-aborto come ProVita & Famiglia”. E ancora: “la stretta relazione del suo partito con il primo ministro ungherese Viktor Orbán” e le divisioni tra Meloni, Salvini e Berlusconi sulla “guerra in Ucraina, la crisi energetica e come affrontare l’inflazione”.
La conclusione: il governo di centrodestra potrebbe durare poco, scrive ancora il quotidiano britannico, e “questo non è certo confortante. Per quanto di breve durata, le conseguenze economiche e sociali di un’amministrazione Meloni sarebbero probabilmente terribili. E mentre i politici di centro e di sinistra possono consolarsi con la speranza che la primavera del 2023 possa ripulire il sistema politico dai ribelli populisti, questo è troppo poco, troppo tardi. Sì, la democrazia italiana si sta svuotando da decenni, ma l’imminente ascensione di un’amministrazione di estrema destra segna un nuovo minimo”.
(da agenzie)
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Settembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
DI MEDICI NOSTRANI DISPONIBILI CE NE SAREBBERO MA CONSIDERANO GLI STIPENDI TROPPO BASSI E NON HANNO VOGLIA DI ANDARE A LAVORARE AL SUD
«Prima di assumere medici stranieri, meglio incentivare quelli italiani». La decisione di diverse Regioni di ricorrere a professionisti extracomunitari pur di riuscire a fornire i servizi di cura negli ospedali, i medici non l’hanno presa bene. La scelta del presidente della Calabria, Roberto Occhiuto di assumere 500 medici cubani tramite una società di servizi locali era suonata come un affronto.
Nel frattempo, anche la Puglia stava già pensando di rivolgersi alla vicina Albania, mentre la Sicilia aveva ipotizzato di far ricorso a medici argentini. Del resto, la carenza di operatori sanitari italiani è nota.
Secondo le stime di Anaao Assomed, l’associazione dei medici dirigenti, in particolare, al Sud ne servirebbero circa duemila per ogni Regione: in Puglia circa 2mila-2400 medici, in Calabria circa 2150, in Sicilia 2500-2800. Il 70 per cento nelle aree di emergenza, il resto in tutti gli altri reparti.
Di medici nostrani disponibili, in realtà, ce ne sarebbero. Se non fosse che gli stipendi non allettanti e il luogo di lavoro, spesso in aree lontane dai centri, ha convinto molti professionisti a disertare i bandi. E così, di fronte alle decisioni delle Regioni, i medici italiani hanno iniziato ad alzare la voce.
Mentre la Cimo Fesmed ha fatto ricorso al Tar, l’Omceo di Palermo ha denunciato l’iter di assunzione degli stranieri che rischia di scavalcare «ogni regola ordinaria e straordinaria in tema di assunzioni in sanità». Il punto è che durante l’emergenza Covid, le regioni avevano ottenuto per legge la possibilità di ricorrere a personale medico anche straniero. Ma continuano a farlo anche ora.
Il presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Filippo Anelli, ha deciso così di scrivere una nota al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La richiesta è chiara: «chiediamo di rivedere la normativa che è stata prorogata sino al 31 dicembre 2023 spiega Anelli – che mette a rischio un sistema di controlli e di garanzia per la sicurezza delle cure e per la qualità dell’assistenza».
In effetti, il rischio è che senza adeguate verifiche sulla formazione dei medici stranieri, i pazienti potrebbero non ricevere cure e diagnosi adeguati. «I titoli di studio vanno rigorosamente verificati per poter esercitare la professione in Italia prosegue Anelli – evitando il pericolo di sfociare nell’esercizio abusivo. Non dimentichiamo che la conoscenza adeguata della lingua italiana, nel campo dell’emergenza sanitaria, è di importanza fondamentale».
Per il momento, alla lettera della Fnomceo non ha ancora risposto nessuno. Ma le Regioni sembrano comunque aver cambiato idea, almeno in parte. «In Puglia l’ipotesi è stata paventata ma non si è più concretizzata spiega il segretario dell’Anaao Assomed Pierino Di Silverio – in Sicilia per il momento il bando è stato bloccato. In Calabria, i medici cubani individuati sono per ora solo 84».
