Settembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
QUANDO IL “CAPITONE” HA INIZIATO CON LA SOLFA DEL NO ALLE SANZIONI ALLA RUSSIA, LEI SI È MESSA LE MANI SUGLI OCCHI… E QUANDO IL LEGHISTA HA ANNUNCIATO DI AVER PREPARATO DELLE SLIDE, LA MELONI È SCOPPIATA A RIDERE
Siparietto a Cernobbio quando, durante la tavola rotonda al Forum Ambrosetti, Matteo Salvini annuncia di aver preparato delle slide per il suo intervento e fuori microfono si sente: «Dai le slide?», detto scherzosamente da Giorgia Meloni. «Sì, le slide, poca spesa tanta resa», risponde il leader della Lega.
Istantanee da Cernobbio: Matteo Salvini lancia bordate contro le sanzioni alla Russia. E Giorgia Meloni si mette le mani sugli occhi.
È il giorno del confronto fra leader, a Villa d’Este. Niente debate: la formula è il giro di tavolo. Ognuno parla, poi una domanda. E il parterre reagisce.
Dopo il meeting di CL a Rimini, in riva al lago di Como si sonda l’umore del mondo produttivo dello Stivale a 3 settimane dal voto. Per Meloni, rispetto alla standing ovation ciellina, l’accoglienza è diversa. Decisamente più freddina: scavalla a fatica i 10 secondi di applauso, così come Salvini.
Il segretario del Carroccio e la presidente di FdI si punzecchiano, a distanza ravvicinatissima: sono seduti uno accanto all’altra. Lei lancia una stoccata sulla flat tax al 15% propagandata dall’alleato (“non faccio promesse che non posso mantenere, bisogna considerare i conti pubblici”) e rimarca che uno scostamento di bilancio è difficile, a questi livelli d’indebitamento.
Lui, subito dopo, batte sugli stessi chiodi, in direzione ostinata e contraria: sì allo scostamento di bilancio, subito, almeno 30 miliardi per aiutare le imprese. E sì alla flat tax, anche ai dipendenti.
Poi rilancia una vecchia idea della Lega bossiana: portare un ministero (dell’Innovazione) a Milano, in chiave autonomia. Idea che a FdI, cuore e testa nella Capitale, non va a genio.
Ma è soprattutto la crisi ucraina a scavare un solco fra i due. A colpire la platea di Cernobbio è il discorso del leader del Carroccio. Occhio al minutaggio: su 10 minuti di intervento, Salvini ne impiega quasi 9 per un’arringa contro le sanzioni alla Russia: “Tanti di voi mi hanno detto quanto ci danneggiano”, dice in apertura. “Avevo preparato 10 cartelle, ma cambio programma. Ho qualche slide”.
Meloni, dalla poltroncina di fianco, butta un occhio all’anteprima. Prima ride, poi capisce il tema. Pare crucciata. Salvini va avanti. In loop. Cita la dichiarazione di un imprenditore: “Nessuno dirà che le sanzioni alla Russia ci danneggiano”. “Eccomi!”, replica lui.
Tutto il discorso ruota attorno alla stessa tesi. “L’alto rappresentante della politica estera Ue a febbraio diceva che le sanzioni avrebbero evitato che i russi venissero a fare shopping in Europa. Non mi pare sia andata così”. E ancora: “Le sanzioni ad oggi hanno comportato un surplus commerciale di 140 miliardi di dollari nelle casse russe. Il rublo non è mai stato così forte”. Solo nel finale stempera un po’: “Siamo radicati nell’Occidente – concede – Non dico di abolire le sanzioni, ma serve uno scudo europeo per non danneggiarci”.
Prima dell’ex ministro dell’Interno, era stato il turno di Meloni. Un discorso al contrario. Pro Ucraina. Pro sanzioni. Pro armi. “Se l’Italia si sfila dai suoi alleati, per Kiev non cambia niente ma per noi sì”. In ballo, dice la presidente di FdI, c’è una questione “di credibilità” ma anche economica, visto che l’80% dell’export avviene con i Paesi del blocco occidentale.
“Se l’Ucraina cade e l’Occidente perisce, il vincitore non sarà solo la Russia di Putin ma la Cina”. Dunque le sanzioni restino, è il ragionamento di Meloni.
Non è un caso, allora, che i due leader della destra, nelle sale e nei giardini di Cernobbio, non si concedano insieme alla photo opp di rito. Nemmeno un selfie, come a Messina.
(da il Corriere della Sera)
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Settembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
“GIUDICI NOMINATI DALLA POLITICA, INDAGINI SOTTRATTE AI PM, AZIONE PENALE NON PIU’ OBBLIGATORIA, RISPARMI SULLE INTERCETTAZIONI: NORDIO VUOLE ELIMINARE I CAPISALDI A GARANZIA DELL’INDIPENDENZA DEI GIUDICI”
Più procede la campagna elettorale, più il dott. Carlo Nordio, ex magistrato del quale l’on. Giorgia Meloni auspica la nomina a ministro della Giustizia in caso di vittoria del centrodestra, sforna proposte di riforma della giustizia che attestano la sua avversione alla Costituzione, di cui coerentemente propone una radicale riscrittura per eliminare tutti i capisaldi posti a garanzia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario dalla politica.
La necessità di cristallizzare a livello costituzionale i rapporti tra potere giudiziario e potere esecutivo, assicurando che il primo non risultasse dipendente dal secondo, fu imposta dal concorde “proposito delle forze politiche di porre in essere tutti gli strumenti atti ad evitare il ripresentarsi di un regime liberticida ed antidemocratico”, come risulta dai lavori dell’Assemblea costituente.
Solo grazie a tali cardini costituzionali la magistratura ha potuto assolvere i propri compiti, pagando anche un elevatissimo tributo di sangue, nella travagliata storia italiana che presenta vistose anomalie per il costante pericolo di regressione antidemocratica.
In nessun paese europeo di democrazia avanzata si è verificata infatti la sequenza ininterrotta di stragi e di omicidi politici che ha segnato la nostra storia dal secondo dopoguerra agli anni 90, i cui mandanti e complici eccellenti sono rimasti occulti a causa dei sistematici depistaggi di apparati statali. Depistaggi proseguiti dalla strage di Portella delle Ginestre del 1947 sino alle stragi politico-mafiose del 1992-’93, tanto da indurre il legislatore a ravvisare la necessità di introdurre nel 2016 nel Codice penale lo specifico reato di depistaggio.
In nessun paese europeo si registra, come in Italia, una presenza plurisecolare e pervasiva di mafie, alcune delle quali divenute componenti organiche di più ampi sistemi di potere mafiosi grazie a relazioni collusive e strutturali con soggetti appartenenti ai massimi vertici della nomenclatura politica, degli apparati statali e del mondo economico. In nessun altro paese europeo si registra la corruzione sistemica che ha caratterizzato la storia nazionale, un’eterna Tangentopoli dallo scandalo della Banca romana nel 1892 sino ai nostri giorni.
Ciò premesso, il dott. Nordio auspica uno stravolgimento della Costituzione con un insieme di proposte che hanno un unico comun denominatore: invertire i rapporti tra politica e magistratura per assicurare l’assoluto predominio della prima sulla seconda.
Il tutto proprio nell’attuale fase storica caratterizzata da una regressione della democrazia riconosciuta da tutti gli studiosi, alcuni dei quali segnalano l’inquietante clanizzazione della politica, cioè la sua progressiva degradazione a competizione tra clan sociali, gruppi di interesse, ristrette oligarchie interessate solo a autoperpetuarsi e a spartirsi le risorse collettive.
Vanno in questa direzione la sua proposta della nomina giudici non più per pubblico concorso (come previsto dall’art. 101 della Costituzione), ma per designazione governativa, nonché l’elezione popolare dei pubblici ministeri, con la conseguente mobilitazione di gruppi di potere, lobby e clan mafiosi per sostenere e finanziare l’elezione di pubblici ministeri graditi.
Conseguenza ampiamente prevedibile se si pensa al recente ritorno in campo, come protagonisti della politica e della scelta dei candidati per le elezioni, di personaggi condannati in via definitiva per collusione con la mafia.
Nella stessa direzione va la sua proposta di sottrarre alla magistratura il potere di dirigere le indagini (art. 109 della Costituzione), attribuendolo solo alle Forze di Polizia: un ulteriore coerente tassello per costruire una giustizia completamente asservita alla politica. Lo statuto professionale dei magistrati è caratterizzato da garanzie finalizzate a impedire indebiti condizionamenti (ad esempio, l’inamovibilità dall’ufficio e la progressione automatica in carriera salvo demerito), mentre gli appartenenti alle Forze di Polizia ne sono privi.
