Settembre 11th, 2022 Riccardo Fucile
SIN DAL FALLIMENTO DEL BLITZ DELLE TESTE DI CUOIO DEL COGLIONAZZO CECENO A KIEV, A FEBBRAIO, CHE DOVEVANO ELIMINARE ZELENSKY… SONO BASTATI UN PAIO DI LANCIAMISSILI “HIMARS” PER SBRINDELLARE I CANNONI RUSSI
Un esercito impreparato, armato male, rigido e obsoleto nelle strategie, illuso dalla propaganda imposta col terrore e la censura da Vladimir Putin e dalla paura dei suoi generali a contraddirla: in ultima analisi un esercito destinato al fallimento.
Questo si è rivelato il corpo di spedizione che il 24 febbraio s’imbarcò nell’«operazione speciale» voluta dal presidente russo all’insegna dell’assurdo quanto irreale slogan della «denazificazione» dell’Ucraina.
Gli esperti del Pentagono cominciarono a parlare delle difficoltà russe attorno a Kiev già a fine febbraio. Noi giornalisti sul terreno, come del resto analisti e commentatori di tutto il mondo, le prendemmo inizialmente come le classiche esagerazioni della propaganda, quasi volgari nelle loro ripetizioni di cliché classici della disinformazione di guerra.
E in Europa occidentale erano numerosi coloro che magnificavano la «superiorità irresistibile» del «secondo esercito del mondo», criticando Volodymyr Zelensky per la sua «assurda e fallimentare» ostinazione a resistere, che tanti «lutti inutili» avrebbe portato al suo popolo.
Eppure, fu sufficiente parlare a inizio marzo con i civili ucraini sfollati da Bucha, Hostomel, Irpin e le altre zone occupate per comprendere che qualche cosa di importante non stava funzionando nella macchina militare di Putin. «Come si comportano i soldati russi con voi?», chiedevamo a donne, anziani e bambini. «Non ci hanno quasi considerati. Entrati in casa si sono precipitati in cucina a mangiare tutto il cibo che trovavano, si prendono vestiti caldi e coperte, rubano la benzina dai serbatoi», rispondevano di continuo.
Ma come era possibile? Solo a pochi giorni dall’inizio dell’attacco i soldati erano già così malridotti? Bande di affamati con le uniformi troppo leggere per i quasi meno venti gradi delle notti invernali? Sembrava irreale, ma non lo era.
Semplicemente era stato sconfitto in un bagno di sangue il blitz delle teste di cuoio ordito dal Cremlino per atterrare su Kiev, eliminare in poche ore Zelensky per insediare un governo fantoccio.
L’intelligence Usa aveva fornito ai comandi di Kiev le coordinate del piano russo e le loro squadre speciali, agili ed equipaggiate di missili terra-aria e sistemi di comunicazione satellitari di ultima generazione, avevano compiuto il miracolo.
Il fallimento russo si palesa dunque già a metà marzo. Da allora lo stato maggiore di Putin arranca, cerca di modificare i piani iniziali.
A fine marzo le colonne blindate lasciano Kiev per concentrarsi sul Donbass. Adesso il teatro è loro favorevole, fanno terra bruciata concentrando migliaia di cannoni e lanciarazzi. Aprile li vede avanzare, a metà maggio vincono gli ultimi nidi di resistenza a Mariupol. Putin rialza la testa. Ma è solo un’illusione di vittoria.
Già a luglio la sua avanzata nel Lugansk si ferma. Questa volta sono le armi americane a fare la differenza. Sono sufficienti una ventina di lanciamissili Himars per avere ragione di migliaia di cannoni russi. Nei prossimi anni sui mercati delle armi in tutto il mondo faranno da padrone i droni turchi Bayraktar, utilizzati magistralmente dagli ucraini, assieme agli Himars e probabilmente ai missili ucraini Neptune, che ad aprile affondarono l’ammiraglia Moskva nel Mar Nero.
Quasi certamente le azioni delle armi russe subiranno invece un tracollo. E, come ha notato tre giorni fa anche il direttore della Cia, William Burns, in meno di sette mesi Putin si è bruciato l’immagine di leader di una grande superpotenza tanto attentamente coltivata tra Siria, Libia e Africa nell’ultimo ventennio.
La perdita di Izyum pregiudica adesso l’intero assetto militare russo nel Donbass e potrebbe presto aprire la via al ritiro da Kherson. Qui la situazione è già pregiudicata grazie anche all’attività della guerriglia ucraina che ha spinto Mosca a rinviare il referendum sull’annessione previsto per l’11 settembre. Gli ucraini si dimostrano in grado di operare contemporaneamente su più fronti: i rovesci russi paiono destinati a continuare.
(da Il Coirriere della Sera)
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Settembre 11th, 2022 Riccardo Fucile
ITALIA VIVA ALLA CAMERA HA IL 60% DEGLI ELETTI CONTRO IL 40% DI CALENDA
In queste ore uno scenario elettorale agita i candidati di Carlo Calenda ed esalta quelli di Matteo Renzi: la possibilità che, il 25 settembre, i parlamentari eletti del Terzo Polo siano in maggioranza esponenti di Italia Viva rispetto a quelli di Azione.
Con una possibile conseguenza: che dopo le elezioni salti il patto siglato a inizio agosto tra i due leader di formare un unico gruppo parlamentare e Renzi possa lasciare Calenda al suo destino avvicinandosi a una delle due coalizioni. Diventando così l’ago della bilancia nei momenti decisivi della prossima legislatura.
Ieri il leader di Italia Viva ha minacciato la leader di Fratelli d’Italia: “Se c’è un governo Meloni io voto contro, ma le mando un messaggio: sappia che ogni due anni noi facciamo cadere un governo”.
Il motivo di questo probabile scenario deriva dal modo in cui Renzi e Calenda hanno deciso di distribuirsi collegi e posti nei listini plurinominali, incrociati con la mappa dei sondaggi in cui il Terzo Polo può ottenere buoni risultati e quindi eleggere uno o più deputati o senatori.
A questo si aggiunge un altro meccanismo (molto criticato e imprevedibile) della legge elettorale Rosatellum: nel caso delle pluricandidature, il parlamentare candidato in più circoscrizioni viene eletto nel luogo dove ha ottenuto meno voti facendo scattare il seggio per i secondi in lista.
Un meccanismo che, secondo due dirigenti di entrambi i partiti che preferiscono restare anonimi, potrebbe favorire più i renziani rispetto ai calendiani.
In base a questi fattori, fonti all’interno dei due partiti prevedono che alla fine Italia Viva possa avere più parlamentari di Azione.
A fronte di un patto che prevedeva una spartizione di collegi 50-50%, alla fine il rapporto tra gli eletti sarà favorevole ai renziani: 60% contro il 40% dei calendiani.
Se prendiamo la simulazione Ipsos di sabato per il Corriere della Sera, se il Terzo Polo arrivasse al 6,5%, eleggerebbe 26 parlamentari, di cui 17 alla Camera e 9 al Senato: a Montecitorio Italia Viva ne avrebbe 10 contro i 7 di Azione, al Senato invece i renziani eleggerebbero 5 parlamentari contro i 4 calendiani.
Questi numeri si ricavano incrociando i sondaggi riservati in possesso dei vertici dei due partiti secondo cui il Terzo Polo andrà meglio nel collegi delle grandi città del centro-nord: Torino, Milano, Firenze, Bologna e Roma.
Così, a Montecitorio, tra i renziani eletti ci dovrebbero essere i fedelissimi del capo: Francesco Bonifazi, Maria Elena Boschi, Ettore Rosato, Elena Bonetti, Mauro Del Barba, Lucia Annibali, Davide Faraone, Maria Chiara Gadda, Roberto Giachetti e Luigi Marattin.
Per Azione invece dovrebbero farcela Mara Carfagna, Enrico Costa, Matteo Richetti, Daniela Ruffino, Giuseppe Castiglione, Valentina Grippo e Fabrizio Benzoni.
A Palazzo Madama invece il rapporto tra gli eletti dovrebbe essere più equilibrato con 5 renziani e 4 calendiani: oltre a Matteo Renzi e Carlo Calenda, dovrebbero farcela Raffaella Paita, Lisa Noja, Teresa Bellanova e Daniela Sbrollini per Italia Viva; Mariastella Gelmini, Paolo Russo e Giusy Versace per Azione.
Se alla fine queste previsioni venissero confermate, Italia Viva avrebbe un gruppo parlamentare di 15 eletti contro i 10 di Azione. Una truppa non ingente, ma che potrebbe diventare decisiva in alcune fasi chiave della legislatura. Basti pensare che i senatori di Italia Viva, fondamentali per far cadere il governo Conte-2 a gennaio 2021, erano 18.
Indipendentemente da chi riuscirà a entrare in Parlamento, l’ipotesi di cui parlano sia Calenda che Renzi di arrivare al 10-12% e fermare il centrodestra al Senato è smentita dai fatti: il sito di fact-checking, Pagella Politica, ha analizzato quattro scenari possibili (dal migliore al peggiore per il Terzo Polo) e in nessun caso il tandem Azione-Italia Viva avrebbe i numeri per impedire alla coalizione di Giorgia Meloni di avere una larga maggioranza, anche a Palazzo Madama.
Nonostante questo ieri il leader di Azione ha ribadito che dare un voto al Terzo Polo è il miglior modo per “far tornare Draghi al governo”. E per lunedì ha affittato uno studio per fare un contro-dibattito rispetto a quello a due tra Meloni e Letta del Corriere della Sera.
(da il Fatto Quotidiano)
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Settembre 11th, 2022 Riccardo Fucile
UN DISCO ROTTO DA 28 ANNI
Non senza fatica, e all’inizio procedendo un po’ a scossoni, la macchina umana berlusconica e partita e nel presente assoluto della campagna elettorale cerca di regalarsi un pezzettino di futuro.
Macchina umana e non politica, perché dopo tanti anni e quasi impossibile capire quale politica abbia fatto il Cavaliere, a meno di identificarla in lui stesso, nella sua persona fisica, nella sua vita, nella sua maschera talvolta degradatasi in macchietta.
Lo si dice con problematico rispetto, tanto più nel paese della commedia e del melodramma, sia l’una che l’altro posti convenientemente al servizio dell’”arte del far credere” e quindi tali da avergli fatto vincere un record di elezioni (1994, 2001, 2008) salvandolo da altrettante sconfitte. Se non altro per questo s’impone un tot di prudente umiltà dinanzi al fatto, all’apparenza irreale, che da un mesetto in molte stazioni ferroviarie sono in funzione degli schermi che ripropongono pari pari il Berlusca di 28 anni fa oltre all’inno primigenio di Forza Italia.
A quel tempo l’attuale coordinatore elettorale Cattaneo aveva 14 anni, ma ancora gira l’antico “kit del candidato” con le medesime raccomandazioni pedagogiche destinate ai venditori Fininvest, essere gentili e presentabili, non distrarsi mentre si parla con gli elettori, niente barbe ne tatuaggi.
Nel frattempo riprende smalto, a suo modo, l’icona del fondatore, a partire dal sorriso e dalla calotta incatramata; peccato solo per la voce, ma il doppiopetto e lo stesso, idem la cravatta a pallini, la scrivania con le foto, il repertorio per catturare l’attenzione e farsi voler bene, tik-tok-tak muovendo la testa a mo’ di campana e poi accampando, con il consueto megaloistrionismo, il primato mondiale di visualizzazioni.
S’intende: tutto gia visto e stravisto, la parabola edificante “ho fatto tutti i lavori”, l’aneddoto dei manifesti per la Dc nel 1948, con il solito brivido per l’attacco comunista e la fuga da record mondiale; poi la barzelletta autoironica sull’aereo e quell’altra piccantella sui bidet a Gheddafi, il numero galante sul numero telefonico da chiedere alla bella ragazza.
Ecco, prendere o lasciare: sapendo pero che ogni volta, come in una fiaba o una leggenda l’intero pacchetto si arricchisce di qualche particolare inedito e fasullo, vedi l’altro giorno un incontro con De Gasperi e il part time come correttore di bozze al Corriere della Sera.
Non si cadra qui nella retorica del disco rotto, se non altro perche quando un disco rotto continua a girare cosi a lungo si e in presenza di un miracolo, altra parola tutta sua che prima o poi ci si aspetta verra fuori, cosi come un accenno alle zie suore, in numero variabile.
E per davvero non si vorrebbe farla troppo cervellotica, ma l’impressione e che il Berlusconi rimpipirinzito di questa fase si proponga ragionevolmente agli italiani come una loro abitudine; una presenza indispensabile, inconfondibile, insostituibile del paesaggio umano, prima che politico, di un intero popolo mai come oggi in bilico fra il vuoto di qualsiasi prospettiva di lungo periodo e il compiacimento della propria immutabilita.
Gia re Silvione I, anziano e decaduto, ma ancor piu patriarca, come veniva da pensare vedendolo presentare con ribalda innocenza l’onorevole fidanzata: «Guardate che bella signora!», per poi incoraggiarla, fra Carlo Dapporto e Luigi XVI: «Dai, su, togliti il mascherino!»- il mascherino!
Come programma: il Ponte sullo Stretto, un milione di alberi, il poliziotto di quartiere, il veterinario gratis, la dentiera e il reddito di cittadinanza «per i nostri genitori e nonni». Quanto tutto cio possa rendere in termini di voti finisce quasi per esulare dal lascito della lunga eta berlusconiana.
L’erosione, anche da parte della «signora Meloni», come ha preso a chiamarla dopo che per lui e stata «la Trottola», sembra verosimilmente compiuta. Ma il groviglio storico del berlusconismo resta qualcosa che va ben oltre la vittoria e la sconfitta in un turno elettorale.
(da agenzie)
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Settembre 11th, 2022 Riccardo Fucile
“DEGLI ADULTI MOLTO CATTIVI HANNO DECISO DI NON MANDARTI I SOCCORSI”
Comincia così il messaggio scritto su Facebook dall’attivista Nawal Soufi, da anni punto di riferimento in Sicilia della comunità siriana, che ha raccontato la fine straziante di Loujin, che a soli 4 anni ha perso la vita mentre si trovava a bordo di un barcone che dal Libano avrebbe dovuto trasportarla in Europa.
Insieme a lei la mamma e la sorellina di 1 anno, protagoniste dell’ennesima tragedia in mare. Da 10 giorni non c’era né cibo né acqua e alla fine la piccola non ce l’ha fatta.
“Scusami. Ce l’ho messa tutta, ma degli adulti molto cattivi hanno deciso di non mandarti i soccorsi – ha scritto ancora Nawal -. Scusami e sappi che il mio cuore batteva fortissimo ogni volta che mi richiamava quel turaya che avevate a bordo di quella barca. Adesso so quasi per certo, che altri due adulti sono ancora dispersi, perché caduti in acqua durante le operazioni di soccorso”.
Il barcone sul quale si trovava la bambina ha chiesto aiuto prima alle autorità delle zone Sar che ha attraversato, quella maltese prima e quella greca poi, ma anche ai tanti mercantili di passaggio. Tuttavia, nessun soccorso istituzionale ha risposto, nonostante i ripetuti appelli rilanciati dal centralino dei migranti Alarm Phone.
Quando, inviato dalle autorità greche, un mercantile ha soccorso la barca, per Loujin era troppo tardi.
È stato inviato anche un mezzo di elisoccorso ma tutto si è rivelato inutile. In gravi condizioni sarebbe anche Mira, la sorella minora di Loujin, che adesso è ricoverata per per aver bevuto troppa acqua di mare nel tentativo di vincere l’arsura.
(da Fanpage)
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Settembre 11th, 2022 Riccardo Fucile
UNA PRECISA ANALISI DI TUTTE LE CAUSE
Alla fine, è successo davvero. La attesa controffensiva ucraina è davvero iniziata, anche se dall’altra parte del Paese rispetto a dove la si attendeva: vale a dire nella regione di Kharkiv, occupata dai russi ad inizio marzo e dalla quale, secondo il piano originale di Mosca, sarebbe dovuto partire il grande attacco per accerchiare alle spalle il gruppo di armate ucraine nel Donbass.
Di questa offensiva, alla fine, non vi è mai stata traccia. Invece è arrivato a distanza di mesi il turno degli ucraini, che hanno macinato in pochi giorni decine di km per liberare territori con una velocità mai vista dopo i primissimi giorni di guerra, quando sembrava che l’avanzata russa fosse inarrestabile.
Praticamente tutti sono stati presi alla sprovvista di fronte al collasso repentino del fronte russo di Kharkiv, e chi dice il contrario mente. Ma come è stato possibile tutto questo? Cerchiamo di capirlo assieme.
Le premesse della controffensiva
Prima di questa settimana, ad eccezione della regione di Kherson (ne parleremo più dettagliatamente a breve), la situazione era in stallo praticamente su tutti i fronti. Dopo la caduta delle due città gemelle di Severodonetsk e Lysychansk ad inizio luglio nelle mani russe, non si sono verificate infatti più offensive di rilievo da parte russa.
Questo stallo è stato dovuto sostanzialmente a tre motivazioni.
In primo luogo, dalle alte perdite subite dai russi nella lenta e sanguinosa offensiva nella regione di Luhansk, partita a metà marzo, che hanno obbligato i russi stessi a dichiarare una pausa operativa subito dopo la conquista di Lysychansk.
Poi, dalla capacità ucraina di riuscire a ritirare con successo le proprie truppe, evitando che venissero intrappolate, e successivamente di mettere in piedi nuove linee difensive fortificate tra Bakhmut e Seversk in poco tempo, approfittando della pausa operativa.
Infine, dall’entrata in campo dei sistemi di lanciarazzi M142 High Mobility Artillery Rocket System (HIMARS) americani, che hanno permesso agli ucraini di rivoluzionare la situazione sul campo, togliendo ai russi uno dei loro principali vantaggi, ovvero quello dell’artiglieria.
In estrema sintesi, comunque, tutto dipende dal modo in cui i russi hanno gestito la logistica prima di allora.
Per consentire un costante afflusso di munizioni di artiglieria al fronte, il comando russo si era basato infatti su una serie di depositi di munizioni abbastanza vicini al fronte, ma non tanto da essere sotto la gittata diretta dell’artiglieria nemica.
Da questi depositi, ogni giorno partivano camion con le munizioni per arrivare diretti al fronte e rifornire le batterie di artiglieria russe che sono state il vero asso nella manica dei russi durante la battaglia del Donbass. L’arrivo degli HIMARS (con i missili GMLRS a guida satellitare che hanno una gittata massima di 80km) ha cambiato totalmente questo paradigma.
Anzitutto, gli ucraini grazie agli HIMARS sono stati in grado di distruggere decine di depositi di munizioni in pochi giorni, riducendo così immediatamente la capacità di rifornimento delle truppe al fronte. Ma soprattutto hanno costretto il comando russo a spostare più nelle retrovie (oltre 85km di distanza) i nuovi depositi di munizioni, riducendo così la velocità dei rifornimenti al fronte ed aumentandone contemporaneamente i rischi.
Tutto ciò ha avuto come ovvia conseguenza quella di rallentare drammaticamente le operazioni offensive russe (che si basavano principalmente sulla superiorità in termini di artiglieria). Il risultato è stato sostanzialmente lo stallo dei fronti di guerra che andava avanti sostanzialmente da due mesi.
Kherson: il successo della disinformazione ucraina
L’uso degli HIMARS ha avuto anche un altro importante effetto: quello di consentire di tagliare direttamente le vie di rifornimento russe nei salienti più complessi da difendere. Tra questi, in particolare, c’è la regione di Kherson, la cui peculiarità geografica è quella di essere l’unica testa di ponte sulla riva occidentale del Dnjepr occupata dai russi.
In quanto tale, le uniche vie di rifornimento di questa regione passano attraverso 3 ponti che permettono di attraversare il fiume in diverse zone della regione: a nord vicino alla diga di Nova Khakovka e più a sud vicino Kherson, il ponte Antonovksky ed un vicino ponte ferroviario.
Da metà luglio, continuando fino a questi giorni, gli ucraini hanno iniziato a bombardare senza sosta questi ponti con i propri HIMARS fino a renderli praticamente inagibili – ed anzi il ponte di Nova Khakovka è alla fine completamente crollato a causa degli impatti dei razzi GMLRS ucraini.
Il comando russo è stato quindi obbligato a cambiare in itinere la strategia per il rifornimento delle proprie truppe nella regione di Kherson, usando maggiormente pontoni e traghetti. Ma anche questi sono stati ripetutamente soggetti ai bombardamenti dell’artiglieria ucraina.
La strategia usata dagli ucraini lasciava chiaramente intendere che il comando delle forze di Kyiv volesse approfittare della situazione per lanciare una offensiva nella regione, sfruttando la dipendenza delle forze russe da questi attraversamenti per i propri rifornimenti.
Questa intenzione è stata poi ribadita a chiare lettere anche dai funzionari governativi ucraini, come ad esempio nella mattinata del 9 luglio, quando hanno iniziato a esortare i residenti della regione ad evacuare le loro case a causa “dell’imminente controffensiva ucraina”.
Ciò nonostante, per l’inizio dell’offensiva vera e propria si è dovuto attendere fino al 29 agosto, quando è stato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in prima persona ad annunciare durante il suo consueto messaggio serale l’inizio di una controffensiva su larga scala per riprendere il territorio occupato dalla Russia nel sud del Paese.
Il governo e l’esercito ucraino hanno subito imposto una stretta censura sui risultati di questa offensiva, anche se funzionari ucraini sotto anonimato, così come giornalisti occidentali e alcuni milblogger russi, hanno riferito che le truppe ucraine avevano nelle prime ore catturato diversi insediamenti a nord e a nord-ovest di Kherson, in particolare in una testa di ponte attraverso il fiume Inhulets.
Vista la minaccia crescente, il giorno dopo, la Russia ha iniziato a spostare un numero sempre più grande di truppe e mezzi militari verso la linea del fronte di Kherson per contrastare l’offensiva ucraina. In risposta, l’Ucraina ha intensificato gli attacchi ai punti di concentrazione russi, ai depositi di munizioni, ai ponti e ad altri obiettivi.
Dopo qualche giorno, comunque, l’euforia iniziale è scemata ed è sembrato evidente ai più che l’avanzata ucraina fosse in realtà molto lenta ed ogni avanzamento fosse ottenuto a duro prezzo a causa della tenace resistenza opposta dai russi.
Sui quotidiani occidentali sono iniziate ad apparire anche le prime notizie di decine di soldati ucraini ricoverati, alcuni in gravi condizioni, per le ferite subite nel corso della sanguinosa offensiva.
Intervistati, molti di loro hanno dipinto un quadro gramo della situazione: soldati sottoposti ad attacchi di artiglieria senza pietà da parte russa e costretti ad espedienti a causa della mancanza dei mezzi necessari per portare velocemente a termine l’offensiva.
Eppure, praticamente tutti continuavano ad esprimere (ove possibile) la voglia di tornare a combattere il prima possibile e di ritenere inevitabile la vittoria finale dell’Ucraina.
Anche il consigliere presidenziale Oleksiy Arestovych aveva lasciato intendere a questo punto che l’offensiva sarebbe stata “un’operazione lenta per schiacciare il nemico”, non una campagna rapida e massiccia come inizialmente ci si attendeva.
In realtà, come si è scoperto dopo, la tanto pubblicizzata offensiva ucraina nel sud del Paese è stata, in buona parte, una campagna di disinformazione per distrarre la Russia da una altra offensiva che si stava preparando all’insaputa di tutti nella regione di Kharkiv.
“L’agitazione mediatica intorno all’offensiva al sud è stata una campagna di disinformazione coordinata dall’Ucraina, rivolta alle forze russe, che si è sviluppata per diversi mesi, per provocare, con successo, la Russia a trasferire attrezzature e personale sul fronte meridionale, spostandolo da altre regioni, inclusa quella di Kharkiv”.
“Nel frattempo i [nostri] ragazzi a Kharkiv hanno ricevuto le migliori armi occidentali a nostra disposizione, soprattutto quelle americane”, ha ammesso Taras Berezovets, ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale ucraino, diventato ora portavoce della brigata Bohun delle forze speciali ucraine, in una intervista rilasciata al Guardian il 10 settembre.
Kharkiv: il blitzkrieg riuscito degli ucraini
Cosa abbiano fatto gli ucraini con queste armi, è presto detto. Il 6 settembre, dopo aver concentrato le proprie forze di nascosto a nord di Balakliya, una roccaforte russa, le truppe ucraine hanno lanciato una controffensiva nella regione di Kharkiv.
Le difese russe sono state prese completamente di sorpresa e non hanno avuto neppure il tempo di montare una seria difesa, che le truppe ucraine erano già penetrati in profondità.
Già dopo poche ore le Forze Armate ucraine avevano liberato Verbivka, a meno di 3 km a nord-ovest di Balakliya e da qui sono passate all’offensiva su più direzioni: Balakliya, Volokhiv Yar e Shevchenkove.
L’obiettivo ambizioso di questa offensiva era quello di raggiungere la città di Kupyansk, che si trova sulle rive del fiume Oskol, la capitale amministrativa della regione di Kharkiv occupata dai russi e snodo fondamentale delle vie di rifornimento russe in zona.
Occupare Kupyansk avrebbe significato, quindi, chiudere in un accerchiamento operativo il gruppo di 10 mila truppe russe (oltre quelle separatiste ed i mercenari) presenti ad Izyum da mesi.
Nonostante l’ambizione di questo piano sembrasse fuori dalla portata dell’esercito di Kyiv, il 7 settembre le forze ucraine erano già avanzate di circa 20 km nel territorio occupato dai russi, liberando circa 400 km quadrati di territorio e raggiungendo posizioni a nord-est di Izyum senza trovare sostanzialmente opposizione.
Il giorno dopo, vale a dire l’8 settembre, gli ucraini erano penetrati ancora più in profondità, raggiungendo una distanza di 50 km dalla linea del fronte precedente l’offensiva. Contemporaneamente, hanno preso il controllo della città di Balakliya, già completamente accerchiata da due giorni, catturando centinaia di prigionieri e mezzi militari russi alcuni dei quali ancora in buono stato.
Si è trattato di una vittoria doppiamente significativa considerando il fatto che nelle vicinanze della città gli ucraini hanno preso il controllo del più grande deposito di munizioni russe della intera regione di Kharkiv abbandonato (ancora pieno di armi) di fretta e furia dalle truppe russe in fuga.
L’avanzata è continuata con maggiore velocità il 9 settembre, quando le truppe ucraine che hanno raggiunto la periferia di Kupyansk e preso il controllo la cittadina di Shevchenkove che si trovava sulla strada.
A questo punto la situazione è diventata oggettivamente complicata per i russi tanto da costringere per la prima volta il Ministero della Difesa russa ad ammettere difficoltà nella regione di Kharkiv e a pubblicare un video mostrante i rinforzi russi inviati sia via terra che mediante elicotteri a Kupyansk ed Izyum per rafforzare le difese delle due città.
Ma in realtà era già troppo tardi. Con un attacco HIMARS gli ucraini erano infatti già riusciti a danneggiare il ponte stradale principale sul fiume Oskol, rendendo pressoché impossibile il rifornimento delle truppe russe che stavano cercando di impedire agli ucraini di entrare nella città di Kupyansk.
Per darvi una idea della velocità con la quale sono avvenute le cose, vi basti sapere che la sera del 9 l’Istituto americano per lo Studio della Guerra aveva dichiarato di ritenere probabile che Kupyansk cadesse nelle mani ucraine nelle successive 72 ore. In realtà già poche ore dopo, la mattina del 10 settembre, a Kupyansk sventolava la bandiera gialla e blu dopo il ritiro dei russi.
A renderlo noto per prima è stata una consigliera regionale di Kharkiv, Natalia Popova, che ha pubblicato su Facebook la foto dei soldati che tenevano una bandiera ucraina dinanzi al municipio cittadino, accompagnandola con la scritta: “Kupiansk è Ucraina. Gloria alle forze armate dell’Ucraina”.
Contemporaneamente, un altro gruppo di soldati ucraini, dopo aver sfondato nei pressi di Balakliya, ha raggiunto a sua volta il fiume Oskol a sud di Kupyansk il 9 settembre, tagliando così tutte le vie di comunicazione tra le retrovie ed il raggruppamento russo vicino a Izyum, che aveva cercato senza successo di avanzare verso Slavyansk nel Donbass per diversi mesi.
Da questo momento in poi il fronte russo è completamente collassato, con i soldati che sono letteralmente scappati da molte zone prima dell’arrivo dei primi reparti dell’esercito ucraino.
In particolare, nelle ore immediatamente successive alla liberazione di Kupyansk anche Izyum è stata evacuata dalle forze russe e gli ucraini sono riusciti così a liberare questa città chiave praticamente senza colpo sparare. Separatamente, più ad est, le truppe ucraine hanno anche attraversato il fiume Seversky Donets, in cui affluisce l’Oskol, da dove hanno raggiunto la città di Lyman.
Insomma, quella che inizialmente sembrava una ritirata ordinata si è trasformata con il passare delle ore sempre più in una vera rotta, stile Caporetto.
Dietro di sé i russi hanno lasciato migliaia di prigionieri ed enormi quantità di mezzi militari, munizioni, in una fuga precipitosa che a tratti ha raggiunto aspetti comici, come nel video subito diventato virale di un tank russo che nel fuggifuggi generale è finito a sbattere direttamente su un albero.
Come ha dichiarato nella serata del 10 settembre il presidente, l’esercito ucraino ha in totale riconquistato più di 2.000 km quadrati di territorio e l’esercito russo ha “preso la scelta giusta” decidendo di lasciare la regione di Kharkiv.
La reazione delle autorità russe alla catastrofe militare in atto è stata inizialmente quella di ignorare del tutto le notizie provenienti dalla regione di Kharkiv, con il presidente russo Vladimir Putin impegnato durante la giornata ad inaugurare ruote panoramiche e tenere discorsi per l’anniversario della nascita della città di Mosca.
Ma in serata anche il Ministero della Difesa russo ha dovuto alla fine ammettere che qualcosa non andava, sebbene usando queste particolari parole: “Al fine di raggiungere gli obiettivi dichiarati dell’operazione militare speciale per la liberazione del Donbass, è stata presa la decisione di raggruppare (ritirare, ndr) le truppe russe nelle aree di Balakliya e Izyum per aumentare gli sforzi nell’area di Donetsk”.
La enorme differenza esistente tra la realtà sul campo e le parole ufficiali del Ministero è stata oggetto di pesantissime critiche da parte dei commentatori russi su Telegram sempre più dubbiosi nei confronti della fallimentare strategia russa.
Alcuni hanno espresso chiaramente la propria insoddisfazione di fronte a questa spiegazione, arrivando persino affermare che le autorità sovietiche erano state più oneste nel 1942 quando avevano dovuto annunciare a loro volta il ritiro delle truppe sovietiche di fronte all’avanzata nazista proprio a Kupyansk.
Altri hanno definito il Ministero della Difesa russo come il Ministero della Sconfitta russo e paragonato le notizie in arrivo dalla regione di Kharkiv alla sconfitta di Tsushima nella guerra russo-giapponese del 1905, che da lì a poco sarebbe finita proprio con la sconfitta russa.
Perché il fronte russo a Kharkiv è crollato così repentinamente?
L’attuale controffensiva rappresenta indubbiamente il cambiamento più rapido nella linea del fronte in Ucraina da quando le truppe russe hanno abbandonato l’assedio di Kyiv e sono state costrette a ritirarsi dalla capitale e dall’Ucraina settentrionale all’inizio di marzo.
Ma soprattutto rappresenta un momento di svolta nella guerra in quanto dimostra che gli ucraini, per la prima volta dall’inizio dell’invasione militare russa, hanno assunto l’iniziativa. Questo significa che sono diventati loro a dettare l’agenda ed i tempi della guerra e non intendono mollare a breve questo vantaggio.
Ma come è stato possibile tutto ciò? Ci sarà modo di discutere in dettaglio quanto successo in questi giorni nelle prossime settimane e mesi, con retroscena e analisi molto più dettagliate di questa, ma a caldo è già possibile fare alcune valutazioni.
L’elemento sorpresa
Anche grazie alla campagna di disinformazione accennata in precedenza, è stato possibile prendere totalmente alla sprovvista le forze russe che, almeno in questa zona, non si attendevano certo una controffensiva di queste dimensioni.
Il fatto che ciò sia stato possibile nel 2022, con tutte le capacità a disposizione degli eserciti per spiare i movimenti del nemico, è davvero degno di nota e merita una analisi a parte quando si verrà a conoscere maggiormente i retroscena che hanno portato a questa offensiva.
Per ora tutto ciò che si può fare è prendere atto di ciò che è successo: si è trattato indubbiamente di uno dei più grandi fallimenti della storia dell’intelligence militare russa che Mosca sta già pagando amaramente.
La mancanza di personale dei russi
Questo è un problema di cui si è parlato già più volte in precedenza. I russi non hanno abbastanza personale militare per controllare tutto il territorio in loro possesso in Ucraina. Il Cremlino lo sa benissimo, eppure non intende dichiarare la mobilitazione generale, l’unico modo per risolvere alla radice il problema.
Ciò significherebbe infatti assumersi rischi politici molto elevati — al momento i morti tra i soldati provengono in gran parte dalle zone più povere del Paese, mentre con la mobilitazione generale finirebbero per andare al fronte anche i figli delle famiglie delle grandi città, con il rischio di aumento del malumore popolare proprio dove conta maggiormente.
Come hanno affermato molti corrispondenti occidentali in estate, a prima vista Mosca non sembra proprio la capitale di un Paese in guerra. L’operazione militare in corso in Ucraina è lontana dalla mente dei cittadini della capitale, e questo è un elemento critico per il successo della politica del Cremlino, in quanto allontana il rischio di pericolose proteste di massa contro la guerra.
Di conseguenza la strategia di Putin per far fronte al problema è stata finora quella di effettuare una “mobilitazione ombra” creando battaglioni si volontari e soprattutto appoggiandosi come “carne da cannone” sui mercenari di PMC Wagner (reclutati anche nelle carceri) e sulle persone mobilitate a forza dai territori occupati dell’Ucraina.
Ma proprio questa ultima cosa è stata una delle principali debolezze sfruttate dagli ucraini nella regione di Kharkiv: infatti buona parte delle truppe presenti sulla linea del fronte al momento dello sfondamento degli ucraini a nord di Balakliya era costituita proprio da personale mobilitato con la forza nelle Repubbliche separatiste.
Come già accaduto in precedenza in altre zone del Paese (ma su scala minore), queste truppe, poco motivate e per nulla abituate al combattimento in prima linea, non appena sono finite sotto il fuoco dell’artiglieria nemica hanno abbandonato la propria postazione senza pensarci due volte.
Il risultato di questa disastrosa scelta è stato il collasso pressoché immediato della prima linea che ha esposto il grosso delle truppe russe presenti in zona a pericolosi attacchi sui fianchi, costringendo quindi anche loro alla fuga precipitosa per salvarsi la vita.
Le diverse tattiche dei due comandi
A guidare l’assalto ucraino nella regione di Kharkiv è stato il generale Oleksandr Syrskyi, già leggendario comandante della difesa di successo di Kyiv durante la prima fase della guerra a marzo. È stato lui ad avere l’idea dell’attacco verso Kupyansk nel tentativo di tagliare dai rifornimenti l’intero gruppo russo ad Izyum e cercare di ottenere il collasso dell’intero fronte.
Si è trattato indubbiamente di un piano ambizioso, ma allo stesso tempo ben progettato e perfettamente implementato, tanto è vero che si è dimostrato essere un clamoroso successo.
Di converso la tattica del comando russo è stata caratterizzata da un elevato tasso di incompetenza che ha impedito loro di rendersi conto velocemente di cosa stesse succedendo e cercare di tappare il buco creatosi, spostando velocemente delle riserve a copertura delle zone più vulnerabili prima che gli ucraini fossero in grado di penetrare così in profondità.
Si è trattato solo dell’ultimo di una lunga lista di errori commessi da parte dei comandanti militari russi, che si sono susseguiti durante tutto il corso dell’invasione russa e che probabilmente hanno già danneggiato in maniera irrecuperabile le chance russe di vittoria.
Le armi (e le sanzioni) occidentali
Il ruolo delle armi occidentali è stato sicuramente essenziale nell’ottenere questa vittoria. Tralasciando gli HIMARS, del cui ruolo chiave abbiamo già ampiamente parlato, occorre notare che in questa offensiva gli ucraini hanno usato (e soprattutto hanno dimostrato di farlo molto bene) mezzi ed armi fornite dagli occidentali negli ultimi mesi.
Parliamo ad esempio di Humvee ed obici M777 di provenienza americana e di Panzerhaubitze 2000 forniti dalla Germania che sono stati visti in azione in diversi video pubblicati in questi giorni provenienti dalla regione di Kharkiv.
Come ha spiegato su Twitter il consigliere presidenziale Mykhailo Podolyak: “Cosa dice al mondo l’efficace controffensiva ucraina? Che l’Ucraina ha la capacità di riprendersi il territorio occupato e che non ci sarà un congelamento di questo conflitto”. Soprattutto, l’Ucraina “ha dimostrato di poter utilizzare efficacemente le moderne armi occidentali” per ottenere questo risultato, ha affermato Podolyak.
Anche le sanzioni imposte dall’Occidente hanno avuto il loro effetto, seppure indiretto, sulla capacità militare russa. A causa di tali sanzioni, infatti, i russi hanno sempre maggiori problemi ad acquisire sia munizioni di artiglieria ed armi basilari, che missili di precisione e carri armati di ultima generazione.
Il risultato è che sono spesso i soldati russi sono costretti a combattere con equipaggiamento datato e questo non fa altro che peggiorare la loro già scarsa produttività militare sul campo di battaglia. Chiunque chiede di porre fine alle sanzioni o alla fornitura di armi militari occidentali a Kyiv dovrebbe tenere a mente tutto questo.
La motivazione
Ultimo aspetto, ma non per importanza, è quello della motivazione, fattore che è sempre fondamentale in guerra. Gli ucraini hanno motivazioni molto chiare per combattere e sopportare le sofferenze legate alla guerra: stanno difendendo il proprio Paese, la propria libertà e la propria indipendenza da chi li vuole annettere e nega la loro stessa esistenza come popolo separato dai russi.
La scoperta dei massacri dei civili a Bucha ed Irpin, così come i tanti crimini commessi dai soldati di Mosca dall’inizio di questa guerra non ha fatto altro che compattare il popolo ucraino dietro questa battaglia.
Le immagini di questi giorni mostrano come, anche in zone ad alta densità di popolazione russofona, i soldati ucraini siano stati accolti come liberatori da coloro che hanno dovuto subire mesi di dura occupazione russa e questa è forse la dimostrazione più evidente del fallimento strategico russo in questa guerra.
Sul web è inoltre sempre più facile vedere video di soldati ucraini che tornano dal fronte che vengono abbracciati dalle proprie mogli e madri che avevano paura di averli perduti per sempre, accompagnati dalla didascalia “ecco per cosa combattiamo”.
Ebbene, si può dire lo stesso dei russi? In che modo si può spiegare ai genitori o ai parenti di un soldato russo morto perché il proprio caro sia morto su terra straniera, per una guerra che viene combattuta in un Paese che avrebbero dovuto accoglierli come “liberatori dal nazismo” e che invece li odia sempre di più ogni giorno che passa?
La risposta a questa domanda renderà chiaro il motivo per cui molti soldati russi abbiano deciso di lasciare la propria postazione senza neppure cercare di controbattere di fronte all’avanzata ucraina.
Ed ora cosa può accadere?
La testa di ponte di Lyman creata negli ultimi giorni al di là del Seversky Donets potrebbe essere utilizzata dall’esercito ucraino (subito o in futuro) per raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi: un’offensiva in profondità per riconquistare le zone della regione di Luhansk perse a metà estate – a Svatove e Starobelsk od addirittura fino a Rubizhne e Severodonetsk.
Un’altra idea (meno ambiziosa) per l’esercito ucraino è quella di continuare a spingere le truppe russe fuori dalla regione di Kharkiv, spingendo da Kupyansk verso la vicina città di Volchansk e l’insediamento di Velyky Burluk che si trova vicino al confine russo-ucraino.
L’unica speranza del comando russo è che l’offensiva ucraina si esaurisca da sola più si allontana dalla base di partenza nei pressi di Chuguev, e che il Ministero della Difesa russo – grazie alle le riserve e le truppe ritirate dai pressi di Izyum – sia in grado di creare una solida linea difensiva sulla riva orientale dei fiumi Oskol e Seversky Donets.
A tal fine, nel breve termine, la Russia deve fermare a tutti i costi l’espansione della testa di ponte ucraina nei pressi di Lyman prima che si espanda troppo.
Allo stesso tempo, però, guardando più in là dell’immediato, esistono probabilmente molti altri punti deboli sul fronte che l’Ucraina potrebbe sfruttare come ha già fatto magistralmente nella regione di Kharkiv.
La Russia ha infatti troppe poche forze a disposizione in prima linea per controllare un fronte di migliaia di chilometri, e le riserve che l’Ucraina è riuscita ad accumulare durante l’estate non si sono affatto esaurite, così come le forniture delle armi occidentali necessarie per effettuare nuove offensive di questa portata.
Il Ministro della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov si dice perciò ottimista e ritiene che la guerra non durerà a lungo:
“Sono convinto che basta ancora qualche successo al fronte come vittorie certe, per quanto piccole, e le truppe russe fuggiranno… e lo faranno, credetemi, perché oggi stiamo distruggendo le loro catene logistiche, i magazzini e così via. E ci si chiederà: dove andranno? E il morale… sarà come una valanga: una linea di difesa dopo l’altra vacillerà e cadrà”.
Reznikov aggiunge che i russi “non hanno morale, motivazioni per cui combattere”. “Noi invece stiamo difendendo il nostro Paese, la nostra famiglia e la nostra terra, abbiamo una morale completamente diversa. Non abbiamo altra scelta, dobbiamo sopravvivere come nazione, popolo, Paese e popolo”. Sono parole sacrosante.
Da parte sua, Mosca è sempre più in vicolo cieco. Le alternative per Putin a questo punto sono allo stesso tempo poche e pessime: la prima è quella che viene chiesta a gran voce dall’ala più dura dei nazionalisti russi su Telegram, ovvero la dichiarazione ufficiale di guerra all’Ucraina, con conseguente mobilitazione generale per mandare immediatamente al fronte centinaia di migliaia di coscritti (soldati di leva) e potenzialmente milioni di riservisti.
Questa soluzione, come abbiamo già visto, porrebbe serie controindicazioni dal punto di vista politico. Inoltre, non aiuterebbe a risolvere (ed anzi paradossalmente peggiorerebbe) il secondo grave problema che i russi hanno, ovvero la mancanza di munizioni ed armi moderne e di alta precisione.
La seconda alternativa – che apparentemente sembra essere al momento seguita dalle autorità russe – è quella di ritirarsi dalla regione di Kharkiv (e forse in futuro anche dalla regione di Kherson che resta altrettanto complicata da difendere) per dedicarsi a difendere il possibile sia nel Donbass che nelle zone occupate del sud dell’Ucraina.
Tutto questo per prendere tempo, sperando che nel frattempo la ‘fatica occidentale’ e la crisi energetica si facciano sentire, costringendo i Paesi occidentali a porre fine al proprio supporto per Kyiv (che ho già definito più volte come il vero “tallone di Achille per Kyiv”) e costringere l’Ucraina a scendere a patti alle condizioni di Mosca.
Infine, la terza soluzione, che il sottoscritto considera come più auspicabile ma allo stesso tempo anche la meno praticabile, è che i russi capiscano una volta per tutte che non hanno alcuna possibilità di vincere questa guerra, e pongano fine a questo insensato bagno di sangue ritirandosi dai territori occupati per aprire seri negoziati di pace.
Il punto è che questo sarebbe inaccettabile per Vladimir Putin, che ha messo in gioco il suo stesso futuro personale sull’andamento di questa guerra e non può più permettersi di fare marcia indietro pena la sua fine politica — e forse della stessa Federazione Russa come la conosciamo.
La verità è questa guerra è stata basata sin dall’inizio sulle menzogne, iniziando dal fatto stesso che i russi hanno invaso un Paese proclamando ufficialmente una “operazione militare speciale” per difendere le Repubbliche del Donbass da una presunta aggressione ucraina invece di riconoscere la realtà per quella che è, ovvero una guerra di annessione su larga scala.
“I nostri segreti, le nostre menzogne. Sono esattamente ciò che ci definisce. Quando la verità ci offende, noi mentiamo e mentiamo fino a quando nemmeno ricordiamo che ci fosse una verità, ma c’è, è ancora là. Ogni menzogna che diciamo, contraiamo un debito con la verità”, affermava Valery Legasov, interpretato magistralmente da Jared Harris, nella serie Tv Chernobyl per spiegare il motivo del disastro nucleare.
La Russia di oggi di Vladimir Putin così come l’Unione Sovietica del 1986 (ed altre dittature di oggi) è un Paese che continua ad essere fondato sulla menzogna, la paura di dire la verità ai potenti, la corruzione che permane tutta la società e la totale incompetenza al potere. La débâcle militare russa nella regione di Kharkiv è il logico risultato di tutto questo.
Come disse Winston Churchill, qualcuno che l’orrore della guerra e del totalitarismo lo conosceva molto bene, in un discorso alla Camera dei Comuni del novembre 1947, “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Faremmo bene a tenere sempre a mente queste sagge parole.
(da Fanpage)
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Settembre 11th, 2022 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DEL COPASIR ADOLFO URSO SI STA FACENDO IN QUATTRO PER ACCREDITARE “DONNA GIORGIA” ALL’ESTERO: “RIAFFERMIAMO LA POSIZIONE ATLANTICA DELL’ITALIA”
È il garante della geopolitica di Giorgia Meloni. È appena rientrato da Kiev, dove ha incontrato i vertici del governo e del Parlamento dell’Ucraina. Ha fatto sosta a Varsavia per parlare con il viceministro degli Esteri polacco.
Domani atterra a Washington, dove lo attendono confronti con membri del Congresso delle due sponde politiche, incontri pubblici e riservati con think tank sia di sinistra che di destra, in tutto oltre una ventina di meeting in 48 ore.
Obiettivo: illustrare il programma di Meloni agli americani, rimarcare la continuità con gli impegni del governo Draghi.
Adolfo Urso, lei è in cima alla lista dell’inner circle di Meloni, è presidente del Copasir, ha collaborato in modo stretto con Draghi su tutti gli aiuti militari a Kiev. Cosa va a fare a Washington?
«Vado a illustrare la nostra posizione in politica estera, di difesa e di sicurezza. E a riaffermare la posizione atlantica dell’Italia e il sostegno all’Ucraina nel fronteggiare la minaccia russa. Ma anche sollecitare la solidarietà americana nel fronteggiare l’emergenza energetica anche con misure di compensazione per i Paesi come l’Italia che subiscono le maggiori conseguenze economiche. Infine a cercare di evidenziare l’importanza di sviluppare una politica comune per contrastare la guerra ibrida permanente, come l’ha definita Macron, dei sistemi totalitari di Russia e Cina nei confronti dell’Occidente. E per questo sollecitare una maggiore attenzione nei confronti del Mediterraneo e dell’Africa. È in Africa che si vince la sfida tra Oriente e Occidente».
È un’agenda quasi sterminata…
«Indubbiamente, è ormai chiaro a tutti, ma è bene ribadirlo in tutte le sedi, che l’Italia continuerà ad essere un anello forte della coalizione dei nostri alleati di fronte alla crisi ucraina e alle sfide strategiche alle quali siamo chiamati come membri sia della Ue che dell’Alleanza Atlantica. Ovviamente dirò che nella fase di transizione, che potrà durare anche due mesi, garantiremo gli stessi impegni presi dal governo Draghi, dalle sanzioni a tutto il resto, compresi gli aiuti militari. Non a caso mentre ero a Kiev mi sono sentito con il ministro della Difesa Lorenzo Guerini che era al vertice di Ramstein in Germania».
Insomma garanzie di politica estera, di politica di difesa e di sicurezza, e più in generale di collocazione geopolitica. Nei suoi incontri americani ha in agenda anche colloqui sulla Cina?
«È inevitabile, sarebbe strano il contrario. Fratelli d’Italia ritiene che sia stato un grande errore la firma del memorandum sulla Via della Seta fra il governo italiano e quello cinese, sotto il governo di Giuseppe Conte. Altresì siamo convinti che se la Russia è una minaccia gravissima, lo è soprattutto a livello regionale: la Cina invece è una sfida sistemica globale, uno Stato che ha ambizioni di primato mondiale, che tende a sviluppare sempre più i propri interessi sia nel Mediterraneo che in Africa. Sono sfide che non possono essere ignorate».
A cosa è servito il viaggio a Kiev?
«Ho avuto l’onore di incontrare i vertici dello Stato nel suo complesso, compreso il ministro degli Esteri Kuleba. Ho ribadito il pieno sostegno dell’Italia alla resistenza Ucraina. Sostegno che non risentirà della situazione politica transitoria legata alle elezioni, e che caratterizzerà anche il futuro governo nel pieno rispetto delle posizioni europee e atlantiche del nostro Paese».
(da il Corriere della Sera)
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Settembre 11th, 2022 Riccardo Fucile
UNA RICERCA CONDOTTA PER QUATTRO ANNI SU 4 MILIARDI DI TWEET RIVELA CHE I POST PIÙ VIOLENTI VENGONO PUBBLICATI IN COINCIDENZA CON TEMPERATURE ESTREME: SOPRATTUTTO OLTRE I 40 GRADI (MA ANCHE AL DI SOTTO DELLO ZERO)
I delitti estivi hanno una versione ridotta sui social: sono i piccoli delitti su Twitter, fatti di messaggi violenti, razzisti, d’odio, che registrano un picco con l’aumentare delle temperature. Oltre i 42 gradi, la gente tende a riversare ancora di più il disagio usando i social per scaricare rabbia e rancore.
È quanto emerge da un’indagine scientifica condotta negli Stati Uniti per quattro anni, e i cui risultati sono stati pubblicati dalla rivista medica The Lancet Planetary Health.
Attraverso l’uso di algoritmi, gli studiosi hanno analizzato quattro miliardi di tweet geolocalizzati negli Stati Uniti tra il 1° maggio 2014 e il 1° maggio 2020, individuando 75 milioni di post violenti, scritti in inglese e provenienti da 773 città americane. I ricercatori hanno scoperto che il numero di messaggi d’odio si riduceva drasticamente quando la temperatura del posto da cui venivano scritti era mediamente tra i 15 e i 18 gradi, ma poi, in concomitanza con l’aumento del calore, tra i 42 e 45 gradi, si impennava fino al 22 per cento.
In realtà, i toni si infiammano non solo quando la temperatura sale ma quando è estrema. Un picco del 12 per cento di tweet aggressivi è stato registrato in inverno, con temperature sotto i -3 gradi, cioè quando le persone si trovano fuori dalla loro “comfort zone”, la situazione in cui si sentono più protetti. Il troppo caldo o il troppo freddo scatenano nevrosi che si riversano sui social. E la statistica si è fermata prima che la pandemia da Covid costringesse milioni di americani a restare chiusi in casa.
Per non ridurre i dati a pura curiosità statistica, servirebbe che le piattaforme li usassero per rendere più efficaci i controlli sui contenuti, utilizzando gli stessi algoritmi per identificare in tempi rapidi i contenuti violenti, che poi producono effetti a catena. Ma non c’è molto ottimismo. A giugno Facebook ha ricevuto critiche per aver mancato di individuare messaggi d’odio scritti in lingue che non fossero l’inglese, e per non aver bloccato annunci pubblicitari che rilanciavano notizie false. L’odio alimenta interazioni e piace agli inserzionisti, dunque porta soldi alle piattaforme.
Ma con un costo alto per gli utenti. Passare dall’autore di un post a bersaglio degli haters può essere un attimo: secondo un sondaggio di Pew Research quattro americani su dieci sono stati colpiti da messaggi d’odio, che possono generare stati d’ansia e depressione fino a mettere in pericolo la propria vita. “Essere bersaglio dell’odio online – ha spiegato al Guardian Annika Stechemesser, scienziata esperta di impatto climatico – è una seria minaccia per la salute mentale delle persone. Gli studi di psicologia ci dicono che l’odio online può aggravare le condizioni mentali specie tra i giovani e i gruppi emarginati”.
Una ricerca delle Nazioni Unite ha evidenziato come tre quarti delle donne, in tutto il mondo, hanno detto di essere state bersaglio di messaggi violenti. Un afroamericano su quattro ha ricevuto offese razziste.
Twitter è stato scelto dai ricercatori perché è usato da un americano su cinque e perché molti tweet indicano la provenienza geografica. Davanti a un messaggio d’odio, potremmo dare una rapida occhiata alla temperatura del posto da cui un hater scrive, spesso nascondendosi dietro un nickname, e trovare conferma che non c’è niente di sbagliato in noi. È il tempo.
(da La Repubblica)
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Settembre 11th, 2022 Riccardo Fucile
IL SILLOGISMO È DEBOLE POICHÉ PARTE DALLA PREMESSA CHE GLI ITALIANI PENSANO… E I POLITICI, INSEGUENDO LE OPINIONI DEI SONDAGGI, SONO UBRIACHI DI RIFLESSO
I sondaggi sono quella cosa che serve a sapere cosa pensano gli italiani in maniera da permettere ai politici di allinearsi. Il sillogismo è debole poiché parte dalla premessa che gli italiani pensano.
La pubblicazione dei sondaggi è vietata, ma non saranno vietati i sondaggi a uso privato e comunque nei talk e nei giornali si trova sempre il modo di parlare dei sondaggi senza dire che si sta parlando dei sondaggi. Io che frequento i bar delle stazioni di servizio so come nascono le opinioni che poi confluiranno nei sondaggi: esse prendono forma tra le 18,30 e le 20,00 quando ci si riunisce al bar per strafarsi di birrette e vecchia romagna in maniera da riuscire a rincasare dalle mogli in stato quantomeno comatoso per riuscire a sopportare la sola vista della consorte.
La consorte invece è rincasata ubriaca da prima poiché l’orario dell’alcolismo della consorte è anticipata al momento in cui si vanno a prendere i figli allo sport o al doposcuola. Lo scenario non cambia di parecchio se ci si ubriaca a morte dopo la presentazione di un libro o una mostra d’arte.
I politici, in buona sostanza, inseguendo le opinioni dei sondaggi, sono ubriachi di riflesso: si comportano da ubriachi anche se non hanno toccato alcol.
Detto in termini meno alcolici possibile i sondaggi poggiano su due princìpi: bandwagon e FOMO. Il bandwagon è l’effetto secondo cui l’italiano è portato d’istinto, senza alcun ragionamento, senso di giustizia, sillogismo, percezione di causa-effetto o semplice buon senso a salire sul carro del vincitore.
Un esempio: l’italiano è sovente d’accordo con il capoufficio che lo maltratta. Io chiamo il bandwagon l’effetto “Fantozzi”.
FOMO è invece un acronimo che sta per “fear of missing out”, la paura di essere tagliati fuori. Amplificata dalla bolla imposta dagli algoritmi dei social (secondo i quali ci vengono proposti argomenti e argomentazioni simili a quelli che già abbiamo) è una paura secondo la quale non pensandola come gli altri potremmo essere esclusi dal ricevimento di quel battesimo o dalla festa di quel prediciottesimo, dalla presentazione di quel libro, da quel vernissage, o dal più importante tra gli eventi sociali: i funerali. E’ un po’ come la tifoseria, ma meno intelligente.
Allo stesso modo il politico soffre della paura di non pensarla come i suoi elettori, anche se i suoi elettori sono ripugnanti.
I sondaggi creano un pensiero non politico ma letteralmente delirante. Ne deriva che un politico, per avere successo, non deve avere un pensiero, deve limitarsi a essere un contenitore capace di accogliere fregnacce.
Mi sembra che la classe politica italiana sia all’altezza di questo compito. Per questo motivo, quando sento parlare di “poteri forti”, come si dice, metto mano alla pistola.
L’unico vero potere forte siete voi, la vostra opinione e il vostro consenso, che non nasce da un pensiero ma da una marmellata di frattaglie di sentito dire. Non potete neanche fare autocritica: nello stesso momento in cui volgete lo sguardo verso voi stessi, ecco, voi non ci siete più.
(da La Sicilia)
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Settembre 11th, 2022 Riccardo Fucile
“C’E’ UN PROBLEMA LOGISTICO MOLTO SERIO PER I RUSSI”
«Gli eventi si sono sviluppati con una rapidità davvero sorprendente – dice l’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare e della Difesa e ora candidato alla Camera per Azione – Sabato c’è stata questa offensiva che ha costretto le truppe russe a ritirarsi, secondo Mosca si ritirano per riorganizzarsi secondo Kiev perché sono allo sbando. Le cartine geografiche che sono state pubblicate ci dicono di una avanzata importante, tale da aver liberato una città come Izyum che costituiva una delle conquiste più importanti dell’armata russa nei primi giorni del conflitto. Segna una differenza anche perché era il fulcro del supporto logistico delle truppe russe nell’area. Adesso c’è un problema logistico molto serio per i russi’».
Per Camporini a questo punto tra le linee avanzate ucraine e la frontiera russa c’è rimasto ben poco. Sarebbe folle per gli ucraini arrivare alla frontiera russa e varcarla però dal punto di vista emozionale può fare veramente impressione
«Altra notizia che mi ha colpito è quella dei combattimenti che sarebbero cominciati ieri nell’aeroporto di Donetsk che fu teatro di una battaglia durissima nel 2014-2015 tra le forze ucraine e i ribelli del Donbass, allora pesantemente supportati dagli ‘omini verdi’ di Mosca. L’eventuale riconquista di questo aeroporto non solo avrebbe un significato emozionale molto forte ma metterebbe definitivamente nel dimenticatoio l’ordine che avrebbe ricevuto l’armata russa di conquistare entro il 15 di settembre tutto il Donbass».
(da agenzie)
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