(da Il Messaggero)
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Settembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
IL CORPACCIONE LEGHISTA CHIEDE UN CONGRESSO, FEDRIGA E’ IN POLE PER PRENDERE IL POSTO DI SALVINI
Ma siamo sicuri che Salvini abbia le credenziali per continuare a essere segretario della Lega anche dopo il 25 settembre? “Aspettiamo, vediamo: i sondaggi della vigilia non ci hanno mai sorriso. E io sto bene in Friuli Venezia Giulia”, ride Massimiliano Fedriga.
Volto disteso, sicuramente il più ricercato dalle telecamere. Tutti a corrergli dietro per la solita domanda: toccherà a lei dopo Matteo?
“Ma noi siamo l’unico partito leninista d’Italia, il capo non si tocca. Tuttavia un congresso prima o poi lo faremo”, dice per esempio Cristian Invernizzi, deputato bergamasco uscente e ricandidato in posizione complicatissima. Più fuori che dentro.
La pacchia è finita. Ma per un pezzo di parlamentari leghisti, altro che i migranti. “E’ stata una carneficina: mi hanno messo quarto in lista, non ce la farò mai”, ammette Felice Mariani, già campione di judo, un tipo che non bisognerebbe far mai arrabbiare.
E’ stato segato dalle liste pure Daniele Belotti, 32 Pontida all’attivo sempre con il ruolo di speaker. E comunque i veri voti sono rimasti quassù, al nord. C’era una volta la Lega nazionale.
Ecco Zaia: si presenta con un bandierone con il Leone di San Marco srotolato dai suoi consiglieri (“non si dice vittoria bulgara, ma veneta”, maramaldeggia il governatore del 77 per cento).
Fedriga ammonisce chi fa “promesse” e “invoca la serietà” della politica.
Alla vigilia era stata diffusa una succosa indiscrezione: a Pontida ci sarà una super sorpresa? E quale: una clip di Vladimir Putin o il saluto del Cav.? Si scoprirà che invece è l’intervento di Mauro Barbuto, presidente dell’Unione ciechi e candidato in Sicilia.
Il fumo delle salamelle cotte sulla griglia avvisa che è ora di pranzo. Si possono smontare le tende.
(da il Foglio)
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Settembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
NON VANNO D’ACCORDO NEANCHE TRA DI LORO… ENTRAMBI PENSANO SOLO AI VOTI CHE SI POSSONO PERDERE
Come spiegato da diversi esperti, il porto di Piombino è l’unico in Italia in grado di rendere operativa una nave rigassificatrice già dalla primavera del 2023.
Giorgia Meloni, anche se con l’indeterminatezza di una frase ipotetica, ha dichiarato: «Sì al rigassificatore a Piombino solo se non ci sono alternative». E le alternative, appunto, non ci sono.
La leader di Fratelli d’Italia, allora, dovrà fare i conti con un esponente del suo stesso partito. Francesco Ferrari, sindaco della città portuale, continua a ribadire la sua contrarietà all’opera.
«Sono abituato a guardare i provvedimenti, analizzarli insieme ai legali, ai consulenti tecnici e valutare anche l’eventualità di ricorsi all’autorità giudiziaria. È un ipotesi verosimile che non scartiamo».
Il primo cittadino ha anche accusato Snam – il principale operatore nel trasporto e nello stoccaggio di gas -, di avere fornito una documentazione «totalmente inattendibile. Ci sono grandi mancanze e contraddizioni».
Di parere contrapposto, il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani. «Ci sono tutti i presupposti per andare avanti», ha dichiarato il governatore del Pd al termine della prima riunione della Conferenza dei servizi sul rigassificatore di Piombino.
«Abbiamo discusso di tanti argomenti, dal modo in cui la nave verrà a posizionarsi, al percorso che seguirà il gasdotto dalla punta della nave fino alla rete del gas nazionale, per otto chilometri. Abbiamo avuto il parere e le opinioni per le caratteristiche della nave, anche per il suo colore: la soprintendenza è entrata direttamente nel merito – ha spiegato Giani -. L’unico “no” netto è stato quello del Comune di Piombino, a fronte di oltre 30 enti» che prendono parte alla Conferenza dei servizi”
(da agenzie)
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Settembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
NEL MAGGIO 1905 LA FLOTTA RUSSA FU SCONFITTA DA QUELLA GIAPPONESE SUBENDO UN’UMILIAZIONE CHE PORTO’ ALLA RIVOLUZIONE
Nessuno è in grado di tracciare una mappa credibile di quanto accadrà tra Ucraina e Russia, sul campo, nelle prossime settimane.
La Russia riteneva già con gli zar, e tanto più con il comunismo, che le società occidentali fossero fragili che il popolo fosse sempre sul punto di ribellarsi e che avrebbe guardato a Est per ispirazione.
È un secolo almeno che a cicli ricorrenti Mosca, con gli zar, il Politburo e ora con il dittatore unico, sottovaluta la forza dell’Occidente e sopravvaluta la propria. Questo deriva da una costante della politica estera e della psicologia russe che, secondo lo storico americano Stephen Kotnik considerato oggi probabilmente il più profondo conoscitore occidentale del mondo russo di ieri e di oggi, si sta manifestando anche adesso nel caso ucraino.
La Russia, la grande maggioranza della popolazione e la quasi totalità della sua classe dirigente, si identifica e si è spesso identificata in passato con il concetto e il ruolo di grande potenza, la nazione che non deve mai chiedere perché tutto le è dovuto.
Questa grandeur è resa spontanea dalla stessa dimensione fisica del Paese, il più esteso del mondo grande 57 volte l’Italia e per 400 anni in continua espansione territoriale al ritmo medio tra il 1646 e il 1914 di 50 chilometri quadrati al giorno. «Ma il problema è che le sue capacità non sono mai state all’altezza delle sue ambizioni», sostiene Kotnik, perché l’Occidente è sempre stato più forte.
Vi sono stati tre vertici di potenza nella storia russa, con Pietro il Grande contro la Svezia soprattutto, con Alessandro I (contro Napoleone) e con Stalin contro la Germania, dopo esserne stato alleato nel 1939-1941. Per il resto, conclude lo storico americano, c’è la realtà di un Paese piuttosto debole. Solo con l’abbondanza di notizie russe imposte dall’evento ucraino il grande pubblico occidentale ha scoperto su giornali, tv e internet che la Russia ha un Pil analogo a quello spagnolo, nazione priva delle enormi ricchezze minerarie ed energetiche russe e con una popolazione che è un quarto di quella russa.
Anche oggi l’ambizione di Putin è chiarissima: distruggere quanto resta (e non è poco) dell’American Century e creare un nuovo ordine mondiale attorno a Mosca e a Pechino. Quest’ultima potrebbe al momento opportuno averne la forza economica (diverso il problema del soft power), ma come fa Mosca a illudersi di diventare Capitale di riferimento con un Pil al livello di quello spagnolo, priva di prodotti tecnologici ben presenti sul mercato mondiale (salvo che per il militare), e con lo scarso appeal globale della russian way of life? Lo Stato, e in Russia tutto è Stato, si impegna nella gara contro l’Occidente, soccombe, segue una stagnazione, poi la gara riprende, su un altro scacchiere eventualmente.
Sono alcuni mesi che ogni tanto emerge nelle analisi sul conflitto russo-ucraino lo spettro di Tsushima e della guerra russo-giapponese del 1904-1905.
L’imprevista notevole avanzata ucraina nel Nord-Est e la fuga precipitosa dell’armata russa hanno riproposto questa presunta analogia storica avanzata una prima volta da uno storico militare inglese nell’aprile scorso, quando la guerra-lampo promessa da Putin per piegare Kyiv chiaramente era già fallita.
Nello stretto di Tsushima, fra Giappone meridionale e la penisola coreana, una moderna flotta giapponese (navi costruite soprattutto in Gran Bretagna e due incrociatori corazzati classe Garibaldi costruiti dall’Ansaldo di Genova) annientò il 28-29 maggio 1905 la flotta russa del Baltico, arrivata esausta dopo un viaggio di sette mesi e 18 mila miglia per rovesciare le sorti del conflitto con i giapponesi sul controllo della Manciuria esterna, territorio già cinese.
Sconfitti definitivamente su terra a Mukden, a marzo, i russi speravano in una vittoria navale per ribaltare le sorti, ma Tokyo aveva navi migliori, cannoni migliori, proiettili più moderni ed efficaci, sapeva usare meglio la radio, allora agli esordi, ammiragli più aggiornati.
Così come Putin ha definito l’Ucraina uno Stato inesistente e quindi debole, gli strateghi russi disprezzavano il Giappone.
«Passeranno forse dei secoli, prima che l’esercito giapponese possa essere considerato al livello di uno dei più deboli eserciti europei», scriveva nel 1900 l’addetto militare russo a Tokyo, Vannovskij. Era quanto lo zar Nicola II, deciso a consolidare la presenza russa sul Pacifico per intestarsi l’ennesima espansione territoriale, voleva sentirsi dire. Era la prima sconfitta europea in una vera grande guerra da parte di un Paese asiatico.
L’impressione nel mondo fu enorme, il prestigio russo umiliato, e fu l’inizio in Russia di una lunga stagione di forte malcontento che avrebbe portato nel 1917 al fortunato colpo di mano dei bolscevichi.
«Tra i rottami del nostro vecchio sistema militare, nel crollo di tutte le autorità che finora avevamo ritenuto intangibili, nella completa bancarotta di tutte le idee ieri ancora indiscusse, soltanto una colonna del nostro Stato sta ferma incrollabilmente: il valore del soldato russo», scriveva a fine guerra il generale Martynov, uno dei protagonisti.
Ma non bastava per uno Stato debole che aveva ricevuto a Tsushima un colpo mortale. Le analogie storiche sono sempre imprecise, a dir poco, e l’avanzata ucraina non è Tsushima e le conseguenze sono ancora tutte da scoprire.
Vale però quanto ha osservato nei giorni scorsi Abbas Gallyamov, ex Speechwriter del presidente russo oggi residente in Israele: agli occhi del suo popolo «solo la forza è la legittimazione di Putin».
(da tag43.it)
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Settembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
SU CIRCA 190 PARLAMENTARI CHE SARANNO ELETTI NEL MERIDIONE OLTRE 40 NON HANNO NULLA A CHE CON I COLLEGI IN CUI VENGONO PRESENTATI
«Non conosco bene il territorio, ma conosco l’Abruzzo perché mio nonno era di Amatrice», disse Claudio Lotito, candidato del centrodestra in Molise, mentre la neo forzista Rita Dalla Chiesa in Puglia postava la foto di Giovinazzo scambiandola per quella di Molfetta e l’azzurra Michela Vittoria Brambilla da Lecco metteva per la prima volta piede a Gela stringendo la mano al sindaco e assicurando che «si occuperà adesso del territorio gelese».
Basterebbero queste scenette, chiamiamole così, per descrivere come i partiti abbiamo trattato il Mezzogiorno in questo voto per il rinnovo del Parlamento. Un grande bacino di consensi e nulla più.
Non a caso nella campagna elettorale da Roma in giù si è discusso più di queste figure fatte da candidati che evidentemente non conoscono nemmeno i territori dove sono stati imposti dalle segreterie, che di programmi veri per ridurre il divario Nord-Sud.
Ad eccezione dei soliti temi che saltano fuori a ogni elezione da almeno trent’anni: il Ponte sullo Stretto, gli aiuti a chi non lavora, l’autonomia differenziata che piace a Piemonte, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna con annessi governatori di Forza Italia, Lega e Pd.
Per il resto, come sottolineano economisti e imprenditori che lavorano in queste regioni economicamente e socialmente depresse, il Sud «è scomparso da ogni vera agenda politica» ed «è considerato soltanto come corpo elettorale utile ad eleggere classi dirigenti che vivono altrove».
Una cosa è fuor di dubbio: il fenomeno dei paracadutati riguarda quasi tutti i principali partiti e vede soprattutto le regioni meridionali “subire” queste scelte.
L’Espresso ha fatto i conti: sui circa 190 tra senatori e deputati che verranno eletti nelle regioni del Mezzogiorno, 32 candidati in posizione blindata ed eleggibile provengono da altre parti del Paese e non hanno nulla a che fare con i collegi in questione.
E se a questa cifra si aggiungono come è normale anche i leader nazionali candidati come capilista a macchia di leopardo nei vari collegi meridionali, e che quindi per il complesso meccanismo di ripartizione dei seggi potrebbero essere poi eletti al Sud, significa che il venti per cento dei volti eleggibili nel Meridione è stato paracadutato da altre regioni.
Non a caso in queste settimane in diverse città del Mezzogiorno si sta assistendo a scene surreali di candidati che stanno “scoprendo” come in una vacanza territori a loro sconosciuti o quasi: così capita di vedere Michela Vittoria Brambilla da Lecco arrivare nel profondo Sud a Gela e stringere la mano a un sindaco che non ha mai visto in vita sua, oppure Bobo Craxi aggirarsi per Palermo dove il centrosinistra lo candida all’uninominale perché «questo collegio spettava ai socialisti», facendosi fare foto per le stradine del centro quasi come un turista a passeggio che scopre la città.