Stante la diversità delle loro funzioni, essi sono inseriti in strutture gerarchiche a piramide i cui vertici sono i ministri dell’Interno, della Difesa e delle Finanze, espressione delle maggioranze politiche contingenti.
L’esperienza storica è costellata di episodi di esponenti delle Forze di polizia retrocessi o trasferiti da un giorno all’altro, perché indisponibili a seguire direttive politiche dall’alto, o comunque sgraditi perché non malleabili.
Basti ricordare, per il suo carattere emblematico, la subitanea retrocessione e il trasferimento nel 1992 di Rino Germanà, valoroso poliziotto vittima di attentato mafioso in cui rischiò la vita, mentre su incarico di Paolo Borsellino indagava sui rapporti tra mafia e politica. L’esperienza storica dimostra come affidare la direzione delle indagini a una magistratura indipendente sia una garanzia per i cittadini contro il pericolo di abusi o deviazioni e depistaggi da esponenti infedeli delle Forze di Polizia.
Basti ricordare alcuni dei casi più eclatanti emersi solo grazie a tale garanzia costituzionale: dai depistaggi nelle indagini sulle stragi di Peteano (1972), Piazza Fontana (1969), Piazza della Loggia (1974), Bologna (1980), Via D’Amelio (1992), agli abusi delle Forze di Polizia e ai conseguenti depistaggi nelle vicende della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto al G8 a Genova (2001) e, più di recente, al caso di Stefano Cucchi.
Nella stessa direzione va l’idea di abolire l’obbligo del pm di esercitare l’azione penale (art. 112), finalizzato a garantire l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3), che sarebbe compromessa da scelte politiche discrezionali.
A dire il vero vi è una norma della Costituzione di cui il dott. Nordio rimpiange l’abrogazione e di cui auspica il ripristino. Guarda caso si tratta del divieto per i magistrati di avviare qualsiasi indagine nei confronti dei parlamentari senza l’autorizzazione delle Camere di appartenenza, abrogato a furor di popolo nel 1993 per gli abusi della classe politica che su 1225 richieste di autorizzazione ne aveva respinte ben 963, creando uno scudo impunitario che aveva contribuito a fare incancrenire la corruzione. Proposta coerente con l’impegno profuso dal dott. Nordio nella campagna referendaria di giugno, che tra l’altro mirava ad abrogare la legge Severino anche nella parte della incandidabilità di condannati con sentenza definitiva per gravi reati come quelli di mafia e di corruzione.
Da ultimo il dott. Nordio propone di risparmiare le spese di giustizia limitando le intercettazioni telefoniche e ambientali: evidentemente ignora che esse sono da tempo lo strumento principale per le indagini contro mafia e corruzione, e non solo hanno consentito allo Stato un efficace contrasto a tali forme criminali e di parassitismo sociale, causa di gravi danni all’economia, ma anche di sequestrare e confiscare ingentissimi patrimoni illegali di valore molto superiore ai costi delle intercettazioni.
Il dott. Nordio ha il pieno diritto di esprimere le sue idee, ma nel momento in cui è candidato alle elezioni e si auspica la sua nomina a ministro della Giustizia le sue proposte perdono valenza individuale e assumono il carattere di un organico progetto politico.
Progetto tanto più inquietante ove si consideri il crescente indice di gradimento che inizia a riscuotere nell’establishment di potere, da tempo impegnato in un regolamento di conti con la magistratura il cui traguardo finale è proprio quello indicato dal dott. Nordio: assicurare l’egemonia della politica sulla giustizia.
Il che dimostra come in Italia la questione giustizia, oggi come ieri, non sia riducibile solo a problematiche tecniche e di stanziamento di risorse, ma resti inestricabilmente connesso alla questione della Stato e della democrazia.
Quale Giustizia? Quella voluta dai nostri padri costituenti o quella auspicata dai fan sempre più numerosi del dott. Nordio?
Roberto Scarpinato
(da il Fatto Quotidiano)
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Settembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
RUFFINI E MINENNA SARANNO SOSTITUITI, DESCALZI, DONNARUMMA, FOLGIERO E MATTARELLA (NIPOTE) RIMARRANNO. STARACE E PROFUMO OUT – PER IL TESORO ORA SPUNTA IL NOME DI LUIGI BUTTIGLIONE, CONSIGLIATO ALLA MELONI DA PANETTA
Per capire come si sta componendo la rete che con molta probabilità accompagnerà Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, occorre scorgere le mosse dei suoi fedelissimi.
Quelle di Francesco Lollobrigida, capogruppo alla Camera e marito della sorella. Quelle di Guido Crosetto, fondatore del partito e a capo dell’associazione italiana dei produttori di armi.
E quelle di Adolfo Urso, già ministro ai tempi di Alleanza Nazionale e silenzioso presidente del Copasir, il comitato parlamentare per i servizi segreti. Dalle parti di Fratelli d’Italia – e non solo – c’è la convinzione che il voto del 25 settembre sarà un successo migliore delle attese.
Dunque è ora di accreditarsi, costruire relazioni, iniziare a ragionare come presentarsi di fronte al capo dello Stato con le idee chiare, quando il tempo delle decisioni arriverà e il tempo sarà poco.
Raccontano i ben informati che Urso questa settimana ha in programma un viaggio a Washington. In agenda – lo confermano fonti americane – ha incontri con membri repubblicani del Congresso, fondazioni politiche, rappresentanti dell’Amministrazione.
Il 19 agosto, mentre Roma consumava gli ultimi pomeriggi pigri del Ferragosto, Urso ha ricevuto a Roma sei senatori americani membri di commissioni decisive del congresso: Difesa, Energia, Intelligence. Crosetto sta curando i rapporti con il mondo della finanza e ha preparato il terreno per un incontro nella City dopo il 25 settembre.
Lollobrigida è concentrato sulla politica. Con discrezione, è a lui che la leader ha chiesto di essere presente al discorso di Mario Draghi a Rimini, colui che in giro per le cancellerie spiega di dare fiducia a colei che (se in sondaggi non sbagliano) sarà la prima capa di governo della storia repubblicana.
«Ci attendiamo che Urso ci confermi la continuità istituzionale dell’Italia», fa sapere una delle fonti che incontrerà il presidente del Copasir a Washington.
A parole, e sulla base delle informazioni raccolte, l’intenzione è questa, anche se molto dipenderà dai rapporti di forza che usciranno dalle urne con Lega e Forza Italia, sulla cui ferma fedeltà atlantica fuori dall’Italia c’è chi avanza più di un dubbio.
Benché sia presto per dare per certa la scelta delle caselle, con l’aiuto di alcune fonti incrociate si possono avanzare però ipotesi credibili.
Al governo cambierà tutto, ed è inevitabile sia così vista la natura istituzionale del governo Draghi. Salvo forse per un nome: Roberto Cingolani. Il fisico pugliese, già patron dell’Istituto italiano di tecnologia e capo della ricerca di Leonardo potrebbe restare al suo posto, per almeno due ragioni. La prima: la sua conferma servirebbe a rassicurare l’Europa sulla continuità della politica energetica italiana. La seconda: benché i Cinque Stelle ne abbiano sempre rivendicato la paternità della scelta, è l’unico esponente tecnico dell’attuale governo che è riuscito a evitare l’accusa di avere referenti politici .
Nel caso di riconferma, sarebbe però affiancato da una figura nuova: un ministro dedicato al piano nazionale delle riforme.
Salvini e Berlusconi rivendicheranno posti, dunque è difficile immaginare una lista precisa dei ministri. Ma si possono dare per certe alcune indicazioni. Meloni ha già fatto sapere al Quirinale di essere disposta alla «massima collaborazione istituzionale» su quattro nomi, quelli sui quali il Capo dello Stato ha sempre messo bocca: Interni, Esteri, Difesa e Tesoro.
Per quest’ ultima casella sarebbero già state scartate le ipotesi di tre ex: Giulio Tremonti (ricorda troppo l’esperienza del 2011), Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli (indisponibili). Sembra fuori gioco anche il membro del board della Banca centrale europea Fabio Panetta, che ambisce alla successione a Ignazio Visco alla Banca d’Italia.
Il nome più accreditato in questo momento è quello di Luigi Buttiglione, già funzionario di via Nazionale e poi della banca di investimento Brevan Howard. Consigliato alla Meloni da Panetta, gode di una discreta fama nel mondo accademico. Qualche anno fa – correva il 2014 – firmò un articolo con l’economista italiana Lucrezia Reichlin e il capo economista di Francoforte, l’ex governatore della Banca d’Irlanda Philip Lane, molto stimato da Draghi.
«Non c’è nulla di anomalo nell’avvalersi di alcune figure con profilo più tecnico che politico», spiega Giovanbattista Fazzolari, senatore del partito e responsabile del programma. A dar retta alle voci di palazzo, Fazzolari è in competizione con Urso per la poltrona di sottosegretario alla presidenza, se a quest’ ultimo non verrà assegnato un ministero di peso.
«Tenuto conto delle indicazioni del capo dello Stato, credo ci sarà spazio anche per qualche spacchettamento di ministeri», aggiunge una fonte della Lega. Fra le ipotesi c’è quella di ricostituire il ministero delle Finanze, dove è in buona posizione l’ex sottosegretario di Alleanza Nazionale Maurizio Leo.
Fatto il governo verrà il momento delle nomine. Il primo passo saranno i massimi dirigenti dei ministeri: entro sessanta giorni dall’insediamento la legge consente al nuovo governo di cambiare il direttore generale, il capo dipartimento del Tesoro e il Ragioniere generale dello Stato.
Dei tre attualmente in carica (Alessandro Rivera, Fabrizia Lapecorella e Biagio Mazzotta) quello meno in bilico è l’ultimo. Cambieranno quasi certamente i vertici dei servizi segreti (al Dis ora c’è Elisabetta Belloni), mentre potrebbe essere confermato in un ruolo di vertice l’ex capo della Polizia e attuale sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli.
A gennaio scadono i vertici dell’Agenzia delle Entrate (Ernesto Ruffini) e quello delle Dogane (Marcello Minenna): entrambi verranno sostituiti. Poi, con la primavera, verrà il momento della grande abbuffata delle partecipate pubbliche. Anche in questo caso – nonostante manchi qualche mese – nei palazzi fioriscono le ipotesi.
Quelle sulle conferme: Claudio Descalzi all’Eni (molto apprezzato al Quirinale nonostante le inchieste che lo hanno lambito), Stefano Donnarumma a Terna, Pierroberto Folgiero, l’uomo scelto da Draghi per porre fine alla monarchia pluridecennale di Giuseppe Bono a Fincantieri e Bernardo Mattarella (nipote del Presidente) a Invitalia.
Matteo Del Fante potrebbe spostarsi da Poste a Enel, dove volge al termine la lunga stagione di Francesco Starace.
E’ quasi certa la sostituzione dell’ex numero uno di Unicredit Alessandro Profumo alla guida di Leonardo, scelto per la prima volta dal governo Renzi.
Infine c’è la potente poltrona della Cassa depositi e prestiti, la holding pubblica che possiede alcune fra le più importanti partecipazioni dello Stato (da Autostrade a Tim), e da cui passerà la decisione sulla creazione di una rete unica pubblica di telecomunicazioni. L’ex vicepresidente della Banca europea degli investimenti Dario Scannapieco – molto legato a Draghi – è disponibile alla riconferma, ma a Palazzo Chigi in pochi credono avverrà
(da La Stampa)
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Settembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
UNA SORTA DI ‘BABY TALK’, QUELLE VOCINE CHE GLI ADULTI FANNO PER RIVOLGERSI AI BAMBINI. STRANO CHE GLI ESPERTI DEI CANDIDATI IGNORINO QUESTE REGOLE ELEMENTARI
I politici che si sono esibiti su TikTok per conquistare i giovani al voto hanno sfiorato il ridicolo per l’infantilismo linguistico con cui si sono presentati, una sorta di lallazione informatica, di «baby talk», quelle vocine che gli adulti fanno per rivolgersi ai bambini. Le risposte ricevute sul web da alcuni giovani andrebbero tenute in conto.
Strano che gli esperti dei candidati ignorino queste regole elementari di comunicazione, come se la distanza fra i partiti italiani (nati più di cent’ anni fa) e la generazione… (ultime lettere dell’alfabeto, a piacere) appaia incolmabile.
La disintermediazione, frutto della rivoluzione informatica, ha assestato un duro colpo al vecchio edificio della conoscenza, a partire dalla scuola.
I giovani s’ informano sull’attualità per altre vie, attraverso pratiche algoritmiche di non facile decrittazione, seguendo forme nuove di passaparola (i social sono mezzi ma anche comunità).
Ed è sempre più difficile, per un politico, spiegare loro ideologie e programmi di governo. Le barzellette di Berlusconi hanno fatto il botto?
Certo, secondo il «canone Gigi Baggini» (Ugo Tognazzi che balla il Tip Tap in «Io la conoscevo bene»; c’è su YouTube). Ancora una volta, toccherà ai giovani inventarsi il futuro. È lì che passeranno il resto della loro vita, a partire dal voto delle prossime elezioni.
(da Il Corriere della Sera)
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Settembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
SECONDO GLI ESPERTI CI SONO DUE IPOTESI: O HA DECISO DI CHIAMARE I SUOI A RACCOLTA, PREOCCUPATO PER UNA POSSIBILE CONTESTAZIONE IN PATRIA, OPPURE VUOLE RICICLARSI IN UN ALTRO RUOLO, MAGARI CON L’AIUTO DELL’AMICO VLADIMIR PUTIN (CHE GIÀ L’HA PROMOSSO NEL 2007)
«Sono pronto a prendermi una paura indefinita e lunga». Così ieri il capo della Repubblica cecena Ramzan Kadyrov ha lasciato pensare — con un video su Telegram —a una sua possibile uscita di scena.
«Oggi ho scoperto di essere, in effetti, il capo in carica “più longevo” all’interno della Federazione Russa. Dirigo già la Repubblica da 15 anni. Penso che sia venuta la mia ora prima che gli altri mi caccino via» ha detto nel video.
Un’uscita su cui molti media occidentali hanno sollevato dubbi.
Sulla Bbc Sarah Rainsford ha condiviso il filmato scrivendo: «Ma Kadyrov si sta dimettendo o questa è una delle sue strane uscite? Dice che ha appena realizzato di aver guidato la Cecenia per 15 anni… Forse vuole solo che lo preghino di rimanere».
Il giornalista di Politico Harold Chambers ha pubblicato su Twitter un thread ironico dal titolo: «Should I stay or should I go» (con evidente citazione dei Clash) in cui ricorda dichiarazioni simili del leader ceceno nel 2016 e nel 2017.
Per Chambers ci sono due possibili scenari. Il primo è che Kadyrov, preoccupato da una possibile contestazione in patria, abbia deciso di chiamare i suoi a raccolta.
Il secondo è che si stia veramente preparando a uscire di scena magari per riciclarsi in altro ruolo. «Ma l’ipotesi più probabile — scrive il giornalista — è la prima. Kadyrov dice sempre molte cose contraddittorie».
«Promosso» nel 2007 dallo zar Putin ai vertici della Repubblica autonoma russa cecena, l’operato politico di Kadyrov è stato fortemente criticato dalla comunità internazionale e dalle organizzazioni umanitarie, che non gli hanno perdonato l’atteggiamento antidemocratico, le sue azioni lesive dei diritti umani, ma anche il ricorso frequente agli arresti illegali e, in anni più recenti le accuse di persecuzioni nei confronti della comunità Lgbt. Imprese commesse dai famigerati «kadyrovtsy», la milizia paramilitare che opera al suo fianco.
Soprannominato «il macellaio di Grozny», Kadyrov sarebbe collegato — secondo il giornale Novaya Gazeta — anche al caso dell’omicidio della giornalista Anna Politkovskaya, che aveva concentrato la maggior parte del suo lavoro proprio sulla Cecenia, dilaniata in quegli anni dal separatismo stragista da un lato e dalla cronica violazione dei diritti umani dall’altro.
Negli ultimi mesi, infine, ha destato allarme la sua partecipazione attiva al conflitto bellico in Ucraina a fianco ovviamente del suo potente protettore, il leader del Cremlino, ed in particolare le sue azioni sul campo come l’assedio alla città di Kiev, le scorribande all’impianto chimico di Azot o all’acciaieria di Mariupol, la città martire occupata dai russi dopo settimane di offensiva.
«Imprese» belliche per nulla esenti da critiche da parte della stampa occidentale, che più volte ha paventato il rischio di ulteriori massacri o crudeltà come quelle commesse nel suo Paese ai danni della popolazione a maggioranza musulmana o nei confronti di attivisti e giornalisti scomodi.
(da agenzie)
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Settembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
LA GUERRA IBRIDA SARA’ VINTA DA CHI SARA’ IN GRADO DI RESISTERE PIU’ DELL’ALTRO
Il vero tallone di Achille per Kyiv è la sua dipendenza dagli aiuti occidentali, e che questa sta diventando sempre di più una guerra ibrida di Mosca contro l’Occidente, dove alla fine vincerà chi sarà in grado di resistere maggiormente rispetto all’altro.
