Settembre 8th, 2022 Riccardo Fucile
LEGGERO CALO PER FRATELLI D’ITALIA STIMATO INTORNO AL 23%, STABILE IL PD AL 21,4% … IL TOUR ELETTORALE AL SUD DI CONTE SEMBRA PAGARE, IL M5S ARRIVA AL 16,6% … OCCHIO AL VOTO GIOVANE: “DONNA GIORGIA” NON PIACE, SOLO IL 5% VOTEREBBERO FDI
Le intenzioni di voto rilevate dalla recente indagine CISE-ICCP confermano lo stabile vantaggio della coalizione di centrodestra (anche se meno dei principali sondaggi: il distacco stimato è di 11 punti), il mancato decollo del “terzo polo” di Calenda (fermo poco sopra il 5%), ma al tempo stesso evidenziano una forte crescita del Movimento 5 stelle (oltre il 16%).
L’interpretazione suggerisce un possibile “effetto Churchill” sul voto del 25 settembre (dal nome del leader britannico che, dopo il trionfo sulla Germania nazista, patì una pesantissima sconfitta elettorale): a essere premiati potrebbero essere gli attori (centrodestra, M5s) con una netta visione di futuro e un accento sul cambiamento, più di quelli (centrosinistra, Calenda) che rivendicano continuità con il governo uscente (peraltro con un paese in difficoltà economica) e con identità programmatica incerta.
Dai dati emergono alcuni elementi principali, che sintetizziamo brevemente:
1. La vittoria del centrodestra ancora una volta non appare in discussione, pur se con valori inferiori a quelli riportati dagli istituti di sondaggio in questi giorni: la coalizione di centrodestra totalizza infatti circa il 42% delle intenzioni di voto, contro il 31% del centrosinistra;
2. Appare anche confermato il ruolo di primo partito di Fratelli d’Italia, pur se nei nostri dati questo partito registra una performance leggermente inferiore ad altri sondaggi di questi giorni; FdI viene infatti dato al 23%, contro il 21,4% del Pd, che invece è in linea con altri sondaggi;
3. Entrando nel dettaglio delle due coalizioni principali:
a. Il vantaggio leggermente inferiore del centrodestra rispetto ad altri sondaggi (che vedono distacchi tra 15 e 18 punti) è legato anche alla stima particolarmente bassa della Lega, che nella nostra indagine scenderebbe sotto le due cifre (al 9,6%), mentre Forza Italia viene data all’8%; anche Noi Moderati nella nostra indagine risulta sotto l’1% rispetto a stime maggiori (intorno al 2%) nei sondaggi pubblicati;
b. All’interno del centrosinistra, l’indagine ha una stima particolarmente positiva per l’alleanza Verdi-Sinistra (5,9%), mentre Più Europa viene data sotto la soglia di sbarramento del 3% (al 2,3%) in linea con altri sondaggi, così come Impegno Civico (1,4%);
4. Il dato forse più eclatante è quello del M5S, che le nostre stime vedono al 16,6%; si tratta di un dato superiore non solo alle medie dei sondaggi pubblicati più di recente (intorno al 12%), ma anche ai sondaggi più ottimisti (che lo danno al massimo al 14%);
5. Infine, la stima per Azione-Italia Viva (5,3%) appare leggermente inferiore alle stime viste finora (intorno al 6 e il 7%); viene inoltre confermato Italexit sopra la soglia di sbarramento (3,6%).
Pur se con alcune differenze rispetto ai sondaggi pubblicati, le tendenze indicate dalle intenzioni di voto nella nostra indagine sono, a grandi linee, assolutamente analoghe a quelle viste finora:
1. Il vantaggio strutturale del centrodestra, e l’assenza di reale competitività del centrosinistra: dati che non appaiono realmente in discussione (il margine di vittoria particolarmente basso da noi stimato – undici punti – non solo appare comunque confortevole, ma rappresenta un valore particolarmente basso, rispetto alle stime di tutti gli istituti).
2. La conferma del mancato decollo di Azione-Italia Viva: un partito con ambizione di “terzo polo” a due cifre (con l’obiettivo neanche troppo celato di andare vicino al 20% ottenuto a Roma, dimenticando forse che l’Italia non è Roma) e che tuttavia non è ancora riuscito a decollare, rimanendo sulle stime viste da mesi.
3. La crescita del M5S. Presentato da molti come destinato all’estinzione dopo la scissione di Di Maio e la successiva caduta del governo Draghi (all’epoca era spesso stimato sotto il 10%), il partito guidato da Conte mostra invece una forte tendenza alla crescita, confermata da tutti gli istituti (pur se finora non sui livelli da noi registrati).
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 8th, 2022 Riccardo Fucile
INOLTRE 3 MILIONI DI FAMIGLIE SONO COMPOSTE DA UN SOLO GENITORE, NELLA MAGGIOR PARTE DEI CASI SI TRATTA DI MADRI SOLE (2,4 MILIONI)
La famiglia tradizionale scricchiola, i divorzi raddoppiano e si moltiplicano, in Italia, le famiglie monoparentali.
Sono oltre tre milioni quelle composte da un solo genitore e dai figli. Secondo le ultime rivelazioni dell’Istat, nel nostro Paese, su 25,6 milioni di famiglie, il 12% è costituito da nuclei monoparentali.
I genitori soli sono quasi sempre donne: 2,4 milioni di madri sole con figli contro 565 mila padri. Fuori dal Bel Paese le cose non vanno meglio. Secondo quanto riportato dal quotidiano britannico The Times, in Inghilterra, una famiglia su quattro è formata da un solo genitore con figli e negli Stati Uniti le famiglie a metà sono addirittura più del 23% del totale.
Il divorzio è il principale motivo per il quale un genitore, quasi sempre la madre, può ritrovarsi solo nella crescita e nell’educazione della prole.
Ci sono però anche altre cause come le gravidanze extraconiugali, la morte del coniuge o, molto più frequentemente, l’assenza di un genitore vivo.
Diventare grandi senza la guida della mamma o del papà ha, secondo gli psicologi dell’età evolutiva, conseguenze emotive importanti, spesso drammatiche. La società è mutata e, di conseguenza, anche le relazioni affettive hanno cambiato pelle al punto che, oggi, appare riduttivo guardare alla famiglia senza tener conto delle nuove relazioni familiari: monogenitoriali, ricostruite, di fatto e omosessuali.
La famiglia non è più solo una formazione sociale fondata sul matrimonio ma un posto in cui c’è amore. Non mancano però quelli che, di relazioni stabili e accudimento dei figli, proprio non vogliono sentir parlare. Sempre più uomini e donne scelgono di stare soli.
È il Rapporto Annuale dell’Istat a consacrare l’Italia come il Paese dei single.
Ben il 33,2 % degli italiani vive da solo. Una percentuale che, per la prima volta, sorpassa quella delle coppie con figli, che ormai, costituiscono il 31,2% delle famiglie. Si stima che, nel 2045, le coppie senza figli saranno più numerose di quelle con figli.
La famiglia tradizionale pare reggere, seppur con percentuali non incoraggianti, solo al Sud.
Mentre nel Nord-esti single e le coppie con figli si equivalgono (ciascuna il 30% del totale), nel Centro e nel Nord-ovest prevalgono le famiglie unipersonali (36% contro 28% circa delle coppie con figli) mentre nel Mezzogiorno risultano ancora preponderanti le coppie con figli (circa 36% contro circa 30% delle persone sole).
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 8th, 2022 Riccardo Fucile
CONTE E’ IL LEADER SENTITO PIU’ VICINO… REDDITO DI CITTADINANZA E “DOTE” PER 18ENNI CONVINCONO MOLTI, MA NON TUTTI
Chi è il leader politico di riferimento per la Generazione Z? Il “Signor Nessuno”. Infatti, ben il 44% dei giovani non riconosce il physique du rôle dello statista ideale in nessuno degli attuali front man dei partiti presenti attualmente sulla scena.
A evidenziarlo un sondaggio del portale studentesco Skuola.net, su un campione di 1.568 ragazze e ragazzi tra i 18 e 25 anni. Tutto questo, nonostante lo sforzo di parlare ai giovani sbarcando su una delle piattaforme più popolate dagli appena maggiorenni, cioè TikTok, strategia comune a più di un protagonista politico.
Qualcuno che indica un nome, però, c’è. Svelando così che, per l’elettorato più giovane, sembra esserci un uomo solo al comando in termini di fiducia: è Giuseppe Conte che, con il 16% dei consensi, come minimo doppia tutti gli altri contendenti.
Ancora più d’impatto è il personaggio che occupa la seconda posizione: si tratta di Emma Bonino, che però si deve accontentare dell’8% delle preferenze. Mentre il terzo gradino del podio è una questione a tre, con Giorgia Meloni, Enrico Letta e Carlo Calenda appaiati al 6% dei voti. Tutti gli altri, praticamente non pervenuti, si fermano al massimo a quota 3%.
Dinamiche un po’ diverse, ma non troppo, per quel che riguarda i partiti che si stanno contendendo lo scettro e le intenzioni di voto. Fermo restando che, anche in questo caso, il 34% dei giovani intervistati non si esprime a riguardo.
Ma se si considerano i “voti utili”, al primo posto svetta il Partito Democratico, seppur solo con l’11% dei consensi. Alle sue spalle, all’8%, un altro trittico: Movimento 5 Stelle, Azione e +Europa (confermando l’apertura di credito che Emma Bonino e soci hanno tra i ragazzi). Un gradino sotto, troviamo il grande favorito secondo i sondaggi multigenerazionali, ovvero Fratelli d’Italia, che però non va oltre il 7%. Il resto quasi non conta. Alcuni esempi? Sinistra Italiana è al 4%, Forza Italia e Lega sono entrambe al 3%, Italia Viva, Insieme per il futuro e Articolo Uno al 2%.
Ma i ragazzi non hanno solo gusti politici diversi rispetto alle altre fasce d’età. Hanno anche una loro “agenda”, che si discosta abbastanza da quella degli adulti. E che, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, non si polarizza solo su capitoli che li riguardano da vicinissimo.
Lo dimostra il fatto che, in cima alle priorità su cui secondo la GenZ si dovrebbe focalizzare il prossimo governo, al fianco dei prevedibili temi legati al Lavoro (salario minimo, occupazione giovanile) c’è una richiesta di attenzione verso i Diritti civili e le questioni etiche (Ddl Zan, Ius Scholae, Fine vita, ecc.) nonché un richiamo alla tutela dell’Ambiente: per 4 intervistati su 10 sono tutti passaggi che dovrebbero avere la stessa importanza.
A seguire, emerge l’esigenza di una riforma strutturale del sistema scolastico: a chiederla è un quarto dei giovani (25%). Molto sentito anche il problema del debito pubblico: per il 17% bisogna fare del tutto per ridurlo in tempi rapidi. Mentre per 1 su 10 il programma del Governo che verrà dovrebbe concentrarsi anche sulla riforma del sistema sanitario pubblico, sulla riduzione della burocrazia, sulla lotta all’evasione fiscale e su interventi per attirare investimenti in Italia.
Ovvio però che, trattandosi di una platea composta prevalentemente da studenti, ai temi dell’istruzione e della formazione sia stata dedicata una sezione specifica del sondaggio. Se non altro perché ci si trova al cospetto di osservatori privilegiati.
Parlando di scuola, per gli under 26, i tasti su cui il nuovo Governo dovrebbe spingere di più sono: una revisione del modello didattico (25%), far sì che si venga preparati al mondo del lavoro sin dall’età scolastica (21%), migliorare gli standard di qualità e formazione della classe docente (20%).
Mentre, sul fronte post diploma, ai più sarebbe molto gradito che il prossimo Esecutivo facesse qualcosa sulla Ricerca, aumentando i fondi per arginare la “fuga dei cervelli” (22%), sul Diritto allo studio, individuando più risorse per i meno abbienti (20%), sulle Politiche attive per il lavoro, guidando molti più giovani verso la prima occupazione (15%)
Per concludere, è sembrata opportuna una considerazione su due misure politiche molto dibattute negli ultimi tempi, una attuata e una proposta, etichettate come “pro giovani”: il Reddito di Cittadinanza e la “Dote” in denaro per i 18enni. Entrambe, si scopre, trovano il supporto pieno di 1 giovane su 2. E la dote potrebbe raccogliere ulteriori consensi se fosse destinata solo ai giovani che hanno progetti da sviluppare (17%) o se fosse finanziata in una maniera diversa rispetto al ricorso alla patrimoniale (8%).
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 8th, 2022 Riccardo Fucile
“PIUTTOSTO CHE “MURI” OCCORRE, COSTRUIRE “ORIZZONTI”. RIVOLTI ALL’EUROPA E AL MONDO”… “PARLARE DI VALORI. FUTURO. SENZA DIMENTICARE IL PASSATO, PERCHÉ I VALORI E IL FUTURO HANNO RADICI NELLA STORIA’’
Le prossime elezioni sembrano un evento già scritto. I principali sondaggi pubblicati in questo periodo, infatti, ritengono scontata la vittoria del centrodestra. Come il primato dei Fratelli d’Italia (FdI) guidati da Giorgia Meloni. Demos, nei prossimi giorni, condurrà una nuova indagine nazionale sull’argomento, che pubblicheremo su Repubblica .
Così potremo verificare quanto queste previsioni siano confermate. Non bisogna dimenticare, infatti, che la quota degli incerti è ancora elevata e circa un elettore su 4 decide nell’ultima settimana. Anche (e non solo) per questo i sondaggi forniscono stime, spesso smentite dai fatti.
Tuttavia, il gioco delle parti appare chiaro. Enrico Letta, in particolare, ha riassunto la campagna in un’alternativa esplicita. Politica e personale. Scegliere Letta e i democratici, da una parte, oppure Meloni e la “sua” destra, dall’altra. In questo modo, il leader del Pd conta, quantomeno, di imporre se stesso e il partito che guida come riferimento per quanti non accettano un’alleanza (presumibilmente) di (centro) destra.
Senza dis-perdersi in altre vie politiche – vecchie, nuove e seminuove. È presto per capire se questa strategia funzionerà. Se riuscirà davvero a “dividere” il Paese. Perché noi siamo il “Paese dei muri”. I cleavages . Fratture. Come nella Prima Repubblica, quando la Dc e i suoi alleati hanno governato, sempre, costringendo all’opposizione – inevitabile – l’unico partito davvero alternativo. Per grado di consensi, radicamento sociale e territoriale. Il Partito comunista. Che ha potuto entrare in gioco dopo che Enrico Berlinguer ha preso le distanze dalla tradizione ideologica e politica del blocco sovietico. Ma, soprattutto, dopo la caduta del “muro di Berlino”.
E dopo la fine della Dc, nei primi anni Novanta, giusto 30 anni fa, travolta definitivamente dagli scandali di Tangentopoli. Tuttavia, la sinistra post-comunista è rimasta a lungo un “polo escluso” (definizione, coniata da Piero Ignazi per il Msi), nel sistema definito da Giorgio Galli “bipartitismo imperfetto” e da Giovanni Sartori “pluralismo polarizzato”. Per sottolineare come l’Italia fosse un Paese senza alternative. Anche dopo la caduta del “Muro di Berlino”. Un’eredità raccolta da Silvio Berlusconi, che, nel 1994, è divenuto il nuovo centro del sistema, sostituendo il muro di Berlino con “il muro di Arcore”.
Berlusconi, infatti, si è proposto come erede dei partiti che avevano governato nella Prima Repubblica. Con un messaggio chiaro: noi di qua, i neo e post-comunisti dall’altra parte. Così ha ereditato gran parte della base elettorale dei governi precedenti.
Non è un caso che, alle elezioni del 2008, oltre il 70% dei collegi elettorali, in Italia, riproducesse la stessa geografia politica dei primi anni 50. Segnata dalla distinzione anti-comunista. Fino a quando è crollato anche il muro di Arcore, insieme ai partiti tradizionali
Riassunti dall’Ulivo e, quindi, dal Pd, che hanno raccolto e “accolto” gli elettori post-Dc e Pci.
Nell’ultimo decennio, però, insieme ai muri, sono crollati anche i partiti tradizionali. Così sono emersi due nuovi soggetti politici.
La Lega (nazionale) di Salvini, che ha superato i confini del Nord, e, soprattutto, il M5S. Entrambi, hanno ri-prodotto e alzato un “nuovo muro”. Il “muro dell’antipolitica”. Divenuto evidente nel 2018. Quando il M5S si è imposto come primo partito. Seguito, alle Europee del 2019, dalla Lega. Da allora, e successivamente, l’unico partito che ha mantenuto una base stabile, anche se ridotta, è il Pd. Attaccato alle radici residue delle Repubbliche precedenti.
Oggi, per resistere, o almeno “esistere”, Enrico Letta ha ri-evocato “il muro”. Con la differenza, rispetto al passato, che il fascismo non è più percepito come una minaccia incombente. Interpretata da un partito. Tanto più che, ormai, “i partiti sono partiti”. Un participio passato. Interpretati da persone. Così, l’alternativa, il muro, non è fra “regimi”, rappresentati da partiti. Ma fra leader. Fra Enrico e Giorgia. Letta e Meloni. E qui la questione si complica ulteriormente.
Perché Giorgia Meloni, nei sondaggi condotti prima dell’estate da Demos, ottiene consensi elevati e trasversali. Certamente, molto più elevati a centrodestra e a destra: fra il 70 e l’80%. Ma ampi anche al centro, dove sfiora il 50%. E rilevanti a centrosinistra e perfino a sinistra (20-25%). Inoltre, è molto apprezzata dalle donne (quasi il 48%).
Così, fra gli elettori, considerati nel complesso, è fra “le” e “i” leader più gradite-i. Seconda solo a Mario Draghi, alla pari con Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte. Più avanti di Enrico Letta.
Appare difficile, dunque, riproporre e riprodurre le fratture del passato. L’antifascismo non appare in grado di isolare Meloni come un tempo. L’anticomunismo, l’antiberlusconismo e l’antipolitica coinvolgono poco. Piuttosto che “muri”, occorre, per questo, costruire “orizzonti”. Rivolti all’Europa e al mondo. Parlare, nuovamente, di valori. Futuro. Senza dimenticare il passato, ovviamente. Perché i valori e il futuro hanno radici nella storia. E sul territorio. Dove, da troppo tempo, la politica e i partiti sono scomparsi
Ilvo Diamanti
(da “la Repubblica”)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 8th, 2022 Riccardo Fucile
LA MONUMENTALE BIOGRAFIA DI PHILIP SHORT: LA RUSSIA È UN GIGANTE DAI PIEDI D’ARGILLA, LA SUA ECONOMIA È DA PAESE SOTTOSVILUPPATO, EPPURE RIESCE A TENERE SOTTO SCACCO TUTTO IL MONDO
«Un teppista, un prepotente, un assassino». Il senatore John McCain, candidato repubblicano sconfitto da Obama alle presidenziali, diceva questo di Vladimir Putin. Un pazzo, un folle, un dittatore, un uomo malato che ha fretta di lasciare un segno nella storia prima che arrivi la fine: diciamo spesso questo di Putin nei media occidentali, per spiegare quel rebus avvolto in un mistero dentro un enigma che è l’ultimo inquilino del Cremlino.
Un leader che vent’ anni fa sembrava pragmatico e filo-occidentale, e che ha invece finito per trascinare il suo Paese in una guerra con l’Occidente che non vincerà, ma a un prezzo altissimo di vite umane e di benessere materiale .
La monumentale biografia scritta da Philip Short, l’ex corrispondente della Bbc che aveva già raccontato Mao e Pol Pot, ha invece l’indiscutibile pregio di rifiutare in partenza questi stereotipi.
La «teoria del pazzo», elaborata da Richard Nixon, può perfino trasformarsi in una trappola, se la si usa per «sembrare talmente irrazionali e imprevedibili che l’avversario è costretto a esitare prima di mettere alla prova la tua determinazione» .
Nelle sue mille informatissime pagine (il volume è edito da Marsilio), secondo la migliore tradizione della biografia anglosassone (quasi 250 sono di note), l’autore si concentra piuttosto su due chiavi interpretative cruciali per capire davvero un leader politico: la prima è la personalità, la sua storia per così dire intima, da dove viene, di chi è figlio, che faceva da ragazzo, e così via.
La seconda è il nesso indissolubile tra lui (o lei) e il Paese che guida, l’intreccio di storia, cultura e interessi che sempre muove un popolo, soprattutto quando è un grande popolo come quello russo, educato a sentirsi eccezionale almeno quanto quello americano.
Nel condurre questa operazione-verità, Short apre degli squarci di estrema utilità per comprendere il piglio imperiale dell’uomo. Ha ragione quando ci invita a tener presente che «i leader nazionali rispecchiano inevitabilmente la società da cui provengono».
Ma ha torto quando aggiunge: «Putin non è un’aberrazione in Russia più di quanto non lo sia Donald Trump in America, Boris Johnson nel Regno Unito o Emmanuel Macron in Francia».
Questo difetto di equipollenza morale tra un’autocrazia in cui la leadership è a vita, gli oppositori vengono avvelenati, e a nove milioni di persone è stato vietato di candidarsi; e le democrazie in cui un presidente può essere indagato per l’uso che ha fatto del potere o un premier può essere spedito nel Pacifico da un voto dei suoi parlamentari, è il punto più criticabile, e più criticato, del libro.
Accettiamo però il «beneficio del dubbio» che l’autore concede a Putin. A partire dall’accurata contestazione della leggenda cospirativa secondo cui gli attentati attribuiti ai ceceni che sconvolsero la Russia nel 1999, e che giustificarono la più disumana delle repressioni militari, erano stati in realtà «fatti in casa» dai servizi di Mosca, per facilitare l’ascesa del nuovo uomo forte.
