Settembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
FDI 25,8% (+1%), PD 21,4% (- 0,9%), LEGA 12,1% (-0,4%), M5S 11,9% (+0,3%), AZIONE-ITALIA VIVA 7,2% (+ 0,4%), FORZA ITALIA 6,7% (-0,3), VERDI-SINISTRA 4,2% (+0,2%), ITALEXIT 3,1% (-0,3%), + EUROPA 1,9% (+0,3%), NOI MODERATI 1,5%, IMPEGNO CIVICO 1,3%, UNIONE POPOLARE 1,2%
Aumenta il divario tra Fratelli d’Italia e Partito democratico.
Secondo l’ultima proiezione di Swg, il partito di Giorgia Meloni ha conquistato un punto percentuale rispetto al 29 agosto arrivando, così, al 25,8%.
Opposto è l’andamento del Pd di Enrico Letta, che invece perde quasi un punto intero passando dal 22,3% al 21,4%.
Per quanto riguarda le altre forze di centrodestra, entrambe sono date in calo.
Forza Italia, infatti, passa dal 7% al 6,7% (quindi -0,3%) mentre la Lega scende dal 12,5% al 12,1%.
Sempre più incalzato, quindi, Matteo Salvini dal Movimento 5 Stelle che, al contrario, è in risalita: ora all’11,9%.
Nel centrosinistra, invece, crescono sia l’Allenaza Verdi-Sinistra (+0,2%), sia +Europa (+0,4%) sia Impegno civico (+0,1%). Cresce anche Azione-Italia Viva che ha superato il 7%.
(da agenzie)
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Settembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO “GLOBAL ATTRACTIVENESS INDEX” PRESENTATO A CERNOBBIO: “I BASSI SALARI IN ITALIA NON SONO GIUSTIFICATI DA UNA MINOR PROFITTABILITÀ DELLE IMPRESE”… GLI IMPRENDITORI SPENDONO MOLTO MENO PER I DIPENDENTI RISPETTO AL RESTO D’EUROPA E GLI STIPENDI SONO FERMI DA 30 ANNI
Salari fermi, croce dei lavoratori, ma redditività elevata, delizia per le imprese. Il mercato del lavoro italiano, sotto pressione da decenni, oggi deve cambiare rotta. Anche perché a risentirne è l’attrattività del Paese.
Uno dei rapporti più discussi del forum The European House-Ambrosetti di Cernobbio è stato quello sui lacci e lacciuoli dell’economia italiana. Distorsioni e squilibri sono tali da disincentivare l’entrata dei giovani sul mondo del lavoro domestico. Meglio l’estero, nella maggior parte dei casi
La prima evidenza del report lascia l’amaro in bocca. «I bassi salari in Italia non sono giustificati da una minor profittabilità delle imprese», fa notare il Global Attractiveness Index targato 2022.
Da un lato, «il valore aggiunto medio per dipendente è in Italia pari a 69,2 mila euro, un valore allineato ai Paesi Ocse (in Spagna è pari a 52,2 mila euro, in Germania è pari a 66,2 mila euro e in Francia è pari a 71,1 mila euro) e alla media dei Paesi Ue (60,7 mila euro)».
Ma dall’altro lato, «la remunerazione del capitale nelle imprese italiane è più alta rispetto al campione di riferimento».
In Italia il rapporto tra risultato lordo di gestione e valore aggiunto lordo, un indicatore che cattura la remunerazione del capitale nelle imprese, è pari a 42,1%, una quota superiore alla media europea dello 0,5%, dello +1,1% rispetto alla Spagna, +3,2% rispetto alla Germania e +7,8% rispetto alla Francia.
Ne deriva che nel nostro Paese «le imprese spendono meno per la remunerazione del lavoro rispetto ai principali concorrenti internazionali».
Nel 2019 «la quota parte dei costi di produzione delle imprese destinata agli stipendi dei propri dipendenti nelle imprese italiane si attesta a 18,6%, una quota minore del 6,3% inferiore rispetto alle imprese spagnole, del 7,1% alle imprese tedesche e di 8,2% rispetto a quelle francesi».
Seconda evidenza? Gli stipendi, in Italia, sono inferiori rispetto alla media del resto dei Paesi Ocse.
Nello specifico, «a parità di potere di acquisto, i salari italiani risultano equiparabili solo a quelli spagnoli, mentre risultano inferiori, tra gli altri confronti, di 8.181 euro rispetto a quelli francesi, di 15.226 euro rispetto a quelli tedeschi e pari al 55,4% rispetto a quelli degli Stati Uniti».
E a domanda precisa, Peter Bofinger, membro del Consiglio degli esperti della Cancelleria tedesca risponde: «Con questa inflazione nell’eurozona tutto è più difficile». Questo perché «c’è il rischio che i lavoratori comprendano che gli attuali squilibri possano rendere l’inflazione strutturale. Questo è un problema da risolvere».
E rilancia: «Se hai un aumento del salario nominale del 6%, i lavoratori possono essere felici se di fronte hanno fiammate dei prezzi così elevate». Parole condivise dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che durante un incontro a margine del forum di Villa d’Este, ha sottolineato che «occorre lavorare sui salari, e in particolare sui salari minimi».
Già, perché la terza evidenza del rapporto è quella più controversa.
La dinamica dei salari in Italia è rimasta bloccata negli ultimi 30 anni, segnalando un mancato sviluppo reale del Paese in termini di potere d’acquisto dei lavoratori. La crescita reale dei salari nel trentennio è in Italia pari al 3,4%, posizionando l’Italia penultima tra i Paesi Ocse e prima solo del Messico.
La crescita dei salari in Italia, tra gli altri confronti, è stata pari alla metà della crescita registrata in Spagna, un decimo rispetto a quella tedesca e un undicesimo rispetto a quella francese e alla media Ocse.
Alla luce di inflazione persistente e crisi energetica, agire sulla riduzione delle diseguaglianze salariali, come rammentato dal Fondo monetario internazionale in tempi non sospetti, è prioritario. Anche, sottolinea lo studio, nel rapporto tra impresa e lavoratore.
(da agenzie)
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Settembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
IL DOCUMENTO VISIONATO DA BLOOMBERG: GLI ECONOMISTI METTONO IN GUARDIA GLI ALTI FUNZIONARI RUSSI… A RISCHIO I SETTORI VITALI DEL PAESE
L’economia russa potrebbe affrontare una recessione tale che potrebbe tornare al livello pre-guerra «solo alla fine del decennio, o più tardi».
Ad affermalo è Bloomberg, che è riuscito a visionare un rapporto interno preparato per il governo e destinato alla riunione a porte chiuse dello scorso 30 agosto degli alti funzionari russi.
Il documento è il risultato di mesi di lavoro di esperti che stanno cercando di valutare il reale impatto che le sanzioni e l’isolamento economico avranno sulla Russia.
Quello che emerge è un quadro che può assumere tinte diverse a seconda di come accelererà la contrazione economica.
La prima viene definita «inerziale» e prevede che l’economia russa toccherà il fondo il prossimo anno scendendo dell’8,3% rispetto al 2021. La seconda, o «stress», fissa il minimo all’11,9% nel 2024. In tutte le proiezioni viene considerata la possibilità di misure più stringenti e che queste possano venire adottate da più Paesi.
Come scrive Bloomberg, l’allontanamento dell’Europa dal petrolio e dal gas russo potrebbe anche incidere sulla capacità del Cremlino di rifornire il proprio mercato.
Oltre alle sanzioni, che ad oggi coinvolgono un quarto delle importazioni ed esportazioni, nel rapporto viene indicato come preoccupante anche la possibilità che circa 200mila specialisti possono lasciare il Paese entro il 2025.
L’economista russo, Alexander Isakov, sostiene che «con un accesso ridotto alle tecnologie occidentali, la crescita potenziale del Paese è destinata a ridursi dello 0,5% o 1% nel prossimo decennio».
Cosa che continuerebbe a peggiorare arrivando a rasentare lo zero entro il 2050. «La Russia sarà anche sempre più vulnerabile a un calo dei prezzi delle materie prime globali», continua Isakov, «poiché le riserve internazionali non forniranno più un cuscinetto». Il rapporto interno del Cremlino mette in guardia rispetto a una riduzione dei volumi di produzione in settori, come quello del petrolio e del gas, ma anche dei prodotti chimici e del legno: «Questi settori cesseranno di essere i motori dell’economia».
(da Open)
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Settembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
“LE CREPE STANNO GIÀ MINACCIANDO LE FONDAMENTA DELL’ECONOMIA RUSSA”
Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, le sanzioni occidentali contro Mosca dopo lo scoppio della guerra in Ucraina stanno cominciando ad avere effetto, spiega Stéphane Lauer, editorialista di Le Monde, nel suo articolo. Questi effetti sono graduali ma cumulativi e stanno portando l’economia russa in un vicolo cieco.
Nel torpore estivo, una piccola musica si è insidiata nel dibattito pubblico. Le sanzioni occidentali contro la Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina sono state considerate un fallimento. L’embargo non solo non funzionerebbe, ma si ritorcerebbe contro gli interessi dei suoi promotori. Peggio ancora, l’economia russa mostrerebbe una capacità di recupero insospettata.
Per un certo periodo questo discorso è stato confinato all’estrema destra e alle frange di un populismo miope, ma sta guadagnando influenza in un momento in cui i danni causati dall’inflazione e dalla crisi energetica cominciano a farsi sentire nell’Unione Europea (UE).
È in gran parte alimentata dall’inaffidabilità delle statistiche disponibili, da quando il Cremlino ha smesso di pubblicare cifre aggiornate e verificabili a favore di dati errati e in gran parte manipolati.
Affermare che le sanzioni sono inefficaci non è soltanto falso. È soprattutto per dare credito alla narrazione distillata dalla propaganda russa, che ha un solo obiettivo: rompere l’unità dell’Occidente nel tentativo di allentare la morsa che minaccia di asfissiare la sua economia. L’uso dell’arma del gas negli ultimi giorni per far sprofondare le democrazie europee nell’incertezza e nella paura della penuria non ha altro scopo. L’obiettivo è fermare una discesa agli inferi che, senza un ipotetico ripensamento da parte dei leader occidentali, sembra inevitabile.
L’undicesima economia più grande del mondo
Certo, la disintegrazione è più lenta del previsto. Con il suo basso debito estero e le abbondanti riserve di valuta estera, era ingenuo credere che l’undicesima economia mondiale sarebbe crollata come un castello di carte. All’inizio della guerra, il calo del PIL era stimato al 15%. Alla fine, si prevede che la recessione sarà la metà. Anche così. L’entità è ancora equivalente a quella registrata dalla zona euro nel 2020, quando è emersa la crisi pandemica. Ma questa volta la Russia non ha messo in campo né il “whatever it takes” né un massiccio piano di lavoro a breve termine per attutire il colpo.
Sergei Guriev, direttore dell’istruzione e della ricerca di Sciences Po ed ex consigliere economico del governo russo rifugiatosi in Francia, sottolinea che alla vigilia della guerra la Russia si aspettava ancora una crescita del 3%. Le sanzioni hanno quindi contribuito a un calo dell’economia di 9 punti. Solo l’impennata del prezzo del petrolio, che rappresenta un terzo del PIL, metà delle entrate fiscali e due terzi delle esportazioni, ha contribuito a limitare i danni. “Ma con l’attuale prezzo del petrolio, senza le sanzioni, il potenziale di crescita dell’economia russa dovrebbe essere di circa il 7%”, sottolinea Guriev.
Di fatto, la Russia si è trasformata in un villaggio “Potemkin”: dietro una facciata che dà l’illusione di resilienza, le crepe stanno già minacciando le fondamenta. La tesi della tenuta dell’economia russa si basa sul fatto che il Paese ha un surplus commerciale record, mentre il rublo sta mostrando una forza inaspettata. Ma la ragione per cui entrambi gli indicatori stanno facendo bene è quella sbagliata.
La bilancia commerciale estera porta i segni del crollo delle importazioni. Per quanto riguarda il mito della moneta forte, la situazione è ingannevole perché si spiega essenzialmente con i massicci interventi della banca centrale russa a sostegno del rublo e con i drastici controlli sui cambi.
I consumi sono diminuiti del 10% e, a causa della mancanza di componenti e di sbocchi, la produzione industriale è scesa del 7%. Nel settore automobilistico, il calo ha raggiunto il 90%. Per evitare di scendere a zero, il governo è stato costretto ad allentare gli standard di sicurezza consentendo l’uso di veicoli senza airbag e freni ABS.§
Più di 1.200 aziende straniere hanno lasciato la Russia, pari al 40% del PIL, spazzando via quasi tre decenni di investimenti stranieri, secondo un recente studio di un gruppo di ricercatori dell’Università di Yale, che parlano di un’economia russa paralizzata. Anche il divieto di importazione di componenti industriali sta agendo come un lento veleno. La flotta aerea commerciale russa non è ancora a terra, ma le compagnie sono costrette a smantellare alcuni aerei per mantenerne altri.
Più problematica per l'”operazione speciale”, il nome ufficiale della guerra con l’Ucraina, è la mancanza di componenti elettronici, essenziali per la fabbricazione di missili e carri armati di ultima generazione. Nonostante l’uso di canali di contrabbando, il potenziale militare della Russia si sta riducendo perché non è tecnologicamente autonomo.
Rimangono gli idrocarburi. Sebbene il gas russo sia al centro dei dibattiti in Europa, rappresenta solo un terzo delle entrate petrolifere del Paese. L’oro nero è quindi una questione cruciale per lo sforzo bellico. Finora i proventi del petrolio hanno continuato a riempire le casse dello Stato. Le sanzioni, annunciate a maggio, hanno fatto aumentare i prezzi mondiali, ma non saranno pienamente applicate fino a dicembre. Nel frattempo, gli europei hanno continuato ad acquistare il più costoso petrolio russo in mancanza di un’alternativa, dando l’illusione che l’embargo non abbia alcun effetto. Anche se la Cina e l’India subentreranno parzialmente acquistando petrolio a basso costo dalla Russia, il crollo della domanda occidentale a partire dal 2023 sarà un momento chiave nell’equilibrio di potere con la Russia.
“Gli effetti delle sanzioni sono graduali e cumulativi”, afferma Agathe Demarais, direttore delle previsioni globali dell’Economist Intelligence Unit. È una maratona che richiede pazienza. La pazienza degli europei è messa a dura prova dal razionamento dell’energia e dalla recessione. Devono convincersi che il tempo è dalla loro parte per le democrazie. Rinunciare al nostro comfort energetico e al nostro potere d’acquisto ha un costo, ma difendere i nostri valori e la nostra sovranità non ha prezzo.
(da “Le Monde”)
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Settembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
NE SONO SEGUITI ALMENO ALTRI TRE (DUE CON LUI MINISTRO DI BERLUSCONI)
Il 31 agosto, ospite a L’aria che tira estate su La7, l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, candidato alle elezioni del 25 settembre con Fratelli d’Italia, ha dichiarato (min. 10:59) che il centrodestra ha fatto l’«ultimo condono» fiscale nel «1995-1996».
«Da allora noi non ne abbiamo fatti», ha sottolineato Tremonti. Ricordiamo che con “condono fiscale” si fa riferimento all’opportunità data ai contribuenti di saldare un debito con il fisco, inclusi gli interessi e le more, pagandone solo una parte.
Abbiamo verificato e l’ex ministro dimostra di avere la memoria corta.
Per chi ha fretta:
Giulio Tremonti afferma che «L’ultimo condono in Italia fu fatto nel 1995-1996. Da allora noi non ne abbiamo fatti».
Nel periodo 1995-1996 fu fatto un condono fiscale, ma i governi di centrodestra ne fecero altri negli anni successivi.
Analisi
Nel 1994 Tremonti era ministro delle Finanze del primo governo guidato da Silvio Berlusconi, carica che ricoprì fino a gennaio 1995, quando Berlusconi fu succeduto dal governo tecnico di Lamberto Dini, suo ministro del Tesoro.
All’epoca, nonostante le smentite all’inizio del suo incarico da ministro, Tremonti gettò le basi per un condono fiscale, chiamato “concordato” o “accertamento con adesione”, reintrodotto nel 1994, come spiega un approfondimento della Banca d’Italia, dal primo governo Berlusconi e finalizzato dal governo Dini. In breve, il governo aveva dato la possibilità ai contribuenti non in regola con il fisco di sanare la propria posizione, pagando meno del dovuto.
Gli altri condoni
Questo condono fiscale non fu l’ultimo introdotto da un governo di centrodestra: negli anni successivi ne sono seguiti almeno altri tre.
Nel 2001, durante il secondo governo Berlusconi e con Tremonti ministro dell’Economia e delle Finanze, fu approvato il cosiddetto “scudo fiscale”, per permettere ai contribuenti che avevano capitali detenuti illegalmente all’estero di riportarli in Italia, versando al fisco una piccola parte della somma.
Un condono simile fu introdotto dal quarto governo Berlusconi, con Tremonti di nuovo ministro dell’Economia e delle Finanze, garantendo l’anonimato nelle operazioni di emersione dei capitali mediate dalle banche.
Nel mezzo, durante il 2003, fu approvata una sanatoria fiscale, anche in questo caso pensata per permettere ai contribuenti non in regola con il fisco di sanare, appunto, la loro posizione.
Negli ultimi anni anche i governi di centrosinistra hanno fatto ricorso diverse volte allo strumento dei condoni fiscali, come abbiamo spiegato in fact-checking dedicati ai segretari del Partito democratico Matteo Renzi ed Enrico Letta.
Nel 2021, con il decreto “Sostegni”, il governo guidato da Mario Draghi ha approvato il cosiddetto “stralcio” delle cartelle esattoriali fino a 5 mila euro, arrivate tra il 2000 e il 2010. Si tratta dell’annullamento automatico dei debiti con l’erario fino a quella cifra, con alcune eccezioni, per tutti i contribuenti che nel 2019 avevano dichiarato un reddito fino ai 30 mila euro.
Conclusioni
Secondo Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia candidato alle elezioni del 25 settembre con Fratelli d’Italia, «l’ultimo condono in Italia fu fatto nel 1995-1996: da allora noi non ne abbiamo fatti».
Abbiamo verificato e le cose non stanno così. È vero, nel periodo indicato da Tremonti fu fatto un condono fiscale, ma i governi di centrodestra ne fecero altri negli anni successivi.
(da Open)
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Settembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
INCHIESTE, BANCAROTTE, RETATE E METROPOLITANA FANTASMA: UNA CLASSE DIRIGENTE AFFARISTA E IMPREPARATA
A Latina non ha vinto il Pd. È Fratelli d’Italia che ha perso.
Non c’è bisogno di essere politologi per capire che, all’indomani della lunga notte elettorale che ha visto la riconferma di un sindaco di centrosinistra nel capoluogo pontino, feudo storico di Fdi, qualcosa nella destra locale non ha funzionato.
“La nostra vittoria – spiega ad HuffPost Omar Sarubbo, il capo dei dem locali – è anche il frutto degli anni della vergogna”.
È così che molti latinensi ricordano il lungo dominio delle amministrazioni di centrodestra che si sono susseguite in città ininterrottamente dal 1993 al 2016, l’anno in cui il vincitore di stanotte, Damiano Coletta, sbaragliò il candidato di Fratelli d’Italia con un netto 75 a 25 al ballottaggio.
Inchieste, intercettazioni, arresti, sequestri, grandi opere incompiute, giunte sfiduciate o commissariate (l’ultima, nel 2015, portò al commissariamento del comune).
Nel giro di un decennio la classe dirigente pontina di Fdi è stata sostanzialmente decimata.
Insomma, la bad story che arriva dalla “culla della Fiamma” – Latina già Littoria, fondata dal duce in persona – non rappresenta un biglietto da visita molto incoraggiante per il partito.
D’altronde non sono pochi gli osservatori e gli avversari politici che in questa fase affermano che “Fratelli d’Italia non ha una classe dirigente adatta a governare l’Italia”.
Se i candidati meloniani al parlamento e, in caso di vittoria, al governo possono comunque appellarsi alla presunzione di competenza (“Metteteci alla prova e poi giudicateci”), d’altro canto l’unica vera classe dirigente di Fdi che governa, cioè quella locale, non sta brillando per chissà quali virtù.
È un po’ come se nella rossa Bologna trionfasse un candidato meloniano. Latina infatti si chiama così perché senza il fascismo probabilmente non sarebbe mai esistita. I più anziani la ricordano ancora con l’antico nome di Littoria, scelto personalmente dal duce in piena epopea totalitaria, 1932. Non è solo una questione etimologica. Fin dalle bonifiche delle paludi, questa terra è sempre stata feudo senza rivali di Pnf ed eredi.
Se durante la Prima repubblica le preferenze non convergevano in massa verso l’Msi a causa della sostanziale esclusione degli uomini di Almirante dalla vita politica repubblicana, i voti andavano comunque verso gli esponenti più conservatori della Democrazia Cristiana.
Con la fine della Dc, il “cordone sanitario” intorno ai post-fascisti decadde. E l’Msi conquistò la città prediletta nel 1993. Questa divenne la consuetudine – dopo l’Msi anche con An, Pdl e infine Fdi – per il capoluogo dell’agro pontino. Almeno fino al 2016, con la vittoria di una coalizione civica di centrosinistra guidata dall’ex idolo calcistico locale Damiano Coletta.
Ed è per questo che spicca anche all’occhio dei più digiuni di vicende politiche come alla crescita su scala nazionale della Fiamma, inimmaginabile fino a pochi anni fa, è coincisa la sostanziale crisi della stessa nel suo feudo più identitario.
Una crisi iniziata ben prima di quella storica notte di giugno di sei anni fa, quando il centrosinistra conquistò Latina per la prima volta nella sua storia. “La terza sconfitta di fila di Fdi – racconta ad HuffPost un ex amministratore locale che conosce a fondo le dinamiche pontine – è prima di tutto il frutto del loro malgoverno”. Non è una questione di destra/sinistra. “I latinensi restano una popolazione storicamente e ideologicamente di centrodestra. E tale rimarrà. Ma il problema è che qui la destra ha combinato disastri, soprattutto negli ultimi anni di amministrazione targata Pdl-Fdi”.
Nel 2010 il sindaco pidiellino in quota An Vincenzo Zaccheo – sconfitto da Coletta nell’ultima tornata elettorale – fu sfiduciato dal suo stesso consiglio comunale dopo essere finito a Striscia La Notizia in un fuorionda dove faceva pressioni sull’allora governatrice del Lazio Renata Polverini. L’obiettivo, emerge dall’inchiesta televisiva, era quello di fermare gli appalti finiti nelle mani di aziende legate ad un suo rivale. Nel 2015 il suo successore Giovanni Di Giorgi, lui in quota Fdi, fu prima commissariato e poi arrestato, insieme a mezzo partito locale, per un presunto danno alle casse pubbliche locali da svariati milioni di euro collegate ad altri appalti che secondo l’accusa sarebbero stati pilotati a favore di aziende amiche dell’amministrazione.
§“Non è solo una questione di nomi” prosegue il suo racconto ad Huffington Post l’ex politico che preferisce conservare l’anonimato.
“A guidare Latina è stato un sistema, un’organizzazione per condurre affari e interessi personali a spese della città. Di opere pubbliche incompiute o male amministrate se ne contano a decine: dalla piscina comunale al progetto della Metro fantasma”.
Nelle intenzioni dell’allora sindaco Zaccheo – correva l’anno 2004 – il comune avrebbe costruito entro pochi anni una metropolitana leggera in grado di connettere il centro città con l’area della stazione. “Nonostante due finte inaugurazioni con tanto di taglio del nastro tricolore, la metro a Latina non si è mai vista”. E poi ancora: il fallimento di Latina Ambiente, l’acquisto con fondi pubblici di immobili mai destinati all’uso. Le bancarotte: la Terme di Fojano Spa, società comunale che aveva il compito di amministrare l’omonimo comprensorio poco fuori città, a due passi dal parco nazionale del Circeo è stata dichiarata fallita dai giudici nel 2017, dopo oltre vent’anni di spese pazze ad opera delle amministrazioni che si sono susseguite alla sua guida.
“Non hanno avuto la forza di rinnovarsi, di costruire un percorso di rottura con le illegalità del passato” dichiara il segretario locale del Pd, Omar Sarubbo: “In Fdi sono rimasti legati ad un’idea di Latina del passato: una campagna elettorale basata sul riprendiamoci ciò che è nostro senza rendersi conto che le cose sono radicalmente cambiate. Certo, siamo e restiamo una città d’orientamento di centrodestra, ma la nostra proposta ha avuto e sta avendo successo proprio perché abbiamo chiuso con le divisioni ideologiche del passato”. E per farlo, Partito Democratico e alleati hanno scelto quello che, come si suole dire, è il classico un nome, una garanzia: Damiano Coletta. Alla maggioranza dei lettori non pontini il nome non dirà molto, ma a Latina è considerato da sempre uno dei simboli della città.
Medico cardiologo dirigente del locale ospedale, è stato prima di tutto calciatore professionista. Ex giocatore di Serie B con il Pescara negli anni Novanta, molto legato al suo territorio, Coletta ha contribuito in maniera decisiva alla rifondazione del Latina Calcio nel 2007 dopo il fallimento della società precedente. Un impegno che lo ha reso personaggio di spicco in città, capace di riunire intorno al proprio attivismo cittadini di tutte gli orientamenti politici.
Non a caso Coletta non è un ufficialmente un esponente del Pd, ma solo il leader di una lista civica. “Una scelta, quella di non entrare nel Pd – sostiene l’ex amministratore locale latinense ai nostri taccuini – dovuta proprio all’intento di attirare a se anche elettori di destra. Un’operazione più semplice se condotta senza simboli di partito in primo piano”.
La scelta di Coletta ha pagato. Lo dicono le sue vittorie nel 2016 – prima volta del centrosinistra alla guida della città – e nel 2021. Dopo un breve commissariamento iniziato a luglio di quest’anno, disposto da Tar e Consiglio di Stato sulla base di irregolarità registrate in alcune sezioni elettorali durante lo scrutinio, Coletta ritornerà sindaco grazie al risultato di ieri: nelle ventidue sezioni tornate al voto su disposizione dei giudici amministrativi, l’avversario di Fdi Zaccheo, già sindaco – come anticipato – sfiduciato in consiglio comunale dalla sua stessa maggioranza dodici anni fa, non è riuscito ad ottenere abbastanza preferenze, rendendo così inutile la ripetizione anche del ballottaggio.
Zaccheo, Di Giorgi e via dicendo. Storie di una classe dirigente, quella di Fdi, accusata da più avversari, durante l’attuale campagna elettorale, di essere “inadeguata” e “non matura per il governo di un grande paese”. Ma gli “anni della vergogna” a Latina, già Littoria, non sono affatto un bel biglietto da visita per Giorgia.
(da agenzie)
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Settembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
LA RIVISTA ONLINE “PENSATA PER LE RAGAZZE DI DESTRA” CHE, OLTRE A SPONSORIZZARE UNA MODA PIÙ AMERICANA, PROMUOVE FEDE, FAMIGLIA, FIGLI E NO ALL’ABORTO
«Vogue odia le donne conservatrici più di quanto ami la moda». Erano i primi mesi dell’amministrazione Biden, il mensile fashion più famoso al mondo aveva deciso di intervistare l’allora portavoce della Casa Bianca Jen Psaki e a Fox erano furiosi.
In quattro anni di Trump, nessuna copertina per Melania, o profili delle addette stampa Sarah Huckabee Sanders e Kayley McEnany.
Sulle riviste patinate, Vogue compresa, Melania ci era stata tante volte da modella, e da fresca sposa di Trump, mai come first lady. Michelle Obama tre volte, Hillary Clinton e Jill Biden una Nancy Reagan, Barbara e Laura Bush furono fotografate, ma non per la cover
Se i consumi culturali sono ormai il primo specchio degli «Stati divisi d’America», perché la moda non dovrebbe seguire lo schema?
Jayme Chandler Franklin e Isabelle Redfield, rispettivamente 24 e 23 anni, diventate amiche lavorando alla Casa Bianca trumpiana, hanno avuto un’idea.
«Eravamo entrambe ragazze alla moda, ma non potevamo più leggere Vogue », ha raccontato Redfield al New York Post . «Tutto andava così a sinistra. Pensavamo che i loro contenuti fossero davvero tossici e negativi per le donne». Nasce di lì l’impresa di The Conservateur , rivista online pensata per le girls , come dicono loro, di destra, con al centro «fede, libertà, famiglia e amici». E tanto glamour.
Se i progressisti boicottano le aziende non socialmente responsabili, in «vota con i tuoi dollari» si suggerisce di non comprare vestiti delle marche che finanziano il movimento per il diritto all’interruzione di gravidanza. I democratici si mobilitano contro la sentenza che ha cancellato Roe vs Wade, The Conservateur glorifica la maternità e scrive che l’aborto «rafforza il patriarcato». Il mondo progressista parla di identità di genere e diritti per i trans, loro titolano un pezzo «L’abolizione della donna».
Anche i consigli di stile sono diversi: la moda è meno europea, più all-american: tubini, jeans, stivali e cappelli da cowboy.
Sta crescendo una «economia duale», ha detto Franklin, incinta della prima figlia, a Politico – «diversi segmenti della società si rivolgono a diverse fonti per il divertimento, il tempo libero, i consumi». E anche se il mainstream è «incapace di essere accogliente» per i conservatori, l’opportunità che questa doppia economia rappresenta è «massiccia».
L’apertura del numero di agosto ospita una trionfante Lara Trump. La moglie di Eric, terzogenito dell’ex presidente, è fotografata avvolta in un abito da sera di taffettà viola «nell’appartato pezzo di paradiso della sua famiglia», Mar-a-Lago, dove con il marito ha deciso di crescere i due figli («Da quando ne ha è più donna di quanto non sia mai stata»).
Le guerre culturali hanno da sempre delle trincee geografiche, e la Florida è diventata, tra Trump che ne ha fatto il suo rifugio e il successo a destra del governatore Ron DeSantis, il paradiso dei repubblicani. «Al sicuro in DeSantisland», si legge nel pezzo, come tanti newyorchesi «scappati durante la tirannia del Covid» (nel Sunshine State è rimasto sempre quasi tutto aperto).
A The Conservateur il governatore della Florida piace tantissimo, soprattutto le sue leggi – definite dai critici razziste e anti-gay – per controllare i programmi scolastici: «La famiglia di Lara non deve preoccuparsi di libri osceni negli zaini dei ragazzi».
A proposito di libri e di nicchie di mercato ideologiche, in Texas è nata da un annetto una casa editrice per bambini che vuole promuovere i valori della destra. Il titolo sul diritto al porto d’armi ha come coautrice l’ex portavoce della National Rifle Association Dana Loesch (ma c’è anche un volumetto sui pericoli del socialismo). Le guerre culturali si combattono ovunque, dalle biblioteche alle pagine patinate.
(da agenzie)
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Settembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
LA MELONI STA PENSANDO A QUATTRO NOMI DI PROVATA FEDELTÀ EUROATLANTICA PER ECONOMIA, ESTERI, DIFESA E PURE AL VIMINALE, DOVE VORREBBE DISPERATAMENTE TORNARE SALVINI… ALLA FARNESINA POTREBBE ARRIVARE STEFANO PONTECORVO
Giorgia Meloni studia da giorni un cordone sanitario per sterilizzare la tentazione del leghista di spaccare il fronte occidentale contro Putin.
Immagina quattro ministri di provata fedeltà euroatlantica sulle poltrone di Economia, Esteri, Difesa e Interni.
Ha in mente per il ruolo forse più operativo dell’intero esecutivo, quello di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, un uomo dai rapporti oliati con Washington. E sa che può raggiungere questo obiettivo soltanto in un modo: facendosi scudo con il Colle
Servirebbe a tenere lontano dal Viminale il leghista, che invece ci punta con tutte le sue forze. Tanto che starebbe studiando una contromossa tutta tattica: chiedere per sé la Presidenza del Senato.
In realtà intende “promuovere” Roberto Calderoli come seconda carica dello Stato. E non si sentirebbe neanche a suo agio in un ruolo istituzionale.
Ma il rilancio servirebbe a mettere pressione per strappare una casella. Perché Salvini in Consiglio dei ministri vuole sedere a tutti i costi. E non intende rinunciarci.
Ma quanto riuscirà a rendere credibile la scelta di campo sull’Ucraina con questo alleato al suo fianco? È la domanda – l’angoscia – di queste ore. Contano i voti. Fosse autosufficiente Meloni potrebbe anche decidere di lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Ma al momento il legame con Salvini sembra imprescindibile. L’unico “ammortizzatore” pare essere la selezione di figure non filorusse nei ministeri chiave.
Per l’Economia ha già deciso che sarà Fabio Panetta, direttamente dal board della Bce. Serve ad assicurare a Meloni alcuni rapporti decisivi con Bruxelles.
Il problema è semmai chi scegliere per Difesa ed Esteri, pedine decisive nei rapporti internazionali. Alla Farnesina ambisce Antonio Tajani, ma esiste un’altra opzione che circola in queste ore: Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan e, soprattutto, ex alto rappresentante civile della Nato in Afghanistan nelle ore drammatiche dell’evacuazione dal Paese nell’agosto del 2021.
Tajani potrebbe invece finire alla Difesa, anche se questa opzione rischia di essere frenata da un progetto che piace a Salvini: la nascita di gruppi parlamentari federati con FI subito dopo il voto, in modo da bilanciare l’eventuale boom elettorale di FdI e limitare il potere di Meloni.
Restano infine gli Interni, il nodo più delicato. Salvini non ha fatto mistero di pretendere per sé quella casella. Una postazione da cui accedere tra l’altro a molti dei dossier più rilevanti e delicati.
Meloni vuole invece un tecnico e spera nell’azione discreta del Colle, in modo da frenarlo. Il problema è che Salvini è uno dei tre leader della potenziale maggioranza ed escluderlo dai ruoli chiave – almeno ad oggi – non è semplice.
Per placare le mire dell’ex ministro dell’Interno, Meloni garantirebbe al Carroccio la Giustizia con l’ascesa di Giulia Bongiorno, che è anche l’avvocato di Salvini nel processo Open Arms. Una postilla decisiva, infine: non sarà comunque questa eventuale rete di protezione a evitare lo scontro.
(da agenzie)
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Settembre 5th, 2022 Riccardo Fucile
“I MILITARI RUSSI SOSPETTANO SEMPRE DI NOI. CERCANO SPIE, SABOTATORI, FANNO CONFESSARE COSE CHE NON ABBIAMO FATTO. MOLTI MIEI COLLEGHI SONO GIÀ STATI INTERROGATI, PICCHIATI E TORTURATI CON SCOSSE ELETTRICHE”
L’uomo che ci mette in contatto lo ha segnato in rubrica sotto il nome «Tecnico 2». Ci gira il suo numero di telefono su WhatsApp dopo giorni di messaggi e chiamate in cui cercava di assicurarsi che non fossimo delle spie, dei nemici.
Ci avverte: «Deve essere una conversazione anonima, questa persona rischia la vita parlando con voi». Tecnico 2 lavora nella centrale di Zaporizhzhia. Non sappiamo quale sia la sua mansione specifica, ma sappiamo che è lì da 15 anni. Chatta con noi la sera tardi, quando si sente più sicuro, lontano da sguardi indiscreti.
La missione a Enerhodar, la cittadina in cui si trova la centrale, in questi giorni ci sono anche gli ingegneri e i tecnici dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, in missione per capire le condizioni dello stabilimento nucleare più grande Europa sotto continuo attacco dei russi, per gli ucraini, degli ucraini, secondo i russi.
Tecnico 2 non sembra riporre grandi speranze in questa missione: «Non mi aspetto molto dalla visita. È un passaggio importante per fermare o almeno arginare per un po’ il terrore che si vive in questo luogo, ma il miracolo non avverrà. La composizione stessa della missione non mi rassicura: ci sono anche i russi. Saranno obiettivi?».
Gli spieghiamo che da qui ci sembra il primo passo positivo dopo sei mesi di paura che Zaporizhzhia si trasformi in una nuova Chernobyl.
Tecnico 2 ci risponde che il personale è troppo sotto pressione per dire tutta la verità riguardo quello che succede.
«I militari russi sono sempre in giro e ascoltano ogni nostra sillaba. Se parliamo, quando i tecnici della Aiea se ne andranno, saremo noi a pagare il prezzo della verità», scrive.
L’unica sua speranza è che il rapporto finale dell’Agenzia – che dovrebbe arrivare all’inizio di questa settimana – contenga la richiesta di ritiro delle truppe russe dalla centrale. È d’accordo con lui anche il sindaco di Enerhodar, Dmytro Orlov, via dalla città da quando i russi l’hanno occupata: «Ci aspettiamo che il verdetto della commissione contribuisca a raggiungere l’obiettivo principale: il ritiro dell’esercito di Putin da Zaporizhzhia».
Tecnico 2 lavora su turni. Anche se non può dire di che cosa si occupa, ci racconta che quello che fa richiede la massima attenzione e lucidità. «Quando lavori coi fucili puntati non è semplice mantenere la calma. Da tre settimane, ogni volta che arrivo alla mia postazione, non so cosa mi aspetterà, non so se uscirò vivo da quelle stanze. Ora che la Aiea è ancora presente le esplosioni sono un po’ diminuite, ma ci sono».
Secondo lui, non c’è alcun dubbio da che parte provengano gli attacchi: «È l’esercito russo a bombardare. Non siamo sordi, sentiamo il rumore delle granate e tre-sei secondi dopo c’è un’esplosione. Questo ci dice che il colpo è stato sparato da una distanza brevissima. Il più delle volte provengono dal villaggio di Dniprovka, di Ivanovka, da Volna e Enerhodar. Territori che da sei mesi sono sotto il controllo militare russo». Poi, racconta di come i cittadini si tengano informati via social sui movimenti dell’esercito.
Molto spesso, subito dopo una notifica arriva l’esplosione. Però, la conferma che si trattino di attacchi russi, Tecnico 2 dice di averla sul lavoro. «Durante i miei turni, ho visto più volte i militari e il personale di Mosca lasciare in fretta e furia la centrale subito prima di un bombardamento. Vengono avvertiti dei missili che stanno per cadere, poi, con calma, tornano». Loro scappano mentre i lavoratori ucraini rimangono nel luogo più pericoloso di tutta Europa: «Fa paura», continua Tecnico 2. «Ho paura per me, ma sono felice che mia moglie e i miei figli siano andati via. Non so cosa troverò quando tornerò a casa. Non so che fine farò. Mi porteranno in uno scantinato e mi tortureranno? I militari russi sospettano sempre di noi. Cercano spie, sabotatori, girano video inventati e fanno confessare cose che non abbiamo fatto. Molti miei colleghi sono già stati interrogati, picchiati e torturati con scosse elettriche. Non vediamo un ragazzo della nostra unità da oltre due mesi. Non sappiamo nulla di lui, è ancora vivo?», si chiede.
Il futuro Non ha informazioni precise sul numero di lavoratori rimasti alla centrale, ma circa il 30% del personale della sua divisione se n’è andato. La maggior parte sono donne. Vive una strana ambivalenza: sente quanto sia importante che lui e i suoi colleghi continuino a svolgere il loro lavoro, ma vorrebbe anche scappare, stare con la sua famiglia. «Parlare di catastrofe nucleare non è esagerato. Bombardano in modo da non danneggiare il reattore, ma i militari non sono abbastanza preparati da capire come funziona qui. Anche un completo arresto potrebbe portare al disastro».
Prima di spegnere il telefono, Tecnico 2 ci ricorda che nella centrale ci sono anche dei container che chiama depositi a secco per il combustibile nucleare esaurito. «Se dopo un attacco missilistico alcune parti della centrale possono rimanere intatte, non sono sicuro che questi contenitori resisterebbero».
(da agenzie)
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