Ciò è diventato ancora più vero adesso che Mosca sembra essere disposta disposta ad usare, costi quel che costi, la sua arma finale: ovvero tagliare le forniture del gas ai Paesi europei, per obbligare i Paesi occidentali a cambiare atteggiamento verso la Russia e soprattutto porre fine al loro supporto verso l’Ucraina.
Si tratta a tutti gli effetti di una “guerra ibrida” scatenata dalla Federazione Russa contro l’Occidente, progettata per erodere la fiducia delle opinioni pubbliche nei propri governi, scatenare rivolte sociali a causa del caro prezzi e cercare così di indebolire e dividere l’Alleanza Atlantica e l’Unione Europea che finora si sono dimostrate straordinariamente unite nel proprio supporto verso Kyiv.
Prima di entrare nel dettaglio, occorre analizzare il modo in cui l’élite russa e soprattutto il presidente Vladimir Putin percepiscono l’andamento di questa guerra.
Incapace di comprendere come la resistenza ucraina possa aver fermato la possente armata russa invece di accogliere i russi con i fiori come liberatori, Putin e la sua armata di propagandisti in Russia hanno spiegato che il motivo di questo “temporaneo” rallentamento è l’interferenza occidentale in Ucraina, ma promettendo che comunque alla fine la Russia otterrà i suoi obiettivi.
Putin ha persino coniato un termine, quello di “Occidente collettivo”, per designare ciò che considera il vero nemico della Federazione Russa in questo scontro epocale che ha sempre più i toni di una nuova “grande guerra patriottica”, così come i russi definiscono la Seconda guerra mondiale e la lotta contro il nazismo.
Per Putin, l’Occidente collettivo e soprattutto quello che ne definisce il Paese egemone, gli Stati Uniti, sono impegnati in uno scontro aperto contro la Russia atto ad impedire a questa ultima di adempiere al suolo ruolo di grande potenza, e contestualmente difendere l’egemonia occidentale sempre più in declino in tutto il mondo.
I recenti movimenti americani nel Pacifico con la creazione di un blocco in funzione anticinese (AUKUS) e la visita di Pelosi a Taiwan, agli occhi del Cremlino, sono ulteriori conferma della “strategia voluta degli Stati Uniti per destabilizzare e creare caos in questa regione e nel mondo” e della “mancanza di rispetto da parte di Washington per la sovranità degli altri Paesi ed i propri obblighi internazionali”.
In questo contesto, secondo Putin, “la situazione in Ucraina mostra chiaramente come gli Stati Uniti intendano portare avanti il conflitto il più possibile” a scapito della stessa popolazione ucraina, o come dicono i propagandisti russi, “combattendo fino all’ultimo ucraino”.
A supporto di tale affermazione, Mosca punta il dito sugli aiuti militari forniti a Kyiv sotto forma di armi avanzate da parte dell’Occidente, in particolare gli HIMARS che hanno permesso all’Ucraina di fermare l’avanzata russa nel Donbass e creare una situazione di stallo che va avanti ormai da almeno due mesi.
Proprio in questi giorni, il Viceministro degli Esteri russo, Sergey Ryabkov, ha alzato i toni della retorica sostenendo che “ormai c’è solo una sottilissima linea a separare gli Stati Uniti dal diventare una parte in conflitto” a tutti gli effetti e che “nulla rimarrà immutato” nei rapporti tra le due potenze.
È quindi sempre più evidente che Mosca consideri la sua “operazione militare speciale” in Ucraina come proxy di una guerra contro l’Occidente che non può essere combattuta a tutti gli effetti solo perché si trasformerebbe in un Olocausto nucleare dove nessuna delle due parti ne uscirebbe vincitore.
Ne consegue che il campo di battaglia di questa guerra sta diventando sempre di più quello economico e sociale, ed il fattore chiave la capacità di resistenza delle due parti in causa.
L’intento del Cremlino sta diventando sempre di più quello di trasformare questa guerra in un lungo scontro contro l’Occidente, contando sul fatto che, messi con le spalle al muro dalla crisi energetica, l’alta inflazione e la crisi economica, i governi occidentali saranno alla fine costretti a fare un passo indietro e fare pressioni su Kyiv affinché accetti una pace alle condizioni di Mosca, per evitare rivolte di piazza.
In sintesi, quindi, la strategia russa è quella di cercare di vincere altrove una guerra che non si è più in grado di vincere militarmente sul campo, contando sul collasso economico dell’avversario, e sulla propria innata capacità di sopportazione. Ma proprio per questo, rappresenta un ricatto a cui bisogna opporsi a tutti i costi.
Una delle falsità che si sentono spesso dire in giro è che le sanzioni imposte dall’Occidente contro la Russia non stiano ottenendo alcun effetto. Questa frase è ripetuta sempre più spesso da coloro che chiedono di porre fine al supporto occidentale verso l’Ucraina e di aprire trattative con Mosca.
Ma quanto c’è di vero in queste affermazioni? La Russia ha sicuramente dimostrato una capacità di assorbimento delle sanzioni maggiore di quella che molti esperti occidentali ritenevano inizialmente. Ciò è stato dovuto anche alla loro preparazione – è almeno dal 2014, ovvero dall’annessione della Crimea, che le autorità russe si preparavano a questa eventualità.
In particolare, Mosca è stata aiutata dal fatto che i prezzi dell’energia al momento restano così elevati, permettono loro di continuare ad ottenere ricavi sostanziali (con cui finanziare in parte le maggiori spese militari dovute alla guerra in Ucraina) nonostante gli effetti delle sanzioni.
Inoltre, il rublo russo, che nei primi giorni di guerra era crollato ai minimi, si è poi ripreso fortemente fino a raggiungere un tasso di cambio verso il dollaro e l’euro che non si vedeva da anni, grazie ad una intelligente politica monetaria portata avanti dalla Banca Centrale russa. Questi risultati sono stati propagandati in continuazione come la prova del “fallimento del blitz” economico occidentale contro la Russia.
Ma se si analizzano le cose più in profondità, si può notare come l’economia russa stia in realtà soffrendo lo stesso pesanti conseguenze dalle sanzioni e soprattutto che la situazione non farà altro che peggiorare nel tempo.
Ormai non passa un giorno prima che qualche grande azienda internazionale non annunci il suo abbandono dal mercato russo. Alcune multinazionali occidentali sono state persino disposte a svalutazioni drammatiche delle proprie partecipazioni pur di liberarsi il prima possibile delle proprie attività in Russia, tanto tossica la presenza nel mercato è diventata per la loro immagine e per il proprio business.
Tutto ciò sta necessariamente comportando effetti collaterali come il taglio degli investimenti e dei posti di lavoro in Russia. Nonostante il tasso di disoccupazione ufficiale sia fermo al 3,9%, il numero di russi che si trovano in aspettativa è in costante aumento. Ed i disoccupati hanno già raggiunto la ragguardevole cifra di 3 milioni di persone.
L’industria automobilistica, a lungo un simbolo del successo russo, è stata quella maggiormente colpita: le grandi aziende internazionali (Volkswagen, Nissan, Hyundai, Stellantis, Mitsubishi e Volvo) hanno sospeso le proprie attività in Russia (ed in alcuni casi stanno pensando di ritirarsi definitivamente) mettendo in aspettativa più di 14 mila lavoratori qualificati.
Una delle principali aziende automobilistiche russe, Avotvaz, ha visto le sue vendite crollare del 63% nei primi 7 mesi dell’anno ed è costretta ora a costruire nuove auto senza aria condizionata, ABS, controllo elettronico della stabilità e airbag per via della carenza di componenti e materie prime a causa delle sanzioni decise dall’Occidente
Non va certo meglio per il settore aeronautico che, in mancanza della fornitura di pezzi di ricambio dall’estero, è costretta di fatto a “cannibalizzare” le proprie flotte aeree per compiere la manutenzione necessaria per far volare in sicurezza i propri aerei.
A tutto questo occorre aggiungere anche il fatto che a causa delle sanzioni Mosca ha perso anche l’accesso a fondamentali forniture di chip e sistemi tecnologici che impattano direttamente la capacità russa di rifornire le truppe in battaglia al fronte di sistemi militari avanzati.
Ad esempio, a causa della mancanza di componenti di provenienza occidentale, di recente due dei principali stabilimenti di produzione di carri armati di ultima generazione – Uralvagonzavod Corporation e Chelyabinsk Tractor Plant – hanno dovuto sospendere temporaneamente le proprie attività.
Anche gli stabilimenti per la produzione di missili hanno problemi ad ottenere i chip necessari per i sistemi di guida satellitare: tutto questo significa che Mosca diventa sempre più dipendente dall’uso in battaglia di sistemi datati, oppure di provenienza cinese. Ma anche Pechino non è in grado di sostituire totalmente le forniture occidentali, a causa del rischio di sanzioni secondarie.
In questo contesto, anche le stime più ottimiste sull’andamento dell’economia russa nel 2022 parlano di una discesa del PIL di non meno di 6 punti percentuali, più pesante del crollo economico del 1998 che aveva portato la Russia di Boris Eltsin sull’orlo del default ed aperto la strada all’ascesa politica di Vladimir Putin al Cremlino.
Secondo diversi analisti il momento più difficile sarà il primo trimestre del 2023, e questa discesa sarà poi seguita da una lunga stagnazione, prima che la Russia possa tornare a crescere economicamente. Insomma, se tutto va bene si tratta di anni persi per un Paese che già non brillava economicamente in precedenza.
A controprova di tutto quanto appena detto, c’è l’atteggiamento stesso della leadership russa quando si parla di sanzioni: se da una parte si afferma ufficialmente che le sanzioni hanno fallito miseramente il proprio obiettivo, dall’altra parte ogni discorso è infarcito di accuse e minacce contro l’Occidente proprio a causa di queste ultime.
La domanda, dunque, sorge spontanea: per quale motivo la Russia spinge a tutti i costi per ottenere la cancellazione delle sanzioni se non hanno avuto alcun effetto, come Mosca ci vuole far credere?
Le sanzioni europee sull’energia
È arrivato il momento quindi di sfatare un mito: spesso si afferma che l’Europa si è voluta far male da sola imponendo delle sanzioni sul settore energetico che non è in grado di sostenere per i danni che hanno già causato alle proprie economie.
Non è così: anzitutto le sanzioni approvate sul settore energetico sono state limitate sul settore petrolifero e non su quello del gas che è molto più importante per l’Europa.
Inoltre, tali sanzioni entreranno in vigore solo nel mese di dicembre. Solo allora, infatti, l’Unione Europea bloccherà circa il 90% della propria importazione petrolifera dalla Russia, e questo causerà un taglio previsto della produzione petrolifera russa fino a 2,3 milioni di barili al giorno, un dato imponente per un Paese che dipende quasi interamente dalle sue esportazioni energetiche.
Prima della guerra, l’Europa era infatti il principale mercato per l’esportazione del petrolio russo: nel 2021 circa metà di tutte le esportazioni petrolifere e di prodotti derivati dal petrolio russo sono andate in Europa, contro il 31% in Cina e circa l’1% in India. Nel solo mese di gennaio 2022, l’ultimo prima della guerra, l’Europa da sola ha importato dalla Russia poco più di 4 milioni di barili di petrolio e prodotti petroliferi al giorno.
Non sarà facile per la Russia trovare delle alternative: le forniture verso il mercato asiatico, che sono aumentate drammaticamente rispetto allo scorso anno, si sono già ridotte rispetto ai primi mesi, e la mancanza di infrastrutture chiave come gli oleodotti verso questi Paesi non farà altro che peggiorare le cose.
Secondo una stima della società di analisi Rystad Energy, anche nel migliore dei casi la Russia sarà in grado di trovare acquirenti solo per 1 milione di barili al giorno, vale a dire meno della metà di quelli persi.. L’India e la Cina, i principali potenziali acquirenti alternativi di petrolio russo, hanno infatti altri fornitori in Medio Oriente e non possono ritirarsi da quei contratti facilmente.
Inoltre, le sanzioni imposte dall’Unione Europea e dal Regno Unito hanno come intento anche quello di colpire anche un altro elemento chiave del mercato petrolifero per danneggiare la Russia: è stato infatti imposto anche il divieto delle assicurazioni per le navi che trasportano petrolio russo via mare.
“La Cina è già al limite della capacità e non ci sono infrastrutture disponibili per trasportare li ulteriore petrolio. L’India ha già aumentato le sue importazioni a 1 milione di barili giornalieri. Il trasporto marittimo diventa essenziale in questo scenario, ed è per questo che le sanzioni diventano fondamentali per ridurre il reindirizzamento delle esportazioni di petrolio russo”, afferma Roger Diwan, viceresponsabile della ricerca e dell’analisi sull’upstream di S&P Global Commodity Insights.
È vero, la Russia può cercare di aggirare le sanzioni usando degli intermediari per mascherare il Paese di origine del greggio e dei prodotti petroliferi mescolandoli con petrolio di altri Paesi e dando alla miscela un nuovo nome.
Monitorare le potenziali elusioni dell’embargo non sarà facile. Ad esempio, il petrolio dei giacimenti kazaki esportato dal porto di Novorossijsk potrebbe essere facilmente mescolato con quello russo.
Un altro segnale che i fornitori stanno cercando di eludere le sanzioni in questo senso è l’enorme aumento di petroliere che trasportano petrolio russo e che negli ultimi mesi hanno spento i loro dispositivi di tracciamento.ù
Ma anche tutte queste scappatoie non basteranno, alla lunga, per evitare il pesante impatto di queste sanzioni sul bilancio russo. I proventi del petrolio e del gas restano infatti di gran lunga la principale fonte di reddito del bilancio federale della Russia.
Nonostante le numerose dichiarazioni delle autorità, Mosca non è riuscito a liberarsi dalla “dipendenza da petrolio” quando è iniziata la guerra delle sanzioni con l’Occidente.
Nel 2021, l’energia rappresentava il 49% di tutti i proventi delle esportazioni (243,8 miliardi di dollari) e le entrate da petrolio e gas rappresentavano il 36% del bilancio federale.
Nel 2022, la dipendenza del bilancio dalle esportazioni energetiche non ha fatto che aumentare, grazie al fatto che le entrate da petrolio e gas sono cresciute grazie agli alti prezzi del petrolio (nonostante il petrolio degli Urali sia più economico del Brent di 30-35 dollari al barile per tenere conto dei rischi delle sanzioni), ed al contemporaneo crollo delle altre fonti di ricavo a causa della situazione economica.
Ad aprile, i ricavi delle esportazioni di petrolio e gas hanno raggiunto 1,8 trilioni di rubli (29 miliardi di dollari) rispetto ai 1,2 trilioni di rubli (19,5 miliardi di dollari) di marzo, e la quota di ricavi sul bilancio federale è salita così al 63%.
Tutto questo espone ovviamente il bilancio russo a seri rischi di sostenibilità nel caso in cui i prezzi dell’energia dovessero scendere in futuro – ed i prezzi non potranno ovviamente continuare a restare così alti per sempre.
Infine, anche l’isolamento tecnologico dovuto alle sanzioni farà la sua parte: le aziende petrolifere russe saranno infatti sempre meno in grado di realizzare progetti complessi come l’estrazione di petrolio da riserve difficili da recuperare.
In assenza di investimenti e di tecnologia straniera, l’attività di perforazione diminuirà e la produzione di petrolio potrebbe calare fino al 17% già entro la fine del 2022, secondo alcune stime.
La guerra del gas
Uno dei motivi per il quale l’Europa ha imposto sanzioni sul settore petrolifero invece che sul gas è il fatto che la dipendenza della Russia dal gas è la metà di quella dal petrolio: nel 2021, le esportazioni di petrolio rappresentavano il 22,4% delle esportazioni totali del Paese in termini monetari; il gas naturale solo l’11,3%.
Viceversa, il gas naturale proveniente dalla Russia è di importanza cruciale per l’Europa: nel 2021, i Paesi dell’UE ne hanno acquistato 155 miliardi di metri cubi, pari al 45% del gas totale importato dall’Europa e a circa il 40% del suo consumo di gas.
Mosca lo sa benissimo ed infatti sin dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ha giocato con le ansie europee sulle forniture di gas per fare pressioni sull’Unione Europea.
Si è iniziati subito in primavera con la decisione da parte di Mosca di imporre il pagamento delle forniture di gas in rubli, accettata obtorto collo dalle controparti europee dopo le minacce di Mosca, nonostante i dubbi sulla liceità contrattuale di tale richiesta. Poi in estate si è passati direttamente ai tagli alle forniture di gas.
Usando come giustificazione l’impossibilità di ricevere le turbine riparate necessarie per il funzionamento del gasdotto Nord Stream 1 a causa delle sanzioni, la Russia ha gradualmente tagliato le forniture di questo gasdotto chiave per le forniture della Germania fino al 20% del totale della capacità, nonostante le proteste occidentali e la decisione di implementare un waiver alle sanzioni proprio per consentire la consegna di queste turbine.
L’ultima scusa trovata dai russi per azzerare del tutto l’invio di gas è stata quella di aver riscontrato alcune perdite di carburante in una turbina che renderebbe troppo rischioso il funzionamento delle turbine di pompaggio del gasdotto e comprometterebbe quindi il suo funzionamento, come ha affermato il gigante dell’industria del gas russo, Gazprom, in una dichiarazione pubblicata venerdì 2 settembre.
Siemens Energy AG, la società tedesca che si occupa della riparazione delle turbine di Nord Stream 1, ha subito risposto a Gazprom affermando che si tratta di problemi normali e che non vede alcun motivo valido per fermare l’invio del gas a tempo indeterminato in attesa che la perdita sia aggiustata. Stessa posizione è stata espressa dalle autorità federali tedesche.
Ma qualunque sia il reale motivo dell’ultima azione di Gazprom, ci sono pochi dubbi sul fatto che la guerra del gas sia diventata una proxy della guerra in Ucraina e del risentimento russo per le sanzioni imposte dall’Occidente ed i piani di eliminazione graduale delle importazioni di gas e petrolio russo.
Mosca sta approfittando della vulnerabilità attuale dell’Europa a causa della sua dipendenza dal gas naturale russo, per cercare di far salire il prezzo del combustibile a livelli estremamente elevati in tutta Europa e diffondere i timori di una crisi energetica generalizzata quest’inverno.
La Russia è talmente determinata su questo aspetto da aver deciso di bruciare, in tono di sfida, il proprio gas alla stazione di compressione di Portovaya, vicino al confine con la Finlandia, piuttosto che spedirlo ai propri clienti finali europei.
Citando le analisi di Rystad Energy, la BBC ha riferito che ogni giorno vengono bruciati circa 4,34 milioni di metri cubi di gas dalle torri di combustione che sono utilizzate per bruciare il gas infiammabile rilasciato dalle valvole di sicurezza durante la sovrapressione delle apparecchiature dell’impianto. Parliamo letteralmente di milioni di dollari in fiamme.
Perché la Russia è costretta a bruciare il gas?
Miguel Berger, ambasciatore tedesco nel Regno Unito, ha dichiarato di recente a BBC News che gli sforzi europei per ridurre la dipendenza dal gas russo stanno “avendo un forte effetto sull’economia russa” e punta alla decisione russa di bruciare il gas come prova delle sue affermazioni: “Non hanno altri posti dove vendere il gas; quindi, sono costretti a bruciarlo rilasciandolo nell’atmosfera”.
Tutto questo è vero. E per spiegarne il motivo è arrivato il momento di sfatare un secondo mito: a differenza di quanto si dice spesso, per la Russia è, infatti, enormemente complesso trovare nuovi mercati per il gas, una volta deciso di fermare la fornitura di gas all’Europa.
Anzitutto Mosca ha iniziato a fornire gas all’Asia solo nel 2009 e il mercato europeo rimane di gran lunga molto più grande e redditizio.
Ma soprattutto, c’è un grosso problema logistico da risolvere. A differenza del petrolio che si può trasportare in maniera relativamente semplice sulle petroliere via mare ed essere immediatamente utilizzabile a destinazione, il gas può essere trasportato a destinazione solo in due modi: via gasdotto oppure sottoforma di gas naturale liquefatto (GNL).
Ma l’utilizzo di GNL comporta la necessità che anche il Paese che lo riceve sia dotato della strumentazione adatta per trasformare nuovamente il gas naturale in stato gassoso: si tratta dei cosiddetti rigassificatori, di cui tanto si parla da noi ultimamente durante la campagna elettorale, e di cui non tutti i Paesi sono dotati in gran numero.
La costruzione delle infrastrutture per il trasporto del gas non è un compito che può essere svolto da un giorno all’altro ed i gasdotti che la Russia dispone attualmente non hanno una capacità neanche lontanamente sufficiente per sostituire i volumi che il Paese vendeva all’Europa prima dell’invasione dell’Ucraina.
Questi sono i numeri in dettaglio: nel 2021 la Russia ha venduto circa 33 miliardi di metri cubi (bcm) di gas all’Asia, rispetto a un mercato europeo che di solito importa 160-200 bcm dalla Russia.
Due terzi del gas che la Russia ha inviato in Asia sono arrivati sotto forma di GNL: 14 miliardi di metri cubi dal progetto Sakhalin-2, destinati a Giappone, Corea, Taiwan e Cina, e 8,5 miliardi di metri cubi dal Yamal LNG, che serve soprattutto la Cina, ma anche Giappone, Corea, Taiwan e India (volumi minori sono stati destinati a Bangladesh, Indonesia e Singapore).
La Russia ha inoltre consegnato 10 miliardi di metri cubi alla Cina attraverso il gasdotto Power of Siberia, che è stato lanciato alla fine del 2019 e che a regime fornirà 38 miliardi di metri cubi all’anno.
Con le infrastrutture esistenti, dunque, al massimo la Russia potrebbe fornire 80 miliardi di metri cubi all’Asia, suddivisi tra gasdotti e GNL. Ma si tratta di volumi ancora lontani da quelli che la Russia esporta ogni anno in Europa.
Dovranno essere quindi costruiti nuovi gasdotti verso l’Asia per equiparare i volumi di gas venduti all’Europa, ma ci vorrà parecchio tempo.
La vera svolta per Mosca in questo sarebbe il gasdotto Power of Siberia 2 da 50 miliardi di bcm annuali, che, secondo il progetto, dovrebbe collegare i giacimenti della Siberia occidentale alla Cina. Sebbene la Russia promuova questo gasdotto da quasi un decennio, finora non è stato però firmato alcun contratto di fornitura con la Cina e la sua costruzione richiederebbe almeno 5 anni, secondo le migliori stime.
Nel migliore dei casi, dunque Power of Siberia 2 potrebbe entrare in funzione attorno al 2030, consentendo solo allora alle forniture di gas russo in Asia di avvicinarsi ai livelli del 2021 per l’UE.
Ma anche in questo caso, perdere il mercato europeo del gas rappresenterebbe un duro colpo per l’industria energetica russa. La Cina, infatti, già oggi tende a pagare il gas russo molto meno dell’Europa. Addirittura, tende a pagare meno la Russia che i fornitori dell’Asia centrale.
La Cina, inoltre, si è dimostrata meno disposta a permettere a Gazprom di costruire qualsiasi tipo di attività all’interno del Paese, a differenza dell’Europa dove Gazprom è riuscita nel tempo a creare una serie di joint venture.
Soprattutto, la quota di mercato della Russia in Asia resterà marginale anche in futuro. Persino quando Power of Siberia 2 raggiungerà la sua piena capacità, la Cina finirebbe per importare dalla Russia meno del 10% del suo fabbisogno di gas (la domanda cinese nel 2021 era di circa 367 miliardi di metri cubi e sta continuando a crescere rapidamente).
La Russia non avrà dunque mai ampio potere di mercato in Asia, certamente non al livello della sua posizione dominante attuale nel mercato europeo. Nel frattempo, non avendo accesso immediato a nessun mercato alternativo è costretta a bruciare milioni di metri cubi di gas ogni giorno.
La reazione occidentale: il tetto sui prezzi e il rischio di razionamenti
Nonostante i rischi a lungo termine per la Federazione Russa legati alla perdita del mercato europeo del gas appena esposti, se si guarda al breve termine per l’Unione Europea rinunciare al gas russo è un atto estremamente impegnativo e doloroso.
Stando alle stime rese note dal Fondo Monetario Internazionale, nel caso peggiore, l’impatto di un blocco totale delle forniture di gas russe potrebbe arrivare a raggiungere un drammatico crollo di 6 punti percentuali del PIL in alcuni Paesi dell’Europa centrale e orientale dove la dipendenza dal gas russo è elevata e le forniture alternative sono scarse, in particolare Ungheria, Repubblica Slovacca e Repubblica Ceca.
Anche la nostra Italia subirebbe un impatto significativo a causa dell’elevata dipendenza dal gas nella produzione di elettricità. Insomma, un taglio netto alle forniture di gas è l’ultima cosa di cui l’Europa ha bisogno in vista dell’inverno, quando la domanda di energia aumenta.
L’Unione Europea è stata già in grado di rispondere parzialmente alla minaccia aumentando le importazioni da fornitori alternativi (in particolare Algeria ed Azerbaigian) e raggiungendo a fine agosto l’obiettivo del riempimento dell’80% dei depositi di stoccaggio (inizialmente previsto per novembre), ma un ulteriore calo delle forniture di gas russo rischia lo stesso di far salire ulteriormente i prezzi del gas all’ingrosso, che a loro volta alimentano quelli al dettaglio che ci impattano più da vicino.
L’inflazione dei prezzi al consumo nei 9 Paesi che utilizzano l’euro ha raggiunto il 9,1% il mese scorso – il livello più alto degli ultimi 25 anni – secondo le prime stime dell’ufficio statistico dell’UE. I prezzi dell’energia sono stati il principale fattore di inflazione, con un aumento del 38% nell’anno fino ad agosto.
Con l’inverno in arrivo, ed il rischio di ulteriori drammatici aumenti dei prezzi dell’energia, nella settimana appena trascorsa i Paesi del G7 hanno quindi annunciato un meccanismo per imporre un tetto globale al prezzo del petrolio russo, che prevede il divieto di trasporto del petrolio russo se acquistato a un prezzo superiore a una certa soglia fissata in precedenza.
L’obiettivo dell’iniziativa è ridurre le entrate della Russia e la sua capacità di finanziare la guerra in Ucraina, riducendo allo stesso tempo al minimo l’impatto negativo di queste restrizioni sui Paesi a basso e medio reddito, più esposti all’aumento dei prezzi dell’energia.
La dichiarazione dei Ministri delle Finanze dei paesi del G7 afferma, nello specifico, che è stato raggiunto un accordo politico sull’introduzione di un “prezzo massimo” per il petrolio russo, ma il diavolo è nei dettagli, che al momento ancora mancano in gran parte.
Sulla base di ciò che si sa, il tetto massimo dovrebbe essere introdotto in concomitanza con l’entrata in vigore degli embarghi previsti dall’UE sul petrolio russo – vale a dire il 5 dicembre per il greggio e il 5 febbraio per i prodotti raffinati, come il diesel.
Il futuro livello del tetto è tuttavia ancora in fase di discussione e dovrebbe essere fissato con la partecipazione di una “ampia coalizione di Paesi”, con il livello iniziale calcolato sulla base di “una serie di indicatori tecnici”. I valori a cui sarà fissato il massimale saranno comunque annunciati pubblicamente.
Ma al momento è difficile pensare che anche i Paesi asiatici, che sono i principali acquirenti alternativi di petrolio russo e lo acquistano già a prezzo di sconto, abbiano incentivo ad unirsi a questa proposta che rappresenta una sfida aperta a Mosca. Inoltre, il Cremlino ha già fatto sapere che, in caso di effettiva introduzione di un tetto ai prezzi dell’energia, la Russia fornirà petrolio solo ai Paesi “che agiranno in base alle condizioni di mercato”.
Tutto ciò, secondo alcuni analisti, potrebbe causare un effetto boomerang: ovvero che la proposta di tetto dei prezzi finisca per portare invece ad un aumento incontrollato dei prezzi del petrolio fino a raggiungere livelli record.
Allo stesso tempo, comunque, anche l’Unione Europea si sta muovendo separatamente anche per imporre un tetto al prezzo del gas: “È giunto il momento per l’UE di imporre un tetto massimo di prezzo al gas proveniente dalla Russia”, ha affermato senza mezzi termini la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.
La questione della limitazione dei prezzi sarà discussa il 9 settembre nei colloqui tra i Ministri dell’Energia dell’UE. Il punto chiave è come implementare questo tetto, a che livello impostarlo e come finanziare la differenza tra il prezzo di mercato e quello imposto come massimale.
Ma anche in questo caso non è mancata subito la risposta immediata di Mosca stavolta con le minacce espresse da Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo: “Vale la stessa cosa del petrolio. [Se approvano il tetto dei prezzi del gas], semplicemente non ci sarà più gas russo in Europa”.
Vista la difficoltà di implementazione di tutte queste proposte e le minacce russe, le autorità europee si stanno muovendo contemporaneamente anche sulla riduzione dei consumi energetici.
Sono infatti sempre più le industrie, le autorità locali e statali che si stanno muovendo per implementare programmi di riduzione energetiche che vanno dalla riduzione degli orari di illuminazione alla riduzione delle temperature di riscaldamento.
Il tentativo è quello di evitare un pericoloso rischio di razionamento, che avrebbe impatti profondi anche sul tessuto industriale di diversi Paesi europei.
Ci sono comunque segnali positivi che indicano che l’Europa abbia già ridotto in parte la sua dipendenza da Putin. Anche se i flussi di Nord Stream fossero ripresi sabato, avrebbero raggiunto solo il 20% circa della capacità complessiva del gasdotto – lo stesso livello ridotto di forniture che va avanti dalla fine di luglio.
Il deficit di gas russo è stato in parte già compensato dalle importazioni di GNL trasportato via mare dagli Stati Uniti e da altri Paesi e dall’aumento dei flussi di gasdotti da produttori come la Norvegia e l’Azerbaigian. Il problema è che questi spostamenti hanno fatto salire nel tempo i prezzi del gas, dato che l’Europa si contende con l’Asia le limitate forniture di GNL.
Ciò nonostante, prima dell’ultimo annuncio di Gazprom, i prezzi dei futures del gas naturale di riferimento in Europa erano scesi di circa il 13% venerdì. Negli ultimi giorni i prezzi sono scesi di oltre un terzo, dato che i livelli complessivi degli impianti di stoccaggio del gas in Europa hanno raggiunto l’80% in anticipo.
Fino all’annuncio di venerdì, c’era quindi un crescente ottimismo sulla possibilità da parte europea di affrontare l’inverno con meno gas russo. Come riporta il New York Times, Wood Mackenzie, una società di ricerca sull’energia, ha di recente previsto che a questo ritmo le importazioni di gas russo via gasdotto diminuiranno costantemente, passando dal fornire più di un terzo della domanda europea negli ultimi anni a circa il 9% nel 2023.
Anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha dichiarato all’inizio di questa settimana che il suo Paese è “molto più preparato” a garantire una quantità di gas sufficiente per l’inverno di quanto si potesse immaginare fino a pochi mesi fa.
“Siamo in grado di affrontare abbastanza bene le minacce che ci arrivano dalla Russia”, ha dichiarato Scholz.
Tuttavia, il dato di fatto immediato è che i prezzi del gas restano circa sette volte più alti rispetto a un anno fa, creando forti difficoltà alle famiglie e mettendo sotto pressione le imprese, in particolare quelle più energivore.
Di fronte a circostanze potenzialmente disastrose, i legislatori e le autorità di regolamentazione di tutto il continente stanno intervenendo sempre più spesso nei mercati energetici per proteggere i consumatori.
Anche se non semplice, questa è la strada che deve continuare ad essere intrapresa. Ci attendono sicuramente mesi difficili, ma con la giusta volontà politica l’Europa sarà sicuramente in grado di far fronte a qualsiasi scenario ed uscirne più unita e solidale, come avvenuto durante la pandemia.
L’Unione Europea, per sua fortuna, ha una struttura economica e sociale in grado di poter maggiormente resistere a questi shock rispetto alla Federazione Russa: in più, come visto in precedenza, la situazione a lungo andare è sempre più grigia per Mosca, che ne è pienamente cosciente, motivo per cui sta rischiando il tutto e per tutto ora che può ancora permetterselo.
Di fronte alle difficoltà ed alla sfida esistenziale posta da Putin al nostro sistema di valori, qualsiasi cosa accada nei prossimi mesi non bisogna mai dimenticare che ci sono delle cose che non possono essere negoziabili: a differenza del gas, la libertà non ha prezzo. L’Ucraina, con il suo sacrificio, di vite umane, ce lo sta dimostrando ogni giorno.
Il dittatore del Cremlino crede che siamo deboli, impauriti e disposti a tutto pur di non trovarci in difficoltà. È arrivato il momento di dimostrare che si sbaglia e che l’unica cosa che otterrà proseguendo su questa strada è quella portare il suo Paese al collasso ed all’irrilevanza politica.
(da Fanpage)
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Settembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
“LA PARTITA IVA? NON SI USA QUASI MAI”… ALTRO CHE I SEDICENTI IMPRENDITORI FARLOCCHI ITALICI
“Tra gli architetti in Svezia si usa poco la partita Iva. Puoi lavorare da freelance, ma non ci sono aspetti positivi nel farlo: tutti gli studi di architettura propongono contratti a tempo indeterminato da subito, con un periodo di prova di sei mesi che è quasi impossibile vada male”. Veronica Gerini, 34 anni, è nata e cresciuta a Treviso.
Si è laureata in Architettura all’Università Iuav di Venezia e poi è partita per la Svezia, dove vive da dieci anni.
“Quello che ho fatto in Italia – racconta – è stato un percorso accademico tra i migliori. Ma quando ho cominciato la specialistica ho trovato quasi gli stessi corsi della triennale: un passaggio poco stimolante, che non si discostava molto dall’architettura tradizionale”.
Così, spinta anche dalla voglia di perfezionarsi all’estero, Gerini manda il curriculum a varie università, tra cui quella di Umeå, in Svezia, che le interessa per l’approccio interdisciplinare.
E la sua candidatura è accettata: “Nel master non c’era solo progettazione e costruzione, come in Italia, ma anche ricerca su impatto sociale dell’architettura e social housing. Ogni volta che lavoravamo a un progetto – racconta – c’era un confronto sugli aspetti sociologici. Quindi arrivi alla costruzione con una visione più completa”.
Quest’osmosi tra edilizia urbana e società è il motivo che ha convinto Veronica a partire ma anche a rimanere quando le cose sembravano più difficili. La sua esperienza, infatti, non è iniziata da Stoccolma, capitale internazionale e ricca di opportunità, ma dalla cittadina del nord della Svezia di 80mila abitanti dove ha fatto l’Università, Umeå.
“Ho visto la Svezia da cui tanti sarebbero scappati – spiega – Qui sono tutti gentili ma molto inquadrati e mi è servito del tempo per capire i loro usi e costumi. È stata dura perché siamo società diverse, ma avevo un obiettivo e l’ho perseguito”.
Così dopo il master, in lingua inglese e con studenti da tutta Europa, invia il curriculum agli studi di Stoccolma e viene respinta perché non conosce lo svedese, ma rimedia presto.
“Il mio primo impiego è stato in una città ancora più piccola di Umeå, Örnsköldsvik”- che ha circa 30mila abitanti. “Ho trovato lavoro con contratto a tempo indeterminato un mese dopo la laurea – spiega Veronica – e lo avrei trovato anche prima se avessi conosciuto la lingua. Tutti qui parlano inglese, ma se vuoi fare un certo tipo di carriera devi imparare lo svedese”.
Una volta iniziato, è stata l’azienda a pagarle un corso: “Hanno investito su di me, e grazie a quell’esperienza negli anni a seguire si sono aperte tante porte”.
Passa a Örnsköldsvik due anni e poi tenta di nuovo di arrivare a Stoccolma: “A Örnsköldsvik stavo bene ma c’era poca interazione sociale e trovare qualcuno della mia età era difficile, perché quasi tutti vanno a vivere lì introno ai 45-50 anni, dopo aver fatto carriera nella capitale”.
Così lei e suo marito, architetto anche lui, lituano, e conosciuto al master, inviano candidature a tutti gli studi di architettura della capitale e ricevono risposte favorevoli.
“A Stoccolma mi hanno fatto un contratto con le stesse tutele del lavoro precedente e mi sono state date opportunità di crescita”. Il sistema di welfare svedese investe in modo sistematico nella realizzazione di edifici pubblici per educazione e assistenza: dagli asili nido alle Rsa.
Gerini, che oggi nello specifico fa la manager di progetto, spiega che proprio per l’assetto sociale svedese il suo mestiere è molto richiesto, sia nel pubblico che nel privato.
“C’è un gran bisogno di architetti – dice – Nel pratico, il mio lavoro è simile a quello che farei in Italia, cioè progettare e costruire ma ci sono arrivata con una formazione interdisciplinare”.
Progredire non è stato immediato, “Essere una donna giovane e straniera mi metteva sempre a un livello diverso del tavolo, ma ho imparato a non sottovalutare le mie capacità. Oggi gestisco diverse persone nel mio studio e coordino tutti i professionisti coinvolti nei progetti, dai costruttori agli ingegneri”.
Per quanto anche lei abbia fatto la gavetta, se si confronta con gli amici e colleghi che ha lasciato in Italia, vede meccanismi diversi: “Qui non esistono collaborazioni a partita Iva: sei assunto a tempo indeterminato e basta. Questo ti dà molta sicurezza. In Svezia i sindacati hanno un potere forte e c’è molta attenzione al lavoratore”.
Veronica Gerini è diventata mamma da nove giorni, quindi spiega cosa voglia dire per lei avere questo tipo di tutele: “Lo Stato dà diritto a 480 giorni di ferie retribuite da dividere tra i neogenitori e incoraggia a dividerli equamente: io e mio marito faremo a metà. La maternità qui non è mai vista come una cosa negativa”.
Una differenza colossale con i suoi colleghi italiani: “Molti dei miei più cari amici in Italia sono architetti, zero di loro ha un contratto a tempo indeterminato. Nessuno ha figli al momento e lavorano tutti a partita iva per degli studi”.
Questo è il vero motivo per cui vede difficile un ritorno a casa, anche se ne sente il bisogno: “Mi manca la generosità italiana, la semplicità con cui la gente di dà una mano. Questa è la grande differenza tra i due Paesi: in Svezia si fidano dello Stato a occhi chiusi, mentre in Italia le persone si sostengono sempre tra loro, perché sanno c’è non c’è un sistema alle spalle che li aiuti”.
(da il Fatto Quotidiano)
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Settembre 4th, 2022 Riccardo Fucile
IL LEADER DI FORZA ITALIA CI RIPROVA: BASTA ESSERE RICCHI PER COMPRARSI LA LIBERTA’
Con il pretesto del sovraffollamento delle carceri Silvio Berlusconi sale di nuovo su alcuni dei suoi cavalli di battaglia trentennali: riformare la giustizia penale.
E in particolare, ecco la prima proposta, presentata nella sua pillola quotidiana nei video sui social: lasciare il carcere preventivo solo per chi ha commesso reati gravissimi come omicidio, violenza sessuale e terrorismo e trovare pene alternative per tutti gli altri, compresi ovviamente quelli per reati da colletti bianchi, ma evidentemente anche quelli riuniti nell’insieme della cosiddetta microcriminalità e sarebbe curioso sapere cosa ne pensano gli alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni che sono spesso molto sensibili al tema dei furti, delle rapine e dello spaccio.
La seconda proposta, anche questa un vecchio ritornello che suona da una trentina d’anni: introdurre la cauzione “per limitare le carcerazioni preventive”.
Insomma la libertà è per chi ha il denaro per pagarsela. Una proposta che Berlusconi ripete almeno una volta all’anno, in tutte le campagne elettorali.
Basti pensare che se ne trova traccia fino al 2013, quando a rispondergli fu l’allora presidente della Camera Gianfranco Fini, in rotta totale con l’ex premier, a rispondergli così: “La proposta di Berlusconi di sostituire il carcere con il pagamento di una cauzione è l’ennesimo esempio di una giustizia costruita a sua misura. Si tratta di una proposta singolare: creerebbe forti disparità e favorirebbe chi ha disponibilità economica”.
Le due proposte di Berlusconi sono avvolte dentro il tema, questo serissimo, del sovraffollamento delle carceri per affrontare il quale serve costruire nuove carceri e dall’altra “migliorare le condizioni di lavoro degli agenti di custodia” (non specifica in che modo). “Io sono un garantista, il che significa adottare il massimo delle attenzioni per salvaguardare un possibile innocente, ma sono convinto che i veri colpevoli vadano puniti, anche in maniera severa – dice – Però lo Stato non può mai abbassarsi al livello dei criminali che vuole punire. Se il carcere diventa un luogo di tortura, di violenza, di promiscuità, allora non soltanto non serve a rieducare i detenuti, ma sortisce l’effetto opposto: anche chi è stato punito per una colpa lieve, nelle nostre carceri rischia di diventare un vero criminale“. “E questo – aggiunge – per non parlare di chi è in carcere in attesa di giudizio e spesso poi si dimostra innocente”.
Il leader di Forza Italia ricorda alcuni dati sui penitenziari italiani: “Da trent’anni sono 1000 persone all’anno, tre ogni giorno, ad andare in prigione senza aver commesso alcun reato, senza avere alcuna colpa, come poi risulterà dall’esito dei loro processi. La sintesi delle attuali situazioni: nelle carceri italiane sono recluse 55mila persone, quando il numero di posti letto è di 50mila. In alcune carceri vi sono 12 detenuti in una sola cella, con un solo bagno in condizioni precarie. Le celle sono torride d’estate e gelide d’inverno. La possibilità di percorsi rieducativi è soltanto teorica, la qualità del cibo è pessima, il servizio sanitario è assolutamente carente. Il risultato è un suicidio ogni tre giorni, un detenuto che non ne può più si toglie la vita”.
Cita Voltaire: “Il grado di civiltà di un Paese dipende anche dalla condizione delle sue carceri. Ed è nell’interesse di tutti che dal carcere escano cittadini riportati sulla strada dell’onestà e non criminali, carichi di risentimento e di odio verso lo Stato e verso gli italiani”.
Tutto vero e anche tutto credibile se Berlusconi non fosse la stessa persona che ha presieduto tre governi negli ultimi 28 anni e non abbia partecipato ad altri due governi attraverso le “larghe intese”.
(da agenzie)
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