Settembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
LO DICEVA LA STESSA RELAZIONE TECNICA CHE ACCOMPAGNAVA IL DISEGNO DI LEGGE DI BILANCIO, CONFERMATO DALL’UPB… LE MARCHETTE ALLE LOBBY DI SALVINI LE PAGANO I CONTRIBUENTI ITALIANI
Il 12 settembre, ospite ad Agorà su Rai 3, il leader della Lega Matteo Salvini ha difeso (min. 7:12) la proposta del suo partito di introdurre la cosiddetta «flat tax», ossia un sistema fiscale con cui i redditi dei contribuenti sono tassati con un’unica aliquota.
Secondo Salvini, la flat tax «si paga da sola», ossia si finanzia da sola, perché è già in vigore, con un’aliquota del 15 per cento, per «2 milioni di partite Iva».
Il riferimento è ai lavoratori autonomi con redditi fino a 65 mila euro che, grazie alla legge di Bilancio per il 2019, approvata dal primo governo Conte, sostenuto da Lega e Movimento 5 stelle, beneficiano del regime forfetario.
Secondo i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel 2020 queste partite Iva erano circa 1,6 milioni, a cui nel 2021 se ne sono aggiunte circa 240 mila, portando il numero degli autonomi con il forfetario vicino ai «2 milioni» citati da Salvini.
Ma è vero che grazie a questa estensione del regime forfetario, chiamata «flat tax» dal leader della Lega, non ci sono costi per lo Stato?
La risposta è no.
Per chi ha fretta:
Dai salotti di Rai3, il leader della Lega Matteo Salvini è tornato a difendere la proposta del suo partito riguardo l’introduzione della cosiddetta “flat tax”
Salvini ha sostenuto che questa estensione del regime forfettario non corrisponderebbe a un costo per lo Stato, ma si sbaglia
Il primo governo Conte aveva stimato che l’estensione dell’aliquota unica al 15 per cento per gli autonomi con un fatturato fino ai 65 mila euro avrebbe portato a un calo delle entrate per lo Stato pari a 1,4 miliardi di euro a regime
Analisi
Come anticipato, alla fine del 2018, con la legge di Bilancio per il 2019, la Lega al governo ha esteso il già esistente regime forfetario del 15 per cento per le partite Iva con un fatturato fino a 65 mila euro. In più, la manovra finanziaria aveva introdotto un’unica aliquota, pari al 20 per cento, per le partite Iva con un fatturato tra 65 mila e 100 mila euro. Questa aliquota è stata poi abolita l’anno dopo, con la legge di Bilancio per il 2020, dal secondo governo Conte, sostenuto da Partito democratico, Movimento 5 stelle, Italia Viva e Liberi e uguali.
A differenza di quanto detto da Salvini in tv, non è vero che la flat tax «si paga da sola».
E a dirlo era la stessa relazione tecnica che accompagnava il disegno di legge di Bilancio per il 2019. Secondo le stime del primo governo Conte, a causa dell’estensione del regime forfetario del 15 per cento, nel 2019 lo Stato avrebbe perso 330 milioni di euro di entrate, che salivano a 1,8 miliardi di euro nel 2020, per poi stabilizzarsi a un costo annuo di 1,4 miliardi di euro fino al 2028.
Anche l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), un organismo indipendente che ha il compito di vigilare sulle finanze pubbliche, a inizio 2019 aveva calcolato che l’estensione del regime forfetario avrebbe determinato un «costo per la finanza pubblica di circa 1,4 miliardi di euro».
Lo stesso Upb ha sottolineato che è comunque «complesso» stimare gli effetti finanziari di un regime come quello forfetario per le partite Iva, perché è impossibile prevedere con precisione quanti decideranno di aderirvi, magari riducendo l’attività economica o eludendo il fisco per rientrare nelle soglie economiche fissate.
Il programma della coalizione di centrodestra per le elezioni del prossimo 25 settembre propone di estendere il regime forfetario del 15 per cento a tutte le partite Iva con un fatturato fino a 100 mila euro, senza però dire dove prenderà i soldi per finanziare questa misura.
In generale, l’idea che tagliare le tasse faccia aumentare il gettito dello Stato (perché così i contribuenti lavorano di più e fatturano di più) non ha raccolto solide prove nella letteratura scientifica.
Conclusioni
Secondo Matteo Salvini, la flat tax «si paga da sola», come dimostrerebbero le partite Iva che già oggi accedono al regime forfetario del 15 per cento. In realtà, il primo governo Conte, sostenuto anche dalla Lega, aveva stimato che l’estensione dell’aliquota unica al 15 per cento per gli autonomi con un fatturato fino ai 65 mila euro avrebbe portato a un calo delle entrate per lo Stato pari a 1,4 miliardi di euro a regime.
(da Open)
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Settembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
LA COMUNICAZIONE È TUTTA INCENTRATA SU DI LEI, I BIG SONO STATI TUTTI SILENZIATI, TRANNE CROSETTO CHE FA DA UFFICIO STAMPA DEGLI INDUSTRIALI
Giorgia Meloni ha inaugurato “il gioco del silenzio”: meno si parla e meglio è. Questo è l’ordine di scuderia, perentorio, che la Giorgia nazionale ha dato a tutti gli iscritti di Fratelli d’Italia soprattutto a quelli che un tempo amavano andare in giro per i talk.
I colonnelli, insomma. Come avrete notato infatti la comunicazione è tutta incentrata su di lei e tutti i big del partito che prima scorazzavano in lungo e largo per radio e tv si sono improvvisamente ammutoliti, quasi fossero stati messi in quarantena. Le interviste dei big si fanno di giorno in giorno sempre più rade. Rimane in campo solo Crosetto ma proprio perché a lui nessuno può impartite ordini.
Anche la comunicazione ha le sue leggi. Così è stato impartito l’ordine di scuderia: vietato parlare perché ogni volta che si apre in bocca si può sempre scontentare qualche elettore. E soprattutto si rischia di creare troppe aspettative che poi non sarà possibile mantenere.
L’obiettivo di Giorgia Meloni, infatti, è quello di fare in surplace gli ultimi 15 giorni di campagna elettorale: “Con un vantaggio del genere non si devono commettere errori”, il ragionamento della leader. Le elezioni sembrano già vinte, inutile correre rischi inutili.
(da agenzie)
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Settembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
“MATTEO MI CHIAMA SEMPRE MENTRE GIORGIA QUI NON VUOLE VENIRE”
Arginare Giorgia Meloni, cercare di contenerne l’onda lunga, fare fronte contro il possibile strapotere di Fratelli d’Italia dopo il 25 settembre.
Matteo Salvini e Silvio Berlusconi non si vedevano da metà agosto, nella magione del secondo in Sardegna; ieri dopo aver assistito al gran premio di Monza e lì aver fatto un saluto alla collega di coalizione di Fdi, il leader della Lega ha fatto un salto a villa San Martino. Prima di un comizio a Varese e per poi farne un altro in serata a Genova.
Agenda di una campagna elettorale fittissima, ma mai abbastanza da rinunciare a un salto dal Cavaliere. Specialmente adesso che i due, prima l’uno e poi l’altro capi assoluti o quasi del centrodestra, si sono ritrovati scalzati da Meloni. «Giorgia qui non vuole mai venire, invece Matteo mi chiama sempre…», scherzava il fondatore di Forza Italia.
Tra una cosa e l’altra è stata quasi un’ora di chiacchiere, «hanno fatto il punto della situazione in un clima come sempre molto affettuoso», recitava la nota diramata dalla Lega (molto più secca e meno cerimoniosa quella di Berlusconi: “Il presidente ha ricevuto ad Arcore il leader della Lega”, stop). Il tutto comunque a insaputa di Meloni che infatti, appena arrivata a piazza Duomo, non ha nascosto di non averla presa benissimo: «Non sapevo che si sarebbero visti ma ci vediamo random…».
Piccolo particolare: Meloni, anche volendo, non era stata invitata al mini-vertice.
Dopodiché i rapporti di forza interni al centrodestra appaiono ormai consolidati. I voti di Lega e Forza Italia messi assieme, nelle migliori previsioni, fanno quelli di Fdi.
E mentre i primi sostenevano il governo di Mario Draghi, la seconda dall’opposizione vedeva crescere mese dopo mese i propri consensi. Il progetto di partito unico tra le due forze non è più da tempo in agenda, ma certamente – è il ragionamento condiviso da Berlusconi e Salvini – ci sarà bisogno di un coordinamento dopo il voto, necessario per riequilibrare la coalizione.
«Quello che mi interessa è battere i miei avversari, non gli alleati – rassicurava Meloni dalla piazza milanese -. Vorrei che, se il centrodestra arrivasse al governo, riuscisse a restarci per cinque anni, e mi piacerebbe che tutti i partiti di centrodestra crescessero in questa campagna elettorale». Difficile dire pubblicamente qualcosa di diverso, però dei temi tanto cari ai colleghi la leader tricolore non ne ha citato neanche uno per sbaglio: né l’aumento delle pensioni, né la flat tax, né il ritorno del nucleare.
Quanto a Salvini, pubblicamente ribadisce che invece la partita interna è ancora tutta aperta: due giorni fa a Milano aveva paragonato i sondaggi a degli oroscopi, mai fidarsi troppo insomma; invece ieri parlando al Tg3 ragionava che «siamo una squadra, l’accordo è che gli italiani sceglieranno il 25 settembre, chi prende un voto in più avrà l’onore e l’onere. Per me sarebbe una gioia, un orgoglio, un’emozione a cui mi sento preparato, prendere per mano questo paese».
In serata però tra i maggiorenti del Carroccio ci si scambiavano con preoccupazione le foto da varie angolazioni di piazza Duomo, e la sensazione prevalente era che la prova di pubblico non fosse andata per niente male ai nemici- amici.
Io – è infine l’assicurazione di Berlusconi in una intervista rilasciata a Upday – «non sono certo a caccia di alcun incarico, del quale non ho davvero bisogno. Sono e sarò come sempre al servizio del mio Paese, se vi fosse la necessità di un mio intervento ».
(da La Repubblica)
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Settembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
NONOSTANTE LE CHIAMATE DI AIUTO, NON È ARRIVATO NESSUNO… IL PADRE DELLA PICCOLA: “ALCUNI CI HANNO ANCHE FOTOGRAFATI, CREDEVAMO CHE L’EUROPA FOSSE IL CONTINENTE DELL’UMANITÀ, CI SBAGLIAVAMO”
Loujin sorride dalla foto profilo WhatsApp di mamma Tasmin. Nell’immagine scattata al tramonto indossa un abito bianco da cerimonia, gli occhi felici. Quel sorriso non c’è più: è stato cancellato, spazzato via dall’indifferenza di chi poteva salvarla ma ha scelto di voltarsi dall’altra parte.
Questa bimba di quattro anni è morta in mezzo al Mediterraneo, al largo delle coste maltesi. In quell’Europa dove la sua famiglia, siriani rifugiati in Libano, sognava una seconda vita.
Le sue ultime parole sono state un’implorazione, l’ennesima, sussurrata ai genitori: «Datemi qualche goccia d’acqua, per favore». Ma sul barchino che trasportava la speranza disperata di sessanta persone non c’era né cibo né acqua, da diversi giorni ormai.
È morta di sete, Loujin, la notte dell’otto settembre, tra le braccia di mamma e papà, ancora sotto choc: «Il suo pianto inconsolabile avrebbe commosso anche i sassi – singhiozza il padre, Ahmad Adbelkafi Nasif -. Avete idea di cosa significhi per un genitore vedere morire una figlia in questo modo atroce?».
Il barchino su cui viaggiavano sessanta migranti era partito dal Libano a inizio mese, direzione Italia. Ma da giorni i motori erano fuori uso e lo scafo aveva iniziato a imbarcare acqua.
Con un telefono satellitare qualcuno ha mandato un Sos, rilanciato immediatamente da Nawal Soufi, un’attivista catanese di origini marocchine, che da anni si occupa di salvataggi in mare.
«La barca si trovava nella zona Sar (Search and rescue, ndr) di Malta e ho subito avvertito le autorità di La Valletta – racconta -. Dopo un giorno di silenzio mi è stato risposto che c’era una nave in avvicinamento: “Il salvataggio è solo questione di tempo”, mi è stato detto».
Quella nave non è mai arrivata. I testimoni raccontano che ne sono passate diverse, ma nessuna si è fermata.
«Svuotavamo lo scafo con i secchi, era evidente che stavamo naufragando – racconta indignato Ahmad -. Alcuni ci hanno anche fotografati e poi hanno continuato». La salvezza si è materializzata sotto forma di un mercantile battente bandiera di Antigua e Barbuda, ma per la piccola Loujin era già troppo tardi.
Ora la famiglia Nasif si trova in un ospedale di Creta, dove Mira, l’altra figlia di un anno, è ricoverata dopo aver ingerito grandi quantità di acqua. «Grazie a dio non è in pericolo di vita – spiega la madre -, ma il nostro cuore è in cenere».
Oltre alla speranza hanno perso ogni cosa: «In Libano rischiavamo di vivere di elemosina. Abbiamo provato a partire in maniera legale, ma l’unica via è stata quella del mare – spiega il padre -. Nel viaggio abbiamo investito tutti i nostri risparmi: 12 mila euro».
Dal sogno di una vita, la bandiera con le 12 stelle su fondo blu si è trasformata in un inferno. «Credevamo che l’Europa fosse il continente dell’umanità, ci sbagliavamo. Ci ha strappato nostra figlia. Se potessimo tornare indietro, mangeremmo terra in Libano piuttosto che vivere questa tragedia», mormora il padre.
Che però non riesce ad avere rancore. Se avesse di fronte a lui i politici europei, spiega, augurerebbe loro di vedere i figli nella stessa situazione di Loujin, a implorare un po’ d’acqua: «Ma io vorrei passare di lì per non lasciarli morire».
Sui social sono già iniziati a piovere i commenti contriti per una morte assurda. Scene già viste: c’è da prevedere che l’indignazione duri fino alla prossima tragedia, che anche stavolta non verrà evitata. Questione di ore, secondo Nawal Soufi: «Purtroppo abbiamo notizie di molte imbarcazioni in difficoltà, il prossimo dramma non tarderà ad arrivare. Serve un’operazione di salvataggio coordinata a livello europeo». Perché l’attivista non ha alcun dubbio: «Loujin è morta a causa delle politiche europee».
(da agenzie)
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Settembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
COSÌ RISCHIA DI PERDERE UNA DELLE RAGIONI DEL SUO SUCCESSO DEGLI ULTIMI ANNI: LA CAPACITÀ DI ATTRARRE TALENTI
Che cosa avrebbe pensato Federico Caffè del rincaro del caffè a Milano? L’economista di Pistoia, maestro di una generazione di leader come Mario Draghi, scriveva che l’inflazione, dal punto di vista sociale, si può descrivere come la capacità di alcuni gruppi di scaricare i rincari sugli altri.
Il reddito fisso viene così a trovarsi tra l’incudine dei costi e il martello di uno stipendio che perde potere di acquisto reale. Lo viviamo tutti i giorni. E ciò che sta capitando altrove come a Milano, per esempio con gli affitti e i ristoranti. In quei centesimi in piu dell’espresso (che diventano decine di euro degli stellati) ritroviamo tutte le tensioni sul gas, la guerra di Putin all’Ucraina, la paura della bolletta, il freddo, il pessimismo e le prospettive economiche per l’inverno.
Con un caveat: Milano era ed è la città più cara d’Italia e una delle città più care d’Europa. Ha superato Monaco di Baviera. Fa a braccio di ferro con Parigi e Londra, senza perdere subito. Qui l’inflazione tendenziale è salita oltre l’8 per cento, il massimo dal 1994, subito dopo Tangentopoli.
Lo si vede chiaramente con i ristoratori che si comportano esattamente come aveva anticipato Caffè: sale la bolletta, sale proporzionalmente il conto, come se fosse normale (andrebbe per lo meno redistribuito).
Si potrebbe giustamente pensare: basta non andare nei ristoranti Michelin (che comunque sono sempre pieni e difficili da prenotare). Si dovrebbe aggiungere: la maggior parte delle persone non c’è mai andata perché non poteva permetterseli nemmeno prima.
Ma il nocciolo della questione è che in una città come Milano gli stellati, dal punto di vista economico, sono degli indicatori economici, la punta della piramide, anzi dell’iceberg. Il resto si nota di meno ma segue di conseguenza. Anche per gli affitti sta emergendo lo stesso fenomeno. Inoltre la Bce sta alzando i tassi che influenzano i mutui.
Dunque anche per l’acquisto la tendenza è segnata. Costi maggiori, prezzi maggiori (Citylife sta proponendo gli appartamenti di grossa dimensione a circa 10 mila euro al metro quadrato. E solo perché improvvisamente è venuta a mancare la domanda silenziosa ma in passato costante dei russi).
La vischiosità dei prezzi verso il basso (salgono velocemente ma si riadeguano al ribasso molto molto lentamente) rischia di creare un muro duraturo nella capacità della città di attrarre talenti. Annullando il lavoro fatto negli anni pre-Covid. In questo l’indicatore degli stellati va guardato anche da chi non ci va: se a Milano cresce la forbice che separa chi può e chi non può la ricaduta è sociale e dunque collettiva.
L’effetto è stato descritto magnificamente da Trilussa: i polli dei milanesi possono anche aumentare apparentemente, ma la verità è che li mangiano sempre in meno. Questo è il punto chiave di ricaduta per le ambizioni nazionali e internazionali dela città, luogo del design, dello Human Technopole e di Mind, delle Università come la Bocconi, il Politenico e la Bicocca che guardano al Nord Europa, dello skyline giovane e tecnologico che è diventato un nuovo brand.
Se Milano vuol restare meta ambita per i cervelli (sempre più attratti dalla dimensione satellitare dello smart working e dunque con un’alternativa generazionale importante) deve fare un compromesso con se stessa e capire che città vuole essere: un elefante demografico per ricchi o un coniglio capace di riprodurre esperienze e talenti.
(da agenzie)
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Settembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
META’ DEI CANDIDATI HA UN TITOLO DI STUDIO SUPERIORE A QUELLO RICHIESTO… DOVE SONO I FAMOSI “IMPRENDITORI ITALIANI” SE UN LAUREATO NON TROVA LAVORO E DEVE ADATTARSI A SPAZZARE LE STRADE? ASPETTANO COME AL SOLITO GLI AIUTI STATALI A FONDO PERDUTO?
Ci sono anche 1.232 laureati tra gli oltre 26mila aspiranti netturbini che oggi affronteranno le selezioni a Napoli.
Tutti con lo stesso obiettivo: ottenere uno dei 500 posti da operatore ecologico aperti da Asia, l’Azienda di igiene urbana del capoluogo campano. E questo nonostante il bando richiedesse la sola licenza media. A rivelarlo è Repubblica Napoli, che ha intervistato alcuni dei candidati al concorso, come Maria, che ha rinunciato alla toga da avvocato per la tuta da netturbino.
«Qualche amico si è sorpreso, ma la mia professione è in crisi e questo concorso per me è abbordabile», spiega la candidata. Un segno evidente che la fame di lavoro in città esiste, al punto che migliaia di laureati si candidano per una posizione non in linea con il proprio percorso di studio e per la quale sarebbero sovra-qualificati.
Le selezioni per i 500 posti da operatore ecologico sono iniziate oggi alla Mostra d’Oltremare. I partecipanti dovranno sottoporsi a 50 domande a risposta multipla: dai mari che bagnano la Grecia alle canzoni di Ligabue, passando per il codice di rispetto dell’ambiente.
Ai test parteciperanno oltre 26mila candidati. Di questi: 1.232 hanno una laurea e 10.445 un diploma superiore. Il 10% dei candidati, inoltre, ha un’età superiore ai 50 anni, anche se 200 posti saranno riservati a contratti di apprendistato, quindi a giovani di età compresa tra 18 e 29 anni.
(da agenzie)
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Settembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
E LO CREDO, CHI MEGLIO DI LEI LI RAPPRESENTA?… UNICA RACCOMANDAZIONE DEI POTERI FORTI: “SEGUIRE AGENDA DRAGHI”
Dalla svizzera Ubs alla francese Société Générale, passando per l’americana Goldman Sachs: le grandi banche d’affari internazionali danno la vittoria delle elezioni politiche italiane, in programma per domenica 25 settembre, la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.
Non hanno quindi dubbi sull’esito del voto, ma resta un “però”.
A livello economico, secondo i grandi istituti bancari, ci sarà un periodo di “incertezza”: tanti sono infatti i dossier aperti sul tavolo: dalla crisi energetica al caro bollette, dalle sempre più discusse pensioni all’implementazione del Pnrr, il piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, da cui dipendono le riforme del Paese, la tenuta dei conti dell’Italia e la sua reputazione internazionale.
Dai big della finanza la preoccupazione è principalmente una: capire da vicino l’agenda del futuro governo sul piano Ue per eccellenza e la politica economica internazionale ad esso associata.
Dal dossier aperto sulla concorrenza alla digitalizzazione, fino alla transizione energetica e alla giustizia, l’Italia è ferma al palo da troppo tempo su questioni economiche e tecnologiche cruciali per la crescita e la competitività internazionale.
La strada aperta dal premier uscente Mario Draghi, in tema di riforme e Pnrr, secondo le grandi banche d’affari, è quella “giusta” da seguire. Il nuovo esecutivo si dovrà infatti confrontare con un operato apprezzato sia da Bruxelles che fuori dai confini Ue.
(da agenzie)
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Settembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
ALLA FINE CE LI RITROVEREMO TUTTI IN PARLAMENTO: QUALCHE RISCHIO PER DI MAIO E BONINO
Enrico Letta, Giuseppe Conte e Giorgia Meloni saranno eletti alla Camera al 100%. Luigi Di Maio ha una probabilità “media” di essere. Al Senato, Silvio Berlusconi centrerà l’obiettivo senza problemi come Matteo Salvini. Quasi certamente anche Matteo Renzi, Claudio Lotito e Ilaria Cucchi.
È quanto emerge dal calcolo delle probabilità eseguito da YouTrend in vista delle elezioni politiche 2022 del 25 settembre.
I dati, come scrive Il Tempo, sono stati calcolati su 250 simulazioni del risultato delle elezioni – per ciascun ramo del Parlamento – secondo le rispettive fasce (100%-80% = alta, 80%-60% = medio alta, 60%-40% = media, 40%-20% = medio bassa, 20%-0% bassa).
Alla Camera, Nicola Zingaretti e Giulio Tremonti figurano nella fascia alta, come Giancarlo Giorgetti, Carlo Nordio e Fabio Rampelli. Discorso analogo per Chiara Appendino, Federico Mollicone, Gianfranco Rotondi, Rita Dalla Chiesa.
Nella sezione “medio-alta” figurano i nomi di Mara Carfagna, Benedetto Della Vedova, Ettore Rosato. In fascia media Luigi Marattin e Davide Faraone. Un gradino più sotto, nella sezione medio-bassa, Valentina Vezzali e Lucia Azzolina.
Si preannuncia una corsa in salita per Alessia Morani. Al Senato, Emma Bonino è nella fascia media della griglia. Per Monica Cirinnà e Vittorio Sgarbi, la probabilità è medio-bassa.
(da agenzie)
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Settembre 12th, 2022 Riccardo Fucile
NON È STATO SEMPRE COSÌ, LA FASCIA 18-34 È PASSATA PROGRESSIVAMENTE DA ESSERE QUELLA CHE VOTA DI PIÙ A QUELLA CHE VOTA DI MENO… L’IDENTIKIT DELL’ASTENSIONISTA: GIOVANE E DISOCCUPATO, VIVE SOTTO IL TETTO DI MAMMÀ
Le urne del 25 settembre attendono 4,7 milioni di nuovi giovani elettori, e i leader politici si sono finalmente resi conto che conquistarli è una delle poche chance che hanno per tentare di modificare risultati elettorali già scritti. E ci stanno provando in tutti i modi, anche i più goffi. Ma per capire i sentimenti di delusione, e perfino di rabbia, di una generazione che non si sente rappresentata da una politica troppo lontana dai loro bisogni occorre guardare l’andamento dell’astensione tra i 18-34 enni a partire dalle ultime elezioni della Prima Repubblica fino alle Politiche del 2018.
Il contesto generale in cui si inserisce l’astensione giovanile è trascinato anche dal graduale allontanamento dalla politica dei loro padri, madri e nonni. Il 5 aprile 1992 votano 41 milioni di italiani su 47 milioni di aventi diritto: vuol dire che non vota il 13%, pari a 6 milioni di cittadini. Alle ultime Politiche del 4 marzo 2018 gli astenuti raddoppiano: 12,5 milioni di italiani non si presentano ai seggi, ovvero il 27% dei 46,5 milioni di aventi diritto.
Vediamo però come si comportano le varie fasce d’età con i dati delle indagini campionarie dell’Italian National Election Studies (Itanes) elaborati per Dataroom dai ricercatori Luca Carrieri (UnitelmaSapienza) e Davide Angelucci (Luiss Guido Carli). Nel 1992 l’astensione dei 18-34 enni è al 9% contro il 10% dei 35-54 enni e il 20% degli over 55. Nel 2018, invece, la percentuale di chi non va alle urne è il 38% dei 18-34 enni, contro il 31% dei 35-54 enni e il 25% degli over 55.
Il confronto fra giovani e over 55
Nelle 8 elezioni politiche prese in considerazione, in 5 elezioni sono gli over 55 che non votano in percentuale maggiore: nel 1992 (20%), 1994 (20%), 2001 (25%), 2006 (23%), 2013 (32%). In 3 elezioni invece la percentuale più alta è proprio la fascia di età 18-34: 1996 (18%), 2008 (27%), 2018 (38%).
L’analisi di questi dati ci porta a due considerazioni. La prima: in 26 anni la fascia di età più giovane passa da quella che vota di più, a quella che vota di meno. La seconda: la disaffezione alle urne non esplode all’improvviso, ma cresce in modo sistematico e inesorabile. Infatti, dal 9% del 1992 l’astensione sale al 14% il 27 marzo 1994, passa al 18% il 21 aprile 1996, al 19% il 13 maggio 200, al 21% il 9 aprile 2006, cresce al 27% il 13 aprile 2008, al 28% il 24 febbraio 2013, ed esplode al 38% nel 2018.
Come ha reagito la politica a questo progressivo allontanamento? Mettendoli nel generico calderone dei disaffezionati, senza mai interrogarsi sulla necessità di parlare a coloro che rappresentano il futuro del Paese, dandogli delle prospettive. Forse anche il loro peso demografico è la loro condanna: i 18-34 enni sono 10,3 milioni, mentre i 35-54 enni sono 16,6 milioni, e gli over 55 22,7 milioni.
Il caso dei Millennials
Proviamo ad andare ancora più a fondo per vedere cosa succede se invece di considerare solo le fasce d’età, esaminiamo i dati per generazioni, cioè in base agli anni di nascita. I Silent sono i nati tra il 1928-1945; i Boomers tra il 1946-1964; gli Xers tra il 1965-1979; e infine i Millennials . Il termine, coniato da Strauss e Howe nel libro Generations , definisce Millennials i nati dal 1982 al 1996, poiché ritengono che i giovani che diventano maggiorenni nel 2000 appartengono a una generazione in netto contrasto con quella precedente e quella successiva per l’utilizzo dei media, e per come sono stati influenzati dallo sviluppo tecnologico e digitale.
Per comodità e chiarezza sui termini il P ew Research Center ha poi riclassificato la data di nascita dei Millennials a partire dal 1980. Ebbene, i Millennials esordiscono al voto in Italia nel 2001 con un’astensione al 23% contro il 14% degli Xers nel 1994, e da allora in 4 elezioni su 5 sono quelli che votano meno, fino al 40% del 2018. L’astensionismo appare, allora, anche una questione generazionale che caratterizza soprattutto i Millennials . Ma all’interno di questa generazione chi sono quelli che non votano?
Identikit di chi non vota
Attingiamo all’analisi fatta Dario Tuorto in L’Attimo fuggente: giovani e voto in Italia, tra continuità e cambiamento , edizioni il Mulino (2018). Su 100 che lavorano con un contratto vero non votano in 17; su 100 che hanno un contratto atipico non votano in 38. Su 100 che vivono con i genitori e studiano o lavorano, 20 non votano; se non lavorano e non studiano non votano in 27.
Dalla elaborazione dati di Itanes, che prende in considerazione il titolo di studio, emerge che alle elezioni del 2018 l’astensionismo tra i più giovani è del 50% tra i non laureati, contro il 37% dei laureati.
I motivi del non voto
Una larghissima fetta di giovani è dunque così distante dalla politica perché è apatica?
Ecco cosa rivela lo studio europeo No Participation without Representation , che prende in esame un set di dati di 19 Paesi dell’Europa occidentale e 58 elezioni negli ultimi due decenni (1999-2018). Le ragioni che li tengono lontani dalle urne sono principalmente due. La prima è la penuria di candidati giovani da cui possono sentirsi rappresentati. La seconda è l’assenza nell’agenda politica proposta dei temi che gli stanno più a cuore, come l’ambiente e i diritti civili.
Se guardiamo i numeri, nei Parlamenti in cui c’è l’1% di candidati sotto i 30 anni la partecipazione al voto degli under 30 è del 74%, una percentuale che cresce all’81% se la presenza di candidati under 30 è dell’8%, e arriva all’85% con una presenza di candidati giovani del 13%. È evidente che il candidato giovane deve anche essere capace, e inserito in un programma attrattivo. Nel 2018 sono stati eletti nel Parlamento italiano 27 candidati under 30 (il 2,9%), ma la partecipazione al voto del 18-34 enni è stata solo del 62%, a dimostrazione del fatto che l’età in sé non è garanzia di risultato.
Adesso tocca a loro, i nati tra il 1997 e il 2012. Si chiamano Gen Z, e quelli che hanno compiuto i 18 anni e ricevuto la loro prima scheda elettorale sono circa 4,7 milioni. È la generazione che si mobilita contro il riscaldamento climatico con i Fridays for Future , la difesa dei diritti Lgbtq+ e delle diversità, la condanna del body shaming e contro il bullismo. Ed è anche la generazione che più ha sofferto il lockdown. Improvvisamente i partiti sembrano aver scoperto che esistono. Non è un caso se il leader del Pd Enrico Letta ripete spesso di aver indicato come capolista 4 under 35. Come non è un caso il recentissimo sbarco di massa dei leader su TikTok.
Presentarsi a pochi giorni dalle elezioni sul social dove gli Gen Z si informano dimostra anche quanto sia maldestra questa attenzione. O meglio, un po’ cringe , per usare uno dei termini con cui i nostri figli indicano ciò che ritengono imbarazzante. Difficile pensare che questo ammiccamento basti per convincerli ad andare a votare, quando tutta la scena politica si polarizza attorno alle tasse, immigrati e pensioni (per chi già le incassa però, non quelle future). Alle urne ci andranno se si convincono che, in una democrazia, a decidere il loro futuro non è la maggioranza della popolazione, ma la maggioranza di coloro che votano.
E che vale la pena di spulciare nei programmi per vedere chi e come tratta i temi che ritengono cruciali. Infine, ci andranno se si persuadono che il voto è un diritto da esercitare, anche con una scheda bianca se non ci si sente rappresentati, poiché è il solo modo pacifico per esprimere e contare il dissenso, senza essere confusi con la categoria dei menefreghisti. E questo vale per tutti gli elettori di tutte le fasce d’età.
(da ilo Corriere della Sera)
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