Nessuna prova è mai emersa a giustificare questa teoria, che pure ha ancora ampia circolazione; mentre molte ne sono le palesi contraddizioni, e Short le elenca con efficacia.
Ciò nonostante la ferocia usata a Grozny, il massacro elevato a sanzione morale, quel «li annienteremo al cesso» con cui Putin inaugurò la sua storia al potere, restano il tratto distintivo di una leadership: quando pronunciò quella frase, a settembre, era accreditato nei sondaggi per le presidenziali di un misero 2% dei voti. A dicembre era arrivato al 40%.
In questa attitudine all’uso della forza gioca certamente un ruolo la storia del potere in Russia. Ma anche il carattere dell’uomo forgiatosi negli anni precedenti.
Ed è forse qui la parte migliore del libro, e anche la più ricca di fonti (da quando entra al Cremlino, il mistero che avvolge Putin si fa più fitto perfino per un biografo del valore di Short) .
Figlio di un patriota comunista, che aveva combattuto da partigiano contro i tedeschi durante il terribile assedio di Leningrado, Volodja era stato un bambino turbolento, addirittura scartato per cattiva condotta alle elementari dagli «oktjabrjata», l’organizzazione dei «figli dell’Ottobre» fondata dalla moglie di Lenin, versione rossa dei boy scout di Baden-Powell. Da adolescente «si azzuffava con chiunque, non aveva paura di nulla.
Era come se fosse privo di qualsiasi istinto di autoconservazione. Non gli passava nemmeno per la testa che il suo rivale potesse essere più forte e dargliele di santa ragione», ha raccontato il miglior amico del tempo, Viktor Borisenko. Ma questa aggressività, che forse compendiava la statura bassa e il corpo «magro e non atletico», si accompagnava al buonsenso: «Era in grado di riflettere su ciò che faceva e di controllarsi».
I ragazzi di strada come lui, si dice ancora oggi, possono essere salvati solo dallo sport. E infatti Volodja, crescendo, si dedicò appassionatamente prima al «sambo», una tecnica di difesa personale senza armi, e poi al judo, disciplina nella quale eccelse a livello regionale.
Lui stesso ha poi raccontato: «Per conservare l’autorità che avevo, mi servivano tecnica e forza fisica. Sapevo che se non avessi cominciato a fare sport, non avrei più avuto la posizione cui ero abituato, né nel cortile né a scuola». In palestra imparò che se vuoi vincere devi mostrare al tuo avversario che sei disposto ad arrivare fino in fondo.
E nel Kgb, dove fu assunto nel 1975 dopo la laurea all’università di Leningrado, apprese un’altra lezione: non portare mai con te un’arma se non sei pronto ad usarla .
Il Kgb era stato per lui un sogno fin da ragazzo: «Serie televisive quali Lo scudo e la spada e Diciassette momenti di primavera raccontavano le imprese degli agenti sovietici nella Germania nazista durante la guerra»: eroi senza macchia, tipi alla James Bond. Putin volle fortissimamente imitarli.
Si iscrisse a Giurisprudenza perché gli dissero che era la via migliore per arrivare ai servizi segreti. Anche se poi la sua non fu una carriera da 007. È molto probabile, anche se ha sempre tentato di nasconderlo, che tra il ’76 e il ’79 abbia lavorato allo spionaggio e alla repressione dei dissidenti nel famigerato «Quinto direttorato». E anche quando finalmente ottenne una sede all’estero (ma a Dresda, non a Berlino come sperava), nei giorni fatali dell’89 finì per assistere con umiliazione al tracollo della Germania Est, nell’impotenza della superpotenza russa.
Un trauma che gli è rimasto sempre ben impresso nella mente . Altrettanto traumatici, e formativi della sua weltanschauung , furono i mesi caotici e terribili della caduta di Gorbaciov, del colpo di stato militare, della fine dell’Unione Sovietica, la patria in cui era tornato dopo la caduta del Muro.
A Leningrado, dove fungeva da vice del sindaco liberale Sobcak (secondo alcuni gli fu messo alle costole dal Kgb, secondo lui se n’era invece già dimesso) partecipò alla disperata richiesta di aiuti alimentari che una città stremata rivolse ai Paesi europei (senza ricevere molto, a dire il vero).
Fu persino accusato di aver avuto parte in uno scandalo, quando il programma «petrolio per cibo», vendita di materie prime russe in cambio di derrate occidentali, portò grandi arricchimenti ai mediatori, embrioni dei futuri oligarchi, ma poco pane alla città, ritornata nel frattempo all’antico nome di San Pietroburgo.
Un sentimento di rivalsa contro un Occidente accusato di aver tradito la Russia dopo averla illusa è forse ciò che più accomuna Putin al suo popolo, e che ne spiega la presa ancora forte. «I russi si sono sentiti presi in giro», scrive Short. Per lui, «lungi dall’essere bizzarra, la decisione di invadere l’Ucraina è in realtà perfettamente coerente con il modo in cui Putin si è sempre comportato, ogni volta che si è trovato di fronte a una scelta esistenziale tra inimicarsi l’Occidente e difendere il proprio potere e quello della Russia nel mondo».
Come da ragazzo, quando si lanciava nelle zuffe convinto di poterle vincere perché mostrava di volerle vincere. Ciò non giustifica il calcolo sbagliato che gli ha fatto credere di poter piegare l’Ucraina in pochi giorni. Né la violenza rabbiosa che le ha abbattuto addosso quando ha capito che non ce l’avrebbe fatta.
E nemmeno la vendetta che sta tentando ora di prendersi sugli europei tenendoli al freddo quest’ inverno. Ma in parte spiega perché il suo popolo non l’abbia (ancora?) abbandonato. «I russi – conclude l’autore – non soltanto sembrano europei, sono europei, e ci aspettiamo che si comportino come il resto della famiglia. Ma loro inspiegabilmente, ostinatamente, si rifiutano di farlo. E questa situazione non cambierà tanto in fretta». Forse neanche quando Putin non ci sarà più .
(da il Corriere della Sera)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 8th, 2022 Riccardo Fucile
NEGLI ULTIMI MESI DALLA SOCIETA’ STATALE ITALIANA SONO PARTITI TRE BONIFICI
L’Enit parla ancora russo. L’agenzia nazionale del turismo, che agisce sotto l’egida del Ministero del leghista Massimo Garavaglia, continua a pagare in rubli, perché non potrebbe essere altrimenti: la sede di Mosca risulta tuttora aperta.
Nel secondo trimestre 2022 risultano varie operazioni economiche, portate ovviamente a termine con la moneta russa.
In particolare ci sono tre diversi pagamenti effettuati alla GlavUpDK pri MID Rossii, sigla di una società di proprietà statale che gestisce, con il controllo del ministero degli Esteri, le proprietà pubbliche.
Secondo quanto riferisce il sito ufficiale, nel dettaglio fornisce «una serie di servizi molto ricercati alla comunità diplomatica, ai clienti aziendali e privati».
Il primo bonifico di 94.500 rubli è datato 22 aprile, il secondo è del 17 maggio e ammonta invece a 123.480 rubli, mentre a giugno il saldo è stato di 82.320 rubli. Il totale della spesa, alla voce «servizi generali» è di 300mila rubli.
Inevitabilmente poi, proseguono i pagamenti dei canoni per la società che fornisce il servizio di telecomunicazione, la moscovita Pao Mts, che da marzo a giugno sono stati di oltre 60mila euro. L’Enit, interpellata da TPI, spiega che «nel secondo trimestre non sono stati effettuati pagamenti dall’Italia in Russia» in quanto «la sede ha funzionato con i residui dall’inizio dell’anno».
E sulla decisione di non chiudere la struttura a Mosca, l’agenzia ribadisce che «l’area di competenza di Enit Mosca comprende 15 Paesi dell’area post-sovietica tra cui l’Azerbaijan, l’Armenia, la Georgia, l’Uzbekistan, il Kazakistan e Paesi Baltici». Quindi a Mosca ci si occupa di altro. E si va avanti così, anche perché lo stesso fanno gli altri Paesi competitor. Mal comune, mezzo gaudio.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 8th, 2022 Riccardo Fucile
NEL LIBRO DI EMANUELE BUZZI LA PARABOLA DEL M5S… L’ULTIMA TELEFONATA DI DI MAIO CON GRILLO CON ANNESSA RICHIESTA DI INTERVENIRE RESPINTA CON PERDITE
L’incontro era andato così male che i partecipanti negheranno a lungo che fosse davvero avvenuto. Alle 13 dell’undici marzo 2016, forse il giorno più importante nell’accidentata storia del Movimento Cinque Stelle, Gianroberto Casaleggio uscì dall’ufficio dell’azienda che portava il suo nome con una faccia ancora più cupa del solito. Ad aspettarlo, c’era una sola persona, un solo giornalista, che gli chiese una dichiarazione. «Mi scusi, non oggi, sarà per la prossima volta» fu la risposta. Non ci sarebbe più stata una prossima volta. I giorni del cofondatore del M5S erano purtroppo ormai contati.
Emanuele Buzzi, che aveva già visto i cinque membri del direttorio, capeggiati da Luigi Di Maio, lasciare la sede con atteggiamento furtivo, sapeva che era successo qualcosa di molto importante.
Pezzo per pezzo, una testimonianza dopo l’altra arrivò a scoprire come la rottura tra Casaleggio e Beppe Grillo non sia avvenuta con un «vaffa» indirizzato dal primo all’ormai ex amico genovese durante la loro ultima telefonata, che forse non c’è neppure mai stata. Tutto era accaduto durante quella riunione, quasi alla luce del sole, quando il progetto dell’ideologo milanese di creare una nuova struttura omnicomprensiva dove sciogliere le diverse anime pentastellate, il logo, una nuova piattaforma web, che prevedeva di fatto una parità di ruolo tra i due fondatori, era stata bocciata da quasi tutti i suoi ragazzi, oltre che da Grillo.
Non fu solo una sconfitta, per un uomo orgoglioso come Casaleggio, quella fu anche una umiliazione senza ritorno.
Nel giornalismo esistono gli analisti più o meno dotti, i commentatori professionali, i coloristi. E poi ci sono quelli che hanno le notizie, da cui dipendono tutte le altre categorie sopracitate.
Per averle, bisogna stare tanto sul marciapiede, come fece Buzzi quel giorno e come ha fatto in questi dieci anni di lavoro dedicati in modo esclusivo al M5S, occorre creare rapporti confidenziali basati sulla fiducia reciproca, che talvolta prevedono anche la possibilità di non scrivere ogni dettaglio di quel che si sa. Ci vuole tanta fatica, tanta dedizione e altrettanta capacità di sopportazione.
Poi arriva il momento in cui le storie finiscono, come è finita quella dei Cinque Stelle come li abbiamo conosciuti. E allora diventa possibile scrivere ogni cosa, e fare la storia inedita e segreta di un Movimento di cui si pensa di sapere tutto, che ha vissuto in pubblico sia la propria ascesa che il rovinoso declino.
Polvere di stelle (in libreria dal 9 settembre per Solferino) è il libro sui Cinque Stelle che mancava. Perché se c’è una persona che poteva raccontare la vicenda privata del soggetto politico più controverso e discusso della recente storia italiana, quella è il nostro «Ema», professione cronista.
Che con questo libro crea una mappa alternativa e più precisa della geografia intern a di una strana creatura in grado di passare da forza antisistema a forza di governo, da scheggia impazzita a partito di maggioranza. Fino alla mutazione ormai quasi definitiva, dall’uno vale uno al partito di uno solo, Giuseppe Conte, al tempo stesso salvatore e carnefice del vecchio M5S.
Proprio perché il suo autore ci è sempre stato, perché ha visto fiorire e poi appassire ogni protagonista di questa strana vicenda, questo libro non è una raccolta di aneddotica spicciola e inedita sul M5S, ma getta una luce diversa su alcune scelte o decisioni che hanno inciso molto sulla vita di questo Paese.
Se davvero l’addio di Luigi Di Maio al M5S è stata la palla di neve che ha innescato la slavina della sfiducia al governo Draghi, non è cosa da poco sapere dell’ultima telefonata dell’attuale ministro degli esteri con Grillo, della sua richiesta di intervenire respinta con perdite.
Sono tantissime in queste pagine le notizie nuove di zecca che da sole varrebbero un titolo di giornale, ma bello grosso.
Da una specie di cospirazione per allontanare Virginia Raggi dal Movimento, alle scelte comunicative che tanto hanno pesato nella composizione del controverso governo con la Lega, fino alle discussioni sui soldi, alle feroci faide interne e al sondaggio segreto che obbligò Grillo e Conte a una pace di convenienza.
Emanuele Buzzi racconta tutto, con il suo consueto sguardo non giudicante. E disegna così la parabola di un Movimento che doveva volare alto, la rete, le connessioni, il grido onestà-onestà. Ma infine è caduto per sentimenti come la cupidigia, la brama di potere. Molto bassi, e molto umani.
(da “ii Corriere della Sera”)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 8th, 2022 Riccardo Fucile
NEI SUOI 70 ANNI DI REGNO E’ DIVENTATA UN’ICONA
Non doveva neanche diventare regina. Invece, complici gli scandali familiari che si trascinerà dietro durante la sua vita, è diventata la sovrana più longeva (e amata) del Regno Unito. Dopo 70 anni e 214 giorni sul trono, si è spenta oggi la regina Elisabetta II. Al suo posto, ora, salirà il principe Carlo, suo figlio primogenito.
Lilibet, regina per caso
Quando è nata il 21 aprile 1926, nessuno immaginava che “Lilibet” – così veniva chiamata in famiglia – sarebbe mai diventata regina. Ad appena 25 anni, invece, è salita sul trono d’Inghilterra. Tutta colpa di uno scandalo che investì suo zio, il re Edoardo VIII, che pur di non rinunciare a una relazione con la ballerina americana Wallis Simpson, decise di abdicare al trono a favore di Giorgio VI, padre di Elisabetta. Quando diventò regina nel 1952, Lilibet si era già sposata con il principe Filippo di Edimburgo, da cui avrà quattro figli: Carlo (principe del Galles), Anna (principessa reale), Andrea (duca di York) ed Edoardo (conte di Wessex).
Da Churchill a Liz Truss
Per intere generazioni di inglesi, Elisabetta ha rappresentato l’incarnazione della monarchia inglese. Nei suoi settant’anni di regno, ha incontrato quindici primi ministri, a partire da Winston Churchill, che quando l’aveva incontrata nel 1940 aveva scritto nei suoi appunti: «Che carattere! Ha un’aria di autorità e riflessività stupefacenti per una bambina».
L’incontro tra i due si ripetè nel 1951, quando Elisabetta -regina – lo aiutò a risollevare l’economia inglese dopo la fine della guerra.
Da allora, Lilibet ha incontrato e consigliato altri quattordici primi ministri inglesi, tra questi: la prima donna premier nella storia del Regno Unito Margaret Thatcher, il giovane fondatore del “New Labour Party” Tony Blair, l’uomo che ha condotto il Regno Unito fuori dall’Europa Boris Johnson, fino ad arrivare a Liz Truss, la nuova leader del Partito conservatore a cui ha affidato, per l’ultima volta, l’incarico di formare un nuovo governo.
Assieme a loro, Elisabetta ha stretto la mano a tutti i presidenti americani da Truman in poi (ad eccezione di Lindon Johnson), ha ospitato sulla sua carrozza Charles de Gaulle, Nelson Mandela e il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu. Ha cenato con quattro presidenti russi (Kosygin, Gorbachev, Eltsin e Putin) e ha attraversato la Jugoslavia – ancora unita – insieme a Tito.
Il declino del Regno Unito
Il regno di Elisabetta ha coinciso però anche con il lento declino del Regno Unito sullo scacchiere internazionale. Quando è salita sul trono, gli inglesi potevano ancora contare su un esteso impero coloniale, a partire dall’India. Oggi, invece, quello che un tempo veniva definito «l’impero su cui non tramonta mai il sole» è un lontano ricordo: in particolare in seguito alla Brexit, che ha contribuito ancora di più all’isolamento del Paese.
Un’icona, da The Crown a James Bond
Pur mantenendo uno stile sobrio e a tratti austero, Elisabetta ha sempre cercato di adattare il ruolo della monarchia alle aspettative di una società in continua evoluzione e cambiamento. Fu lei, per esempio, nel 1970, ad autorizzare la Bbc a riprendere alcune scene di vita quotidiana della famiglia reale per trasmetterle in tv.
E sono forse iniziative come questa – unite alla sua longevità – che hanno permesso a Elisabetta di diventare una delle regine più apprezzate nella storia del Regno Unito, conosciuta in tutto il mondo e da tutte le generazioni. Una grossa mano, poi, è arrivata in tempi più recenti anche dal mondo della tv.
In primis, con The Queen, il film biografico del 2006 diretto da Stephen Frears. Poi anche con The Crown, la serie tv lanciata da Netflix nel 2016 che ha fatto appassionare milioni di spettatori ai retroscena della vita della famiglia reale. Negli ultimi anni, Elisabetta non è diventata solo protagonista di serie tv, ma una vera e propria icona. Memorabile, per esempio, il lancio dall’elicottero di Daniel Craig (James Bond), in compagnia di una sua controfigura, per inaugurare le Olimpiadi di Londra del 2012.
Gli scandali
Il regno di Elisabetta è stato però anche un lungo susseguirsi di gaffe e scandali, che hanno investito i suoi più stretti familiari. Il 1992, in questo senso, verrà ricordato per sempre come annus horribilis per la tenuta della monarchia inglese. Quell’anno, infatti, Elisabetta si ritrovò a gestire contemporaneamente la separazione tra il principe Carlo e Diana, il divorzio tra il principe Andrea e la moglie Sara e pure un incendio che bruciò parte del castello di Windsor.
Anche negli anni precedenti e successivi, però, le cose non sono andate certo meglio. Dai tormenti amorosi di Anna, innamorata di un uomo divorziato, al principe Filippo, che nel 1986 ammoniva gli studenti britannici in Cina dicendo: «Se restate ancora, vi verranno gli occhi a mandorla». Nel 2021, poi, la rottura definitiva tra Harry e Meghan e la Casa Reale, con conseguente rinuncia dei titoli. Per non parlare delle accuse di cui dovrà rispondere il principe Andrea, messo sotto processo a New York per abusi sessuali su minori. Il regno di Elisabetta è una storia lunga settant’anni e segnata da innumerevoli guerre, crisi economiche, pandemie e scandali. Una lista infinita di episodi storici e accadimenti internazionali, a cui la regina inglese non ha semplicemente assistito, ma vissuto in prima persona. In quasi tutti i casi, da protagonista.
(da Open)
argomento: Politica | Commenta »
Settembre 8th, 2022 Riccardo Fucile
FINO ALL’ULTIMO HA DIMOSTRATO IL SUO INOSSIDABILE “SENSO DEL DOVERE”
The Queen is dead. La Regina Elisabetta II è morta oggi, a Balmoral, dopo 96 anni di vita straordinari e unici.
“Lilibet”, come la chiamava e vezzeggiava suo nonno Giorgio V, è spirata dopo che le sue condizioni di sono aggravate negli ultimi giorni. Fino all’ultimo, la sovrana ha provato a rassicurare il mondo con il suo sorriso scintillante e irresistibile, lo stesso che ha sempre mostrato sin da bambina.
E fino all’ultimo, Elisabetta ha dimostrato il suo inossidabile “senso del dovere”, accogliendo e stringendo la mano alla nuova prima ministra Liz Truss, il quindicesimo leader di governo britannico della sua reggenza. Il primo fu addirittura Winston Churchill.
Negli ultimi tempi, la regina ha visto peggiorare sempre di più la sua salute. I suoi problemi di mobilità, evidentemente celavano qualcosa di più grosso. E quando mercoledì, con scarso preavviso, Buckingham Palace ha annullato il Privy Council, ossia un summit (da remoto) di Elisabetta con la nuova prima ministra e alcuni esponenti di governo, qualcuno ha sospettato che ci fosse qualcosa che non andava.
Poi, giovedì 8 settembre, un raro comunicato della Casa Reale – che in genere non commenta mai le condizioni di salute della sovrana – in cui veniva citata la “preoccupazione dei medici” e l’annuncio di uno stretto “controllo medico”.
Di lì a poco sono arrivati a Balmoral, la residenza estiva di Elisabetta II in Scozia, tutti i familiari stretti.
Mai si era vista una cosa del genere negli ultimi anni, se non per occasioni come quella del Giubileo di Platino. Stavolta, invece, quasi in processione sono andati a porgere l’ultimo saluto alla Queen: il primogenito e oramai re Carlo, la consorte Camilla, il nipote William, ora primo in linea di successione dopo il padre.
Ma anche tutti gli altri figli: Anna, Edoardo con la moglie Sophie di Wessex, persino il ripudiato Andrea. Tutti in macchina con William al volante. E anche il “fuggitivo” Harry che, altra ironia della sorte, si trovava con la consorte Meghan Markle proprio in Europa per un tour di discorsi. L’ex attrice americana però è rimasta al Frogmore Cottage insieme alla moglie di William, Kate, che vive a poca distanza. La duchessa di Cambridge è rimasta infatti ad accudire i figli.
Sin dal comunicato allarmante di Buckingham Palace, tantissime persone si sono dirette davanti ai cancelli di Balmoral. Mentre Elisabetta II se ne andava, è comparso un arcobaleno su Buckingham Palace. E tutto il Paese, anzi tutto il mondo, ha iniziato a piangere.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »