Settembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
DEM PREMIATI DAGLI UNDER 34 NELLE CITTA’ DEL CENTRO-NORD, I GRILLINI IN TUTTO IL SUD… FDI SOLO TERZO PARTITO
Il giorno dopo la chiusura della tornata elettorale è un giorno di inevitabili bilanci, e per tirare le somme servono dati.
Nonostante l’indiscussa vittoria del centro-destra, e in particolare del partito trainato da Giorgia Meloni, un’informazione salta all’occhio guardando gli exit poll: le preferenze espresse dai giovani ribaltano il podio.
Il primo partito su cui si sono orientati gli elettori dai 18 ai 24 anni sembra infatti essere il Movimento 5 Stelle, a seguire Pd e al terzo posto FdI. Vengono poi Azione e Italia Viva, Lega e alleanza Verdi-Sinistra. Livio Gigliuto, a capo del progetto di ricerca Opinio Italia, offre a Open una chiave di lettura su questi dati: «Quella dei giovani è l’unica fascia d’età il cui Fratelli d’Italia non risulta il partito più votato, mentre è quella che più ha premiato il Pd, soprattutto nei nuclei urbani del Centro e del Nord Italia», spiega.
Il Movimento, al contrario, non solo risulta il preferito degli under-34, ma sarebbe anche riuscito a trascinare alle urne una fetta di giovani elettori, altrimenti astenuti.
E non sarebbe la prima volta: «Nel 2018 il M5s è stata la ragione per cui l’astensionismo dei giovani si è limitato. Quest’anno è successa la stessa cosa. Però c’è differenza rispetto al 2018: allora era successo un po’ dappertutto, quest’anno soprattutto al sud e nelle isole. Potremmo dire che questo ha trasformato il partito in una sorta di “Lega Sud”».
Non dimentichiamoci che «Quest’anno c’è stato anche il tema dei fuorisede: votare a settembre significa votare sotto esame», e questo potrebbe aver scoraggiato diversi studenti a «sacrificare» giorni di studio a favore del voto.
La comunicazione dei partiti, tra successi e «cringiate»
Il successo del partito pentastellato si spiega con il fatto che «Il M5s ha incrociato alcune istanze che sono tipiche al sud piuttosto che nel resto del Paese: il reddito di cittadinanza è sicuramente un provvedimento che ha aiutato i giovani che stavano in difficoltà».
Ma non c’è solo questo: «Conte ha usato bene i social, la sua comunicazione sembrava funzionare molto bene. Questo deve incoraggiare la politica a non disinvestire nella comunicazione digitale». Dunque l’affrettata corsa ai social dei politici, da alcuni nativi digitali definita «cringe», non è stata una totale débacle?
«C’è un modo di essere cringe che ti rende virale, e un modo di essere cringe che ti rende noioso. L’importante è non essere poco interessanti. Questo vale per qualsiasi canale», spiega Gigliuto. E aggiunge: «I partiti e la politica vanno sempre incoraggiati ad aprire nuovi mezzi di comunicazione. Poi le performance dipendono dalle abilità dei singoli: anche Berlusconi, per esempio, ha avuto successo con TikTok. L’importante è usare le piattaforme in maniera coerente con il proprio personaggio».
Quel che è certo è che comunicare con le nuove generazioni è fondamentale in questo momento. «Negli ultimi anni, non è vero che i giovani si sono disaffezionati alla politica. Lo scollamento nasce nella difficoltà dei partiti a trovare un linguaggio per parlare con loro, discorso che vale anche per le periferie. Ma i giovani sui temi politici hanno opinioni chiare, nette, e sono pronti ad animarsi per quei temi».
Ambiente e lavoro, al centro dell’interesse dei più giovani
Per esempio? «Ci sono due temi che i partiti non sono ancora riusciti a intercettare: il primo è quello dell’ambiente e della sostenibilità. Nessuno sembra aver affrontato questo argomento in un modo veramente credibile, andando oltre lo slogan. Un altro tema – prosegue Gigliuto – è quello del lavoro: i partiti ne parlano sempre, ma come se fossero rivolti ai genitori dei ragazzi piuttosto che ai ragazzi, parlando de “i nostri figli”.
Sembra che nessuno stia riuscendo a creare questo collegamento diretto, guardandogli negli occhi, con una spinta positiva. I giovani hanno ancora una vena di ottimismo, ma a volte la politica la spegne».
Di certo sono istanze differenti da quelle della fascia più «adulta»: «Gli over 55 stanno vivendo una fase in cui sono capi famiglia, uomini e donne per cui la priorità è più economica.
Incide la paura rispetto all’aumento dei prezzi, le bollette, il costo dell’energia… soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina, che ha inevitabilmente cambiato le priorità». L’astensionismo delle generazioni più giovani dunque, aumentato in modo graduale ma inesorabile, non avrebbe «necessariamente» ribaltato i risultati finali.
(da Open)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
A VARESE, IL COMUNE DEL GOVERNATORE FONTANA, HA PRESO IL DOPPIO DEI VOTI
Fratelli d’Italia dilaga anche nelle roccaforti della Lega in Lombardia. In paesi simbolo del Caroccio come Gemonio in provincia di Varese, cittadina dove vive Umberto Bossi, Ponte di Legno in provincia di Brescia, dove il Senatùr faceva il suo comizio di Ferragosto e Pontida dove si svolge il tradizionale raduno leghista, non sventola più la bandiera verde. Ed è il tempo del partito di GIorgia Meloni.
Il dato più schiacciante è quello di Ponte di Legno: qui Fratelli d’Italia è arrivato al 44,32% alla Camera e al 45,05% al Senato mentre la Lega si è fermata al 17,41 per Montecitorio e al 17,01 per Palazzo Madama. Sembra cambiato tutto dal 2018 quando il Carroccio era sopra il 40%, Forza Italia fra il 17 e il 18 e FdI non arriva all’8 per cento. A Gemonio Fratelli d’Italia supera oggi il 29 per cento, arrivando quasi a doppiare la Lega che si ferma poco sopra il 15. Un risultato simile a quello di Cassano Magnago dove è nato Bossi: Meloni è oltre il 30% mentre la Lega ottiene la metà delle preferenze, fra il 16,29 al Senato e 15,84 alla Camera. Meno forte, ma comunque presente, un divario evidente anche a Pontida, dove la Lega organizza il tradizionale raduno: Fratelli d’Italia supera il 30 mentre il Carroccio si ferma al 23.
Tutti comuni molto piccoli, dove i voti presi in considerazione sono nell’ordine delle centinaia e non hanno particolare valore statistico. Ma hanno però un forte significato dal punto di vista simbolico. Più sostanzioso in termini di voti invece il bittoni incassao a Varese città, dove il partito della Meloni ha raggiunto il 25,34 per cento dei voti al Senato (9.565 schede) doppiando il misero 12,81 per cento del partito di Salvini (4.834).
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
PER SALVINI NON E’ SUCCESSO NULLA E CERCA DI RINVIARE IL CONGRESSO… BASE INCAZZATA E GRIMOLDI AFFONDA: “DIGNITA’ IMPONE DIMISSIONI IMMEDIATE, BASTA CON LA BARZELLETTA DEL REGOLAMENTO”
Questa volta non si affaccia nessuno dalla sede della Lega in Via Bellerio. Nel 2019, dopo le elezioni europee, Giancarlo Giorgetti brandiva da una finestra degli uffici leghisti una statuetta di Alberto da Giussano, il personaggio che si erge sul simbolo del partito guidato da Matteo Salvini.
Il consenso superiore al 34% era stato preceduto dal 17% alle politiche del 2018 e portò di lì a poco alla crisi del Conte II con la richiesta di «pieni poteri» dalle spiagge del Papeete.
La tarda mattinata del 26 settembre ha un sapore diverso, agrodolce per i vertici della Lega. L’8.9% delle elezioni rappresentano il punto più basso della segreteria di Matteo Salvini, abile a cavallo tra il 2016 e il 2019 a costruirsi un’immagine forte, d’impatto e altrettanto incapace, dalla crisi del Conte II in avanti, di essere il volto della coalizione di centrodestra.
«Il 9% non mi soddisfa, ieri sera sono andato a letto incazzato ma ora sono carico a molla. Mi prendo la responsabilità, no alle autoassoluzioni». Niente autoassoluzioni, ma nemmeno autocritica, visto che sono questi gli unici punti di serio commento alle elezioni. I 100 parlamentari, o poco meno, che la Lega riuscirà ad eleggere sono per gran parte frutto del risultato di Giorgia Meloni, traino della coalizione. Una magra consolazione quella degli eletti se si confrontano i dati tra le elezioni del 2018 e quelle appena passate.
Mentre nell’altro campo, il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, annuncia un nuovo congresso e la sua intenzione a non ricandidarsi, per Salvini un congresso federale è un ipotesi in là nel tempo: «Dobbiamo valutare con Roberto Calderoli, che è il massimo esperto, quanto tempo ci metteremo a fare tutti i congressi cittadini, poi provinciali e regionali. Poi faremo un bel congresso federale con idee, a quel punto la Lega sarà al governo già da tempo»
Il partito di Matteo Salvini guidava la coalizione in tutte le regioni d’Italia, anche nella circoscrizione Lazio 01, fortino elettorale del partito di Giorgia Meloni.
Al Nord poi non c’era storia. La Lega governava in Veneto, in Lombardia e in Friuli-Venezia-Giulia dove esprimeva la forza della classe di governatori a sua disposizione.
In Lombardia, dove era nata la Lega Lombarda bossiana, nelle quattro circoscrizioni la media dei voti era poco superiore al 29%.
In Veneto, dove da 12 anni Luca Zaia governa con percentuali plebiscitarie, i voti erano stati ancora di più, superiori al 31%. Nel Friuli del governatore Fedriga si attestava il dato più basso, 25,8%, ma abbondantemente primo partito nella Regione.
Nel 2022, governo Draghi e unità nazionale permettendo,quei voti sono scomparsi e hanno trovato una nuova casa: quella di Fratelli d’Italia. Doppiato in Lombardia (13,8% contro il 27,5 della Meloni), doppiato in Veneto (14,6% contro il 32,5%) e addirittura triplicati in Friuli-Venezia-Giulia (10,9% contro il 32,2%).
Non è bastato un ritorno tardivo ai temi di sempre come l’autonomia differenziata per le regionI del Nord e a poco sono serviti i raduni nel prato di Pontida per risollevare almeno quella che si pensava essere una base solida del leghismo. In tutta Italia il blu del centrodestra è predominante grazie al trionfo di Giorgia Meloni e alla tenuta di Forza Italia. A questo giro il terzo incomodo è proprio il Capitano.
Dalla base leghista sono arrivate le prime critiche e richieste di dibattito interno da parte degli esponenti della Lega.
Luca Zaia, spesso visto come un possibile contendente alla segreteria di Salvini, ha dichiarato: «È innegabile come il risultato ottenuto dalla Lega sia assolutamente deludente, e non ci possiamo omologare a questo trovando semplici giustificazioni. È un momento delicato per la Lega – aggiunge – ed è bene affrontarlo con serietà perché è fondamentale capire fino in fondo quali aspetti hanno portato l’elettore a scegliere diversamente».
Più tranchant è il giudizio di Gianantonio Da Re, europarlementare trevigiano della Lega: «Questa disfatta ha un nome e cognome, Matteo Salvini. Dal Papeete in poi ha sbagliato tutto ha nominato nelle segreterie delle persone che hanno solo ed esclusivamente salvaguardato il proprio sedere».
Dello stesso avviso Paolo Grimoldi, segretario fino al 2021 della Lega Lombarda: «Dignità impone dimissioni immediate. Basta con la barzelletta del regolamento, dei ‘congressini’ e del Covid, la questione è politica».
Le onde in arrivo (discussione del tracollo, minoranza in un governo di centrodestra e altra dispersione di consenso) potrebbero essere troppo alte anche per il Capitano che inizia ad affrontare i primi segnali di un ammutinamento.
La base della Lega ribolle. La classe dirigente se ne fa interprete. E in vista del consiglio federale di domani, i fronti interni si stanno delineando chiaramente. Ci sono i nordisti puri, quelli che per abbandonare il progetto di partito nazionale e tornare al verde Sole delle Alpi si farebbero le flebo con l’acqua del Po. Sono militanti più che dirigenti, ma sicuramente la loro frustrazione si riversa più contro il segretario e che contro i governatori. I presidenti di Regione, appunto, che insieme ai giorgettiani costituiscono l’ala governista del partito. Quella che l’interesse del Nord produttivo viene prima di ogni cosa e che vedono nell’autonomia regionale l’obiettivo più alto della loro missione politica. E infine, ci sono i salviniani, ovvero chi dall’exploit del segretario ha guadagnato posizioni in via Bellerio, ruoli a livello nazionale e internazionale. Hanno un debito nei confronti del segretario ma, soprattutto, se cade Salvini, cadono anche loro.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
LA FAMIGLIA: “RINO E’ DI TUTTI, LA POLITICA NON DEVE APPROPRIARSENE”… SUI SOCIAL I FAN DEL CANTANTE SI RIBELLANO: “SI STARA’ RIVOLTANDO NELLA TOMBA”
Mentre Giorgia Meloni scendeva dal palco al comitato elettorale allestito all’Hotel Parco dei Principi a Roma, si scatenava la festa tra militanti, parlamentari e volontari sulle note di Ma il cielo è sempre più blu e A mano a mano di Rino Gaetano.
Tra abbracci e cori per la presidente del partito i militanti di Fratelli d’Italia si sono commossi cantando a squarciagola, ma perché le canzoni del musicista morto 41 anni fa sono diventate la colonna sonora della vittoria della destra?
Passione personale di Meloni che nell’ottobre scorso ricordava la nascita del cantante con un post sentimentale che diceva: “Il 29 ottobre 1950 nasceva Rino Gaetano, un grande artista italiano che grazie alla sua intramontabile musica continua ancora a regalarci emozioni uniche e indescrivibili. Ci manchi Rino”.
Appropriazione culturale di un’artista che si era sempre professato apolitico o semplicemente mancanza di un carnet di musicisti e canzoni da utilizzare sul palco?
La famiglia: “Non se ne può più. Rino è di tutti, e la politica non deve appropriarsene”
Raggiunto da Repubblica Alessandro Gaetano, nipote ed erede dell’artista di culto, si è sfogato: “Non se ne può più. Anna, la sorella di Rino, ed io abbiamo detto centinaia di volte che non gradiamo questo tipo di iniziative: Rino è di tutti, e la politica non deve appropriarsene”.
Il precedente: la famiglia contro la Lega. “Rino non era né di destra né di sinistra”
Non è la prima volta che i brani più famosi di Rino Gaetano Ma il cielo è sempre più blu, A mano a mano, ma anche Nuntereggae più vengono utilizzate dai partiti per le proprie campagne politiche e in passato la famiglia del musicista aveva protestato.
Nel 2018, quando le canzoni erano state utilizzate dalla Lega, avevano detto: “Nel corso degli anni è capitato più volte che le canzoni e l’immagine di Rino venissero usate da parte di diversi schieramenti. Questo è solo stato l’ennesimo episodio che ci viene segnalato in questi anni e di cui siamo stufi. Fosse stato chiunque altro l’avremmo pensata allo stesso modo. Rino non è di destra né di sinistra, non ha colori politici. Perché devono farsi forza usando lui e la sua musica?”.
“Non ci è mai piaciuto” avevano aggiunto. “Anzi, ogni volta che ci hanno invitato a parlare o cantare su un palco abbiamo chiesto di togliere le bandiere del partito di turno. Non critichiamo nessun messaggio, semplicemente ci sembra scorretto politicizzare la sua musica. Rino non era d’accordo neanche allora. Ha suonato alcune volte alla Festa dell’Unità, ma lui era solo a favore del popolo e contro chi tradiva i suoi ideali”.
“A mano a mano” in realtà è una canzone di Riccardo Cocciante cantata dal vivo un’unica volta da Rino Gaetano nel 1981 durante una tournée congiunta (con l’accompagnamento di Cocciante e del gruppo New Perigeo; mentre Gaetano faceva cantare a Cocciante la sua Aida, A mano a mano veniva affidata da Cocciante alla voce di Gaetano. Non ci sono versioni in studio della versione cantata da Gaetano, il brano è contenuto nella registrazione del concerto Q disc live Q Concert.
Ma a distanza di anni la sua versione è quella più popolare, nonché una delle canzoni di maggiore successo di Rino Gaetano, essendo la più ascoltata in assoluto su Spotify sorpassando hit come Gianna e Ma il cielo è sempre più blu.
Nel 2019, in occasione dell’uscita del cofanetto Ahi Maria 40th, nel giorno del suo compleanno, il 29 ottobre, sul canale YouTube dell’artista è stato pubblicato un videoclip con la versione live della canzone che ha totalizzato oltre 35 milioni di visualizzazioni.
I fan sui social: “Si sta rivoltando nella tomba”
Sui social intanto i fan di Rino Gaetano sono più o meno tutti compatti nel criticare la scelta. C’è chi dice “Rino Gaetano utilizzato per festeggiare la vittoria da Fratelli d’Italia si starà rivoltando nella tomba buon’anima”, oppure “Il comizio post elettorale della Poponi con Rino Gaetano? Ma stiamo scherzando?”, ancora “Certo che ascoltare Rino Gaetano al bunker di FdI fa tanto, tanto, tanto male”.
C’è anche chi sceglie di citare una sua intervista: “‘Perché ho amato tutti i sessi ma posso garantirvi che io non ho mai dato troppo peso al sesso mio, oh’. Buongiorno Giorgia a te e a tutto il tuo circo”.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
FDI HA RUBATO ANCHE A FORZA ITALIA (13%) E MOVIMENTO 5 STELLE (9%). APPENA IL 3% AL PD, IL 10% DALL’ASTENSIONE … CONQUISTA CIRCA IL 23% AL NORD OVEST, IL 26% NEL NORD EST, IL 27% AL CENTRO, SOLO AL SUD, CON IL 20%, È SECONDO
Il balzo in avanti, in poco più di quattro anni, è impressionante: Fratelli d’Italia passa dal 4,4 del 2018 a circa il 25% alla Camera di queste elezioni. Dove li ha presi, questi elettori? Soprattutto li ha sottratti alla Lega.
Secondo l’analisi dei flussi del Consorzio Opinio per la Rai, mostrata da Antonio Noto a Porta a Porta, il 40% di chi adesso ha votato per il partito di Giorgia Meloni era un elettore della Lega.
Il 22% aveva già scelto Fratelli d’Italia (si può desumere quindi che ha confermato buona parte dei suoi appena 1,4 milioni di elettori del 2018). Un poco FdI ha rubato anche a Forza Italia (13%) e Movimento 5 Stelle (9%). Appena il 3% al Pd, il 10% dall’astensione.
Anche Forza Italia ha pescato nell’elettorato leghista (il 17% degli elettori di Berlusconi oggi aveva votato per il Carroccio nel 2018).
Quello di Meloni è il primo partito quasi ovunque, conquista (dati a spoglio in corso) circa il 23% al Nord Ovest, il 26% nel Nord Est, il 27% al Centro. Solo al Sud, con il 20%, è secondo, con il M5S in testa con il 26% delle preferenze.
La Lega fa un tonfo nel Nord Est: in Friuli-Venezia Giulia è intorno all’11 mentre FdI è oltre il 30%; in Veneto si ferma intorno al 14,5% (Zaia aveva stravinto con il 76% delle preferenze), mentre FdI, intorno tra il 32 e il 33%, la doppia.
E il partito di Calenda? Secondo il Consorzio Opinio pesca molto tra gli elettori del Pd: il 37% di chi oggi ha votato per Azione-Iv nel 2018 aveva scelto i democratici. Prende anche da Lega (11%) e M5S (10%), qualcosa anche da FI (7%) e +Europa (5%).
Il Movimento ha pescato anche nell’elettorato dem (11%) e leghista (4%).
(da il Corriere della Sera)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
DA PAPEETE IN POI FRASI E GESTI AUTOLESIONISTI, VELLEITÀ INCAPACITANTI, CAPRICCI CHE SEGNARONO PERÒ MOMENTI E PASSAGGI CRUCIALI DELLA VITA PUBBLICA. SI PUÒ DIRE CHE SALVINI NON NE HA AZZECCATA UNA
Il paese del melodramma, quando Salvini saliva sui palchi gli mettevano come colonna sonora il “Vincerò”. Seguiva un inedito rituale: breve comizio e interminabile coda per i selfie: ah, gli italiani, quanto si stufano facilmente! Ma con quanta cieca naturalezza, viene anche da pensare, i leader politici di questo tempo partecipano al campionato per la più grande dissipazione.
Salvini, il trionfo alle europee del 2019
Era la primavera del 2019, si votava per le Europee. A Forlì Salvini salì su un certo balcone voluto da Mussolini, le cronache riportano che si mise a torso nudo per indossare una maglietta che recava disegnato il suo stesso volto. A Catanzaro si mise la sciarpa tricolore e annunciò un decreto Sicurezza bis; a Zingonia, fotografatissimo, salì su una simbolica ruspa per abbattere delle costruzioni abusive; a Pietrelcina volle marcare la sua presenza sui luoghi di Padre Pio; a Milano, piazza del Duomo, baciò il rosario.
Ogni volta, in linea con quella che Gramsci aveva designato come «la malattia melodrammatica italiana», risuonava la Turandot, “all’alba vincerooooo!”, versione Pavarotti. E vinse, in effetti. Il 26 di maggio la “Lega per Salvini Premier”, in tal modo battezzata in quell’occasione, ottenne il 34,26 per cento. La Bestia iper-social di Morisi, sulla cresta dell’onda, aveva appena lanciato una specie di torneo di like intitolato “VinciSalvini” il cui premio consisteva nel passare con lui qualche ora. Giorgetti, allora meno dubbioso, profetizzava un imminente «plebiscito».
“Salvini the strong man of Europe”
Alla festa della Repubblica, the strong man of Europe – perché a volte pure i corrispondenti stranieri si lasciano trasportare dall’enfasi – passeggiò radioso nei giardini del Quirinale con la giovanissima Verdini sottobraccio, erano la super coppia vincente, dietro di loro un codazzo di adulatori, vil razza dannata. Uno di questi lo sentì far suo, con finta e compiaciuta meraviglia, lo sfoggio della taumaturgia berlusconiana: «Tutti mi salutano, tutti mi vogliono toccare, forse perché guarisco gli infermi». Grandi risate.
Alla Rai, che su queste cose ci puoi caricare l’orologio, approdò proprio in quei giorni il suo vecchio collega e fresco biografo leghista, e “Uno Mattina” divenne “Uno Salvini” (l’Agcom non fece obiezioni). Agli avversari, che per via degli sbarchi contrastati dal Viminale non erano pochi, il ministro rispondeva allegramente: «Bacioni»; «è finita la pacchia», ripeteva, pure estendendo il motto ai giovani che organizzavano i rave.
La via del Papeete: quando Salvini fece cadere Conte
Venne anche Putin in quei giorni, con cuoco assaggiatore e una limousine che entrava a stento a Palazzo Chigi. Salvini sottovalutò l’affare Metropol, l’origine degli spifferi, i suoi avvertimenti. Faceva caldo e prese la via del Papeete, la consolle, il mojito, le cubiste leopardate, spiaggia sovranista con inno nazionale. Visto il successo, inaugurò la svolta ultra-pop, il Beach tour. A riguardarselo oggi viene da chiedersi quale demone l’abbia portato a sprecare in un paio di settimane un patrimonio che sarà anche stato precario, ma diamine, ce ne voleva di follia, o improvvisazione, o chissà che.
Era agosto. Disse solenne a Sabaudia: «Sento la tensione di questo nostro paese». A Polignano replicò il numero, gli regalarono l’ennesima maglietta, da dj. A Pescara, infine, dopo aver evocato i figli, chiese i pieni poteri: «Se devo mettermi in gioco, lo faccio ora, da solo, a testa alta».
Due anni e più di errori: Salvini non ne ha azzeccata una
E qui può finire il film, anche se ci sarebbero altri due anni e più di errori, di frasi e gesti autolesionisti, di velleità incapacitanti, di capricci che segnarono però momenti e passaggi cruciali della vita pubblica, crisi di governo, dispute sanitarie, elezioni del presidente della Repubblica, discussioni di politica estera. Con sereno scrupolo si può dire che Salvini non ne ha azzeccata una. Con scettica meraviglia è lecito pensare che chi vince troppe volte in realtà perde, e i cocci sono suoi.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
IL CAPITONE PAGA L’AVER FATTO CADERE IL GOVERNO DRAGHI: LE AMBIGUITÀ LEGHISTE SUL GREEN PASS, LE PROMESSE ELETTORALI FANTASIOSE E LA COMPOSIZIONE DELLE LISTE
Il pugno di mosche. Dopo tanto correre e sgolarsi, tanti selfie e infiniti chilometri macinati, a Matteo Salvini in mano è rimasto poco. Soprattutto, il segretario leghista ha mancato di centrare il vero obiettivo strategico della Lega da lui trainata: il Sud.
Peggio ancora: nel frattempo, con prudenza e (quasi sempre) con misura, Giorgia Meloni ha messo a segno il suo, di enlargement : è dilagata a nord, nelle valli e nelle Province che sono sempre state la roccaforte della Lega. I luoghi in cui il partito era nato e cresciuto e si era conquistato una credibilità di governo cresciuta sindaco per sindaco, amministrazione dopo amministrazione. Tutto spazzato via.
Rispetto a quel tradizionale blocco sociale che al Nord bada al sodo, è probabile che Salvini sia stato danneggiato dalla caduta del governo Draghi. Il segretario leghista formalmente respinge l’accusa, ma anche le ultime settimane di campagna elettorale, con le frequenti prese di distanza dal governo da lui stesso sostenuto fino a luglio, forse hanno contribuito al disamoramento.
Perché una cosa sono i militanti a Pontida, parecchi dei quali favorevoli al «draghicidio», cosa diversa è quella parte cospicua di corpo elettorale che avrebbe apprezzato la stabilità e la credibilità internazionali garantite dall’ex governatore Bce. Il presidente di Confindustria Andrea Bonomi l’aveva detto chiaro che più chiaro non si può: «La politica non blocchi Draghi». Probabile che all’insuccesso abbia contribuito anche la disponibilità dichiarata quotidianamente a spendere soldi che non ci sono.
Nella stessa Lega qualcuno nelle ultime settimane ha cominciato a chiamare Matteo Salvini «Mister miliardo». Scostamento di bilancio per le bollette, quota 41 per le pensioni, flat tax, un atteggiamento meno belligerante nei confronti del reddito di cittadinanza («Va modificato»), migliaia di assunzioni nelle forze dell’ordine, Iva zero su alcuni prodotti alimentari e cancellazione del canone Rai. Oltre che lo stop alla revisione delle concessioni, a partire da quelle balneari.
Le previsioni leghiste dell’impatto sui conti pubblici erano e sono ottimistiche. Ma al nord, lo si è sentito sia a Cernobbio che dai giovani confindustriali riuniti a Rapallo, non sono altrettanto ottimisti. Mentre le ambiguità leghiste sul Green pass, che per molti imprenditori è stato lo strumento che ha consentito di riaprire le aziende, a giudicare dall’esito delle urne non sono state apprezzate.
Difficile dire quanto abbia pesato sul risultato la composizione delle liste. Ma l’esclusione di volti che per anni, o decenni, hanno incarnato la Lega sui territori non pare abbia fatto bene.
In Lombardia, Paolo Grimoldi, Daniele Belotti, Matteo Bianchi, Raffaele Volpi; Roberto Paolo Ferrari. In Veneto Gianantonio Da Re, Gian Paolo Gobbo, Gianpaolo Vallardi, a rischio Franco Manzato.
In compenso rientrerà da Bruxelles in anticipo l’europarlamentare Mara Bizzotto ed è stato qui paracadutato il ligure Lorenzo Viviani. I malumori sono divampati, al punto che il vice segretario di Salvini, Lorenzo Fontana, è stato costretto ad ammonire: «Provvedimenti pesanti saranno presi verso chi parla contro la linea del partito».
Zaia non è entrato nell’arena, ma il modo in cui i veneti, storicamente orgogliosi della loro autonomia «anche da via Bellerio», sono stati di fatto esclusi dalla composizione delle liste non deve essergli piaciuto: «Ho preso visione delle liste solo la sera della presentazione. Le analisi, le valutazioni e i bilanci li faremo dopo il 25 settembre».
Ma il sentimento diffuso lo ha espresso qualche settimana l’ex sindaco-sceriffo di Treviso, Giancarlo Gentilini, simbolo della Lega trevigiana. Che ha detto: «Giorgia Meloni potrebbe piacermi». Nel 2019, la Lega da queste parti aveva preso il 40,9%. Il che significa che tre elettori su quattro oggi hanno scelto altro. Giorgia Meloni? Molti, di sicuro. Ma lo stesso Carlo Calenda è andato lì lì dal superare la Lega. «E se anche avessimo pareggiato – dice un deputato ormai ex – sarebbe stata comunque una debacle…».
E poi, c’è il Sud. Alle Amministrative, dopo il 2018, la Lega si era presentata in modo, per così dire, strategico. Non sempre e non dappertutto. Alle Politiche, si prende quello che si prende, senza strategie di territorio. Salvini ci ha provato: oltre a Milano si è candidato in Basilicata, Calabria e Puglia. Ma, almeno a giudicare dai primi dati, la Lega qui non riesce a sfondare. «Non abbiamo abbastanza da offrire» sbuffa un salviniano doc. Ma la batosta è pesante.
(da il “Corriere della Sera”)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
SFIDARLO SU QUESTI TERRENI SAREBBE UN AZZARDO DAGLI ESITI INCERTI… IL FUTURO DIPENDERÀ DALLA POSTURA DELLA MELONI, DAL GRADO DI RISPETTO CHE MOSTRERÀ VERSO GLI ORGANI DI GARANZIA, DA COME SI RAPPORTERÀ ALLE ISTITUZIONI
Giorgia Meloni, sullo slancio della vittoria, sogna un presidente eletto dal popolo. Però sul Colle c’è ancora il guardiano delle «vecchie» regole, Sergio Mattarella. È con lui che la destra dovrà vedersela, a cominciare dal passaggio più delicato: la gestazione del prossimo governo.
Come si regolerà il garante della Costituzione quando dovrà conferire l’incarico? Punterà senza indugio sulla leader dei Fratelli d’Italia, che già si sente sulla sedia di Super Mario e, forte del 26 per cento, griderebbe allo scandalo se la scelta cadesse su nomi diversi dal suo? Altra domanda: il capo dello Stato si lascerà imporre la lista dei ministri o farà valere le proprie prerogative qualora gli venissero proposti nomi a vario titolo «impresentabili»?
Come reagirebbe se questa destra estremista, arrembante, sicura di sé tentasse di delegittimarlo? Più in generale: quale tipo di convivenza si annuncia tra i nuovi padroni del Parlamento e un Garante dotato di vasti poteri, che gode anch’ egli di salda popolarità nel Paese?
L’unica vera certezza è che, con l’Italia sbilanciata a destra, Mattarella farà Mattarella. Resterà il personaggio che abbiamo imparato a conoscere da otto anni a questa parte. Rigido, anzi intrattabile quando sono in gioco questioni non negoziabili come la collocazione occidentale dell’Italia, il suo ancoraggio europeo, il rispetto dei valori costituzionalmente garantiti.
Sfidarlo su questi terreni sarebbe un azzardo dagli esiti incerti. I vincitori dovrebbero fare i conti con lui perché il Colle rimane inespugnabile, perfino a prova di impeachment (l’ultima parola spetterebbe alla Consulta).
Immaginare Mattarella tremebondo e pronto alla fuga sarebbe un tantino fuori della realtà. Al tempo stesso però rifugge il protagonismo. Lo lascia volentieri ai capipartito. Interviene solo se tirato per i capelli. Nelle quattro crisi che s’ è trovato a gestire, il presidente ha usato sempre lo stesso metro.
Ha conferito l’incarico a chi, sommando le forze della coalizione, era in grado di formare un governo. Ogni volta che s’ è aggrumata una maggioranza, Mattarella ne ha preso atto quasi con sollievo; ne ha battezzate di ogni colore: rosse, giallo-verdi, giallo-rosse, infine policrome o arcobaleno con il governo delle larghe intese. Tutto fa ritenere che pure stavolta userà lo stesso identico metro.
Dunque: una volta accertato che l’unica maggioranza possibile sarà quella di centrodestra, che Silvio Berlusconi e Matteo Salvini rispetteranno i patti, che convergeranno sulla Meloni senza farle sgambetti, nulla lascia immaginare un Mattarella intenzionato a mettersi di traverso. Sarebbe una sorpresa se, preso atto che tutto quadra, rifiutasse a Giorgia le chiavi di Palazzo Chigi.
Idem se negasse a lei la stessa leale collaborazione che ha segnato i suoi rapporti con Matteo Renzi prima, con Paolo Gentiloni poi, quindi con Giuseppe Conte, infine con Mario Draghi. Chi a destra ne dubita si nutre di pregiudizi.
Poi, si capisce, «it takes two to Tango», per danzare bisogna essere in due; dunque il futuro dipenderà dalla postura della Meloni, dal grado di rispetto che mostrerà verso gli organi di garanzia, da come Giorgia si rapporterà alle istituzioni, se abbagliata dal successo tenterà la grande spallata, una rottamazione mai osata finora.
Al governo andrà una leader conservatrice però rispettosa dei valori repubblicani, legata all’Occidente e ancorata in Europa, oppure una maggioranza sovranista, anti-Ue e magari un po’ putinista? Questi dubbi, raccolti in alto loco, non hanno ancora avuto risposta.
È fuori strada chi immagina che Meloni si sia fatta viva col Quirinale per spiegare come si muoverebbe, cosa farebbe una volta insediata a Palazzo Chigi, rassicurando il capo dello Stato sulle sue buone intenzioni.
Durante la campagna elettorale un chiarimento del genere sarebbe stato precoce e forse anche irrituale: Mattarella non l’ha cercato, lei non l’ha offerto. Fonti bene al corrente sono categoriche al riguardo. Ce ne sarà comunque occasione nelle prossime settimane, anche prima delle consultazioni ufficiali previste tra un mese, dopo che il nuovo Parlamento si sarà riunito giovedì 13 ottobre, una volta eletti i presidenti della Camera e del Senato.
E magari ci sarà anche modo di accertare se davvero il Grande Fratello americano, come corre voce nei giri diplomatici, vedrebbe di buon occhio un governo guidato dalla Meloni però senza l’ipoteca rappresentata dal Cav e dal Capitano. Le elezioni sono alle spalle, il futuro è ancora tutto da scrivere.
(da la Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
“IL NOSTRO PAESE HA UN DEBITO PUBBLICO CHE SUPERA I 2000 MILIARDI. IN EUROPA COMANDANO SCHOLZ, MACRON E LA VON DER LEYEN”
Aldo Cazzullo su la7 ai microfoni della “Maratona Mentana” spiega quali sono gli scenari che emergono da questa tornata elettorale che ha visto una affermazione netta del centrodestra sul centrosinistra. L’editorialista del Corriere parla della vittoria della Meloni e di fatto spiega quali saranno gli equilibri su cui si dovrà muovere la leader di Fratelli d’Italia soprattutto in Europa.
E lo fa ricordando alla Meloni qual è la situazione delle casse del Paese e quali sono i king maker in Europa: “Il nostro Paese ha un debito pubblico che supera i 2000 miliardi e questo la Meloni lo sa. Ma va anche ricordato un altro aspetto: in Europa per fortuna non comanda Orban ma comandano Sholz, Macron e la Von der Leyen che è cattivissima ma con cui la Meloni dovrà avere a che fare”.
Poi rispondendo a Mentana che gli fa notare che la Von der Leyen fa parte dello stesso gruppo di cui fa parte Forza Italia in Europa, Cazzullo si lancia in una profezia: “È vero, Berlusconi sarà l’ago della bilancia di questa maggioranza e di fatto potrebbe anche cambiare opinione in futuro e guardare altrove. Farà il governo con Salvini e Meloni, ma, ripeto, in futuro potrebbe cambiare idea”.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »