Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
DOPO LE RIPETUTE SCONFITTE DELL’ESERCITO, IL CECENO KADYROV E IL CAPO DEI MERCENARI DELLA WAGNER PRIGOZHIN CHIEDONO LE TESTE DEL MINISTRO DELLA DIFESA SHOJGU E DEL CAPO DI STATO MAGGIORE GERASIMOVUNO … GLI ANALISTI èREVEDONO PURGHE DEI VERTICI MILITARI O UN COLPO DI STATO
A inveire sono sempre loro, i bellicisti del cosiddetto “partito della guerra”. Gli stessi che levarono gli scudi dopo il “riposizionamento” delle truppe russe che occupavano Kharkiv e Izjum, l’ennesimo eufemismo adottato della Difesa in quella che a Mosca si può chiamare soltanto “operazione militare speciale”.
Ma, all’indomani dell’arretramento da Lyman, nell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, unilateralmente annessa alla Russia da Vladimir Putin con una cerimonia in pompa magna al Cremlino, la frustrazione e la rabbia sono ancora più accese, i toni ancora più infuocati.
Stavolta neppure il ministero della Difesa riesce a edulcorare la realtà. Pur usando le consuete circonlocuzioni, deve ammettere che, “a causa della minaccia di accerchiamento, le forze sono state ritirate da Krasny Lyman su linee più vantaggiose”. Una battuta d’arresto che brucia come una beffa nel giorno in cui la Corte Costituzionale convalida l’annessione.
I nazionalisti parlano della prima perdita di una città “russa” a causa di una forza nemica dalla seconda guerra mondiale. Chiedono le teste dei generali, invocano la legge marziale o persino l’uso di armi nucleari. Sono attacchi che segnano una spaccatura sempre più profonda tra l’esercito regolare al comando del ministro della Difesa Serghej Shojgu e del capo di stato maggiore Valerij Gerasimov e le milizie irregolari, come i combattenti ceceni di Ramzan Kadyrov e i mercenari di Wagner al soldo di Evgenij Prigozhin. Tanto che, davanti a queste crepe, ci sono analisti che prevedono purghe dei vertici militari o paventano addirittura un golpe.
A tuonare sono quelli che di fatto hanno a disposizione “eserciti privati”, come aveva avvertito soltanto pochi giorni fa la commentatrice Julija Latynina ventilando il precedente della “rivolta dei Taiping in Cina” dopo le ultime mosse precipitose del Cremlino, l’annessione di quattro regioni ucraine e la mobilitazione “parziale”. Primo fra tutti il leader ceceno Ramzan Kadyrov.
Il “mastino di Putin”, che con i suoi uomini ha raso al suolo Mariupol, se la prende con i vertici militari accusandoli di essere sconnessi dalla realtà e di non informare propriamente Putin. Denuncia che le truppe sono state lasciate senza mezzi adeguati per comunicare.
Parole a cui, dopo poche ore, si accoda Evgenij Prigozhin, lo stretto collaboratore di Putin che ha recentemente ammesso di essere il fondatore e il dirigente della compagnia militare privata Wagner e che negli ultimi mesi ha reclutato migliaia di prigionieri per combattere in Ucraina: “Ramzan, sei un grande. Inviate tutta questa immondizia a piedi nudi e armata direttamente al fronte”.
Andrej Guruliov, generale dell’esercito in pensione, ex vice comandante del Distretto militare meridionale, oggi parlamentare, accusa senza mezzi termini i comandi militari di non aver informato Putin sulla situazione in prima linea. “Non riesco a spiegarmi la caduta di Lyman. Non capisco perché non abbiano valutato la situazione per tutto questo tempo e non abbiano rafforzato il dispiegamento”, dice in un talk show denunciando la “menzogna endemica” dietro ai rapporti eccessivamente ottimistici sulla situazione sul terreno prima che la linea venga improvvisamente interrotta.
Anastasia Kashevarova, ex consigliera del presidente della Duma, Vjacheslav Volodin, si rivolge direttamente a Vladimir Putin: “Si scopre che siamo impreparati e che perdiamo i territori e le persone liberati e il materiale bellico. Lei è il nostro comandante in capo. Prenda misure drastiche anche se colpiscono gli amici”.
§Il blogger propagandista Jurij Kotenok ricorda che i generali sovietici furono giustiziati da Stalin dopo le sconfitte subite dall’esercito di Hitler durante la seconda guerra mondiale. Sono voci che i seguitissimi “canali Z” (dal simbolo della cosiddetta “operazione militare speciale” in Ucraina) rilanciano e amplificano su Twitter.
Mentre i canali vicini al Cremlino come Readovka accusano invece Kadyrov e compagni di essere peggio del nemico oppure persino di lavorare per “i traditori”.
Le previsioni di purghe e i timori di un golpe
“Avete bisogno di una prova delle crepe in seno all’élite, spesso un segno della fine di un regime?”, commenta l’economista Konstantin Sonin, oggi all’Università di Chicago.
Le crepe sono tali che l’Institute for the Study of War sostengono che il Cremlino potrebbe “amplificare tali critiche per stabilire le condizioni per i cambi di personale all’interno del comando militare superiore nelle prossime settimane”.
Christo Grozev a capo del sito investigativo Bellingcat commenta: “È in atto uno scisma totale in seno alla lobby della guerra che non è destinato a concludersi in modo pacifico, senza voler fare giochi di parole”.
Leonid Bershidskij, l’ex direttore di Vedomosti da anni esiliato a Berlino, oggi editorialista di Bloomberg, va ancora più dritto: “Kadyrov, Prigozhin, Strelkov, Guruliov: le loro critiche pubbliche non mirano più in alto del ministro della Difesa Shojgu e del capo dello staff generale Gerasimov. Ma ho pochi dubbi che questa sia solamente la parte pubblica. Sarebbe saggio prepararsi a un golpe di estrema destra”.
(da La Repubblica)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
DA UNA PARTE IL LEADER CECENO KADYROV E IL CAPO DEI MERCENARI DI WAGNER PRIGOZHIN, CHIEDONO LA TESTA DEI VERTICI MILITARI… DALL’ALTRA I SERVIZI SEGRETI DI MOSCA CONTRO L’OLIGARCA ABRAMOVICH PER IL RUOLO DI MEDIATORE CON KIEV NELL’ULTIMO SCAMBIO DI PRIGIONIERI A CUI GLI 007 ERANO CONTRARI
Si è aperta una crepa enorme, quasi uno scisma, dentro il gruppo
dirigente putiniano. Che va raccontata attraverso due storie.
La prima è quella che riguarda la coppia Kadyrov-Prigozhin. La seconda ruota attorno a Roman Abramovich. Sentite come.
Il 1 ottobre il leader ceceno Ramzan Kadyrov, uno degli scherani di fiducia di Vladimir Putin, ha accusato apertamente il Capo di Stato Maggiore della Russia, il generale Valery Gerasimov, di esser stato completamente sordo ai suoi avvertimenti sul fatto che il comandante russo nel quadrante di Lyman (il generale Alexandr Lapin) era un uomo inutile, incapace di gestire e, in definitiva, colpevole della nuova disfatta russa sul campo di battaglia: «Non doveva arrendersi», ha scritto Kadyrov, e soprattutto, «nei territori contesi bisogna istituire la legge marziale».
«Non è un peccato che [il generale Lapin] sia mediocre. Lo è il fatto che sia coperto dai vertici dello Stato Maggiore», ha osservato Kadyrov, attaccando frontalmente Gerasimov. «Se potessi, declasserei Lapin a soldato semplice, lo priverei dei suoi riconoscimenti e, con una mitragliatrice in mano, lo manderei in prima linea per lavare la vergogna con il sangue».
Kadyrov ha poi fatto vaghi accenni alla corruzione delle élite militari, «il nepotismo dell’esercito non porterà a nulla di buono. Nell’esercito è necessario nominare persone di carattere forte, coraggiose, di principio, che si preoccupano dei loro combattenti, che si strappano i denti per i loro soldati, che sanno che un subordinato non può essere lasciato senza aiuto e sostegno. Non c’è posto per il nepotismo nell’esercito, soprattutto in tempi difficili».
La prima novità è che Evgheny Prigozhin – il capo della troll factory di San Pietroburgo, poi fondatore dei mercenari del Gruppo Wagner, e sotto sanzioni europee e americane – si è schierato adesso apertamente con Kadyrov.
«Parlano chiaramente a nome degli ultrà e chiedono un salasso ai vertici del Ministero della Difesa», osserva Christo Grozev di Bellingcat. Prigozhin scrive: «Il commento di Kadyrov certamente non è nel mio stile, ma quello che posso dire è: “Ramzan, dolcezza, sei un grande”. Tutti questi ceffi con fucili automatici, a piedi al fronte».
L’impressione è che qualcosa si stia rompendo anche tra gli ultra-falchi di Mosca. Commento di Grozev: «Scissione totale all’interno della lobby della guerra, e non è detto che finisca in modo pacifico, non è un gioco di parole».
Una sensazione analoga viene restituita da Dmitry Alperovich: «Le critiche palesi e sempre più stridenti nei confronti della leadership militare russa si stanno intensificando da parte di persone che contano davvero: Kadyrov, Prigozhin, tra gli altri. La situazione continuerà a peggiorare con la riconquista di territori chiave da parte degli ucraini. Putin potrebbe essere costretto a sostituire Shoigu e Gerasimov». Anche le intelligence occidentali ne sono pienamente al corrente. E qui veniamo alla seconda storia.
Lo scontro aperto ormai tra il tandem Kadyrov-Prigozhin e il General Staff (Gerasimov, ma anche direttamente il ministro della Difesa Sergey Shoigu) non è il solo.
Fonti di intelligence americana e ucraina hanno riferito al Washington Post che anche l’ultimo scambio di prigionieri – con il quale Putin ha ridato a Kiev cinque comandanti del Battaglione Azov, in cambio dell’oligarca suo amico Viktor Medvedchuk, l’uomo che lui avrebbe voluto insediare a capo di un governo fantoccio a Kiev – è stato deciso da Putin contro la volontà del Fsb, i servizi segreti di Mosca.
«L’Fsb era completamente contrario – ha dichiarato un alto funzionario ucraino -. Si sono resi conto delle conseguenze che l’accordo avrebbe avuto per l’opinione pubblica». Un altro dettaglio illumina però questa storia: per mediare, Putin si è servito di Roman Abramovich, l’oligarca sanzionato nell’Unione europea e nel Regno Unito, ma non negli Stati Uniti (su richiesta proprio di Kiev, che considera Abramovich qualcuno intenzionato a trattare per non finire travolto dal crollo del putinismo).
Abramovich – secondo una fonte de La Stampa che ha parlato a condizione dell’anonimato – si è messo in contatto con alcuni degli oligarchi russi trasferiti in Uk, e molto insofferenti per le restrizioni subite a causa delle sanzioni – e avrebbe svolto la mediazione anche forte del consenso di questo gruppo, assieme a Mohammed Bin Salman, volando prima a Ryad e Istanbul (dove ha visto Erdogan), poi a Mosca, e infine convincendo Putin allo scambio.
Operazione sulla quale invece erano assai più scettici gli oligarchi più vicini ai servizi russi. E in effetti, scrive il Wapost, la mediazione ha attirato una ulteriore ostilità del Fsb addosso all’ex patron del Chelsea, ritenuto dai siloviki – gli uomini dei Servizi a Mosca – qualcuno che vuole solo «farsi bello gli occhi dell’Occidente». Esattamente come il principe di Ryad.
In questo triangolo, falchi contro la Difesa il General Staff, Fsb contro l’oligarca in capo Abramovich, stanno forse i vertici per provare a seguire quale sarà la sorte finale di Vladimir Vladimirovich Putin.
(da La Stampa)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
LEGA E FORZA ITALIA VEDREBBERO RIDURSI LE POLTRONE… TAJANI ORA PUNTA AL VIMINALE, IL PROBLEMA DI TROVARE UN POSTO ALLA RONZULLI
La tensione nel centrodestra per la formazione del governo non riguarda solo la scelta dei nomi, su cui Giorgia Meloni avrebbe l’ultima parola, anche e forse soprattutto sugli spazi lasciati a disposizione degli alleati di Forza Italia e Lega.
A Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, la leader di FdI avrebbe concesso al massimo tre ministeri per ciascuno, con l’idea di affidare su un totale di circa 20 ministeri, fino a 12 nelle mani di tecnici con «nomi di livello» racconta un retroscena di Repubblica.
Una mossa spinta dalla situazione economico-sociale esplosiva che il prossimo governo si ritroverà a gestire, considerando le spine sul fronte energetico e tutte le ricadute sul mondo del lavoro.
Agli alleati Meloni avrebbe chiesto a ognuno una lista di figure inattaccabili, che siano tecnici di area ma senza tessere di partito.
Quello chiesto da Meloni però è un boccone amaro che né Salvini né Berlusconi vogliono buttare giù pur di tornare al governo. La Lega domani 4 ottobre si riunirà per definire la propria rosa di candidati e ministeri che pensano debbano spettare al Carroccio. Tra questi non dovrebbe mancare il Viminale, su cui però Meloni avrebbe avanzato a Forza Italia l’idea di Antonio Tajani.
A Salvini così resterebbe un dicastero tra Agricoltura, Riforme o il Mise, ereditato da Giancarlo Giorgetti. Prospettiva che per il leader del Carroccio non pare essere quella ideale.
Neanche in Forza Italia le prospettive sono ottimistiche, soprattutto per il caso scoppiato sul nome di Licia Ronzulli. Secondo buona parte dei retroscena sui quotidiani, il nome della fedelissima del Cav non sarebbe gradito alla leader di FdI.
Meloni vorrebbe profili con esperienza e curriculum coerenti con il ministero che andranno a guidare. Berlusconi premerebbe per averla nell’esecutivo come capo-delegazione dei ministri forzisti, affidandole il ministero della Salute.
Meno turbolente le trattative interne a FdI, su cui i nomi sembrano assestarsi con Raffaele Fitto agli Affari europei, Adolfo Urso alla Difesa in ballottaggio con Guido Crosetto, Fabio Rampelli alle Infrastrutture.
(da agenzie)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
BONACCINI SPONSORIZZATO DA RENZI E INVISO A CHI VUOLE RICOSTITUIRE IL CAMPO LARGO CON IL M5S… FRANCESCHINI CERCA CANDIDATI DIVERSI,, MA L’UNICO ALTRO NOME È ELLY SCHLEIN
Stefano Bonaccini scalpita, cerca di accelerare sul congresso, ma
rischia di rimanere deluso perché alla fine le primarie potrebbero tenersi non prima di marzo-aprile, e non a gennaio-febbraio come sperava il presidente dell’Emilia Romagna.
Bonaccini su Facebook rilancia, criticando la scelta di mettere in discussione nome e simbolo e proponendo piuttosto un radicale cambio di classe dirigente («Va rinnovata nella sostanza, non per slogan»), qualcosa che ricorda un po’ la “rottamazione”.
Il tema del ricambio generazionale, peraltro, attraversa trasversalmente il partito e complica il congresso. Di sicuro anche il capodelegazione a Bruxelles Brando Benifei chiede un rinnovamento della «prima fila, perché non possono essere i protagonisti degli ultimi dieci anni a spiegarci come rifare il Pd». Senza contare il “partito dei sindaci” che da giorni chiede spazio e che Bonaccini infatti chiede di valorizzare.
Il fatto è che la «costituente» è stata chiesta a gran voce da Articolo 1, «se sarà un percorso costituente serio noi ci saremo», ha detto Roberto Speranza. Ma anche tanti esponenti Pd, a cominciare da Andrea Orlando, chiedono di aprire le porte a chi non è nel partito. Un percorso del genere però allunga i tempi e Bonaccini però avverte: «Se ci mettiamo a discutere non di possibili soluzioni ai problemi, ma di nomi, simboli, alleanze e costituenti non ci capirà nessuno». I tempi sono importanti.
La sinistra Pd e Articolo 1 non vogliono Bonaccini segretario e anche Dario Franceschini cerca candidati diversi.
Ma allo stato l’unico altro nome forte è Elly Schlein, che però non convince tutta la sinistra: non tutti apprezzano l’idea del ricambio generazionale. Senza contare che in questo momento non ha nemmeno la tessera Pd. Serve più tempo, insomma, per organizzare le altre candidature.
Ma serve più tempo anche per decidere cosa deve essere il Pd. Dice Federico Fornaro di Articolo 1: «Non può essere il congresso del Pd, deve essere una vera costituente». Non è un caso che tra i dem siano in molti quelli che brontolano di fronte all’idea di aprire il congresso Pd agli esterni già dalle prime fasi. «La linea non può essere dobbiamo scioglierci tutti», dice un dirigente dem.
«Non prendo lezioni da chi mi dice che Conte è progressista». Orlando, intanto, dice «da dove partire nella discussione per rinnovare il Pd». Il ministro elenca una serie di punti, dall’aumento dei “lavoratori poveri” alla crescita del divario salariale tra uomini e donne. Ma va già al vero nodo: «Il progetto del Pd, a mio avviso, è fallito – dice Cesare Damiano -. Se vogliamo andare oltre dobbiamo avere il coraggio di scelte radicali». Al contrario, Enrico Borghi, della segretaria e vicino a Letta, dice che «bisogna cambiare politica, non nome, come hanno fatto i socialisti spagnoli, la Spd e il Partito laburista britannico».
(da la Stampa)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
FORSE INTENDEVA CHE ANDREBBE A CORTINA A SCIARE E FARE SHOPPING
La discussione sulle radici socio-politiche di Giorgia Meloni – e dei suoi Fratelli d’Italia – è sbarcata a “Non è l’Arena”. Lo scontro è stato tra due giornalisti che, come noto, hanno idee molto differenti.
Da una parte Alessandro Sallusti, dall’altra Gad Lerner.
I due sono stati protagonisti di un botta e risposta che parte dalla futura Presidente del Consiglio e si è esteso anche a livello ideologico su cosa sia la “destra” e la sua rappresentazione in Italia (oltre alle percezioni internazionali”. E nel bel mezzo di questo scontro ideologico, il direttore di Libero quotidiano regala un colpo di teatro.
“Voglio dirti questo. La differenza è che se Giorgia Meloni dovesse evocare qualcosa che assomigli alla strage di Stazzema, sai qual è la differenza? Che tu come tutti gli intellettuali di sinistra andrai esule a Parigi, io andrò sui monti a combattere Giorgia Meloni. Perché questa è la differenza. Dopodiché, ma perché dobbiamo dire che Giorgia Meloni è figlia di quella roba lì? Ma che cosa c’entra Giorgia Meloni con quella roba lì?
Insomma: Sallusti dice che, in caso estremo, rimarrà a combattere Meloni sui Monti mentre Gad Lerner “fuggirà a Parigi”.
Dal 2022 è tutto.
(da agenzie)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
LA TRENTENNE APPASSIONATA DI VIAGGI ERA A TEHERAN DA DUE MESI…. NON E’ CHIARO IL MOTIVO DEL SUO ARRESTO
È arrivata dopo quattro giorni di totale silenzio la telefonata di
Alessia Piperno che avvertiva la sua famiglia di essere stata arrestata in Iran.
Era in lacrime la 30enne di Roma, finita in cella per motivi ancora tutti da chiarire: «Mi hanno arrestato – ha detto ai suoi genitori – sono in un carcere di Teheran. Vi prego aiutatemi».
Erano quattro giorni che la madre Manuela e il padre Alberto, titolare di una libreria, cercavano di mettersi in contatto con la ragazza. È lei stessa a spiegare di aver «fatto il diavolo a quattro» per riuscire a chiamare casa, come riporta Il Messaggero: «Sto bene – ha spiegato Alessia – ma qui ci sono persone che dicono di essere dentro da mesi e senza motivo, temo di non uscire più, aiutatemi».
Dopo la chiamata, i genitori della ragazza si sarebbero precipitato alla Farnesina, dove si starebbe seguendo il caso con l’ambasciata italiana a Teheran. Al momento non sarebbe stato individuato il carcere in cui la ragazza è detenuta tra le tante strutture presenti nella capitale iraniana.
L’arresto
Alessia sarebbe stata arrestata lo scorso mercoledì, nel giorno del suo compleanno. A Il Messaggero il padre ha raccontato di averla sentita quella mattina per farle gli auguri: «Era contenta, stava aspettando che anche i suoi amici uscissero dalle loro camere in ostello per andare insieme a festeggiare in un pic-nic».
La ragazza sarebbe stata in compagnia di un amico francese, uno polacco e una ragazza iraniana. Alle 12 però il telefono di Alessia non avrebbe dato più alcun segnale. Passano i giorni, ma neanche in chat ci sono sviluppi. I genitori pensano che le linee telefoniche siano bloccate per via delle proteste in corso da oltre due settimane nel Paese.
Non sono abituati però a un silenzio così prolungato, visto che la figlia si è sempre fatta sentire durante i suoi frequenti viaggi. «In sei anni di viaggi per il mondo non era mai passato tanto tempo senza sentirci», spiega il padre.
La vita da nomade digitale
La passione per i viaggi di Alessia da sei anni la porta spesso lontano da casa. A Roma aveva studiato al liceo scientifico, il quarto anno lo aveva frequentato negli Usa. Era in Iran da due mesi e aspettava di rientrare in Pakistan. Prima aveva viaggiato tantissimo, vivendo in Australia, poi a Panama, in Nicaragua e Islanda. Era una nomade digitale, come lei stessa racconta su un sito di viaggi, riuscendo a lavorare a distanza come segretaria.
I genitori sono certi che Alessia non sia «una spericolata. Anzi, è sempre molto attenta ed è animata da un grande rigore morale. Non tocca alcolici – spiegano – o peggio droghe. Per questo, a maggior ragione, non sappiamo spiegarci che cosa le sia accaduto».
Alessia era arrivata in Iran a metà luglio: «Inizia a incantarmi” aveva scritto nel suo primo post da quella terra il 22 luglio. Nella telefonata di ieri al padre (titolare di una libreria in un quartiere a sud della Capitale, Colli Albani), come riporta il qutotidiano Il Messaggero, avrebbe detto di stare bene ma di essere preoccupata anche per l’arresto di alcuni suoi amici stranieri.
(da agenzie)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
DOPO LE PROTESTE E IL PANICO DEI MERCATO FINANZIARI, IL GOVERNO BRITANNICO CI RIPENSA
Liz Truss fa marcia indietro. A dieci giorni dall’annuncio di una controversa manovra fiscale, il governo britannico ha deciso di non procedere con l’eliminazione dell’aliquota massima del 45% sui redditi più alti.
La misura era parte di un pacchetto più ampio, da 45 miliardi di sterline, che la scorsa settimana aveva provocato il panico sui mercati finanziari e mandato a picco la quotazione della valuta britannica.
Secondo Kwasi Kwarteng, ministro delle Finanze, il taglio delle tasse ai redditi più alti «ha messo in ombra la nostra missione di affrontare le difficoltà del nostro Paese. Per questo motivo, vi annuncio che non lo porteremo avanti», ha twittato Kwarteng. «Abbiamo capito, abbiamo ascoltato. Questo ci permetterà di concentrarci sull’attuazione degli elementi chiave del nostro piano di crescita. In primo luogo, il tetto ai prezzi dell’energia».
I ripensamenti di Truss, in realtà, sono più altro che simbolici. I tagli alle tasse per i redditi oltre le 150 mila sterline pesavano solo 2 miliardi, sui 45 totali stanziati dal governo britannico. La misura però aveva scatenato un’ondata di indignazione popolare, dal momento che, in un contesto di forte difficoltà economica, favoriva soltanto la fascia più ricca della popolazione.
Per il resto, il piano di Liz Truss contro il caro-energia resta intatto. A partire dagli sgravi fiscali, obiettivo irrinunciabile per la premier conservatrice. A scatenare la crisi finanziaria, e i malumori all’interno del suo stesso partito, è stato però un altro fattore: questo massiccio taglio delle tasse verrà finanziato ricorrendo a ulteriore debito. Una strategia che, in un contesto di alta inflazione, ha sollevato qualche perplessità sui mercati finanziari. La sterlina è crollata ai minimi storici, mentre i tassi di indebitamento del governo britannico hanno raggiunto il livello più alto dalla crisi del 2009, costringendo la Banca d’Inghilterra a intervenire per stabilizzare i tassi.
Il dibattito politico, poi, ha fatto il resto. Una fetta sempre più importante dei Tories ha iniziato a ipotizzare una sfiducia di Liz Truss, insediatasi a Downing Street soltanto un mese fa. I sondaggi, infatti, mostrano un significativo calo di popolarità dei conservatori e, di conseguenza, un aumento di preferenze per i laburisti. In un’intervista alla Bbc andata in onda questa mattina, il ministro Kwarteng ha escluso fermamente la possibilità che lui o la premier si dimettano. Il cambio di rotta annunciato in queste ore dal governo britannico sembra aver già sortito i primi effetti. I tassi dei titoli di Stato sono tornati a scendere. Il rendimento dei 10 anni cala di 8 punti al 3,99%, mentre quello sui 30 anni scende al 3,76%.
(da Open)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
IN QUESTO MESE SI DECIDERA’ SE IL FUTURO DEL BRASILE SARA’ DEMOCRATICO
Domenica si è svolto il primo turno delle elezioni in Brasile, è
arrivato primo Lula, in netto vantaggio sul presidente uscente Bolsonaro. Il Ballottaggio tra i due si svolgerà il 30 ottobre, in mezzo c’è ancora un mese di campagna elettorale, con la paura per la stabilità della democrazia brasiliana, e rischi di delegittimazione del processo elettorale o addirittura di un colpo di stato.
Lula ha ricevuto circa il 48.4% dei voti al primo turno (mentre scrivo mancano ancora i dati di qualche sezione), staccando Bolsonaro, che si è fermato al 43.2%, di oltre 6 milioni di voti.
La loro è una sfida che viene da lontano: Lula si è avvicinato alla politica negli anni 70, come sindacalista degli operai metalmeccanici, mentre il Brasile era ancora oppresso da una dittatura militare. Nel 1980 fonda il Partito dos Trabahadores (PT) e dopo molti tentativi, nel 2003 riesce a essere eletto Presidente del Brasile.
Lula durante la sua presidenza, durata otto anni, ha aiutato decine di milioni di brasiliani a uscire dalla fame e dalla povertà, grazie a imponenti programmi di welfare. Nel 2018 è stato incarcerato, per accuse di corruzione, impedendogli di candidarsi contro Bolsonaro, che ha vinto le elezioni. Il Magistrato che l’ha perseguito, Sergio Moro, è stato subito nominato da Bolsonaro ministro della Giustizia, confermando i sospetti di politicizzazione su un processo che appariva già molto dubbio.
Infatti, nel 2019 Lula è stato scarcerato, e nel 2021 la Corte Suprema Federale ha annullato la sua condanna per corruzione, notando gravi irregolarità nel processo a suo carico.
Tornato libero Lula si è subito candidato per le elezioni del 2022, promettendo una riforma fiscale che permetterà una maggiore spesa pubblica. Ha promesso di porre di nuovo fine alla fame nel Paese, che è tornata durante il governo Bolsonaro. Lula promette anche di ridurre le emissioni e la deforestazione in Amazzonia.
La paura di Lula e dei suoi sostenitori è che Bolsonaro stia preparando un colpo di stato, in caso di sconfitta elettorale.
A maggio sono stato in Brasile e ho incontrato Lula, insieme alla sua squadra e ai dirigenti del PT la sua formazione politica. Mi ha raccontato la sua visione di un Brasile che riesca a integrarsi di più con gli altri paesi del Sudamerica, seguendo l’esempio dell’Unione Europea (ma senza replicarne il deficit democratico), e la volontà di combattere nuovamente la povertà, coniugare sviluppo e protezione sociale e difendere la costituzione brasiliana.
Quest’ultimo punto lo preoccupa particolarmente, mi ha parlato con preoccupazione della tenuta democratica del paese, esprimendo timori di un possibile “6 Gennaio” con riferimento all’assalto statunitense al Campidoglio favorito da Trump, di cui Bolsonaro è sempre stato un acceso sostenitore durante tutta la sua presidenza. Con la differenza, che se l’assalto a Capitol Hill negli Stati Uniti, è stato compiuto da improbabili guitti, in Brasile il timore è che intervenga l’esercito. Queste preoccupazioni hanno un fondamento: Bolsonaro in tutta la campagna elettorale, trovandosi in svantaggio, ha attaccato il tribunale federale del Brasile, che si occupa delle elezioni, e il sistema di voto elettronico brasiliano, per delegittimare il processo democratico. Inoltre, ha fatto girare la voce che se non dovesse vincere al primo turno (come infatti poi è successo) sarebbe stata colpa di elezioni truccate.
Lula non era il solo a essere preoccupato, anche Geraldo Alckimin a lungo governatore dello stato di San Paolo e oggi suo candidato alla Vicepresidenza condivide i suoi timori. Viene da una storia politica più moderata rispetto a Lula (nel 2006 erano addirittura stati avversari alle presidenziali) ma ha deciso di sostenerlo perché preoccupato dall’erosione delle istituzioni portata avanti da Bolsonaro. A maggio mi ha detto che al netto delle differenze politiche tutte le forze democratiche devono unirsi per fronteggiarlo e difendere la Costituzione.
Oltre a Lula, ho incontrato anche il Vicepresidente del PT, Luiz Dulci, Aloizo Mercadante e Cezar Alvarez due tra i fondatori e massimi dirigenti del PT, che hanno a lungo accompagnato Lula nelle sue esperienze elettorali e di governo. Anche loro sono molto preoccupati dal possibile tentativo di Bolsonaro di non riconoscere il risultato elettorale, mi hanno raccontato che è stato l’ultimo capo di stato a riconoscere la vittoria di Biden, mesi dopo le elezioni e quando un membro del governo americano è venuto in visita ufficiale in Brasile gli ha detto “il vostro presidente è Trump, ha vinto lui le elezioni”.
Su Bolsonaro avevano una posizione molto dura, dicono che “ammira i torturatori, non ha rispetto per la democrazia né per le istituzioni, non è in grado di tenere unito il Brasile”.
Tutta questa preoccupazione per un possibile colpo di stato, che era stata condivisa da Celso Amorim, ex Ministro degli Esteri e poi della Difesa durante la Presidenza prima di Lula e poi di Dilma Roussef, si traduce in una richiesta di aiuto, anche all’Occidente. Lula e i suoi sostenitori chiedono attenzione da parte della comunità internazionale, e che ci sia un impegno per riconoscere il risultato delle elezioni e impedire che il processo democratico venga distorto.
Tutti i sondaggi dell’ultimo anno danno Lula in vantaggio nel ballottaggio con Bolsonaro, e anche l’assenza dei candidati minori dovrebbe favorirlo: dopo i due vincitori del primo turno, con un netto distacco si piazzano la Senatrice Simone Tebet, di centrodestra, con circa il 4.2% dei voti e Ciro Gomes, Partido Democrático Trabalhista, (PDT) di centrosinistra, con il 3% dei voti.
Nei sondaggi entrambi i loro elettori risultano avere una netta preferenza per Lula, se l’alternativa è Bolsonaro. Dipenderà anche dalla decisione di questi candidati di schierarsi o meno.
In un mio precedente viaggio in Brasile nel 2018, il Presidente della Juventude Socialista, organizzazione giovanile del PDT che sosteneva Ciro Gomes, anche allora candidato, mi ha detto che al ballottaggio, hanno si sostenuto Haddad, candidato del PT contro Bolsonaro, ma senza fare campagna elettorale attiva per lui.
Dopo la vittoria del 2018, Bolsonaro ha confermato la sua impostazione di estrema destra durante tutta la presidenza: ha dato mano libera alle multinazionali del legno per deforestare l’Amazzonia, reprimendo il dissenso della popolazione indigena, ha più volte negato la pericolosità del Covid-19, opponendosi all’uso delle mascherine e dei vaccini, ha facilitato il possesso di armi, e ha provato ad assottigliare i confini tra politica ed esercito, chiedendo al capo dell’esercito di criticare pubblicamente i suoi avversari politici.
Per protesta contro questo tentativo di politicizzare le forze armate, nel 2021 si sono dimessi simultaneamente i comandanti dell’esercito, della marina e dell’aviazione brasiliana.
Questo comportamento di Bolsonaro, unito al fatto che è apertamente un ammiratore della passata dittatura militare brasiliana, desta preoccupazioni su cosa possa fare, se non dovesse riconoscere il risultato delle elezioni, e se questo processo di delegittimazione democratica possa sfociare in tensioni e scontri, o addirittura un colpo di stato.
In questo mese si deciderà non solo chi governerà, ma anche se il Brasile resterà un paese libero e democratico.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 3rd, 2022 Riccardo Fucile
LULA ARRIVA AL 48,4%, BOLSONARO AL 43,3%, SI DECIDERA’ IL 30 OTTOBRE
«La lotta continua fino alla nostra vittoria finale». Così l’ex presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva ha commentato il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali, che lo vedono in vantaggio con il 48,4% dei voti (oltre 57 milioni) rispetto a Jair Bolsonaro, che ha ottenuto il 43,2% delle preferenze (più di 51 milioni di votanti).
I due leader torneranno a sfidarsi al ballottaggio del 30 ottobre, ma Lula, che è stato presidente del Brasile dal 2003 al 2010, incontrando la stampa in un hotel del centro di San Paolo ha detto che «vinceremo queste elezioni, si tratta solo di un tempo supplementare».
Convinto di vincere al ballottaggio anche Bolsonaro, che dice di avere «fiducia totale nell’esito del secondo turno.
«Non ho mai vinto una elezione al primo turno – ribadisce Lula – il ballottaggio è una opportunità di maturare le proposte». Poi, ricorda che quattro anni fa era detenuto, «estromesso a forza dalla politica e dissi che saremmo tornati». Ammette che avrebbe preferito vincere subito, «avrei fatto una breve luna di miele, tre giorni, con la mia Janja» (la sociologa sposata ad aprile, ndr). E invece «dovrò aspettare a fine mese. Il 27 compio gli anni, speriamo che il popolo mi regali la grande vittoria, come nel 2002».
Mentre il presidente uscente Bolsonaro ha dichiarato che «approfitterà del secondo round per dimostrare la bontà della politica del governo federale di fronte alla pandemia, citando dati economici». Quindi ha affermato di aver superato quelle che ha definito le «menzogne» degli istituti di ricerca, citando Datafolha.
Oltre 156 milioni di elettori erano chiamati a scegliere il nuovo presidente e il suo vice, i 513 deputati, un terzo dei senatori, i governatori e i deputati dei 27 stati federati. Si sono formate code lunghissime fuori dai seggi. Motivo per il quale le urne sono state chiuse dopo l’orario previsto, alle 17 (le 22 in Italia).
Poi è iniziata la conta dei voti partendo dalle regioni del sud, più vicine a Bolsonaro, che fin dall’inizio della campagna ha contestato il sistema elettorale elettronico. Il presidente ha imposto che le forze armate supervisionassero il voto in un campione di seggi. Non era mai accaduto prima.
(da agenzie)
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