Un po’ come il fiorentino leghista Alberto Bagnai in giro a Chieti come candidato nell’uninominale al Senato in Abruzzo o l’ex presidente di Palazzo Madama Maria Elisabetta Casellati, che accompagnata a Potenza dal forzista Nitto Palma ai giornali locali ha rilasciato la sua prima dichiarazione da candidata in Basilicata: «Sono felice». E ci mancherebbe, verrebbe da aggiungere.
In Campania il Pd ha fatto cadere dall’alto i ministri Dario Franceschini da Ferrara e Roberto Speranza da Potenza, il partito di Di Maio ha lanciato Davide Crippa da Novara, Forza Italia la compagna di Berlusconi, Marta Fascina, che è stata candidata anche a Marsala per sicurezza (di essere eletta).
E sempre sotto il Vesuvio sono candidati la bolognese Anna Maria Bernini per Forza Italia, il toscano Marcello Pera per Fratelli d’Italia, l’ex segretaria della Cgil Susanna Camusso (lombarda) per i dem e il triestino Stefano Patuanelli per il Movimento 5 stelle.
In Puglia Forza Italia punta forte su Rita Dalla Chiesa e sulla milanesissima Licia Ronzulli, ma il segretario dei dem Enrico Letta nella terra di Michele Emiliano piazza in posizione blindata anche il suo braccio destro Antonio Misiani da Bergamo.
In Sicilia va in scena la sfida a distanza tra i fratelli Craxi, con Bobo a Palermo per il centrosinistra e Stefania a Caltanissetta per il centrodestra, mentre la ligure Annamaria Furlan, ex segretaria della Cisl, è capolista dei dem nella circoscrizione Sicilia Occidentale al Senato.
Il Terzo Polo candida Maria Elena Boschi in Calabria, Matteo Renzi ed Ettore Rosato da Trieste in Campania e la mantovana Elena Bonetti in Sardegna. Un Sud accogliente e morbido per chi atterra da altre parti del Paese in collegi e posizioni blindate.
Ma a fronte di questo record di paracadutati, il tema Mezzogiorno è scomparso dalla campagna elettorale e gli imprenditori assistono perplessi al tour di candidati semisconosciuti.
(da L’Espresso)
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Settembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
VIAGGIO TRA GLI STUDENTI STRANIERI DELLE SCUOLE ITALIANE CHE ATTENDONO DI SENTIRSI UGUALI AI LORO COMPAGNI DI CLASSE
La proposta di legge sullo Ius Scholae darebbe la possibilità ai bambini nati da famiglie straniere, che hanno completato uno o più cicli scolastici, senza interruzioni, nel nostro paese, di ottenere la cittadinanza italiana. Un tema che riguarda quasi 900mila studenti, che, nati da famiglie straniere, frequentano le nostre scuole e che hanno meno diritti degli altri studenti.
Secondo i dati del Ministero dell’Istruzione, di questi 900 mila circa, il 64,5% è nato proprio in Italia ed ha iniziato qui il suo percorso formativo.
Non avere la cittadinanza italiana per un ragazzino che ha svolto il suo percorso scolastico qui, significa privarlo degli stessi diritti che hanno i suoi compagni banco, significa partire con un handicap per tutto quello che vorranno fare nella loro vita.
Eppure la polemica politica, aiutata dal clima da campagna elettorale, ha visto i partiti del centro destra alzare un muro contro l’ipotesi che la proposta di legge venisse discussa dal dimissionario governo Draghi. Una posizione squisitamente ideologica ma che nella realtà ha degli impatti devastanti sulla vita di questi bambini. Abbiamo chiesto a 4 di loro cosa ne pensano dello Ius Scholae e cosa significa per loro non avere la cittadinanza italiana.
“È come avere un italiano in più”
Anas, Nilema, Sofia e Nicole hanno tra i 16 e i 20 anni, hanno frequentano le scuole italiane, Nilema si è diplomata ed ha iniziato la carriera universitaria. “Non capisco chi si oppone allo ius scholae” ci spiega Nicole che ha 16 anni e frequenta il liceo linguistico. “Dicono che ci sarà più potere agli stranieri, ma non è così, semplicemente lo straniero diventa italiano, è come avere un cittadino italiano in più non in meno”. “Se un bambino che fa le scuole in Italia, cresce in Italia, vive la sua vita qui, poi non ha la cittadinanza allora mi chiedo cosa possa mai fare?” sottolinea Nilema. Lei è nata a Vicenza ed ha iniziato le scuole in Veneto per poi trasferirsi a Napoli. “Non ho mai capito cosa vuol dire essere italiana, cos’è che ti rende italiana? Io penso in italiano, parlo italiano, ho la cultura italiana, ho lo stile di vita italiano, poi quando vado a fare i documenti sicuramente non mi sento italiana”.
Un ragazzino di 16 anni purtroppo fa subito i conti con quel gap di diritti che lo differenziano dai suoi coetanei. “Io volevo fare il magistrato da piccolo – ci dice Anas, 16 anni, studente di scienze umane – poi ho scoperto che per fare il concorso avrei bisogno della cittadinanza ed ora non ci penso più. Credo che chi si oppone a questa legge non capisca davvero cosa significhi la scuola per un ragazzo straniero in Italia”. Già perché se la tua classe fa un viaggio d’istruzione fuori dall’Europa tu non puoi andarci, così come devi rinunciare subito ai tuoi progetti, a cosa vorresti fare da grande.
“Io ho tantissime difficoltà, non posso nemmeno prendere la patente” ci spiega Sofia, 16 anni che studia al liceo scientifico di scienze applicate. La sua famiglia viene da El Salvador e lei ha svolto i cicli scolastici qui in Italia.
“Io mi sento italiana perché vivo a Napoli, vivo a Napoli da tanti anni e ci vivrò per molti anni, mi sento italiana per questo e non ho bisogno di nessun documento per confermarlo” ci sottolinea fiera. La cittadinanza scava un solco tra ragazzini che hanno tanto in comune, ma c’è chi è cittadino di serie A e chi lo è di serie B.
Una differenza che apre le porte ai fenomeni di bullismo. “Non ho mai capito cosa significa sentirsi italiano, io ho avuto compagni di scuola razzisti alle medie, che mi hanno insultato, bullizzato, mi hanno fatto sempre sentire straniero, non mi sono sentito accolto. Avevo quasi fatto l’abitudine a sentirmi straniero” commenta Anas.
Secondo i dati elaborati da Openpolis, tra gli studenti vittime di bullismo nelle scuole medie e superiori italiane, gli studenti di origine straniera sono circa il 17% in più. Un fenomeno che colpisce soprattutto i ragazzi provenienti da famiglie filippine, cinesi, moldave e ucraine.
“Il razzismo non è nato oggi chiaramente – ci spiega Fatima Ouziri, operatrice sociale del centro interculturale “Gomitoli” di Napoli – ma oggi nella scuola capiamo quando stia cambiando il paese perché ci sono molti più bambini e bambine straniere”.
Sono oltre il 10% di tutta la popolazione scolastica secondo i dati del Ministero dell’Istruzione. “Molto spesso purtroppo il personale scolastico non è preparato a gestire situazioni di conflitto che inevitabilmente si presentano, i fenomeni di bullismo sono frequenti e se da un lato fanno crescere i ragazzi, al tempo stesso li segnano profondamente. Loro ne parlano continuamente con noi, sono cose che li segnano”.
È come il gioco delle sottrazioni: per integrare la diversità nel nostro paese i diritti si sottraggono invece di espandersi, e questo semplicemente aumenta le disuguaglianze che sono il terreno di coltura dei fenomeni di bullismo.
“La cittadinanza non è solo un documento – sottolinea Ouziri – ma è possibilità di partecipare alle vita politica e sociale di un paese, è sentirsi riconosciuti dallo Stato. In questo quando poi ci confrontiamo con gli altri paese europei capiamo quanto noi italiani siamo poco europei. Incapaci di accettare la diversità di ogni tipo”. E’ lo specchio di un paese chiuso violentemente in se stesso che non fa i conti con una realtà che è qui ed ora. “Perché, secondo voi, è così difficile – si chiede l’operatrice sociale – dare la cittadinanza ad un ragazzino di origine straniera?”. Già, perché?
(da Fanpage)
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Settembre 19th, 2022 Riccardo Fucile
ALTRO CHE EUROPEISTI LIBERALI, I SOVRANISTI RIFIUTANO LA DEMOCRAZIA LIBERALE COME SISTEMA DI AUTOGOVERNO DEI POPOLI
Le bugie, come dicono anche le nonne, hanno le gambe corte. Quelle con cui Giorgia Meloni ha cercato di presentarsi all’opinione pubblica internazionale come una europeista liberale non sono arrivate fino alle elezioni.
Il voto della Lega e di Fratelli d’Italia nel Parlamento europeo a favore di Orbán e del regime ungherese indicano con chiarezza da quale parte della barricata sta l’estrema destra italiana. Non c’è nulla di male.
Si può essere contro la Ue, contro il sistema di garanzie dello stato di diritto, contro le libertà che vengono quotidianamente negate in Ungheria e Polonia, contro il sistema di valori europei.
Nelle vere democrazie il dissenso è legittimo. Basta dirlo. Quello che non si può fare, però, è cercare di conquistare il potere conferito da libere elezioni dissimulando la propria natura e le proprie convinzioni: la democrazia è un campo di gioco sul quale è vietato barare.
Ma la vera domanda che dovremmo porci è perché Meloni e Salvini abbiano deciso di gettare alle ortiche la maschera moderata con cui avevano scelto di presentarsi agli elettori. Se, come dice il co-fondatore di Fratelli d’Italia Guido Crosetto, «a Giorgia Meloni dell’Ungheria non interessa nulla», perché buttare al vento mesi di interviste tranquillizzanti ai grandi giornali internazionali, di convegni e incontri più o meno pubblici con l’establishment finanziario, di mezze apostasie come quella sulle radici fasciste del partito?
Mario Draghi ha ragione da vendere quando cerca di spiegare a Meloni che «l’interesse nazionale dell’Italia», tanto caro alla leader del cartello di destra, sta nell’alleanza con Paesi democratici come la Francia e la Germania, e non con regimi autoritari come l’Ungheria e la Polonia.
Ma forse, per una volta, il capo del governo pecca di ingenuità nell’indicare le evidenti opportunità di tale scelta di campo. L’opportunismo di Meloni e Salvini, infatti, si limita strettamente alla dissimulazione necessaria durante la campagna elettorale. Per il resto, sia l’uno sia l’altra sanno perfettamente di essere pedine cruciali nella sfida globale che ha per posta il futuro delle democrazie liberali. E giocheranno fino in fondo la loro partita.
Oggi una larga parte del Pianeta, a cominciare dalla Russia e dalla Cina, è impegnato in questo braccio di ferro che si combatte dentro e fuori i confini dell’Occidente. E se gli Stati Uniti sono alle prese con il fantasma incombente di Trump, che ha gestito il ridimensionamento dell’egemonia americana dalla Siria alla Libia all’Afghanistan, l’Europa deve misurarsi con gli amici dell’ex presidente americano a Budapest, a Varsavia, ma anche a Parigi, a Madrid e soprattutto a Roma.
La decisione della Commissione, annunciata da Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’Unione, di voler lanciare una legge sulla libertà dei media e uno strumento per smascherare le ingerenze esterne nella politica dei Paesi Ue dimostra che Bruxelles è ormai ben consapevole della portata e della natura della sfida in atto.
Anche la risoluzione del Parlamento europeo, secondo cui l’Ungheria non può più considerarsi una democrazia, è la riprova che i partiti democratici hanno capito come la sfida lanciata contro il sistema di valori della Ue non debba più essere ignorata. Meloni e Salvini sono parte integrante di questa sfida. Ecco perché non possono, e non vogliono, dissociarsi dal regime di Orbán .
Del resto la spiegazione data dalla leader di Fratelli d’Italia, secondo cui la condanna del governo ungherese è «politica» e pretestuosa, prefigura già la posizione che un futuro governo delle destre populiste italiane si prepara ad assumere di fronte ai rilievi che gli arriveranno da Bruxelles. È lo stesso atteggiamento vittimista e sprezzante manifestato da Orbán quando ha definito «una barzelletta» la risoluzione del Parlamento.
Qualsiasi critica ci verrà dall’Europa, sui conti pubblici come sul blocco navale contro i migranti, sulla tutela delle corporazioni protette come sui condoni fiscali, sarà derubricata, come già fece a suo tempo Berlusconi, ad attacco politico e a complotto anti-italiano.
Il rifiuto dell’Europa, per Meloni come per Orbán , comincia dal rifiuto di una sintassi comune di regole e di valori condivisi. Ma l’obiettivo ultimo, che piace a Putin e a Xi Jinping, è il rifiuto della democrazia liberale come sistema di autogoverno dei popoli.
(da La Repubblica)
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